Qu est o E -bo Giuseppe Conti Luciano Fanti art ok a pp Sovranità, credito e mercato Verso l’arte del governo economico totale iene a rof e.2 fisim on i 000 @ gma ail. co m @ gm Conti, Giuseppe (1955- ) Sovranità, credito e mercato : verso l’arte del governo economico totale / Giuseppe Conti, Luciano Fanti. - Pisa : Pisa university press, 2020 .20 00 322.701 (WD) I. Fanti, Luciano 1. Moneta - Teorie - Storia 2. Credito - Teorie - Storia E-b oo ka pp art ien ea rof fisi mo ne CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa Qu es to © Copyright 2020 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale Euro 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126, Pisa Tel. + 39 050 2212056 Fax + 39 050 2212945 e-mail: press@unipi.it www.pisauniversitypress.it ISBN 978-88-3339-490-9 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. 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Forza-lavoro come vita e procreazione: “crescete e moltiplicatevi” 1.7. Un futuro di consumo-spreco senza pensiero e libertà? 37 37 39 46 Capitolo 3 La costruzione dell’animale politico e il teatro dello scambio 3.1. L’azione e la libertà 3.2. Lo «spazio dell’apparenza» 3.3. L’apparenza del mercato 53 53 59 72 Q ap Capitolo 1 Sovranità, credito e mercato IV Capitolo 4 L’ordine del mondo, in moto verso il prezzo “giusto” 77 4.1. Le tre (quattro) età della vita activa 4.2. Dalla società alla piccola comunità, al mercato e “ritorno” 4.3. Mercato come bilancia sociale di giustizia Qu es Capitolo 5 to E- 77 89 97 bo ok Crematistica e anticrematistica (da “allora” a oggi) 105 ap 5.1. La crematistica e la vita beata pa 105 111 118 128 131 rtie 5.2. Ancora su economia antica e moderna: le visioni storiche 5.3. Le istituzioni al centro di grandi dicotomie 5.4. I giochi pericolosi dello scambio e la crematistica 5.5. L’annebbiamento del tempo o le critiche dei neo-istituzionalisti ne ar off isi Capitolo 6 Il modello neoistituzionale del mercato e il capitalismo come religione mo ne 6.1. L’infelicità nel mercato autoregolantesi e la ricerca della vita beata 6.2. Verso il primato degli interessi 6.3. Dono e sacrificio e la soglia sacro-profano 6.4. Il capitalismo come religione di culto utilitaristico 6.5. La forza disciplinante del debito per organizzare la società sull’utile e sull’efficienza .20 00 141 141 145 153 156 165 Parte II Moneta e debito: una rivisitazione genealogica Capitolo 7 Le teologie del credito e della moneta. Un’introduzione Capitolo 8 179 Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 187 8.1. Le tensioni tra teologia politica e teologia economica 8.2. Le fragili fondamenta della comunità di mercato 8.3. Uno Stato “forte” per un mercato “forte” 187 198 208 @ gm ail .co Indice Capitolo 9 V Credito, pegno e moneta (pegno arcaico di fiducia) 221 9.1. Due paradigmi conservatori, non liberali 9.2. Le ambigue affinità del dono e dello scambio 9.3. Alle origini dello scambio: il dono, il contratto e la moneta in mezzo 221 223 228 Capitolo 10 Il problema delle origini della moneta 235 10.1. L’inizio della fine della mitologia monetaria 10.2. L’antico problema della sovranità sulla moneta 10.3. Libera nos a debitis 10.4. L’antropologia del dono e le origini della moneta 235 244 255 260 Capitolo 11 Il debito originario 273 11.1. La moneta merce tra merci e la sua mitologia evolutiva 11.2. Prima il dono-debito e poi l’“invenzione” della moneta 11.3. Il nexum 11.4. L’accumulazione del denaro come metamorfosi del sacro 11.5. Sulle origini della moneta dal debito 273 281 294 297 307 Capitolo 12 313 12.1. Debito, colpa, morale e regolazione della vita sociale 12.2. La genealogia della moneta (e la questione della sovranità) 12.3. “Come, non si fanno pegni? È questa la prima volta?” 12.4. La rivoluzione finanziaria e lo Stato fiscale moderno 313 318 328 332 Capitolo 13 Questo E-book appartiene a roffis La desovranizzazione della moneta Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” la moneta 13.1. Il dibattito sulla natura (neutrale o influente, esogena o endogena) della moneta 13.2. Le implicazioni della formazione del tasso di interesse fra oggettività del mercato e sovranità politica 13.3. Cenni alle dottrine di politica monetaria e bancaria 361 361 380 386 Sovranità, credito e mercato VI 13.4. “Sapere” scientifico e sovranità monetaria 13.5. La nascita “segreta” della principale banca centrale 13.6. Il vero punto di vista della finanza “sana” 410 429 454 Capitolo 14 Ancora sulle dicotomie della moneta e del credito 461 14.1. Centri e periferie 14.2. La denazionalizzazione delle monete 14.3. Un granaio sempre pieno e prezzi stabili 461 467 474 Parte III La paradossale costruzione neo-ordoliberale di un’economia “naturale” di assoggettamento Capitolo 15 La riscossa neo e ordoliberale contro l’economia mista 499 15.1. La reazione al “nuovo patto” di welfare state 15.2. Liberi, a condizione di obbedire 15.3. Il principio sovra-ordinante e performante della concorrenza 15.4. La strada verso la “servitù”: da Mont Pèlerin all’ordoliberalismo dal volto “umano” 15.5. Il neo-ordoliberalismo: più pensiero d’azione che teoria 15.6. La “buona società” di Lippmann alla base dell’avventura neo-ordoliberale 15.7. L’organizzazione “bolscevica” del neo-ordoliberalismo 499 501 509 Capitolo 16 Il “plebiscito dei prezzi” sim ffi o r a e ene i t 16.2. L’arte di governo ordoliberale r ppa a Capitolo 17ok -bo politico neo-ordoliberale: Il decalogo E stocome formare una società sul modello dell’impresa 17.1. Un decalogo etico e di azione politica 17.2. I comandamento: prima di tutto libertà d’impresa 571 571 572 579 579 581 om c ail. m g543 @ 553 0 0 20 . one 16.1. Democrazia e “plebiscito dei prezzi” Qu 523 531 Indice VII 17.3. II comandamento: informazione senza conoscenza 17.4. III comandamento: automatizzare la vita 17.5. IV comandamento: la Statofobia 17.6. V comandamento: la concorrenza da mezzo a principio 17.7. VI comandamento: responsabilità non solidale 17.8. VII comandamento: la sussidiarietà principio di accentramento governamentale 17.9. VIII comandamento: ognuno è (e sia) imprenditore di se stesso 17.10. IX comandamento: lo Stato minimo per l’individualismo massimo 17.11. Il X comandamento: l’oppio doppio della religione capitalistica 617 621 627 632 Bibliografia 645 Indice dei nomi 703 583 587 593 596 607 o st ue Q E iene part k ap -boo sto E Que ffisi a ro Introduzione In un ben noto passo hegeliano è la filosofia, come la nottola di Minerva, a involarsi sul far della sera. Tuttavia, almeno per quel che riguarda le questioni qui esaminate, la metafora della sistemazione teorica che giunge a cose fatte non si riferisce alla filosofia: si può dire anzi che sia successo il contrario e che il ritardo teorico, questa volta, abbia riguardato proprio quella disciplina che per statuto si sarebbe dovuta occupare di quel che succede nel mondo dell’economia. La cartina di tornasole che evidenzia il ritardo ce la forniscono, in particolare, le opere di due filosofi, emblematiche tanto per la loro rilevanza quanto per la quasi totale noncuranza con la quale sono state prese in considerazione nell’ambito delle discipline economiche. Gli economisti accademici, di mainstream e, talora, anche “alternativi” o eterodossi, le hanno trascurate del tutto (o quasi), forse sottovalutando la profonda trasformazione storica che, negli ultimi decenni, ha riguardato l’arte del potere e, in particolare, l’arte del governo dell’economia. Tutto ciò ha avuto implicazioni rilevanti sul modo di interpretare quanto stava avvenendo. Passato e futuro hanno un “ponte” relativamente corto e ingannevole gettato nel presente. Una prospettiva più lunga aiuta, spesso, a rintracciare un “alveo” più profondo nel quale sono confluiti i caotici rivoli minori del presente. Giungere in ritardo – è bene precisarlo – era essenzialmente riferito alla piena consapevolezza di quel che un tempo si chiamava “senso della Storia”, cioè la collocazione e la comprensione dei fatti recenti e della storia del presente all’interno di una prospettiva più estesa nel tempo e più ampia. Ma veniamo alle due opere. La prima è la pubblicazione nel 2004, post mortem, delle lezioni tenute da Michel Foucault, tra il 1978 e ’79 al Collège de France, sulla nascita della biopolitica (concetto sul quale ritorneremo più volte e non è il caso di sof- Ques to E- book X Sovranità, credito e mercato Questo E- fermarci a discuterlo qui). Quel concetto ha avuto tanta parte nei dibattiti delle scienze sociali, salvo – occorre ribadirlo – nell’ambito della teoria economica accademica e della storia economica. Il silenzio può essere spiegato da un’incomprensione di fondo. Un semplice aneddoto può chiarire quel che intendiamo. Alcuni allievi di Foucault presentarono il loro maestro al premio Nobel Gary Becker, quale economista tra i più citati da Foucault nelle lezioni. Si attendevano di ricevere da Becker un commento e un riconoscimento all’opera del filosofo. Nelle lezioni Foucault analizzava a lungo l’opera dell’economista di Chicago sul trattamento dei delitti e delle pene, nel contesto più ampio degli sviluppi del governo neoliberale della società. Pare che, invece, la riesposizione dell’insegnamento foucaultiano lasciasse del tutto indifferente l’economista, il quale, forse annoiato e per tagliar corto, affermò di non aver ben compreso la presunta grandezza delle intuizioni del suo interprete. L’episodio, al di là di tutto, è significativo del disinteresse che poteva suscitare in molti economisti l’esercizio stesso della critica sul lavoro che stavano svolgendo. L’altro libro, a cui ci riferiamo, uscì a tre anni di distanza dall’edizione francese delle lezioni foucaultiane. Nel 2007 Giorgio Agamben pubblicava Il Regno e la Gloria, un denso volume, non rivolto a un largo uditorio come quello delle lezioni. In quel caso, a spiazzare erano il titolo e la ricchezza di riferimenti eruditi: dai filosofi antichi, alla patristica fino alla filosofia contemporanea. Il titolo – è vero – non aveva nulla che potesse invogliare un economista a sfogliarlo, a meno che non si fosse soffermato sul sottotitolo nel quale spuntava un aggettivo – “economica” – che poteva incuriosire. In quel caso, una scorsa delle pagine interne finiva per scoraggiare una lettura più attenta. L’intreccio fitto tra questioni teologiche ed economiche, e di un’economia dichiaratamente intesa alla maniera antica come gestione domestica, non offriva molti appigli per proseguire e approfondire la lettura. Perché allora attribuire a queste due opere il merito di aver anticipato la comprensione di un’epoca, la nostra, peraltro arata in lungo e in largo, e con la consueta competenza e scrupolo scientifico, da parte di accademie e studiosi di scienze economiche? Innanzitutto perché Foucault, prima di altri, individua, con molta chiarezza e precisione, una genealogia del liberalismo Introduzione XI Ques economico e politico dalla quale derivare le prassi politiche più recenti, non solo sotto il profilo delle elaborazioni dottrinarie, ma specialmente sotto quello dell’azione politica e amministrativa, riguardo all’economia e all’intera società. Al momento in cui svolgeva le sue lezioni, gli indirizzi politici ed economici oggi dominanti erano appena delineati, ma in esse emerge una forte capacità di anticipare tendenze e implicazioni che si stavano prospettando e dipanando da quell’intreccio di interessi e di ideologie economiche e sociali, manifestatosi, specialmente, in paesi come la Germania Federale e gli Stati Uniti. Solo nei decenni successivi alle lezioni, alcuni progetti e nuove istituzioni avrebbero preso forma e sostanza, soprattutto con la costruzione ulteriore dei trattati e delle disposizioni che sono andati a formare quella che è diventata l’Unione Europea, ma anche attraverso altre configurazioni istituzionali a livello internazionale. Inoltre si sono riplasmate le consuetudini di vita di quelli che erano sempre più formalmente riconosciuti cittadini ma solo per esser sempre più sostanzialmente considerati utenti, messi di fronte a istituzioni trasformate progressivamente in aziende e riforniti di diritti, che da principi di tutela sono venuti ad assumere sempre più lo status di disposizioni amministrative per comportamenti da disciplinare. All’epoca di quelle lezioni, una dottrina come l’ordoliberalismo, al di fuori di pochi addetti, non era molto conosciuta, l’“economia sociale di mercato” (vessillo ordoliberale abbracciato anche dalla socialdemocrazia tedesca) era vista come una buona soluzione di compromesso tra capitalismo sfrenato e società del benessere, e lo stesso neoliberalismo cominciava a diffondersi come fosse un ultimo germoglio che non tradiva il ceppo liberale originario a cui apparentemente si richiamava. Foucault aveva tuttavia mostrato quali profonde mutazioni genetiche fossero avvenute nel liberalismo di laissez faire e anche su queste ci soffermeremo a lungo. Il contributo di Agamben si inscrive nello stesso programma di ricerca tracciato da Foucault. Agamben sviluppa e approfondisce importanti aspetti genealogici lasciati incompiuti o solo intuiti da Foucault, come quello della differenza tra sovranità e governo, che Agamben fa risalire all’elaborazione teologica del dogma trinitario, nel quale la relazione “economica” tra le tre “persone” è vista a fondamento della teologia politica schmittiana congiun- to E- bo XII Sovranità, credito e mercato ta a quella che Agamben definisce teologia economica (anche in questo caso concetti e argomenti sono qui solo enunciati come “parole chiave”, e inviti a proseguire nella lettura). Agamben costruisce una complessa «genealogia teologica del governo dell’economia», così recita appunto quel sottotitolo del suo libro – cui abbiamo fatto allusione poco prima –, un sottotitolo che poteva lasciare attonito più di un cultore di discipline economiche. Il nostro lavoro, si può dire, è iniziato da qui. Può essere considerato come un contributo critico sulle basi, o meglio sulla genealogia, del paradigma neo e ordoliberale dominante in economia, paradossalmente accolto, forse inconsapevolmente, anche in molti approcci cosiddetti “alternativi”. Il termine neo-ordoliberale – da noi coniato (v. le avvertenze alla fine di questa introduzione) – intende accomunare due indirizzi che, sebbene mostrino alcune distinzioni sul piano dottrinale, mantengono tuttavia una sostanziale unità sui principi primi e sugli obiettivi di fondo dell’azione. Il neoliberalismo, come vedremo, attraverso alcuni dei suoi maggiori rappresentanti, è un conservatorismo radicalmente statofobico, costruttore del mercato come feticcio assoluto, nel quale però sono più che tollerate le grandi imprese, gli oligopoli che soffocano di fatto la “mano invisibile” smithiana, in conseguenza di una concorrenza scatenata e senza freni. L’ordoliberalismo è la versione teutonica di un capitalismo che ha bisogno di essere amministrato e regolato, nel quale l’ordine è lo strumento per imporre e incoraggiare la concorrenza, che, lasciata a se stessa, si infiacchirebbe: l’iniziativa privata ha bisogno della frusta di dispositivi che spingano alla concorrenza e lo Stato viene messo in condizione di disporre solo di tali strumenti amministrativi, non di altri mezzi d’intervento nell’economia, che comporterebbero spese e implicherebbero riallocazioni di risorse sulle quali, invece, la decisione deve spettare solo ai privati, considerati calcolatori ottimali del proprio profitto, anche se ignoranti, perché aiutati dal mercato, quale ordine spontaneo generatore dell’informazione migliore. Il metodo genealogico da noi applicato permette di risalire alla matrice e agli sviluppi successivi del liberalismo moderno nel suo farsi strumento di governo dell’economia e della società in ogni aspetto (riprendendo, così, anche tradizioni amministrative d’ancien régime). Abbiamo perciò intrecciato vari fili tematici – a Ques roffisimone.2000@ Introduzione XIII iene a Questo E-book appart partire dalla triade concettuale posta nel titolo – dentro percorsi genealogici – che vanno indietro e avanti nel tempo – di una storia di fatti e di idee, per comporre confronti incrociati in modo da penetrare, attraverso quel prisma formato da discipline diverse – e non solo l’economia o la storia economica –, nel significato dei concetti presi in esame. Siamo andati avanti per opposizioni dicotomiche, come fossero trama e ordito di un disegno che si costruiva su dottrine – filosofiche, politiche ed economiche – nonché su azioni e scelte, considerate, queste ultime, in una forma spesso molto stilizzata di fatti storici, per non disperdere in un dettaglio minuzioso – anche se talvolta il dettaglio è apparso necessario e addirittura imprescindibile – quell’ossatura di processi e di contorcimenti storici, senza la quale può esser vano dar senso a un vaglio critico di fatti e idee. La triade di sovranità, credito e mercato è il punto di partenza, la raffigurazione sintetica delle dimensioni costitutive dell’economia in sé e dei riflessi che di essa possono essere letti in filigrana negli approcci dottrinari del passato e sul passato, cioè di quel che pensavano dell’economia coloro che, nel passato, la vivevano da contemporanei e coloro che, oggi, si confrontano con economie del passato attraverso l’esperienza del mondo economico del presente. La triade prescelta poteva, ovviamente, essere declinata in modo diverso, specialmente riguardo al termine intermedio, per il quale un’opzione convenzionale sarebbe stata quella di considerare la moneta. Tuttavia, l’idea di fondo è che la moneta non sia altro che una forma di credito, anche quando essa giunge a circolare come moneta-merce (anche questo sarà sviluppato largamente nel corso del lavoro). In questo senso la moneta è perciò da considerare come un resto, una rimanenza che si può depositare in scritture contabili, ma che può risultare come il pegno di una fiducia, data o ricevuta (riprenderemo più avanti tali concetti economico-teologici). Un’altra scelta, forse più allettante, sarebbe stata quella di dar preferenza, come termine intermedio, al debito, lato opposto (contabilmente) a quello del credito, così come la condizione speculare del debitore è quella del creditore. Il debito – è vero – riassume una condizione umana paradigmatica, quella di un rapporto nel quale ricompare, regolarmente e a più riprese, l’originaria radice di potere, violenza e Sovranità, credito e mercato comando, a dispetto della visione contrattualistica liberale che sottolinea soltanto la parità tra contraenti, negando, in tal modo, l’asimmetria congenita al rapporto di debito, inteso, genealogicamente, come metamorfosi di una relazione radicata nella sfera del sacro. Se l’uomo è – seguendo Nietzsche – un animale capace di promesse, le promesse sono espresse da coloro che chiedono un credito, o che – non dimentichiamolo – possono essere sollecitati dal creditore a indebitarsi. Tuttavia, è il credito che, accettando la promessa (e – come vedremo – qualcos’altro), avvia un rapporto di permanente equilibrio conflittuale, ma anche di continua tensione tra le parti. L’origine della responsabilità, quella necessaria ad «allevare un animale che possa fare promesse» – sempre in Nietzsche – presuppone l’introduzione di regole e di disciplina per rendere calcolabili i comportamenti. La fiducia è perciò una creazione d’ordine sociale per dar valore, misura, calcolo, possibilmente in un sistema a “partita doppia” nel quale siano immediatamente riconoscibili i termini del “dare” e dell’“avere”. Ma la riduzione della fiducia a un mero calcolo soggetto alla razionalità strumentale occulta l’autentica discendenza dalla sfera sacrale del rito espiatorio relativo al torto ricevuto e alla colpa da infliggere. Ciò è particolarmente evidente in un altro nesso originario che è quello dell’espiazione di una colpa, di una caduta e di una mancanza, attraverso l’intervento della giustizia penale per ristabilire un equilibrio tra le parti. In quel rapporto interviene un’autorità che esercita il dono della grazia, ovvero di una promessa di salvezza con la quale estinguere la violenza potenziale tra le parti. L’autorità trasmette regole e forme rituali e giuridiche di adempimento della fede (aspetto “sacro” il cui correlato “profano” è la fiducia). Il credito, creando obbligazioni nei debitori, mette in circolo promesse insieme a trasferimenti di beni. Da rapporto privato diventa rapporto sociale. È uno strumento di valutazione che, prima di registrarsi in un contratto, poggia sull’esercizio, o sull’esistenza inerte ma potenziale, di potere. Il rapporto credito-debito è in equilibrio solo in partita doppia, per il resto è un elemento di tensione permanente, di lotta, in cui occorre un esercizio del potere – in termini di sovranità – per tenere entro margini di tolleranza il conflitto e tentare di riportare in equità la relazione. Qu XIV est oE -bo ok app art ien ea rof fisi mo ne. 200 0@ gm ail. co Introduzione XV Il credito, secondo Mauss, è una derivazione del dono, una pratica di prestazioni, al tempo stesso, libere e obbligatorie di carattere religioso, giuridico ed economico in società arcaiche. Come forma ricorsiva il dono e contro-dono, con carattere agonistico, rinsalda i legami comunitari, riorganizza le rivalità e riconferma le subordinazioni nei confronti delle autorità, attraverso trasferimenti di ricchezze, nel rispetto di regole istituzionali e di riti sacrali. Abbiamo accennato alla moneta come un resto materiale (oggi quasi del tutto smaterializzato) di un qualcosa d’impalpabile (intangible asset) come il credito. Gli scavi archeologici portano alla luce tesori di monete, non trovano tracce di crediti e di debiti. Debiti e crediti però permeano di sé le religioni e, persino, le loro genealogie si confondono – come sostiene Nietzsche – con l’origine della morale. Vedremo che ci sono altri motivi logici e storico-empirici (su cui insiste anche l’antropologo Graeber, scomparso di recente) per respingere l’evoluzionismo naturalistico della mitologia sull’origine della moneta inventata da Menger, accolta con estrema nonchalance in economia teorica, per il facile e neutro passaggio dal semplice al complesso, implicito nell’ipotizzata, ma del tutto arbitraria, sequenza storico-cronologica di baratto → moneta-merce → moneta fiduciaria → credito → finanza. A questa visione, secondo noi falsata, si contrappone quella che stabilisce come pietra angolare di tutte le istituzioni economiche la promessa: l’uomo animale addestrato a promettere (altra cosa è “mantenere”). Anche Hume deve ammettere che l’obbligo delle promesse non può aver nulla di logicamente “naturale” (come vorrebbero Menger e gli austro-economisti), bensì è «semplicemente un’invenzione umana per convenienza della società» (Hume 1739, 1035 [III, ii, 5]). Dunque la promessa, il credito e la moneta stessa, quest’ultima pur nelle forme storiche materiali di gregge animale, oro o certificazioni contabili di carta, sono istituzioni di fede, di credenze, di convenzioni sociali che (anche qui a differenza delle volizioni contrattualistiche) hanno però bisogno per sostenersi di una conferma da parte di una sovranità, che può essere anche un deus absconditus fintanto che la fiducia, da sola, circola e lega insieme gli individui in comunità. Senza il dono del credito, puntualizza Musil, si sgretolano le difficili condizioni della civiltà. Il passaggio dalla ne p ie art o p ka sto e Qu o E-b fis of r a XVI Sovranità, credito e mercato es Qu to dimensione privata del patto/contratto bilaterale, propria dello scambio mercantile “puro”, alla dimensione pubblica e politica di una sovranità che interviene, non solo per regolare, ma per imporre ed esercitare un’arte di governo, è un passaggio che si esplicita nel pegno. In esso ricompaiono i segni della dicotomia pubblico/privato e sacro/profano, con tutti i riti di passaggio e di circolazione tra le due sfere della fede, da una parte, come osservanza di una promessa sacralizzata e da destinare al culto (lo vedremo nel mistero della transustanziazione, a cui fanno riferimento sia Hume che Marx quando parlano del denaro e della merce), e della fiducia, dall’altra, quale aspettativa di adempimento veicolata da una qualche forma di garanzia (il pegno material-sacrale e l’im-pegno personal-giuramentale), sperimentata nella sua efficacia di onorabilità. Il pegno, per il suo valore simbolico, prima ancora che per il suo valore commerciale, ha la doppiezza di cosa che sta in mezzo. E la moneta è residuo di credito concretizzatosi in un saldo contabile pubblico, che un’autorità impone a compensazione di un danno subito e in esecuzione di una pena inflitta, o per pagamento di un tributo (un dono obbligatorio verso un’autorità sovrana). In questo senso, la moneta è un pegno sociale e politico, che va a “riequilibrare”, su una bilancia sociale, il piatto sul quale potrebbe solo avere un peso equivalente e risolutivo la violenza tra le parti. Interviene qui una funzione di colpa e di pena da estirpare attraverso la restituzione del dono nel ritorno del contro-dono, ben compreso nella sua dimensione di rivalità e di violenza sacrificata nella distruzione e privazione di cose. Si ripresenta, quasi inevitabilmente, quel rapporto complesso e ricorsivo del dono, fatto di liberalità ma anche di violenza. Tutto ciò richiama il dio Giano, divinità arcaica più di altre, effigiato su varie specie monetarie romane (p.e., l’asse, la didracma). Giano è appunto il patrono degli “inizi”, il dio di “passaggio”, il cui regno – nell’iniziale età dell’oro – aveva introdotto i requisiti peculiari della civiltà: l’arte della coltivazione dei campi, l’arte della navigazione, l’arte e l’uso della moneta. Il dio protettore delle porte è colui che avvia a buon fine ogni impresa e ogni atto (Agostino, De Civitate Dei, VII, 8-9 e 12), ma anche divinità infera tra vita e morte (si direbbe, perciò, progenitrice, forse, anche delle potenze alchemiche, unioni ermafrodite di opposti). Introduzione XVII Tutto questo vale per ribadire l’esigenza di rovesciare la sopra menzionata sequenza logico-mitologica mengeriana in un’altra, schematizzabile nel percorso sequenziale di promessa → dono → credito → pegno → moneta. Molti filosofi e antropologi hanno fornito sostegno ed evidenze a quest’ultimo percorso ma, a differenza degli economisti che dovevano costruire una genealogia monetaria nella purezza di una “neutralità” della moneta, essi non avevano la stessa ambizione “costruttivista” (che gli austro-economisti combattevano e attribuivano agli avversari, quando, invece, erano i primi a mostrare metodicamente nella loro azione di “costruzione” statale dell’impresa e della concorrenza), né molto interesse ad occuparsi di genealogie monetarie e creditizie che sembravano più un’occupazione da numismatici e collezionisti. La moneta, in questa nuova prospettiva, è lo scettro economico-finanziario a disposizione della sovranità per poter intervenire nelle relazioni tra creditori e debitori, per salvare gli uni o gli altri, nei momenti difficili, a seconda dei rapporti di forza, scaricando su una delle due parti i “costi” degli “aggiustamenti”, o condividendoli equamente tra esse. Tutte le elaborazioni teoriche e pragmatico-politiche, che esamineremo, per rendere la moneta neutrale, sana, e – in teoria – capace di tenere sotto controllo il credito, sono esercizi politico-normativi per sopprimere il potere sovrano, ridurre l’arte della politica a tecnica autonoma e asettica, ma che tuttavia si rivela come una politica niente affatto “neutrale”, nella misura in cui agisce per trasferire i poteri al mercato e renderlo sovrano. Si tratta tuttavia di un mercato idealizzato, come se fosse un meccanismo generatore di prezzi “giusti” e non – come realmente è – di prezzi completamente aggiustati sotto il dominio di gerarchie imprenditoriali, di “mani visibili” lontane dal soffio provvidenziale di una “mano invisibile” che riordina e appiana bisogni in modo naturale. Il racconto di Menger e della scuola austriaca di economia sull’evoluzione lineare della tecnologia di scambio di mercato dal baratto alla moderna banconota è infondato e tale sforzo intellettuale, del tutto mitopoietico, si rivela tendente a “neutralizzare” il portato della moneta. All’origine vi era il credito. E il credito apparteneva alla sfera del sacro. La moneta eredita questa origine di promesse e di fede, da cui non può liberarsi, nonostante i tentativi degli econo- Questo Q ue st o E- bo ok ap pa rti fis i ro f en e misti classici e neoclassici di ridurla a semplice “lubrificante” degli scambi di mercato. In questa origine sacra va ricercata la natura e il lessico del campo monetario, che si rivela attraverso una teologia irriducibile alla strumentalità del calcolo. Una teologia della quale sono avvertiti, paradossalmente, soprattutto coloro che sono noti per la loro critica radicale alla religione, come Hume e Marx. Non a caso, una indagine secondo un criterio genealogico e non riduttivamente logico-economico, ha evidenziato impensabili strutture del tutto invisibili agli economisti monetari. Senza pretesa di ordinarle per importanza, segnaliamo in particolare la peculiarità della esperienza cristiana nella formazione dei concetti di credito e debito. Questa osservazione generalizza nel tempo e nel contenuto la nota – e controversa – tesi weberiana dell’esperienza calvinista come genesi del moderno capitalismo. Da un lato, la “fede” è strettamente collegata col “credo”, dandosi così luogo ad una inedita relazione biunivoca fra la fede e il credito. La profondità dell’analisi etimologica sviluppata da Benveniste (1976) sui temi dell’origine linguistica delle istituzioni economiche europee aiuta a comprendere come la fides implica un potere che non è obbedienza ad un comandamento, ma una libera adesione di chi si è lasciato persuadere da un credo. In questo la fede cristiana, nella misura in cui si aderisce liberamente al credo, si differenzia da quella ebraica basata sull’obbedienza alla legge per paura; si potrebbe individuare qui una dicotomia fra un’obbedienza sottomessa per legge e alla legge e un’obbedienza per fede all’economia (amministrazione) che coincide con la legge. Se la relazione originaria colpa-debito identificata da Nietzsche viene – nella religione cristiana – sanata dal culto e dal sacrificio di Cristo che redime (rimette i debiti), nel “capitalismo come religione” identificato da Benjamin il peccato-colpa non può essere redento, e quindi si accumula nel tempo: non è difficile scorgere qui una radice della finanziarizzazione del mondo contemporaneo. La genealogia creditizia e monetaria non è solo un esercizio di archeologia intellettuale o, più semplicemente, accademica. Essa è un’archeologia del presente. È, o può essere, una chiave per enigmi del nostro tempo. L’attuale conflitto silente, ma aperto, vede schierati, da una parte, imprenditori e banchieri schumpe- m Sovranità, credito e mercato a XVIII Introduzione XIX teriani quasi sorti dal nulla, insieme anche a colossi informatici, come Facebook, mossi allo sfruttamento delle miniere di criptovalute (seguiti in questa corsa all’oro, da banche e banchieri pronti a far leva sui nuovi strumenti monetari) e, dall’altro, la sommessa riscossa delle banche centrali per entrare sul medesimo terreno di conquista, sebbene in quale veste e per quali interessi sia un problema tutt’ora da valutare (l’emblematica origine della Fed – raccontata in questo libro – funge in questo da monito, da cave canem). Lo scontro in atto ripropone – in forme variegate, con strumenti diversi e con esiti tuttora incerti – un conflitto permanente tra spazi politici di sovranità e istanze privatistiche, queste ultime lanciate attualmente all’assalto di tali spazi per conquistarli. Inoltre, la netta supremazia, in tempi presenti, di conglomerati finanziari internazionali non si inserisce, forse, nella stessa logica di restringimento del perimetro e delle prerogative di quel che resta di quelli che un tempo sembravano i Leviatani? Gli Stati nazionali “sovrani” non si trovano ora, mutatis mutandis, in una geopolitica molto simile a quella precedente gli accordi di Vesfalia del 1648? La finanza internazionale detta l’agenda e le condizioni dei debiti pubblici e delle politiche governative. I valutatori del merito di credito sono un pugno di agenzie al servizio dei grandi colossi finanziari. Le bandiere nazionali che ancora sventolano quasi per ardimento, paiono molto strappate e hanno perso i colori vividi di un tempo. Il neo-ordoliberalismo si è presentato sulla scena conquistando, poco a poco, sempre nuove fortezze e casematte, nelle quali insediarsi per imporre un’arte di governo finalizzata a mettere ulteriormente gli Stati nazionali a servizio dei “mercati” che, lessico edulcorato a parte, stanno, di fatto, a significare una finanza internazionale presidiata da Behemoth, l’agglomerato di colossi imprenditoriali che dispongono già di mezzi e forze sufficienti per soggiogare diritti personali e dignità umana a interessi mercantili. Per portare a compimento la propria missione, il neo-ordoliberalismo è stato, dalla seconda metà del XX secolo in poi, lo strumento politico-amministrativo del capitalismo, di un capitalismo come religione, una religione cresciuta sulla pianta delle vecchie fedi e confessioni per sostituirsi ad esse. La nuova religione è quella dei riti aziendal-consumistici e della cosiddetta “cultura d’impresa” (si noti l’ossimoro), da inculcare in ogni fedele produttore-consu- Questo E-book apparti ene a r offisim o XX Sovranità, credito e mercato ok -bo oE est Qu matore e fare entrare in forze nelle stesse istituzioni, ora valutate con lo stesso metro mercantile e trasformate da presidi di diritti in centri erogatori di servizi, in concorrenza tra loro, in modo così da non aver neppure bisogno di doverli “privatizzare” per estrarre efficienza. La stessa pretesa di realizzare monete neutrali, la cui definizione, peraltro, è continuamente sfuggente, o quella anarco-hayekiana di ritornare a sole monete private (equivalenti alle cambializzazioni medievali dei rapporti di credito e debito), hanno risvolti politici molto concreti finalizzati a porre saldamente le leve del credito e della finanza nelle mani degli stessi colossi, che, certamente, non intendono negoziare le proprie posizioni di vantaggio e di potere. Ovviamente il nuovo paradigma aziendal-mercatolatrico e statofobico, evangelo della nuova religione, si estende dalla finanza, alla salute, all’ambiente, all’educazione. La contesa è ancora tra sacro e profano, tra chi deve gestire – e in che modo – i poteri di promettere, giurare, garantire, certificare. I piani della fede e della fiducia ritornano a incrociarsi. La nuda economia è ancora politica e i suoi linguaggi restano teologici. Ritornando al paradigma teologico-economico evidenziato da Agamben, che si aggiunge a quello rappresentato dalla teologia politica, di cui Carl Schmitt è stato l’alfiere, ricordiamo che esso raccoglie le radici cristiane dell’economia intesa come governamentalità (basti ricordare l’analisi foucaultiana del pastorato cristiano come tecnica di governo delle vite umane): la teologia politica cristiana ha al suo interno – principalmente nella interpretazione del dogma trinitario e dell’evento dell’incarnazione del Cristo data dalla letteratura patristica – una specifica valenza “economica”, che, appunto, vede nell’economia il metodo per condurre le vite – biopolitica e bioeconomia come una “economia di salvezza”. Pertanto, la logica economica – uscendo dalla sfera della produzione e della distribuzione dei beni materiali – è diventata negli ultimi decenni la logica della tecnica governamentale neoliberale. Le opere di Foucault e Agamben, proprio per la loro natura pionieristica, lasciano però molti aspetti in sospeso. In questo lavoro, l’analisi genealogica ci porta a suggerire come le moderne storie e teorie monetarie non rivelino soltanto un processo di “secolarizzazione” e di “laicizzazione”, comune a molti ambiti delle scienze sociali, ma siano incastonate in una cornice teologi- ea ien art app 20 ne. mo fisi rof Introduzione XXI 0@gmail.com ook app a rt ie n e a ro ff is im one.200 Questo E-b co-economica, che estende e integra l’ambito dell’economia come “economia di salvezza” proposto da Agamben. La “trinità” di sovranità, credito, mercato rappresenta inoltre tre dimensioni tipiche di quel che sta, al tempo stesso, “dentro” e “fuori” l’economia. In che senso possiamo interpretare un ossimoro come questo? A prima vista il termine sovranità sembrerebbe star “fuori”, essendo un concetto eminentemente politico e che nell’economia teorica – dove si vuole eliminare il conflitto per sostituirlo con il palliativo della concorrenza, dove non vi sono nemici ma solo competitors – trova sempre meno un proprio spazio legittimo, se non in senso negativo nei termini di Stato, fiscalità, politiche economiche, regolamentazione, e, più in generale, in tutto quello che interferisce, dall’“esterno”, sull’andamento corretto dell’economia. In particolare, all’economia sfugge della sovranità quella forte carica di potere, di arcana imperii, di termine eminentemente “politico”. Credito-debito e mercato sembrano, d’altro canto, concetti e oggetti di stretta pertinenza dell’economia, avulsi da ogni segno di potere. Invece, a ben guardare – e come mostreremo nel lavoro –, questi concetti e oggetti si intrecciano strettamente con la sovranità, con la dimensione propria del potere, dell’autorità, delle istituzioni. Il metodo genealogico è anche un procedimento critico e demistificante. Molte mistificazioni sono state perfezionate dall’economia di mainstream secondo un preciso “piano” volto a espungere la politica dall’economia per portare a compimento un’operazione di pulizia scientifica di un corpo dottrinario che pretendeva di stabilire ricette “asettiche”, ammantate dell’aura di “scientificità”, per produrre invece prescrizioni che, al di là delle retoriche, restavano cariche di un proprio carattere politico. Per portare a compimento tale programma l’economics ha lanciato un sistematico assalto di imperialismo culturale nei confronti delle altre “scienze” sociali “minori”, compiuto con una costruzione intellettuale riconducibile a tre costrutti teorici audaci: i) il primo consistente nell’inglobare le istituzioni (perciò la politica) in uno schema di razionalità massimizzante ed evoluzionistica, ii) il secondo mirante a ridurre il credito a moneta, considerando la moneta, e con essa il mercato (quale mero “teatro” degli scambi), una pura tecnologia di scambio, iii) infine, ma non ultimo, il terzo, consistente in un progressivo appiatti- Sovranità, credito e mercato k Questo E-boo XXII appartiene a mento delle differenze tra epoche storiche e tra sistemi economici, sulla base di alcuni criteri di misura “universali” (produzione, consumo, e anche indicatori più sofisticati), col risultato, previsto in anticipo, di dover indagare su un solo sistema: quello del capitalismo, che sarebbe una invariante, naturale ed ineliminabile presenza sia in età arcaiche che moderne, sia in economie “arretrate” che in paesi “avanzati”. Il risultato finale è ovviamente quello di poter postulare, oggi e nel passato, l’esistenza di una sola tipologia economica, più o meno pura, ma costituita sempre dal mercato, e di un solo tipo umano, rappresentato dall’homo oeconomicus. Insomma, con un gioco simile a quello delle tre carte, tutto improvvisamente scompare e ricompare sotto un’altra forma, la sola possibile: quella di un capitalismo onnipresente, un’araba fenice che c’è sempre, anche quando non è manifesta o sembra estinta. Se la realtà si discosta troppo dall’ideale, allora si introduce – come vedremo – quello che altro non è se non un dispositivo teologico: fare cioè come se tutto funzioni appunto secondo le regole del mondo immaginato (più che teorizzato). Anche la scienza economica, nella sua pretesa scientificità ha mostrato una tanto drammatica quanto ridicola incapacità di pensiero e di cura delle crisi finanziarie e della disuguaglianza fra persone e popoli; anzi, semmai, ad una lettura più attenta e critica, che tenga conto del paradigma foucaltiano della governamentalità come intreccio fra popolazione, scienza economica e tecniche politiche securitarie, tale scienza si è dimostrata la stampella del sapere al potere capitalistico che ha giustificato e persino evocato l’accadimento degli eventi, come discusso nel cap. 13. La triade concettuale del titolo è per questi motivi costituita di elementi “ponte”, elementi di tensione e di potere, attraverso i quali si esercitano mediazioni e passaggi – come vedremo – dal sacro al profano, dal pubblico al privato, in una direzione e nell’altra. Gli elementi che compongono la triade sono i segni e i luoghi (figurati e non solo) di conflitti che si esplicitano nel lungo processo che porta verso il capitalismo moderno. Per quanto riguarda tale processo, la nostra analisi prende avvio da un altro importante testo, che dopo Marx e Weber, si interroga sulla dicotomia antico-moderno. Ci riferiamo al libro di Hannah Arendt del 1958 sulla “condizione umana” e sulle forme m 00@gmail.co roffisimone.20 g 0@ 0 e 0 .2 Introduzione on im XXIII della vita activa e i loro cambiamenti. Un elemento importante, rispetto a tali cambiamenti, che noi abbiamo ritenuto di sottolineare, ha riguardato le figure “anfibie” di mercanti e banchieri. Arendt fornisce tutti gli elementi, ma senza svilupparli, per compiere quella sottolineatura rispetto a quello che per noi è stato ed è il ruolo di mercanti e banchieri nel processo di cambiamento della “condizione umana”: il loro operare per entrare a pieno titolo nelle sfere della politica, dalle quali, invece, erano stati tenuti accuratamente fuori in epoche antiche, nelle quali le prerogative del potere politico nel governo e nella difesa della società e della stessa economia civica e rurale erano affermate proprio contro le attività mercantili e la ricerca del guadagno per il guadagno. La distinzione tra una crematistica naturale e una innaturale è teorizzata specialmente in Aristotele, di cui va annotata l’influenza per la teoria del valore e della moneta sviluppate da Marx. Arendt, come noto, si concentra su tre attività in cui l’uomo interagisce in società (per questo non sarebbero per lei rilevanti attività intime come amare, pensare, creare ecc.), cioè il lavoro, l’opera e l’azione, a cui noi aggiungiamo l’attività specifica del mercante e banchiere. Tali attività si passano il testimone del primato nelle varie epoche storiche. Sia ben chiaro, l’attività contemplativa (theoria) nel pensiero classico come nell’analisi del medesimo riproposta da Arendt, rimane comunque incommensurabilmente superiore rispetto all’agire umano (vita activa), persino se quest’ultimo è considerato soltanto nella sua parte più nobile, l’azione (corrispondente all’agire politico e discorsivo di quel tipo di uomo denominato zoon politikon da Aristotele). Qui l’aggettivo activa indica per contrapposizione l’assenza di quiete, di otium, che è necessaria per contemplare l’eternità dell’Essere – irraggiungibile o al massimo negativamente perturbabile – da ogni opera ed attività umana. Tuttavia, Arendt, con la sua analisi dell’agire umano classificato in lavoro, opera e azione, intende (come afferma Dal Lago nella sua introduzione alla Vita activa) interrompere la lunga tradizione occidentale del primato della contemplazione e del pensiero, gettando almeno nuova luce sull’agire umano, che, specialmente nei suoi aspetti inferiori, ha preso il sopravvento nella società moderna a dispetto della sua scarsa considerazione nella filosofia. s ffi ne a e rti k o bo o Q u t es E- p ap a ro Sovranità, credito e mercato XXIV Noi, qui, suggeriamo che, se viste entrambe più modernamente, da un lato, l’azione è il potere politico e, dall’altro lato, l’opera è la tecnica, tuttavia, a cavallo delle due – ma di ambedue nutrendosi e adattandosi ad esse come talvolta adattando esse a se stesse – prosperano altre attività umane e agiscono altre figure – il commercio e il mercante, il credito e il banchiere – che già in Atene erano ben caratterizzate e attive, e che nella riflessione filosofica sull’agire umano sono rimaste inizialmente in un cono d’ombra solo perché fuori dallo splendore della sovranità politica e dall’illuminazione “pubblica”, solo perché figure apolidi, amorali, liquide e aeree, globalizzanti, già allora come oggi, ma, tuttavia, oggi visibili perché lo splendore dell’oro (denaro) ha offuscato e spento le luci della politica. Le concezioni del tempo, del cosmo e dell’uomo del pensiero greco vengono più o meno gradualmente sostituite dalle corrispondenti concezioni del pensiero giudaico-cristiano. Dal tempo ciclico (dell’eterna immutabilità della natura e dell’uomo semplice ingranaggio senza storia) e da quello cairologico (la percezione soggettiva dell’attimo che conta) si passa al tempo lineare e cronologico, che, da un punto di vista religioso, istituisce una direzione in avanti verso il compimento finale della salvezza (eschaton) e, da un punto di vista mondano, istituisce sia la storia umana con il concetto di progresso e di trasformazione della natura da parte dell’uomo con le sue tecniche, sia il tempo sempre più preciso, calcolato, suddiviso che è proprio del mercante e del lavoro. Se con il cristianesimo l’uomo diventa creazione di Dio a sua immagine e somiglianza (Deo creatus et imago Dei), ne segue che l’uomo è il signore del mondo e quest’ultimo ha un senso e un valore nella misura in cui è “utile” all’uomo. Se l’uomo acquista la posizione centrale nel mondo, il tempo è progresso storico nel senso di liberazione dal giogo naturale e di progressiva trasformazione umana della natura. La nuova relazione giudaico-cristiana fra uomo e natura ha la conseguenza che il ruolo dell’opera, dell’attività dell’homo faber, viene quindi rivalutato sia che si consideri l’uomo come distruttore della natura (visione medievale) o come edificatore di una nuova natura (visione moderna). Questa signoria dell’uomo sulla natura dovuta alla sua somiglianza con Dio – Dio creatore della materia dal nulla e l’uomo creatore dalla materia data – diventa k - bo o Qu e s t o E n ap p a rtie Introduzione XXV il motivo per esaltare, già a partire dal medioevo, la produttività e la creatività umane, sebbene la Arendt ricordi, da un lato, che questa esaltazione della produttività umana, che riedifica il mondo creato da Dio manipolandolo, trasformandolo e, quindi, almeno in parte distruggendolo, appare come una rivolta prometeica alla divinità, e, dall’altro lato, che, a stretto rigore filologico, il Dio biblico della Genesi ha reso l’uomo signore delle creature viventi ma solo per preservarle e custodirle. Con il cannocchiale galileiano – emblema della nuova scienza sperimentale e della sua sottoposizione della “verità” alla prova dell’esperimento fabbricato dall’uomo e alla verifica nella “pratica” – la conoscenza non veniva più a dipendere dalla contemplazione, osservazione e speculazione ma “dall’attivo procedere dell’homo faber, del fare e del fabbricare”. Insomma, il fare prevale sul contemplare. Questo passaggio cruciale della modernità, connesso anche al passaggio da un concetto di verità ad un altro, viene magistralmente reso da Arendt: «Mentre la verità si era identificata in precedenza con la “teoria”, che dai greci in poi aveva significato visione contemplativa dello spettatore che percepisce la realtà che gli si scopre davanti, ora la questione del successo prevalse e il banco di prova della teoria divenne “pratico”, divenne cioè la capacità o meno di operare. La teoria divenne ipotesi, e il successo dell’ipotesi divenne verità» (Arendt 1958, 206, VI.38). Il seme del rovesciamento nella graduatoria “valoriale” delle attività umane viene gettato dalla nuova visione cristiana del mondo che rimpiazza quella greca. Lo sdoganamento del lavoro come attività che non sarà più giudicata come inferiore e non-umana avviene attraverso molteplici e separate tappe, che un esame genealogico può sintetizzare in almeno sei: i) l’avvento del tempo giudaico-cristiano, con l’uomo proiettato nella storia che guarda al futuro, e con la sua oggettività e precisione consentita dall’orologio; ii) il cosmo, che, dalla eraclitea immobilità ed eternità che preesiste persino agli dei, diviene creazione volontaria e continua di Dio, cioè il passaggio da kosmos a saeculum; iii) la teologia improntata alla tradizione giudaico-cristiana che vuole la signoria dell’uomo sul mondo come comando di Dio, per cui, allora, «Dio è il fondamento che giustifica la bontà dell’operare tecnico e la doverosità della sua attuazione» (Galimberti 2002, 295) e a gm @ .2 00 0 on e im ffi s ne a rti e k bo o to Q ue s E- ap p a ro m il.c o Sovranità, credito e mercato XXVI sto e Qu che, non a caso, è del tutto compatibile con l’utopica operazione di Bacone di iscrivere la scienza nell’orizzonte teologico; iv) la verità ebraica che si fa nel tempo – perché per gli ebrei la verità non è qualcosa che si conosce, ma qualcosa che si pratica osservando la legge di Dio – sostituisce quella greca che si contempla nell’immodificabilità della natura, come ci ricorda Galimberti (2002, 294), per cui anche quando Bacone mette al centro del potere il sapere scientifico o Marx subordina la contemplazione, o meglio l’interpretazione, del mondo alla sua trasformazione, entrambi starebbero di fatto adottando l’ebraico “fare verità”; v) la concezione della tecnica che libera dalla gabbia della natura e permette di concepire il progresso lineare in avanti; vi) una nuova relazione complementare fra la contemplazione e il fare all’interno della regola benedettina che alla contemplazione di Dio e alla preghiera unisce il lavoro, liberandolo dalla inferiorità classica, relazione che poi diventerà nell’età moderna di pieno predominio del fare. Anche la concezione teologica del lavoro muta lentamente: si passa dal considerare il medesimo come la ineliminabile espiazione della colpa del peccato originale al considerarlo come una legge di natura utile per l’uomo per almeno due motivi: combatte i pericoli spirituali, che il cristianesimo individua nell’ozio, e produce ricchezza e benessere. In realtà, il lavoro è – come ci suggerisce una escursione etimologica – lavoro per gli dei, servizio alla divinità: anche per questo l’ozio appare come nemico del cristianesimo. Il lavoro che si esprime nel biblico leawod è sinonimo di servire e per estensione di officiare per la divinità (cosa che si rintraccia probabilmente anche nel nome dei sacerdoti ebrei, Leviti) come il greco liturgia, termine composto da laos (popolo) ed ergon (lavoro), indica il servizio che la comunità deve rendere agli dei. Sebbene la centralità dispotica del lavoro nell’età moderna non abbia riferimenti evidenti nella dottrina cristiana (anzi la parabola evangelica di Marta e Maria sembra togliere ogni dubbio sul primato della contemplazione), tuttavia nel fermo invito paolino a occuparsi delle cose private, quale anche il lavoro, a discapito delle attività politiche e pubbliche, oppure nel ruolo del lavoro nelle pratiche spirituali del monachesimo benedettino, intravediamo proprio nel cristianesimo lo “sdoganatore” dell’agire pratico e del fare, insomma, del lavoro. Per Arendt, il lavoro, in particolare quello più ok bo E- e.2 Introduzione XXVII rtien ea ro ffisim on basso dell’animal laborans, ha preso il sopravvento su tutte le altre attività umane: con esso, l’uomo è pura specie biologica, senza più alcuna facoltà superiore (spirituale), puro processo metabolico di riproduzione vitale. Una speranza di cambiamento di tale situazione potrebbe consistere nel restituire il primato dell’agire umano all’azione politica e discorsiva. Questa speranza ha ancora un fondamento umanistico, riassumibile nel concetto dell’uomo soggetto libero dell’azione che può quindi stabilire i suoi fini, ovvero essere responsabile del proprio destino attraverso l’uso dei mezzi tecnici, peraltro sempre più sviluppati. Invece, la tecnica, da strumento di distruzione-modificazione della natura, diventa essa stessa natura, ma nel senso deteriore che viene incorporata nell’uomo, a sua volta ridotto a pura vita biologica. Arendt ricorda che un fantasioso ed ironico Aristotele aveva già ipotizzato la possibilità dell’automazione e robotizzazione del lavoro migliaia di anni prima della sua effettiva realizzazione affermando che «ogni arnese potrebbe eseguire la sua opera a un semplice comando» e che «la spola tesserebbe e il plettro toccherebbe la lira senza che una mano li guidi». Bisogna ricordare la natura e il ruolo della tecnica, che non è un esempio della superiorità dell’uomo nel creato, come a prima vista apparirebbe dalla sua ingegnosità e creatività, bensì il segno della sua inferiorità biologica rispetto alle altre specie animali, della sua carenza di dotazione istintuale, essendo così la tecnica il suo strumento per sopravvivere. Sul tema del cosiddetto dominio della tecnica nel mondo contemporaneo, che qui viene solo sfiorato, non possiamo comunque che convenire con le trancianti affermazioni di Galimberti (2002, 34), per cui bisogna innanzitutto «farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male [...] coloro che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un’essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli». Il rischio – o la già avvenuta realtà – è l’inversione – percepita già da Arendt e chiaramente affermata, fra gli altri, da Galimberti – del rapporto mezzi-fini nella relazione fra uomo e tecnica: quest’ultima, da mezzo per realizzare i fini dell’uomo, si trasforma in fine a se stessa di cui l’uomo è solo un mezzo. ppa Que st oE -boo ka Questo XXVIII E-book apparti ene a r Sovranità, credito e mercato offisim one.20 00@gm La “cifra” più stringente della riflessione di Arendt sul mondo contemporaneo non sta tanto nell’osservazione sia dell’avvenuto predominio dell’animal laborans e del lavoro, un tempo esecrato, e adesso divenuto l’unica attività umana socialmente accettata e persino glorificata, che dell’espansione della tecnica che riduce a livelli impensabili il tempo di lavoro, ma, piuttosto, va ricercata nella drastica negazione di ogni illusione rispetto alla possibilità che l’emancipazione dal lavoro possa liberare l’uomo, trasformandolo da animal laborans ad homo dedicato ad altre forme «superiori» di attività. Sebbene l’utopia di Marx ammettesse la possibilità dell’emancipazione dal lavoro in tempi in cui la tecnologia e l’automazione erano ben lungi dal farla persino immaginare, oggi che il gigantesco progresso tecnico potrebbe permetterla, Arendt pronuncia un secco teorema dell’impossibilità della liberazione dal lavoro per volgersi ad attività superiori: sebbene la quantità del tempo libero dall’impegno lavorativo possa diventare persino la totalità del tempo di vita, in una società capitalistica centrata sull’economia e senza più sfera politica autonoma, la libertà del tempo non può che trasformarsi in libertà di consumare ossessivamente quanto più mondo possibile: qui starebbe l’errore di Marx, cioè nel non aver intuito che in una società e in un tempo dominato dall’animal laborans più tempo libero si crea, più crescono i rapaci, insaziabili e totalizzanti appetiti consumistici dell’uomo. Ma ad Arendt che preconizza il fatale esito della deriva consumistica di una società basata sull’animal laborans, noi potremmo aggiungere, alla luce degli avvenimenti contemporanei e ovviamente a lei successivi, altre forme di fatale esito quale la finanziarizzazione del mondo economico globalizzato (il finanzcapitalismo di cui parla Luciano Gallino), il quale richiama il predominio di un altro homo, il capitalista finanziario e banchiere, che, forse a complemento del ruolo del lavoro come servizio alla divinità, pone – per rimanere nell’ambito di una ineliminabile relazione fra teologia, politica ed economia – la “fiducia” ovvero la “fede” (fides) al centro del proprio mondo che è poi il mondo contemporaneo. Nella prasseologia degli austro-economisti come Mises, sviluppata nel solco degli scolastici e gesuiti spagnoli, l’azione umana è estrinsecata nella scelta economica dei mezzi, indifferente ai Introduzione XXIX alle finalità, come la felicità e il benessere che, invece, motivano l’azione umana nell’economia politica di Bentham e Stuart Mill. È nella capacità di impiegare i mezzi per realizzare un profitto, per produrre un risparmio, che questi ultimi diventano un fine in sé: agire per far scaturire un profitto, un risparmio, considerati di per sé e non perché il profitto o il risparmio siano generatori di un fine come il benessere. È, in questo, visibile anche l’etica calvinista del dovere del lavoro, del profitto e del risparmio, visti come un dovere religioso e non per l’utilità e la ricchezza che generano. Il circuito corto del denaro impiegato per ottenere un incremento di denaro (D-D’), che sembra caratterizzare la finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo e che diventa anche un corto circuito devastante per l’economia (la bolla speculativa e il suo scoppio), può infatti consentire nel breve periodo un accumulo di denaro, un profitto ben più alto di quello ottenibile col circuito produttivo, ovvero la circolazione definita da Marx come D-M-D’ (investire una data quantità di denaro, D, nella produzione di merci, M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime una quantità di denaro, D’, maggiore di quella investita). Nella ricerca mediante il calcolo razionale di una irrazionale e insensata produttività e profittabilità finalizzate solo all’incremento di se stesse, in cui si manifesta l’agire umano senza scopo teorizzato dalla prasseologia, possiamo individuare una caratteristica dell’odierno capitalismo finanziario globale. Uno degli elementi messi in luce dalla nostra analisi è la natura originaria del credito-debito, di cui la moneta è derivazione. Nelle società e nelle economie arcaiche, i depositi dei doni di beni eccedenti erano parte di rituali per rendere obbligati amici e nemici, costretti e indotti alla replica del contro-dono, del pegno di valore che il debitore lascia in ostaggio al creditore a testimonianza della propria fides, del non darsi alla fuga di fronte agli impegni da onorare. Nella teologia del dono e contro-dono e del credito-debito c’è quell’astrazione, quella «transustanziazione» – così Marx (come prima di lui Hume) – di ogni merce “reale”, che da valore d’uso si trasfigura in valore di scambio, ovvero il denaro costituisce il mezzo e il fine in sé dell’accumulazione capitalista. È sempre Marx a considerare il denaro il dominus del capitalismo, ovvero Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne ar off isi mo ne .20 00 @ gm ail .co m @gmail.com XXX Sovranità, credito e mercato Questo E-b ook apparti ene a roffis imone.2000 ad affermare che il capitale finanziario sta come sovraordinato rispetto al capitale reale (a dispetto della fama assunta soprattutto dai calcoli di Marx sulla composizione organica del capitale industriale ecc.). Forse, in molti esegeti è passata come una semplice nota erudita la lunga citazione che Marx nel Capitale (da noi richiamata anche nel testo più avanti) riprende dalla Politica (1993, 18 [I, 9, 1256b 40-1]) dove Aristotele definisce la crematistica (innaturale) la «forma d’acquisizione […] a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà». Per Marx essa è «arte di far denaro», «il suo fine consiste nell’arricchimento assoluto. L’economica ha un limite, la crematistica no» (Marx 1867, 184n. [4.1]). La fonte della ricchezza non è più la produzione bensì la circolazione, il denaro e la finanza, invece dell’economia in senso stretto (l’“economica”). Nel capitalismo tutto ciò tende, secondo Marx, a fare del «plusvalore […] fine ultimo e unico dell’umanità» (Marx 1867, 926 [24.6]); ma «non sorge dal carattere stesso della produzione nessun bisogno illimitato di pluslavoro», di cui il plusvalore è espressione (Id. 1867, 287 [8.2]). L’accumulazione illimitata di capitale avviene attraverso un ciclo ripetuto all’infinito che cambia solo perché si espande continuamente. Quell’accumulazione illimitata di capitale di cui parla Marx non è altro che la trasposizione nel sociale di ciò che Hegel chiama «cattiva infinità». Per Hegel, logico e qui anche “teologo”, è «molto importante intendere in modo appropriato il concetto della vera infinità e non limitarsi alla cattiva infinità del progresso infinito», infatti aggiunge che il «perdersi nell’osservazione di questo progresso infinito è noioso, perché è il continuo ripetersi della stessa cosa […] di seguito senza fine […] Se poi si crede di liberarsi dal finito passando in quell’infinità, in effetti si ha soltanto la liberazione costituita dalla fuga. Ma il fuggitivo non è ancora libero, perché nella fuga è ancora condizionato da ciò davanti a cui fugge. Se poi si osserva ancora che l’infinito non può essere raggiunto» (Hegel 2004, 275-6 [§ 94]). L’illimitatezza dell’accumulazione di denaro che ha per mezzo e fine solo se stessa in un’eterna, infinita ripetizione è la “cattiva infinità” hegeliana in versione economico-finanziaria (come fa Introduzione XXXI osservare Urquhart 2016), che nella realtà odierna del capitalismo finanziario maturo porta alla proliferazione di strumenti creditizi e finanziari con l’inevitabile contropartita di un debito illimitato, infinito, ripetitivo. Il richiamo di molti studiosi all’idea di debito-colpa, osservata da Nietzsche, e, per certi versi, ripresa con la folgorante immagine del «capitalismo come religione» da Benjamin, ripropone la mistica-etica germanica della forza disciplinante del debito, obbligazione morale per eccellenza, di religiosa osservanza di riti e precetti di comportamento. Tuttavia, un’adesione completa all’identità debito-colpa porta a disconoscere i pregi della salvezza da un debito irredimibile, non pagabile. Anche qui irrompe il conflitto di potere che si instaura nei territori della sovranità, del credito e del mercato, per definirne i limiti reciproci e le inevitabili sovrapposizioni e interferenze. La guida austera dello Stato va in soccorso alle imprese, ma invita i singoli cittadini a diventare imprenditori di se stessi in ogni ambito della propria esistenza, al fine di curare la casa e la proprietà che debbono mantenere attraverso un responsabile equilibrio tra entrate e uscite. Allora è chiaro che il debito diventa un fardello e uno strumento oppressivo, specialmente se lo Stato e la banca centrale lasciano ai “mercati” (leggi banche e banchieri) il dominio sovrano sui tassi d’interesse. Lo Stato moderno, nella sua piena sovranità, riconosciuta e acclamata, può costruire un debito anche “infinito”, irredimibile (cioè sempre rinnovabile e incrementabile a scadenza), con la promessa di non estinguerlo con una dichiarazione di default, e di onorarne il servizio con il pagamento degli interessi (ed eventuali quote di ammortamento). La stessa cosa non è nei poteri dei privati, per i quali il debito è il classico fardello, la catena che incatena e può trascinare il debitore nella colpevole caduta del disonore fallimentare e della conseguente espropriazione dei beni di sua proprietà (in antico vigeva il nexus, ossia la riduzione in schiavitù per chi non onorava il debito). Il debito dello Stato, per quanto appena detto, può essere liberatorio, perché da esso dipende la stessa “leggerezza” del tasso d’interesse applicato ai debiti dei suoi privati cittadini. Il governo neo-ordoliberale dell’economia identifica il governo dello Stato di diritto sovrano con quello del- Qu est oE -b XXXII Sovranità, credito e mercato la famiglia, e il buon governo con l’idea del governo domesticoE del buon padre di famiglia. L’identificazione che compie eshatoun u Q disegno politico preciso che è quello della statofobia: l’avversione verso lo Stato economico, che interviene nell’economia per imporre tasse e redistribuire reddito, trova una giustificazione proprio nell’equiparazione rozza famiglia-Stato. L’idea della già ricordata diligenza e responsabilità del bonus pater familias poteva valere in epoche passate come criterio generale, ma vale molto meno in epoche moderne, nelle quali lo Stato riesce ad affrancarsi dal giogo dei banchieri privati; ciò ovviamente può accadere solo nella misura in cui la sovranità statale è in grado di instaurare una “rivoluzione finanziaria”, fiscale e di gestione del proprio debito (come quella inglese di metà del XVIII secolo e quella francese successiva alla Rivoluzione, richiamate a grandi linee nella II parte), per sottrarsi finalmente dal dominio dei mercati dei capitali. Il debitore sovrano, e sovranamente consapevole che il peso del proprio debito può schiacciare i suoi creditori, mette questi ultimi nella condizione degli antichi servitori, quando a fare le condizioni era il “padrone di casa”. Lo Stato è sovrano se sottrae la determinazione dei tassi d’interesse ai banchieri. In quel caso è la (sua) domanda di debito a determinare il tasso d’interesse fondamentale per l’economia e l’offerta di credito da parte della banca e della finanza è perciò in posizione subordinata. Il governo neo-ordoliberale, rispetto al sistema keynesiano, intende riportare – come ha fatto – l’asse del dominio sul mondo della banca e della finanza, soggiogando ad esso la domanda di debito da parte degli Stati. Due sono i momenti cruciali di questa battaglia per la sovranità. Il 1971 è la data simbolo che lascia ai mercati, ovvero al capitalismo finanziario internazionale, la determinazione del valore delle monete nazionali e spalanca la porta per una finanziarizzazione senza precedenti. Attorno al 1979 si situa l’altro tornante storico nel quale si realizza, nelle principali economie avanzate, una separazione fra Tesoro e banche centrali, alle quali viene riconosciuta una formale “autonomia” per significare la volontà (politica) di sottrarle dal loro ruolo storico di finanziatrici di prima istanza dei bisogni finanziari dei governi. Con tale operazione di depotenziamento finanziario si costringono gli Stati all’indebita- k -boo ap Introduzione XXXIII mento forzato alle condizioni stabilite dalla finanza internazionale. Uno dei cavalli di battaglia del neo-ordoliberalismo è quello di affermare che lo Stato troppo indebitato trasferisce sulle generazioni future oneri di pagamento che dovranno essere compensati estraendo tasse e imposte e limitando le loro capacità di spesa e di soddisfazione nei consumi. Lo Stato sovrano moderno – purché Leviatano in grado di disciplinare banche e banchieri – può permettersi di creare un debito infinito. Rinnovarlo a ogni scadenza, come in una sorta di Ponzi finance statale. Le generazioni future si troveranno sì di fronte a una mole tale di debiti che solo un dio potrà ripagare attraverso una soluzione giubilare ma si troveranno anche con più beni pubblici: scuole, ospedali, tempo libero. In questo il debito, se ben governato – ovviamente – nella “qualità” della spesa sociale, specialmente, è una risorsa di civiltà e non una regressione verso la schiavitù. Il richiamo ossessivo dell’odierna economia neo-ordoliberale alla salvaguardia delle future generazioni dai danni del debito pubblico corrente è una delle più subdole truffe ideologiche della teoria economica; c’è da domandarsi infatti perché i cantori di quella logica economica, che porta, invece, effettivamente allo sterminio corrente di milioni di bambini nella periferia del mondo, diventino così attenti all’etica per quanto riguarda i bambini del futuro. Dobbiamo notare che questi ultimi, a fronte di un debito sempre rinnovato e mai rimborsabile, che non costituirà per loro alcun problema, godranno di un corrispondente elevato benessere di uno Stato sociale sostenuto da quel debito. La risposta, allora, va ricercata ancora nella relazione fra sovranità e credito/ debito: il debito pubblico serve al capitale finanziario mondiale per sostenerne il saggio di profitto, ma perché ciò accada la sovranità sul debito medesimo deve essere sottratta al “politico” per essere affidata ai creditori medesimi, i quali valuteranno quando e come gli interessi e il rimborso dei debiti debbano essere fatti al solo fine di massimizzare i loro profitti. Quanto infine alla contemporaneità, la nostra analisi si sviluppa in forma di “decalogo” critico (nella III parte) delle principali tesi e tecniche di governo totale dell’ideologia neo-ordoliberale, oggi dominante in maniera pervasiva in tutto il mondo e specialmente nell’Unione Europea. o ok o Q u es t Eb e a pp a r tie n a r ap pa rti en Sovranità, credito e mercato bo ok XXXIV Q ue st o E- Al di là degli aspetti dottrinali di tale ideologia, abbiamo sottolineato specialmente la sua specifica natura di un pensiero che però è soprattutto azione politica militante, che si è estrinsecata attraverso organizzazioni multiple dedite alla costruzione politica di una società che realizza la vera “gabbia d’acciaio” in senso weberiano e porta a compimento la profezia di Benjamin del “capitalismo come religione”. La sovranità sul credito e la moneta è il “millenario” campo di battaglia (esteso fra i poli dell’alleanza e del conflitto) fra la casta più o meno “sacerdotale” dei capitalisti finanziari (che per Braudel non hanno nulla a che vedere né con il mercato di scambio né con l’imprenditore schumpeteriano, ma sono una casta definita dal loro “potere” nella gerarchia sociale) e le istituzioni politiche e sociali che si sono formate ed avvicendate nella storia, dal regime antico allo Stato moderno, a sua volta prima assolutista e poi, infine, democratico-liberale, per il “comando” sulle vite (per Marx, che da post-hegeliano conosce le sottigliezze teologiche ma anche la “critica”, il denaro è l’astrazione universale che comanda il lavoro, ovvero le vite, e tramite ciò si rivela l’alchemico mistero della sua “cattiva infinità”). Giusto per esemplificare, la distinzione fra moneta-credito e moneta-merce nella paradigmatica contesa fra Keynes e Hayek, come la distinzione fra “regole” e “discrezionalità” nella condotta della politica monetaria, oppure ancora la differenza nelle teorie dell’interesse in Keynes o in Sraffa o nell’economia mainstream, sono elementi della moderna teoria monetaria che possono essere letti alla luce del paradigma teologico-monetario e della dialettica nella triade sovranità, credito e mercato. Avvertenze Nelle citazioni da opere “classiche”, o ritenute tali, si è, generalmente, indicato l’anno della prima edizione (p.e., Smith 1776). Tuttavia, le citazioni e i rinvii all’opera (in questo caso, alla Ricchezza delle nazioni) sono da un’edizione o da una traduzione successive al 1776, così come indicato precisamente in bibliografia. Tale regola è stata seguita, quando possibile e quando opportuno, per richiamare (quasi) immediatamente autore, opera, epoca. Introduzione XXXV Per le opere citate più spesso si è preferito fornire, a seguito della pagina, l’indicazione di capitolo e paragrafo, per permettere di rintracciare facilmente il passo in questione in una delle diverse edizioni dell’opera. Un esempio, forse, chiarisce meglio quanto appena detto: Arendt (1958, 256, III, n. 20) rinvia al libro di Hannah Arendt pubblicato in edizione originale nel 1958, 256 è la pagina dell’edizione italiana indicata in bibliografia e per III, n. 20 si intende il cap. III e la nota 20; in casi più semplici, tipo: Arendt (1958, 63-4, III.14) il III.14 significa cap. III, paragrafo 14. Tuttavia, non sempre è stato possibile fornire indicazioni così precise, per consentire al lettore di rintracciare il brano citato in originale o tradotto. Spesso, dai testi in lingue straniere, siamo ricorsi a nostre traduzioni (ciò vale specialmente per quelle opere che non hanno avuto traduzioni nella nostra lingua, o non è stato possibile rintracciarle facilmente). In bibliografia gli “a cura di” sono stati sostituiti dalle equivalenti abbreviazioni inglesi di ed. o eds. (rispettivamente al singolare o al plurale) solo per fornire una sigla più sintetica. Un’altra precisazione, più concettuale, riguarda le due “famiglie” neoliberali, quella del neoliberalismo, austro-americano (Hayek – scuola di Chicago, per intenderci), e quella dell’ordoliberalismo germanico, forgiato essenzialmente dalla cosiddetta scuola di Friburgo. Come vedremo le due scuole hanno “anime” diverse, ragioni teoriche distinte su alcuni punti, ma forti elementi di convergenza sulle prassi politiche e di politiche economiche, di propaganda (che gli aderenti chiamerebbero “educazione”). Per questo abbiamo usato due neologismi: più spesso quello di neo-ordoliberalismo, per sottolinearne, dove necessario, presupposti e intenti comuni, quella di neo-ordo-liberalismo, quando era necessario sottolineare una lieve sfumatura, al fine di avvertire dell’esistenza di modi diversi con i quali ognuno dei due filoni tratta una questione specifica, pur senza andare a rimettere in discussione la comune visione di fondo. Va poi da sé che quando le due scuole di pensiero e azione hanno seguito impostazioni divergenti lo abbiamo espresso facendo riferimento alle loro denominazioni originarie e al fine di rimarcare meglio i punti di attrito (nei par. 15.4 e 15.5 si trovano, comunque, le “definizioni” più stringenti, per chi fosse impaziente di conoscerle fin da ora). to Ques pa E b o o k ap Q u es t o Eb o ok ap pa r ti en e a ro ffi sim on Qu es to E -bo ok a Parte I La categoria del moderno e le sue implicazioni economiche e sociali E-boo o t s e Qu Capitolo 1 ANTICO E MODERNO: PUNTI DI ROTTURA, PONTI DI PASSAGGIO 1.1. Alla ricerca del tempo moderno nel momento in cui avevo riconosciuto inconsapevolmente il sapore della piccola madeleine, poiché, in quel momento, l’essere che ero stato, era un essere extratemporale, e dunque incurante delle vicissitudini dell’avvenire. (Proust 1990, 2319) È giunto il momento di invitare ciascuno a realizzare il proprio destino. Il progresso della ragione umana ha posto le basi per questa grande rivoluzione, e ora assumerete il particolare compito di accelerarne il ritmo. (Robespierre, Discorso sulla Costituzione, 10 maggio 1793) Tutto questo, e ciò ch’era stato e ciò che seguì, si svolse in un tal viluppo di rapidità, che passato, presente e futuro parvero un attimo solo. (Melville 1992, 299) Modernità è un concetto temporale di una semplicità un po’ troppo misera e vaga, e col suo uso spesso disinvolto, si rischierebbe di squalificarne il senso, se non fosse anche un argomento estremamente ricco di sfaccettature, allusivo e denso di problemi, necessario per definire quel che di nuovo si è imposto in sostituzione di quello che invece non è più. Cosa sia il “nuovo” resta comunque indefinito, come indefinito rimane il pre-moderno. Non poteva essere altrimenti, visto che il cambiamento a cui si allude pone già grossi problemi per la (quasi) totalità delle scienze umane che pure ne fanno un uso quasi quotidiano. In sociologia, modernità è il mutamento sociale avvenuto dopo la Rivoluzione industriale e dopo la Rivoluzione francese. E almeno questa definizione è già qualcosa, anche se i due fenomeni non coincidono né nello spazio né nei tempi. Ma anche a tal riguardo, la soglia iniziale della modernità si sposta, all’indietro o in avanti, a seconda dei fenomeni a cui si intende dar rilievo. Si pensi alle questioni dello sviluppo economico, Que st Parte I - La categoria del moderno 4 off is e a r n ar tie p ka p oo e s to E -b Qu della transizione demografica, dell’urbanizzazione, della divisione e organizzazione del lavoro, delle condizioni di vita e della differenziazione e stratificazione sociale in base al reddito, oppure si considerino i cambiamenti delle strutture familiari, della formazione dello Stato (appunto) moderno, della burocrazia e della fiscalità che lo contraddistinguono, delle istituzioni e degli ordinamenti giuridici che lo regolano e regolano la vita sociale, infine ma non da ultimo, delle basi etiche della società, delle credenze e via dicendo. Ma c’è di più: non bisogna dimenticare che l’asincronismo negli eventi e nei fattori di cambiamento considerati, ma anche le varie difficoltà nell’identificare i punti di svolta, hanno indotto a porre maggiore attenzione alle tendenze di fondo, cioè alla continuità piuttosto che alle discontinuità. Nelle scienze economiche, nelle quali la critica allo storicismo (p.e. con Menger, vedi par. 5.2) ha fatto breccia, la modernità ha trovato un terreno fertile nella destoricizzazione delle categorie fondamentali, tipo “economia di mercato”, capitalismo e altre ancora, che vengono narrate come eterne invarianti. Tutto ciò ha condotto anche ad abbandonare riferimenti a quei concetti socio-economici che venivano ritenuti troppo complessi per la loro intrinseca valenza olistica e organicistica, dando, invece, valore alla stretta oggettività empirica, quasi narrativa, o sofisticatamente narrativa, con l’ausilio di strumenti analitici raffinati, semplificando talora quello che un tempo era detto “senso storico”. Un esempio di questo dualismo interpretativo rispetto all’avvento del moderno nella storia è la stessa Rivoluzione industriale, a seconda che sia considerata, alternativamente, come momento di cambiamento radicale e profondo nel sistema economico, nei modi di produzione e di distribuzione del reddito, oppure come appartenente a un contesto più ampio di sviluppo economico di lungo periodo; in quest’ultimo caso, le categorie, per esempio, di feudalesimo (o società post-feudale) e capitalismo sono rimpiazzate da un più anodino termine “pre-industriale” e tutto il cambiamento è riportato nell’ambito di concetti-misura, del tipo prodotto interno lordo, reddito et similia. Nelle altre scienze umane la distinzione tra epoche storiche svolge ancora un valore euristico fondamentale. E la stessa modernità, e la modernizzazione, intesa come processo, mirano a segnare una linea di separazione per distinguere territori diversi, al di là im 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 5 Que st della distinzione fra gradualità o rottura, fra continuità o cambiamento, che contraddistinguono il passaggio dall’uno all’altro. In altri termini, non si tratta solo di un problema di cambiamenti nella misura quantitativa di certe grandezze socio-economiche, ma della sostanza di una società che, nel suo insieme, cambia. Un sistema economico si caratterizza per uno specifico modo di organizzare le attività produttive, l’utilizzo delle risorse, la distribuzione del reddito e dei prodotti, le relazioni tra soggetti e funzioni che cambiano per intensità ma anche per intervento di un insieme di categorie e strutture istituzionali che interagiscono tra loro e col mondo della produzione e della circolazione dei beni. Il cambiamento complessivo, generato dalle interazioni anche dei livelli istituzionali, disegna un nuovo sistema economico con le sue complessità, i suoi equilibri e le sue dinamiche che lo differenziano sostanzialmente rispetto ad un altro. Ad esempio, un serio problema interpretativo si pone nel passaggio tra feudalesimo e capitalismo e non si può pensare che possano essere stati solo i brandelli di mercato, che sono presenti anche in società arcaiche, ad essere stati i responsabili del traghettamento verso un’intera società fondata sull’economia di mercato, su nuove regole di governo economico che disciplinano il mondo e le persone. Schumpeter afferma che l’economia si occupa essenzialmente di processi che hanno una loro coerenza e unitarietà «nel tempo storico». Ciò dà un senso evolutivo a categorie e concetti economici che, per Schumpeter, riflettono, «inevitabilmente, anche fatti istituzionali», cioè non strettamente economici (Schumpeter 1954, 16 [II, 1]). Schumpeter non crede a un corso della storia segnato da fratture, sebbene non accetti di abbandonare concetti densi di complesse relazioni di sistema, come quello della «struttura economica e sociale del medioevo» che dovrebbe rimanere distinto rispetto a quello del capitalismo o dei sistemi a economia pianificata1. Egli è molto severo nei confronti di rotture o E-bo ok app a r t i e ne a Su posizioni analoghe anche il noto e “classico” saggio di Gerschenkron, il cui suggerimento era comunque di «meglio individuare le specifiche strutture continue e discontinue» dei processi storici e, in particolare, del processo di industrializzazione, per interpretare «l’espansione economica come un insieme di modificazioni intelligibili del saggio di sviluppo, che si verificano modo paulatim, modo saltatim [poco a poco e in modo discontinuo]» ed evitare, così, diatribe tra 1 ro ffis i m o ne .20 6 Parte I - La categoria del moderno nette nei processi storici. Respinge, ad esempio, senza mezzi termini, l’interpretazione weberiana della nascita del capitalismo, secondo lui, Weber avrebbe erroneamente costruito «un problema completamente immaginario», quello di una società «puramente feudale» e di una «puramente capitalistica», per risolvere il passaggio dall’una all’altra con un semplice cambiamento di attitudine verso la vita, cioè attraverso la produzione di uno spirito congeniale all’attività capitalistica che trasforma «un individuo limitato dalla tradizione in un solerte cacciatore di profitto» (Schumpeter 1946). Secondo Schumpeter, i cambiamenti in questione hanno riguardato istituzioni, e relazioni tra livelli istituzionali, che influiscono sulle strutture economiche e permettono a queste di funzionare meglio o peggio, in modo più o meno resistente rispetto agli shock di natura interna o esterna; inoltre, le istituzioni proteggono o svantaggiano nuovi o vecchi attori, gruppi o classi sociali. Il problema dei cambiamenti storici è complesso e analogo a quello del geografo meticoloso che deve stabilire la scala adatta per tracciare la riva del mare avendo in mente il monito del poeta messicano José Gorostiza: «No es agua ni arena la orilla del mar» (non è acqua né sabbia la riva del mare). A proposito di geografia, il moderno è però, per analogia, anche l’Occidente rispetto a tutto il resto. Max Weber nelle osservazioni preliminari alla sua monumentale Sociologia delle religioni affronta appunto la questione seguente: «per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui, si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali – almeno come ci piace raffigurarceli – si sono trovati in una direttrice di sviluppo di significato e di validità universali?». Il riferimento è allo sviluppo della scienza, con le sue basi matematiche e sperimentali, dell’arte, dello Stato e dell’economia, che si manifesta attraverso la razionalizzazione dell’«istinto del profitto» e della «sete di guadagno», dell’aspettativa di guadagno «sfruttando […] delle oo ues t o E-b Q «opposte schiere di coloro che amano e di coloro che detestano le rivoluzioni, i quali dovrebbero cercarsi il loro terreno di giuoco e il loro campo di battaglia fuori dal recinto della ricerca seria» (1976, 31). Ma è davvero possibile, nelle scienze sociali, trovare un terreno così del tutto asettico e privo degli influssi di quella «visione» che Schumpeter definisce «atto conoscitivo preanalitico» (1954, 52 [4, (d)])? 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 7 occasioni di lucro (formalmente) pacifiche», con calcolo contabile razionale e un’«organizzazione razionale capitalistica del lavoro (formalmente) libero», e, in definitiva, «in tutti questi casi ci troviamo di fronte ad una forma specifica di razionalizzazione che è propria della cultura occidentale» (Weber 1920, vol. I, 99, 102-3, 106 e 111). Dunque razionalità e Occidente, e già qui si individuano rotture che hanno una geografia e devono avere un tempo. 1.2. Antico e moderno: l’individuo e la libertà si lamentava della semplicità severa e franca con cui le affermavo che tutti quegli ultra-liberali erano certo rispettabilissimi per le loro virtù, ma incapaci di capire che due e due fanno quattro. (Stendhal 1944, 49) Dubito che l’uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa e una totale libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda. (Tocqueville, cit. in Zagrebelsky 2008, 146) Non si deve confondere società e governo. La società è prodotta dai nostri bisogni, mentre il governo è prodotto dalle nostre debolezze. […] La società incoraggia la relazione, il governo crea delle differenze. La società è un patrono, il governo è ciò che punisce. In ogni circostanza, la società è una benedizione. Il governo non è altro, nei casi migliori, che un male necessario, mentre in quelli peggiori è intollerabile. (Paine 1793, 165) Le dimensioni della modernità sono tali e tante che nel 1819 Benjamin Constant tenne una conferenza dal titolo incisivo per declinare lo stesso concetto di libertà in antico e moderno (Constant 1819; e Berlin 1969)2. Una dicotomia concettuale, quella che distingue nettamente la libertà in due categorie, la libertà degli “antichi” e quella dei “moderni”, che è ancora oggi al centro della riflessione della filosofia politica sui sistemi politici e sul liberalismo. Come dice Bobbio (1978), di queste due libertà, la prima corrisponde alla Qu est oE -bo Su antichi e moderni la “querelle” risaliva molto più indietro, nella Repubblica delle Lettere, ma si trascinò molto a lungo, fino agli inizi del XIX secolo; cfr. Fumaroli (2005) e Iacono (2019). 2 ok ap Parte I - La categoria del moderno 8 definizione corrente di libertà negativa, la seconda corrisponde alla definizione altrettanto corrente di libertà positiva3. La prima è un bene per l’individuo nel contesto di una concezione individualisti- 3 Secondo Bobbio (1978), posto che esistano nel linguaggio politico due forme di libertà generalmente note come “negativa” e “positiva”, la “libertà negativa” si definisce come la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di agire senza essere impedito, o di non agire senza essere costretto, da altri soggetti. La definizione di “libertà negativa” può essere ulteriormente qualificata distinguendola in due sotto-casi, ovvero in “libertà come assenza d’impedimento” – dove per impedire s’intende il non permettere ad altri di fare alcunché – e in “libertà come assenza di costrizione” – dove per costringere s’intende l’obbligare altri a fare alcunché. Se vista in riferimento al soggetto di cui è il predicato, la libertà negativa è una qualifica dell’azione (cioè una certa mia azione non è ostacolata, si ha la libertà di agire). Ancora Bobbio illustra l’origine del concetto a partire dall’uso fattone da alcuni fondatori, quali Hobbes, Locke e Montesquieu. Per Hobbes, in De cive, questa libertà si manifesta su infinite attività laddove su esse vi sia silenzio della legge: «vi saranno necessariamente infinite attività che non risulteranno né comandate né proibite, e che ciascuno potrà svolgere o non svolgere a suo arbitrio. Qui si può dire che ogni cittadino goda di una certa libertà, intendendo per libertà quella parte del diritto naturale che viene rilasciata ai cittadini in quanto non è limitata dalle leggi civili» (Hobbes 1948, XIII, 15). Locke mantiene la definizione hobbesiana: «la libertà degli uomini sotto un governo consiste […] nella libertà di seguire la mia propria volontà in tutto ciò in cui la norma non dà precetti, senza esser soggetto alla volontà incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un altro» (Locke 1690, IV, 22). Infine, Montesquieu ne formula la definizione più nota e più classica: «La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono» (nel suo De l’esprit des lois, 1748, XII, 2). Per concludere, Bobbio rileva anche che talvolta la libertà negativa è chiamata come il suo sotto-caso di “libertà come non impedimento” perché, in genere, tutte le libertà civili rappresentano il risultato di una lotta contro precedenti impedimenti piuttosto che contro precedenti costrizioni. La libertà positiva si definisce, invece, come la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di prendere delle decisioni, senza essere determinato dal volere altrui, ovvero di autodeterminarsi. Se vista in riferimento al soggetto di cui è il predicato, la libertà positiva è una qualifica della volontà (cioè il mio volere è libero, ho la libertà di volere). Così la intende, per esempio Rousseau, quando l’uomo, in quanto parte del corpo politico omogeneo ovvero dell’“io comune”, non ubbidisce ad altre leggi se non a quelle che si è dato: «L’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la libertà» (nel Contratto sociale, 1762, I, 8). Tale concetto di libertà fu ripreso, per influsso diretto di Rousseau, da Kant, dove peraltro si trova anche il concetto di libertà negativa. Infine, mentre le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo (art. 4 della Dichiarazione del 1789, art. 5 della Dichiarazione del 1793), definiscono la libertà giuridica come «come la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno», Kant (1994, II, 46) esclude tale definizione, preferendo quella di «facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a cui i cittadini hanno dato il loro consenso». Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne ar off isi mo ne .20 00 @ gm ail .c 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 9 ca della società, la seconda è un bene per l’individuo in un contesto in cui esso si sente membro di una collettività (società) che deve prendere decisioni. Constant collega ciascuna tipologia di libertà ad una differente epoca storica e, quindi, a un differente sistema politico – la libertà positiva “all’antichità” delle città-stato (polis) e quella positiva alla modernità e agli Stati moderni – scrivendo: «Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era questo ciò che chiamavano libertà. Il fine dei moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti» (Constant 1819, 55). Il “discorso” di Constant, divenuto uno dei testi fondativi del liberalismo, definiva la libertà degli antichi quella «fatta della partecipazione attiva e costante al potere collettivo», mentre quella dei moderni, ossia quella che «ci è propria», soltanto «fatta del godimento pacifico dell’indipendenza privata». Quella degli antichi era perciò una società ristretta, nella quale gli uomini liberi partecipavano attivamente e costantemente all’esercizio di un potere collettivo. La società moderna vede la mobilità degli individui e delle masse, che entrano anche in conflitto per godere dei «progressi della civiltà», resi disponibili dalla scala degli scambi commerciali e dalle occasioni d’accesso ai «mezzi della felicità dei singoli». Venute meno quelle condizioni e «[p]erso nella moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi propri occhi la sua cooperazione». L’inattaccabilità della sfera privata definisce la libertà in senso negativo, e la libertà individuale è l’autentica libertà dei moderni. Si tratta perciò di delimitare il potere, il perimetro dello Stato, che può generare conflitto o meglio oppressione, prevaricazione nei confronti dei privati, i quali si trovano in costante posizione di difesa per limitare e sorvegliare le prerogative dell’autorità statale. La società civile per i liberali è di per sé armonica, non vive di conflitti, è pacificata, perché i conflitti si risolvono nella libertà di incontro tra interessi che trovano mediazione nei contratti d’affari. La critica di Carl Schmitt al liberalismo riguarda proprio la presupposta armonia che la società liberale persegue e ritiene di ottenere. Per Schmitt il liberalismo è fondamentalmente la «negazione del “politico”» che, in quanto «contenuta in ogni individualismo conseguente, conduce bensì ad una prassi politica della sfiducia nei ne o isim e en i t r a oo pp a k Qu es -b E to ff o r a @ 00 .20 10 Parte I - La categoria del moderno confronti di tutte le forze politiche e le forme di Stato pensabili» (Schmitt 1932, 156). La protezione della libertà individuale e della proprietà privata si realizza, paradossalmente, attraverso la sfiducia totale nella politica e nelle istituzioni della politica, dello Stato in primo luogo, in nome del dominio dell’economia. Quest’ultima, in particolare, è la sfera autonoma che ha norme proprie e dispositivi, come il mercato, per fissazione dei prezzi, distribuzione del reddito e allocazione delle risorse senza dover rispondere ad altri criteri se non ai propri. L’economia «è diventata qualcosa di “politico”», con «strumenti economici di potere» (Schmitt 1932, 156 e 164). Aggiunge ancora Schmitt (1932, 159): «Che produzione e consumo, formazione del prezzo e mercato avessero una loro propria sfera e non potessero essere diretti né dall’etica, né dall’estetica, né dalla religione né, meno che mai, dalla politica, era uno dei pochi dogmi realmente indiscutibili e indubitabili dell’epoca liberale». La libertà degli antichi si confondeva col loro concetto di sovranità. uesto E-book appartiene a roffisim Q Così tra gli antichi - afferma Constant (1819, 39) -, l’individuo, sovrano pressoché abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino, decide della pace e della guerra; come singolo, è limitato, osservato, represso in ogni suo movimento; come parte del corpo collettivo, inquisisce, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottomesso al corpo collettivo, può a sua volta esser privato della sua condizione, spogliato delle sue dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme di cui fa parte. Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza. L’unicità e l’indivisibilità della sovranità si esprimevano, per gli antichi, in un potere quasi totalizzante. La libertà dei moderni, ovvero quella dei privati come la intendeva Constant, era quella che Rousseau riteneva illusoria, apparente, circoscritta alle occasioni di voto nelle quali il popolo esprimeva la volontà generale: «Il popolo inglese crede di essere libero; si sbaglia di grosso, lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena questi sono eletti, diventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere» (Rousseau 1762, 322 [III, 15]). Il bersaglio polemico di Constant era rappresentato da Mably. L’abate Gabriel Bonnot de Mably, filosofo e fratello di (Étienne Bonnot de) Condillac, era propugnatore 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 11 della sovranità della legge, critico dell’armonia che i fisiocratici vedevano dipendere dagli interessi e dalla proprietà fondiaria, e non dalla proprietà comune, intesa nel senso di collettività di corpo sociale; cosa interessante, Mably era difeso principalmente da conservatori e reazionari, ma accolto anche dallo stesso pensiero rivoluzionario, che da lui aveva tratto i valori della patria comune, delle virtù soggiogatrici delle passioni, quali fondamenti dell’unità repubblicana (Harpaz 1954 e 1955; e Guerrier 1886, 48-51). 1.3. Vita activa tra antico e moderno Eppure, quando si agisce bisogna pur fidarsi di qualcuno! (Stendhal 1990, 378, II, 21). Q ue st Non appena l’uomo riuscì ad avere tanti schiavi insieme, come le bestie nel gregge, furono poste le basi dello Stato e della detenzione del potere. (Canetti 1989, 465) o E- È tipico per questa distinzione fra possesso e proprietà che vi fossero città greche in cui i cittadini avevano l’obbligo giuridico di dividere i raccolti e di mangiare in comune, ma che nelle stesse città ognuno di loro conservasse l’indiscusso diritto di proprietà sul proprio terreno. (Arendt 1958, 247) bo ok ap pa rti Un interessante modo di affrontare le questioni della modernità è proposto da Arendt (1958) attraverso un tentativo, forse ancora ineguagliato, di ricomporre la molteplicità di dimensioni del mondo moderno dentro un quadro complessivo di sviluppo storico materiale e di storia della politica e dell’ethos sociale4. Il concetto chiave è quello di vita activa, cioè la traduzione nel pensiero medievale, ma già presente in Agostino, dell’aristotelico bios politikos. La vita activa assume tre forme permanenti di attività che interagiscono tra loro, ma secondo una gerarchia variabile che si stabilisce ed evolve nel tempo. Le forme per così dire en e a ro ffi si m on e. 20 00 @ gm Il libro uscì nel 1958 col titolo The human condition (Chicago, University of Chicago Press). L’edizione italiana a cui si fa riferimento (Arendt 2006) modifica il titolo originario così come era avvenuto nell’edizione tedesca del 1960 (Vita activa order vom tätigen Leben) e come è in quello del § 1: “Vita activa e la condizione umana” (elidendo la congiunzione). Come termine di confronto si è tenuto presente la II ed. (Chicago-London, University of Chicago Press, 1998). 4 ai l.c om 12 Parte I - La categoria del moderno elementari sono: lavoro, opera e azione (rispettivamente: labour, work e action). Si tratta, ad un tempo, di attività concrete, perché interessano il modo in cui gli uomini si rapportano col mondo, e anche di visioni etiche, perché mettono in relazione gli uomini tra di loro. Il valore, di fatto e per costume, assegnato a ciascuna di queste componenti della vita activa connota un ordinamento che, secondo Arendt, varia ed evolve lungo quattro grandi epoche del mondo occidentale: l’antichità, il mondo cristiano, che va all’incirca dal V fino al XVII secolo circa, il mondo moderno, che prende forma dopo la metà del XVII secolo e, infine, l’età contemporanea, che inizia dopo la prima guerra mondiale ed è una propaggine della precedente, della quale, però, porta alle estreme conseguenze quanto già venuto a maturazione, specialmente in ambito tecnologico e di organizzazione del lavoro a causa del crescente predominio delle tecniche. Arendt mette in piedi una griglia analitica complessa nella quale le forme della vita activa sono inserite e cambiano lungo direttrici specifiche (v. tav. 1). Oltre alle suddette tre distinzioni dell’attività umana, ella prende in considerazione altre differenze che consentono una definizione dei concetti attraverso una lente multidimensionale caratterizzata dalle dimensioni di i) potere, violenza e forza, ii) libertà, proprietà e ricchezza, iii) terra e mondo di lavoro, iv) contemplazione e ozio, v) ruolo occupato dalla scienza. A quest’ultimo riguardo, Arendt introduce il “punto di Archimede”, espressione ripresa da una frase di Kafka5, per indicare che il punto di leva viene posto finalmente fuori dall’uomo: è a partire da questo “punto” che si apre la strada alla rivoluzione di paradigma scientifico e filosofico. Il cannocchiale di Galileo costituisce lo strumento e l’invenzione fondamentale attraverso la quale superare la centralità del mondo umano e la credulità indotta dai molteplici trompe l’oeil che, senza l’esperimento, celavano la realtà sotto una velatura opacizzante (Arendt 1958, 190 e ss., 36). Tutte queste categorie sono calate nel rispettivo tempo storico e danno senso alle genealogie filosofiche ed etimologiche, e alle tensioni evolutive che Questo E-boo 5 La frase è in esergo del cap. VI in Arendt (1958, 183): «Ha trovato il punto di Archimede, ma se ne è servito contro se stesso; evidentemente gli è stato possibile trovarlo solo a questa condizione». 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 13 le modificano e le trasformano per consegnarle alle epoche successive, nelle quali non solo cambiano di significato e di rango, ma acquistano anche ruoli e funzioni diverse finendo per rompere una tradizione ed instaurare una società diversa. Sono categorie propriamente storiche perché spiegano le epoche della storia. Tav. 1 - Caratteristiche della vita activa in Arendt. Lavoro (labour) Opera (work) Finalità sussistenza riproduzione della vita sussistenza creazione di opere Regime di libertà schiavitù Prodotto beni di prima necessità consumi caduchi relativa autonomia dell’artigiano Stile di vita Azione (action) l’azione è finalizzata in sé – politica. Vivere bene libertà beni che restano consumi durevoli beni pubblici istituzioni animal laborans homo faber Sfera di attività privata privata mercato cives, bios politicos vita contemplativa Nel “tempo libero” consuma Credenze «ha sempre chiesto di essere felice» consuma e idea attrezzi e macchine «gioie del lavoro» e della tecnica pubblica istituzioni agisce e parla contempla, prega onore e virtù La tav. 1 merita qualche primo breve commento, anche anticipando aspetti ripresi successivamente. Lo scopo principale per il quale l’abbiamo costruita è quello di sintetizzare le caratteristiche essenziali delle tre forme di attività: i) finalità, ii) regime prevalente di libertà d’azione, iii) beni prodotti, iv) stile di vita, cioè di quell’insieme di scelte e atti che definiscono il comportamento e l’immagine sociale, v) sfera di attività, vi) le inclinazioni prevalenti nell’uso del tempo “libero” e vii) il profilo etico, le credenze e le convenzioni. Se per quanto riguarda l’animal laborans il lavoro lo conduce a una vita obbligata e sottoposta alle necessità primarie, del tutto «simile a quella del gregge» (Arendt 1958, 115, IV.22), per l’homo faber l’opera, il proprio lavoro, fornisce la dignità e l’orgoglio di poterlo eseguire in una certa autonomia e consapevolezza di mezzi per fini concreti, materiali, a cui è rivolto lo Qu Parte I - La categoria del moderno 14 sforzo lavorativo. Egli è perciò un creatore di strumenti, rivolti essenzialmente ad alleviare le fatiche dell’animal laborans (Arendt 1958, 103, IV.20). L’homo faber è un “reificatore”: è «creatore del mondo dell’artificio umano» (Arendt 1958, 99, IV.19). L’attività dell’azione, invece, è finalizzata in sé (Arendt 1958, 112, IV.21 e 173, V.32). Non rientra nella strumentalità mezzi-fini; genera la sfera pubblica, che dà possibilità e protezione alle sfere private. La sfera “pubblica” dell’homo faber è uno spazio mercantile, nel quale esibire e vendere le proprie produzioni ed entrare in relazione con gli altri «attraverso lo scambio dei rispettivi prodotti» (Arendt 1958, 115, IV.22). L’homo faber – la cui sfera pubblica è perciò il mercato – è la radice dell’uomo borghese che usa «metri, misure, regole e criteri» e mal sopporta la «perdita della misura “assoluta”» in conseguenza del processo di secolarizzazione (Arendt 1958, 119, IV.22). Sui contenuti dell’ultima riga della nostra tavola – le credenze – Arendt non si pronuncia espressamente. Tuttavia, ci dice che l’animal laborans oppresso dal lavoro aspira alla felicità, che cerca nell’abbondanza di beni di consumo; che l’homo faber prova le «gioie del lavoro» (Arendt 1958, 100, IV.19); che l’uomo d’azione, infine, crea un teatro che è quello della res publica e delle istituzioni, nel quale coltiva il «vivere bene», con virtù e onore (Arendt 1958, 139, V.26). In tutte le figure dell’attività, il termine di confronto paradigmatico è sempre quello con l’antichità e l’allontanamento progressivo da essa. Arendt rivolge la sua attenzione principalmente alle credenze etiche, come in Weber, ma con un ancoraggio costante in ben definiti sistemi economici e sociali di vita activa. In essi, le attività si stratificano sull’organizzazione e riorganizzazione del lavoro rivolto alla sussistenza e si realizzano in opere che elevano architetture “superiori”, dei cui spazi poi usufruisce anche l’azione che si dispiega in attività politiche e di vita civile. In tutto ciò traspare una critica alla filosofia politica tradizionale, solitamente distaccata dalla dimensione economica e sociale delle attività umane e dalla loro storicità. «Il mondo in cui si svolge la vita activa – afferma Arendt – consiste di cose prodotte dalle attività umane; ma proprio le cose che devono la loro esistenza solo agli uomini condizionano costantemente i loro artefici» (Arendt 1958, 8, I.1). Qu es to 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 15 E ancora più incisivamente nel passo seguente: «non le idee ma gli eventi cambiano il mondo» (Arendt 1958, 202, VI.37). Già da questo passo si comprendono i frequenti riferimenti a Marx, sia pure per criticarlo su alcuni aspetti riguardanti specialmente le conseguenze della modernità; in ogni modo, Marx e Weber, la cui presenza resta però molto più in ombra, sono, per Arendt, termini di riferimento imprescindibili. 1.4. Lavoro senza libertà l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. (Marx 1973, 72 [XXII]) Si ritiene che nel Medioevo nessuno lavorasse più che metà dei giorni dell’anno. I giorni festivi ufficiali erano 141. (Arendt 1958, 262) Dapprima lottano i singoli operai, poi gli operai di una fabbrica e quindi gli operai di un dato ramo produttivo in un dato luogo. […] Prendono di mira non soltanto i rapporti borghesi di produzione, ma anche gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi i macchinari, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistare la tramontata posizione dell’operaio medievale. (Marx e Engels 1848, 17) Fin dal prologo, Arendt definisce l’obiettivo innovativo di riconsiderare la condizione umana «dal punto di vista privilegiato delle nostre esperienze attuali e delle nostre più recenti paure» (Arendt 1958, 5, con leggere varianti di traduzione). Le esperienze a cui si allude sono il primo lancio spaziale nel 1957, ipotetica via di fuga dalla condizione terrestre, e le paure dell’atomica e dei rischi di una tecnica che sfida i limiti naturali, con l’avvento delle prime forme di automazione e di liberazione dal lavoro, esperienze che hanno implicazioni dirette sulla vita activa come era intesa fino ad allora, prospettando un’autonomia della tecnica e dell’opera fuori dal controllo della politica (intesa alla maniera antica). Da un punto di vista economico, la distinzione fondamentale che Arendt sviluppa è tra lavoro e opera. L’opera è intesa come prodotto del lavoro, un lavoro di tipo artigianale, che nel termine inglese di work traspare meglio quale attività finalizza- Questo E-book appartiene a roffisimone.2000 Parte I - La categoria del moderno 16 ta a concretarsi in qualcosa che resta nel tempo, non soggetta a un consumo immediato. Questa forma di attività umana risulta sfuggente, specialmente se considerata in base alle classificazioni economiche o statistiche, ma serve ad Arendt – come vedremo meglio – per polemizzare con le teorie economiche sul tema del lavoro produttivo e improduttivo. In contabilità nazionale si distinguono i beni di consumo propriamente detti dai beni di consumo durevoli proprio in base al loro grado di caducità o di durata (ovviamente caduchi i primi, durevoli i secondi). L’“opera” in Arendt comprende questi ultimi, senza però distinguerli dai beni di investimento6. Arendt riprende dall’economia la distinzione tra valori d’uso e valori di scambio (Arendt 1958, 117, IV.22), ma la sua finalità è sempre rivolta alla comprensione dell’azione politica. E la distinzione tra lavoro e opera è in questo fondamentale per afferrare le gerarchie interne alla definizione storica della vita activa. Quindi, detto in soldoni, le “opere” sono i prodotti durevoli creati dal lavoro “artigianale” dell’uomo. Il lavoro propriamente detto, invece, non produce nulla che resti, ma fornisce solo ciò che è connesso con il mantenimento della vita puramente “animale” dell’uomo. Oggi, col trionfo completo dell’animal laborans e del consumo-spreco e con la sua correlata esibizione nel corso delle celebrazioni della società dello spettacolo (ricordiamo i famosi quindici minuti di celebrità che non si negano a nessun animal laborans, secondo Andy Warhol), resta persino difficile concepire come solo poco tempo fa l’animal laborans fosse considerato una nullità sul piano della sua esistenza “storica”. Balzac, nel 1830, distinguendo nella civiltà moderna tre categorie di esseri umani – l’uomo che lavora, l’uomo che pensa, l’uomo che non fa niente – poteva in tutta tranquillità dire del primo (che è non dissimile dall’animal laborans della tripartizione arendtiana delle attività umane): Qu es egli diventa un mezzo [… gli] operai sono soltanto una sorta di argani e restano confusi con le carriole, le pale, i picconi […] non hanno nulla di to E-b oo ka pp 6 Ma in Arendt non si fa mai riferimento a un’attività di investimento, mentre si parla di accumulazione e di capitale. Compare una sola volta il termine “investor” e una “invested”, ma Arendt li riprende dallo storico W. J. Ashley. art ien ea rof fisi mo ne Ques to 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 17 individuale. L’uomo-strumento è una specie di zero sociale […] un coltivatore, un muratore, un soldato, sono i frammenti uniformi di una massa […] lo stesso utensile dal manico differente […] Il lavoro sembra essere per loro un enigma di cui cercano la chiave fino all’ultimo giorno […] la vita si risolve nel “pane dentro la madia” e l’eleganza in una cassapanca dove ci sono stracci (Balzac 1833, 18). La dimensione che è la sola a formare la libertà, è, per Arendt filosofa politica, l’azione, mentre, per il romanziere Balzac, sono l’eleganza e l’ozio, ma, in ogni caso, questa vita di qualità superiore sarà appannaggio solo di chi non sia né animal laborans né homo faber. Le occupazioni di lavoro sono alla base di ogni possibile sviluppo umano, sia per quelle che riguardano lo sviluppo biologico del corpo umano, sia per quelle che sono rivolte a superare la mera sussistenza in modo da non assorbire tutte le energie individuali e sociali nella soddisfazione dei bisogni elementari della vita. Il lavoro in senso stretto è ciò che non distingue l’uomo dall’animale, è impulso all’azione per una necessità biologica. Esiodo – ricorda Arendt – distingue tra i concetti di lavoro e opera (ponos e ergon). Il lavoro è la punizione di Zeus per le offese ricevute da Prometeo, ed esce dal vaso di Pandora per soggiogare gli uomini a una vita da schiavi. Da qui la visione negativa dei greci rispetto al lavoro e l’equiparazione del lavoro alla schiavitù della necessità. Ma, specialmente nel lavoro agricolo del proprietario fondiario, resta un fondo di libertà finché egli si occupa della cura della propria terra come base per l’azione politica. Nell’antichità, la schiavitù non era considerata un semplice espediente per ottenere lavoro a buon mercato e conseguire un profitto, quanto piuttosto un modo per escludere il lavoro dalle condizioni per la realizzazione della vita umana autentica (Arendt 1958, 60-1, III.11 e 254n.)7. Il lavoro è l’attività rivolta al mantenimento e alla ripro- Del seguente passo di Marx e Engels (2011, 359 [libro I, (1)]) Arendt condivide il nesso famiglia-schiavitù-proprietà privata ma non la finalità sociale: «la schiavitù nella famiglia è la prima proprietà, che d’altro canto, a questo livello, corrisponde già in modo perfetto alla definizione data dai moderni economisti, per cui essa risiede nel disporre di forza-lavoro di altri. D’altra parte, divisione del lavoro e proprietà privata sono interscambiabili: con la prima, si segnala in relazione all’at7 18 Parte I - La categoria del moderno duzione dell’esistenza umana, perché, come tale, il lavoro è una condizione di alienazione e di solitudine impolitica: La sola attività che corrisponde strettamente all’esperienza dell’estraneità dal mondo, o meglio alla perdita del mondo che occorre nel dolore, è il lavoro, in cui il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo con la natura senza mai trascendere il ciclo ricorrente del proprio funzionamento, liberandosi da esso […] cioè [dal]lo sforzo penoso che è richiesto dalla riproduzione della propria vita e della vita della specie (Arendt 1958, 81, III.15). Questo E-book appartiene a roffisi Lo stesso disprezzo gli antichi lo riserbavano anche al lavoro degli artigiani, assimilati a animal laborans, che non hanno necessariamente bisogno di altri, perché svolgono un’attività paragonabile a quella animale8, verso la quale solo nel medioevo i padri della chiesa e le comunità monastiche iniziano a guardare con maggior benevolenza per giungere con gli economisti classici a elevare il lavoro più umile e subordinato a lavoro produttivo, senza distinguerlo più dall’opera dell’homo faber (Arendt 1958, 18, II.4; 61-2, III.11). Tale distinzione – che è poi quella tra il “lavoro del nostro corpo” e “l’opera della nostre mani”, come si esprime Locke – è infatti andata del tutto perduta nell’età moderna (tranne forse in Locke medesimo, come vedremo), anche se magari ne resta visibile una traccia all’interno delle lingue europee, (p.e., labor/work, fatiguer-travailler/oeuvrer, arbeiten/werken, laborare/ facere-fabricari, ponein/ergazesthai) in cui il primo termine indicante il “lavoro” conserva, etimologicamente, il senso della penosità fisica9. Infatti, la distinzione fra i concetti di animal laborans e di tività precisamente ciò che con la seconda si segnala in relazione al frutto dell’attività». La differenza tra lavoro e opera in Arendt trova un qualche riscontro sempre in Marx e Engels quando parlano di «diversità tra i mezzi di produzione naturali e quelli prodotti dalla civiltà» (Marx e Engels 2011, 437 [libro I, B (3)]). 8 Anche Arendt riconosce esplicitamente che «l’uso della parola ‘animale’ nel concetto di animal laborans […] è pienamente giustificato. L’animal laborans non è che una, sia pure la più alta, delle specie animali che popolano la terra» (Arendt 1958, 61, II.5). 9 Basti pensare anche al dolore del parto che è chiamato “travaglio” e che, infatti, nel francese mantiene il doppio significato. 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 19 homo faber è del tutto assente nel bagaglio mentale/concettuale del moderno economista del lavoro. Invece questa dicotomia antropologico-filosofica del concetto di lavoro, prima dominante nell’epoca classico-antica e oggi tipicamente solo arendtiana, meriterebbe un approfondimento e una rivisitazione economica per la sua valenza tanto critica quanto illuminante rispetto alla nozione di lavoro usuale nella teoria economica (che include distinzioni come quella fra lavoro improduttivo e produttivo nella sua versione classica o quella fra lavoro specializzato, skilled, e non specializzato, unskilled, nella sua attuale versione mainstream, ma dove, comunque, permane, in entrambe le versioni, l’incapacità di cogliere quella dicotomia che ancora Locke riconosceva)10. Qu est 1.5. L’opera l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da come lo fa. (Pavese 1950, XVII) ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. [… L’uomo] realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua volontà. (Marx 1867, 216 [V, 1]) A rigore non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni. Difatti, sebbene piaccia chiamare opera d’arte anche ciò che producono le api […] ciò si fa soltanto per analogia; non appena ci accorgiamo che esse non fondano il loro lavoro Anche Arendt si domanda, infatti, come sia possibile il sorprendente fatto che, pur in presenza del rovesciamento dei valori delle attività umane portato avanti dall’età moderna, con l’attribuzione al lavoro sia della paternità di ogni valore (con l’economia politica classica) che del ruolo di strumento di glorificazione (vedi par. 4.1), quindi con la corrispondente collocazione dell’animal laborans alla posizione di testa, l’età moderna – e aggiungiamo noi, specialmente la teoria economica, la quale, nel quadro delle specializzazioni della scienza, anche al concetto di lavoro avrebbe dovuto dedicare una sua analisi – «non abbia prodotto una sola teoria in cui animal laborans e homo faber, “il lavoro del nostro corpo” e “l’opera delle nostre mani”, siano chiaramente distinti» (Arendt 1958, 62, II.5). 10 oE -bo o Parte I - La categoria del moderno 20 su una vera riflessione razionale, diciamo che si tratta di un prodotto della loro natura (dell’istinto), e in quanto arte lo attribuiamo soltanto al loro creatore. (Kant 1790, 283, §43) Arendt, a differenza appunto degli economisti, introduce il concetto di homo faber come colui che compie l’opera, l’artigiano, in primo luogo, e il tecnico moderno. Essi svolgono le proprie attività sulla base di un progetto da essi concepito o compreso. I greci diffidavano della mentalità degli artigiani per le stesse ragioni per le quali disprezzavano il lavoro schiacciato dai bisogni elementari. Quella degli artigiani era opera delle mani, che impediva loro di agire politicamente; sebbene vivessero nella polis, non avevano voce nelle decisioni pubbliche. La differenza tra “arti liberali” e “arti servili” non riguardava il più alto impiego di intelligenza delle prime rispetto alle seconde, bensì una distinzione tra «occupazioni che comportano la prudentia, la capacità di formulare giudizi oculati, che è la virtù dell’uomo di stato»11 e attività che, invece, ne sono prive. Solo alcune professioni erano considerate di rilievo pubblico, come quelle di architetti e medici, e, per i romani, godevano di tale rilievo anche gli agricoltori proprietari che condividevano il senso dell’amor di patria (Arendt 1958, 65, III.11 e 256n.). Altri mestieri, tipo quelli del falegname o dello scriba, senza considerare le attività di negozianti o commercianti, rientravano tra le attività “sordide”. La distinzione tra lavoro manuale e intellettuale risponde a criteri più moderni, e prevale da quando, dopo il medioevo, al lavoro sono riconosciute dignità e “utilità” sociali. Con l’avvento nella società mercantile moderna e, soprattutto, con l’ascesa della “setta” degli économistes cresce il Questo Va ricordato che la “prudenza” alla fine del ’700 diventa, con Smith, dall’essere in precedenza virtù specifica dell’uomo di stato, una caratteristica propria per la formulazione di giudizi “imparziali” dell’uomo borghese ed economico. Essa è, infatti, centrale nella Teoria dei sentimenti morali di Smith, che la considera un elemento importante della perfetta virtù (le altre essendo apprezzabilità morale, giustizia e benevolenza) ed è, in particolare, fra esse quella peculiare del soggetto economico, in quanto Smith riconduce alla prudenza tutte quelle qualità che consentono una cura appropriata dei propri interessi e delle proprie esigenze, ovvero quelle qualità che sono tradizionalmente definite virtù borghesi o commerciali, come l’economia, l’industriosità, la parsimonia (v. Viganò 2014). 11 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 21 discredito nei riguardi dei “lavori di concetto” e per le opere della penna e della carta, ovvero verso il lavoro intellettuale, a meno che non siano inserite in rapporti di subordinazione ad imprese dedite ad altro. Tutte le attività intellettuali suscitano dubbi, prevalentemente per la loro effettiva produttività in termini di prodotto fisico netto o, con Marx, di contributo all’estrazione di plusvalore12. L’homo faber ha però in Arendt una funzione distinta da quella attribuita all’artigiano dagli economisti. Si potrebbe assimilare l’“opera” (work), come la intende Arendt, a un’attività “imprenditoriale”. Arendt è tuttavia estremamente parca, per non dire “prudente” in senso antico, nell’uso del lessico economico e, in particolare, nell’accostare l’“opera” all’attività dell’imprenditore. Non evoca mai la funzione dell’imprenditorialità o la figura dell’imprenditore. Parla di «successo, industriosità» ma in riferimento alla scienza moderna (v. Arendt 1958, 206, VI.38). Considera gli “uomini d’affari” (businessmen), ma non lascia spazio all’imprenditore inteso in senso moderno. Al più, l’homo faber è avvicinabile al concetto di imprenditore in senso vebleniano, cioè di colui che è dotato di abilità tecniche e costruttive (workmanship), opposto sia al mercante che allo speculatore, cioè al tipo dell’uomo d’affari moderno, dedito a ottenere guadagni pecuniari da qualsiasi attività, che non si propone di realizzare nulla di concreto né con le proprie mani né con la propria testa13. Cfr. Marx (1968, vol. I, 252-4). Nel Capitolo VI inedito la questione è messa bene in chiaro: «Milton, che scrisse il Paradiso Perduto, era per esempio un lavoratore improduttivo; ma lo scrittore che fornisce lavoro di fabbrica al suo editore è un lavoratore produttivo. Milton creò il suo poema al modo stesso che il baco da seta genera la seta, cioè come estrinsecazione della sua natura; poi vendette per 5 sterline il suo prodotto e così divenne trafficante in merci» (in Marx 1975b, 1266-7). 13 Veblen scrisse nel 1914 The Instinct of Workmanship and the State of the Industrial Arts, e nel 1921 uscì The Engineers and the Price System. In quest’ultima opera Veblen riconosce le funzioni dell’ingegnere nell’organizzazione moderna del mondo del lavoro nei compiti di «controllare la strategia produttiva nel suo complesso e di tener sotto sorveglianza le tattiche produttive». Funzioni divenute indispensabili «per il regolare funzionamento del sistema industriale» e come argine alle tendenze affaristiche – il «pregiudizio commerciale» – che per Veblen costituisce il vero pericolo e la forza deviante del capitalismo industriale. I tecnici lottavano, da una parte, contro i lavoratori addetti alle macchine e sempre più privati delle competenze che una volta erano degli artigiani, e, dall’altra, contro 12 Que 22 Parte I - La categoria del moderno Arendt non riconosce allo spirito imprenditoriale neanche particolari forze prometeiche che si esplicano in sistemi economici e politici nei quali solo i “diritti di proprietà”, come oggi vengono detti, riescono a estrarre e valorizzare tali capacità operative. Due passaggi sono significativi e danno senso alla visione economica di Arendt. Nel primo, l’imprenditorialità, come da lei si ricava, è una sfaccettatura dell’homo faber, ed è considerata alla luce dell’opposizione privato/pubblico, cioè tra sfera privata e sfera politica, nel senso che solo in condizioni di legge e ordine l’imprenditore esprime il suo meglio: «ciò che conta per la sfera pubblica non è il maggiore o minore spirito d’iniziativa dei privati uomini d’affari, ma gli steccati attorno alle case e ai giardini dei cittadini» (Arendt 1958, 52, II.9). In un altro passo, il concetto è ribadito in termini ancora più netti, seppure in un contesto leggermente diverso: ap pa rti e fis ro f a ne Si potrebbe dire che gli «istinti pratici», di cui parla Arendt, siano una sorta di via di mezzo tra gli animal spirits keynesiani e l’imprenditorialità schumpeteriana. Gli animal spirits hanno im Se avessimo dovuto contar solo sui cosiddetti istinti pratici dell’uomo, non sarebbe mai esistita una tecnologia, e sebbene oggi le invenzioni tecniche già esistenti abbiano un certo potenziale che genererà probabilmente fino a un certo punto altri progressi, è improbabile che il nostro mondo tecnicamente condizionato potrebbe sopravvivere, e tanto meno svilupparsi ulteriormente, se finissimo per convincerci che l’uomo è essenzialmente un essere pratico (Arendt 1958, 214, VI.41)14. Qu es to E- bo ok una proprietà assenteista composta da azionisti interessati esclusivamente al dividendo (Veblen 1921, capp. III e VI). Insomma, l’ingegnere o il manager come figure rappresentative del vero imprenditore ed homo faber. 14 Il concetto di “uomo pratico” di Arendt era, forse, quello anticipato anni prima in maniera pungente da un grande scrittore: «Il nostro tempo ha partorito una curiosa fantasia, secondo la quale quando le cose si mettono davvero male abbiamo bisogno di un uomo pratico. Ma sarebbe assai più giusto dire che quando le cose vanno assai male avremmo bisogno di un uomo non pratico. Di sicuro, per lo meno, abbiamo bisogno di un teorico. Un uomo pratico è una persona abituata soltanto alla vita concreta di tutti i giorni, al modo in cui le cose funzionano normalmente. È sbagliato suonare la cetra mentre Roma brucia, ma è del tutto legittimo studiare la teoria dell’idraulica mentre Roma brucia. Pertanto, è necessario disfarsi del proprio agnosticismo quotidiano e tentare di rerum cognoscere causas» (Chesterton 2011, 19). ar ene i t r a 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 23 Qu E esto -b pp a k oo bisogno di stabilità macroeconomica per essere civilizzati e non irrompere nei sentieri pericolosi della speculazione. Gli inquieti spiriti imprenditoriali possono esaltare le proprie capacità per fare da battistrada allo sviluppo tecnologico se – secondo Schumpeter – i banchieri, da parte loro, assolvono alle proprie funzioni “pubbliche” e sociali di selezione e controllo (selection & monitoring) delle forze imprenditoriali brute, rivolte al profitto senza vaglio della moralità, che è invece appannaggio dei banchieri, a loro volta disciplinati dai potenziali rischi del rimborso dei debiti (altrui e propri) (Conti 2003). Ovviamente lo stesso Schumpeter era perfettamente consapevole che erano proprio i banchieri i primi a derogare dai principi etici e scatenare la speculazione con le conseguenti crisi bancarie e finanziarie. 1.6. Forza-lavoro come vita e procreazione: “crescete e moltiplicatevi” Perché il popolo s’eccita tanto, e grida? Esso vuole|nutrirsi,|far figli, e nutrirli come meglio non può.| Ségnati, tu che viaggi, questo, e a casa tua fa’ altrettanto! (Goethe 1981, 99) Conseguenza dell’incremento della produzione è che si desidera un numero sempre maggiore di uomini. Più si produce, più devono essere i compratori. […] Dal moltiplicarsi degli oggetti essa giunge fino al significato originario di ogni accrescimento: il moltiplicarsi degli uomini. (Canetti 1989, 566) Il primo oggetto della polizia: il numero degli uomini, lo sviluppo quantitativo della popolazione […] la copia civium, la quantità, l’abbondanza dei cittadini. (Foucault 2017a, 235) Il fatto, chiaramente scoperto e analizzato da Marx, è che il lavoro di per sé, anche quando produce beni caduchi e non durevoli, ha una potenza che va oltre la riproduzione della propria forza applicata, ha una propria produttività che non viene esaurita dalla riproduzione della medesima forza. La forza-lavoro non produce oggetti, se non fortuitamente, ma riproduce solo sé stessa e in più produce il surplus, ovvero, sia conserva la vita, sia la amplia attraverso la fertilità. Arendt lo esprime chiaramente quando attribuisce a Marx (e a lui solo fra gli economisti classici) la scoperta che Parte I - La categoria del moderno 24 la stessa attività lavorativa […] possiede una “produttività” sua propria, per quanto possano essere futili e non-durevoli i suoi prodotti. Questa produttività non consiste in alcuno dei prodotti del lavoro ma nel “potere” umano, la cui forza non si esaurisce nella produzione dei mezzi per la sussistenza […] ma è capace di fornire un “surplus”, cioè più del necessario per la propria “riproduzione” […]. Diversamente dalla produttività dell’opera, che aggiunge nuovi oggetti al mondo umano artificiale, la produttività della forza-lavoro produce oggetti solo incidentalmente e in primo luogo si occupa dei mezzi della propria riproduzione; poiché la forza non si esaurisce dopo che la riproduzione è stata assicurata, può essere usata per la riproduzione di qualcosa di più che un processo vitale, ma non produce altro che vita (Arendt 1958, 63, III.5). Possiamo osservare che la forza-lavoro, per Marx, è “teologicamente” quello che è l’agricoltura per i fisiocratici. Si deve insistere sulla crucialità della distinzione fra lavoro e opera, ma sottolineandone una implicazione qui rilevante, che non è tanto quella sottesa alla sua antropologia filosofica (p.e. lavoro, inteso come natura e materia, e opera, vista come modificazione della natura e creazione di materiale), ma quella connessa alla distinzione fra le categorie economiche di bene di consumo e di bene durevole. Arendt sottolinea come Marx riconduca al lavoro in generale (non distinto fra lavoro e opera)15, inteso come forza-lavoro e come processo vitale riproduttivo ed espansivo – e proprio a causa di tale intendimento – l’intero processo economico intrinsecamente tendente all’accumulazione di beni e ricchezze16: il lavoro per Marx sarebbe l’attività umana che risponde all’ebraico imperativo “crescete e moltiplicatevi”. È questo imperativo che è la linfa espansiva e sottotraccia che pervade l’età moderna in ogni sua espressione. Perché – Arendt osserva – l’età moderna non difende tanto la proprietà privata quanto «lo sfrenato perseguimen- e a roffi Que s to E -b o o k a ppartien In questo, Marx è in linea con l’economia politica classica per quanto concerne la centralità del lavoro nel processo economico, ma si distingue da essa per quanto concerne la sua funzione nel processo di produzione. 16 Arendt qui trascura la distinzione fra beni di consumo e beni di investimento; può, allora, essere notato che per l’economia politica classica di Smith (che pure deve molto all’etica calvinista del lavoro e pone il lavoro al centro della determinazione dei valori di scambio) è la parsimonia umana, il risparmio e quindi l’investimento – e non la forza-lavoro – la potenza che crea la crescita economica persistente. 15 25 to di maggiore proprietà e di appropriazione […] nel nome della vita, la vita della società» (Arendt 1958, 75-6, III.14). Solo il lavoro (e non l’opera né l’azione) è l’attività umana che è «senza fine e procede automaticamente in accordo con la vita stessa e fuori dalla portata delle decisioni della volontà o degli scopi a cui l’uomo attribuisce significato» (Arendt 1958, 75, III.14). Nulla è più privato del proprio corpo. Ad esempio, le funzioni che riteniamo il più possibile private, e che perciò nascondiamo persino nel più “socializzato” sistema sociale, sono quelle bassamente corporee, le deiezioni e le copulazioni17. Il lavoro, sebbene sia un’attività umana che usa il corpo e non sia una funzione del corpo, rimane comunque sufficientemente vicino al processo della vita del corpo da poterlo considerare come proprietà del corpo medesimo: così come sono privati i prodotti funzionali del nostro corpo (liquidi e solidi vari), così lo sono anche i suoi prodotti intenzionali (l’attività lavorativa). È questa la via interpretativa che Arendt suggerisce per la rivoluzionaria idea di Locke sull’origine della proprietà privata, come diremo più avanti. Infatti, mentre in precedenza lavoro e proprietà rimanevano due nozioni fra loro incompatibili, dopo la pubblicazione di Locke vi è un repentino quanto drastico mutamento concettuale: «Indubbiamente, prima del 1690, nessuno attribuiva all’uomo un diritto naturale alla proprietà creata col proprio lavoro; dopo il 1690 quest’idea divenne un assioma della scienza sociale» (Arendt 1958, 259, III.n.56). L’esaltazione del lavoro in età moderna avviene sicuramente perché l’attenzione dei moderni (e anche di Marx) è colpita dal progresso straordinario del processo produttivo e, quindi, si concentra, in particolare, proprio sul carattere processuale del lavoro. Ma quali sono le caratteristiche dell’attività lavorativa che hanno s Que to E rtien a p k ap o o -b 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 17 Va detto che nella contemporanea società dello spettacolo, la esuberante socializzazione del privato tende però a ridurre anche quei nascondimenti. Va anche detto che questa invasione del privato nel pubblico – nei cosiddetti social si “pubblica” anche il più intimo privato – mostra paradossalmente – nel momento in cui tutto viene “pubblicizzato” e “pubblicato” – come non esista più una sfera pubblica ma solo una desolata somma di privati solitari ridotti a puro corpo. Questo sembrerebbe in linea con quanto Arendt afferma – vedi più avanti in questo paragrafo – che lo sviluppo economico consumistico porta alla eliminazione dello spazio pubblico che viene invaso dalle private attività hobbistiche. e Qu 26 Parte I - La categoria del moderno determinato tanto tale espansione produttiva quanto, in conseguenza, tale sua esaltazione? Nella sua critica a Marx, Arendt gli riconosce il risultato, come unico fra i pensatori ed economisti moderni, di aver riconciliato la teoria dell’età moderna dell’accumulazione continua, della tecnica e del lavoro con la più antica intuizione sulla vera natura del lavoro, che è di origine ebraica. Ella riconosce che il vero significato della moderna esaltazione della produttività del lavoro viene riscoperto proprio da Marx, quando associa produttività e fecondità, quando rileva che lo sviluppo delle forze produttive umane come della capacità intrinseca della forza-lavoro nel processo capitalistico di generare un continuo surplus – cioè una produzione sempre maggiore di quella necessaria alla riproduzione della forza-lavoro medesima – non sono altro che l’espressione dell’obbedienza alla legge ebraica del “crescete e moltiplicatevi”. Per Arendt, l’attività lavorativa, secondo Marx, ha l’obiettivo, e non solo per analogia, della riproduzione e della fertilità che accresce la popolazione, rivisitando in termini moderni l’intuizione ebraica del nesso tra lavoro, vita e procreazione. La produttività del lavoro consiste nella capacità della forza-lavoro di produrre più di quanto necessario per assicurare la propria sopravvivenza, esattamente come la riproduzione animale assicura non solo la sopravvivenza del singolo, ma anche quella della specie. La forza-lavoro è produttività e la produttività è vita e fecondità. Per questo, Arendt interpreta il centro profondo dell’analisi marxiana del lavoro, sottolineando che il famoso sviluppo delle “forze produttive” del genere umano in una società caratterizzata dall’abbondanza di “buone cose” non obbedisce in pratica ad altra legge e non è soggetto ad altra necessità se non al precetto “crescete e moltiplicatevi” […] La fecondità del metabolismo uomo-natura, che scaturisce dalla naturale abbondanza di forza-lavoro, appartiene ancora alla sovrabbondanza che vediamo ovunque nel regno della natura (Arendt 1958, 75-6, III.14). Per Arendt, la distinzione fra animal laborans e homo faber scompare in Marx, che, portando a compimento un processo avviatosi con l’età moderna, innalza l’attività dell’animal laborans al livello più elevato della vita activa. Secondo Arendt, per il filosofo tedesco tutto il lavoro è divenuto produttivo, perché quello che è considerato è 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 27 solo il processo vitale dell’umanità (senza più alcuna utopia)18, sparendo così la distinzione fra attività servili, che non producono nulla di tangibile, e attività produttive di beni durevoli. Ogni cosa è oggetto di consumo. Arendt rileva in questa parte dell’opera di Marx un’interpretazione che considera solo il processo vitale dell’umanità, e in questo quadro di riferimento tutte le cose diventano oggetti di consumo. In un’“umanità completamente socializzata”, il cui solo scopo sarebbe quello di occuparsi del processo vitale […] la distinzione fra lavoro ed opera scomparirebbe del tutto; ogni opera dovrebbe diventare lavoro perché tutte le cose sarebbero concepite, non nella loro qualità terrena, oggettiva, ma come risultati di forza-lavoro vivente e funzioni del processo vitale (Arendt 1958, 63-4, III.14). Qu Se la proprietà privata più stretta che ci sia è quella del proprio corpo, tuttavia – come argomenta Locke – anche “il lavoro del corpo” e “l’opera delle mani” diventano proprietà privata perché corpo, mani, bocca sono mezzi di appropriazione naturali che Dio avrebbe dato singolarmente agli uomini proprio per “privatizzare” quel mondo apparentemente di proprietà comune. Cosa hanno in comune Marx e Locke? La visione della “naturalità” – nel senso di legge naturale – della crescita progressiva della ricchezza, cioè della crescita come una legge immodificabile inscritta nella fisica del mondo, che nessun uomo può intenzionalmente mutare. Allora l’unica attività umana che può esistere e rimanere coerente con questa legge naturale è quella animale, corporale, biologica. Arendt appare lockeana, nella misura in cui riconosce alla proprietà privata, tanto difesa da Locke, di fungere da possibile antidoto alla devastazione del – e all’alienazione dal – mondo19 e s t o E-b o o ka artie ne a roffi pp 18 Arendt (1958, 256, III, n. 20) osserva che Marx, specie quello giovanile, ha sempre sottolineato come la “produzione della vita” fosse la primaria funzione del lavoro, considerandola quindi strettamente associata alla procreazione (vedi il passo dell’Ideologia tedesca in Marx e Engels (2011, 331 e ss.) per le elaborazioni del materialismo storico rispetto alle impostazioni idealistiche della “sinistra hegeliana”). 19 Nota che per “mondo” Arendt intende non la mera natura, ma ciò che viene artificialmente ri-creato dall’uomo attraverso la sua modificazione della natura stessa. Parte I - La categoria del moderno 28 causata dall’infinito processo di accumulazione previsto dal genio di Marx. Ma appare anche anti-marxiana, nella misura in cui attribuisce a Marx, questo Darwin della storia, non solo di aver previsto un esito finale della storia, ma anche di avere espresso una certa gioia, secondo Arendt ingiustificata, per tale esito: Marx aveva previsto giustamente, benché con gioia ingiustificata, l’“abolizione” della sfera pubblica […] e aveva ugualmente ragione quando prevedeva che “gli uomini socializzati” avrebbero impiegato la loro libertà dal lavoro in quelle attività strettamente private ed essenzialmente estranee al mondo che ora chiamiamo hobbies (Arendt 1958, 83, III.14). Infatti, l’esito previsto da Marx, cioè la vittoria delle irrefrenabili forze produttive e il relativo uomo socialista liberato dal lavoro, secondo la Arendt, avrebbe in realtà condotto ad un uomo estraneo al mondo: perché, infatti, l’uomo, alla fine della storia in cui il capitalismo è vinto, sarebbe rimasto estraneo alle attività discorsive della polis e all’azione, da lei considerate la vera buona vita, per essere invece interamente preso, essendo finalmente liberato dal lavoro, dal suo privato, insomma, come evocato da Marx, sarebbe stato catturato dalla poesia, dalla pittura o dalla pesca, che Arendt invece non considera attività umane “superiori” ma semplici hobbies privati. Cosa invece distingue Marx da Locke, proprio sul tema della proprietà? Qui Arendt manifesta il suo tributo a Locke, attribuendogli l’individuazione di un particolare ruolo della proprietà che, invece, non sarebbe stato compreso da Marx. Entrambi infatti rilevano e accettano la sfida offerta dalla modernità, cioè una crescita potenzialmente infinita di ricchezze e beni, ma lo fanno con obiettivi opposti. Il primo la interpreta come occasione per incrementare l’appropriazione privata delle ricchezze, il secondo come motore per liberare l’uomo dal lavoro e dalla proprietà. Ma, secondo Arendt, Marx (e anche Smith) fraintende associando strettamente ricchezze e proprietà. Arendt offre una originale lettura del significato di proprietà privata, intendendola come una difesa contro i danni causati alla natura umana dalla crescita economica infinita. In Locke, la proprietà privata è un argine contro la tendenza invasiva e distruttiva del processo lavorativo e di accumulazione Quest o E-bo ok ap partie ne a r offisim one. 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 29 della ricchezza, che aliena l’individuo dal mondo – ricordiamo che, per Arendt, la modernità, al contrario di quanto convenzionalmente sia ritenuto, non ha significato un tuffo dell’uomo nel mondano, ma, piuttosto, un ritiro dal mondo (per rivolgersi all’interno di sé, come Cartesio pensò), quindi anche dal mondo comune. Così, il carattere implacabilmente espansivo del processo lavorativo potrebbe essere frenato proprio dall’acquisizione proprietaria e dalla difesa di quello spazio privato di mondo. Questo argine contro l’alienazione funzionerebbe perché Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne la proprietà non rafforza, ma piuttosto mitiga la mancanza di relazioni con il mondo del processo lavorativo, a causa del suo carattere sicuramente mondano. Allo stesso modo, il carattere processuale del lavoro, l’implacabilità con cui il lavoro è spinto e stimolato dal processo vitale, è frenato dalla acquisizione della proprietà (Arendt 1958, 81-2, III.14). ar off isi L’interesse per l’accumulazione e l’abbondanza manifesta un obiettivo tipico dei poveri, dei non-proprietari; invece, Arendt osserva che «in una società di proprietari, in quanto distinta da una società di lavoratori salariati e stipendiati, è ancora il mondo, e non l’abbondanza naturale né la mera necessità della vita, che si pone al centro della cura e delle preoccupazioni umane» (Arendt 1958, 82, III.14). Di contro, se al centro dell’interesse sta il processo di accumulazione e di accrescimento della vita e dei beni, tale processo deve potersi sviluppare senza freni – in tutta libertà e in piena velocità – e deve potenzialmente essere infinito come lo è il processo evolutivo della specie; ma ciò cozza, evidentemente, contro le esigenze della vita limitata del singolo e della sua privata proprietà. Infatti, affinché tale processo accumulativo possa avvenire fino in fondo, deve essere presa in considerazione solo la vita della società nel suo insieme e non quella del singolo, quindi occorre abolire la proprietà e, in ultima istanza, l’individuo stesso come essere separato: l’individuo dovrà infatti agire come un “appartenente alla specie”, un Gattungswesen nei termini di Marx, poiché il vero soggetto dell’accumulazione è la specie o la vita della società. Perciò «solo quando la riproduzione della vita individuale è assorbita nel processo vitale del genere umano, il processo vitale di un’“umanità socializzata” può seguire la sua “necessità”, cioè il progresso automatico della sua fecondità mo ne .2 30 Parte I - La categoria del moderno nel duplice senso di moltiplicazione delle vite e di incremento dei beni da esse richiesti» (Arendt 1958, 82, III.5). Ma l’esito del processo di sviluppo e di socializzazione è paradossale: è proprio il mondo che è comune a tutti gli individui e non la separatezza dell’individuo dal mondo ciò che si estingue, perché mail.com né l’abbondanza dei beni né l’abbreviazione del tempo effettivamente speso per lavorare sembrano suscettibili di costituire un mondo comune, e l’animal laborans non diviene meno privato perché è stato deprivato di una sua privacy in cui appartarsi ed essere protetto dal dominio comune (Arendt 1958, 83, III.5). roffisimon e.2000@g Ma quand’anche si avesse l’“umanità socializzata” (p.e. la società comunista), ove siano stati aboliti tanto la sfera privata quanto quella pubblica, l’individuo rimarrebbe comunque estraneo al mondo, impegnato in attività paradossalmente molto private come sono gli hobbies: una vita che per Arendt sarebbe tragicamente futile, se si interpreta la lettera del termine di “passatempi” che in Marx – e Arendt non poteva non cogliere – era liberazione dal lavoro20. Questo E -book app artiene a 20 Si veda il passo, sempre dall’Ideologia tedesca, dove la divisione del lavoro comporta un aumento della produttività e un superamento dei bisogni elementari cosicché «nella società comunista, nella quale ognuno non ha un ambito di attività esclusivo, bensì può progredire in qualsivoglia settore secondo il suo capriccio, la società amministra la produzione generale e, proprio in questa maniera, mi dà la possibilità di fare oggi questa determinata cosa, domani quell’altra, di andare a caccia di mattina, di pescare il pomeriggio, di allevare il bestiame di sera, di fare il critico dopo pranzo, così come ho voglia di fare; senza che io divenga né un cacciatore, né un pescatore, né un pastore, né un critico» (Marx e Engels 2011, 359 [I, 1]). Una medesima fiducia nel progresso tecnologico si ritrova, anni dopo, in un altro grande economista. Infatti, nel 1930 Keynes ritenne non utopica una prospettiva di questo genere: «Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l’anno, in 20 anni l’attrezzatura produttiva del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cento anni di sette volte e mezzo. […] ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione dei suoi problemi economici»; e prosegue: «noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro», cioè «[r]ivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano» (Keynes 2011, 276-7; 280 e 282; corsivo nell’originale). 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 31 Que Per finire, osserviamo come, inoltre, Arendt (1958, 259n., III.n.56) ci offre una interessante interpretazione del significato del termine lavoro: infatti, nella sua lettura della Bibbia tradotta a Berlino da Martin Buber e Frank Rosenzweig, quando vi si dice che Adamo fu creato per lavorare la terra dell’Eden, ella nota che viene impiegato un termine, leawod, per designare tale lavoro, che andò a significare l’attività lavorativa in ebraico, e che ha il senso di “servire”. Quindi il lavoro, secondo la sua origine linguistica, sarebbe il “servizio”. Azzardiamo qui una ulteriore ipotesi etimologica: anche l’attività di sacerdozio e di celebratore di culti nella tradizione ebraica si esprime con la radice “lw’” che potrebbe persino spiegare il nome dei Leviti, appunto sacerdoti del culto ebraico. In altre parole, nella sua assoluta origine – quella dell’Adamo biblico lavoratore della terra edenica – la parola lavoro designa un servizio, ma non un servizio qualsiasi, bensì il servizio sacerdotale, quello che sarà l’officium del culto cristiano. Non è difficile allora rinvenire, nello spirito delle recenti stimolanti ricerche di Agamben, per esempio Opus Dei, in cui il dovere, di cui viene permeata la moderna civiltà capitalistica culminante nella morale kantiana, deriva dal dovere di rendere l’offerta cultuale nel rito cristiano, una corrispondenza fra il lavoro e il dovere rituale di rendere culto e gloria al Signore. Questa nostra interpretazione etimologica renderebbe maggior giustizia anche alla nota interpretazione weberiana dello spirito capitalistico basato sul concetto di lavoro e professione (Beruf), che sarebbe, secondo il calvinismo, da compiersi e perseguirsi nella vita solo di per sé stesso, come dovere indipendente da ogni attesa di salvezza e che invece avrebbe una più comprensibile motivazione religiosa se inteso come servizio cultuale da rendere alla divinità21. Inoltre, e forse più interessante, la nostra interpretazione del significato del lavoro si collegherebbe ad una interpretazione teologica in tempi di secolarizzazione del moderno capitalismo, fornendo un mattone genealogico per le fulminanti intuizioni di Benjamin del capitalismo come religione (v. par. 6.4). -boo k ap parti ene a rof fisim one. 2000 Cfr. Weber (1904-05, 171-4 [II,i]). sto E @gm 21 ail. 32 Parte I - La categoria del moderno 1.7. Un futuro di consumo-spreco senza pensiero e libertà? Questi sono gli svantaggi dello spirito commerciale. La mente dell’uomo ne è immiserita, e resa incapace di pensieri elevati. L’istruzione è disprezzata, o almeno trascurata, e lo spirito eroico è quasi del tutto estinto. (Smith 1763, 259) A causa del processo cumulativo, il progresso tecnico dell’homo sapiens è stato estremamente rapido. In un numero piuttosto ridotto di generazioni, l’uomo è pervenuto al controllo del suo ambiente e al dominio delle forze più potenti della natura. Ma di quanto ha migliorato se stesso in qualità? L’uomo stenta a liberarsi della sua origine, che è quella di un animale disgustosamente carnivoro e cannibale. (Cipolla 1966, 121) Sotto l’espansione delle forze produttive – non ultima l’automazione di cui si osserva adesso un trionfale sviluppo – prevista da Marx, vi è però il rischio che l’emancipazione dal lavoro (altrettanto prevista e auspicata da Marx) non solo fallisca, ma imprigioni tutti sotto il giogo della necessità. Marx lo aveva chiaro: l’emancipazione dell’uomo dal lavoro come compimento della storia non avrebbe dovuto essere nient’altro che la liberazione della specie dal fardello della necessità. Questa, almeno, sarebbe la caratteristica peculiare del messaggio utopistico e mobilitatore delle masse che proviene dal marxismo, secondo Simone Weil. Ma, data la condizione umana, che è effettivamente caratterizzata da un metabolismo simbiotico con la natura, la liberazione dal lavoro implicherebbe la liberazione dal consumo. Tuttavia, rileva Arendt, il processo vitale deve sempre comporsi di due fasi, il lavoro per produrre e il lavoro (nel senso dell’attività di consumo, dallo shopping al tempo per mangiare) per consumare. E, per Arendt, purtroppo, il fardello della vita biologica – ovvero i bisogni elementari della vita – è ineliminabile, poiché la “fatica” e la “pena” per ottenere i beni elementari necessari e il “piacere di incorporarli” non possono essere rimossi, pena la perdita della vitalità e della vivacità della vita stessa. Solo se uno fosse capace di trascendere gli stessi processi vitali e fosse spinto da una forte ripugnanza per la futilità potrebbe accettare di emanciparsi da tale fardello. Inoltre le tendenze moderne hanno, se possibi- Ques 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 33 le, peggiorato il potere di questo fardello. L’homo faber che crea il mondo è stato messo all’angolo dall’animal laborans che, invece, lo consuma in continuazione: «Gli ideali dell’homo faber il costruttore del mondo, che sono permanenza, stabilità e durevolezza, sono stati sacrificati all’abbondanza, l’ideale dell’animal laborans» (Arendt 1958, 90, III.17). Persino la divisione del lavoro non ha mutato l’essenza della necessità, ma ha, invece, paradossalmente mutato quella dell’“opera” che, sempre più parcellizzata, è, di fatto, trasformata in “lavoro”: sto Que Viviamo in una società di lavoratori perché solo il lavoro, con la fecondità che gli è connaturata, sembra garantire l’abbondanza; e abbiamo trasformato l’opera in lavoro, frantumato questo nelle più minute particelle […] allo scopo di eliminare dallo sviluppo della forza-lavoro, che è parte della natura e forse è anche la più potente della forze naturali, l’ostacolo della “innaturale” e puramente mondana stabilità dell’artificio umano (Arendt 1958, 90, III.16). ook E-b In seguito alla divisione del lavoro e allo sviluppo delle macchine, l’attività artigianale si è trasformata in produzione di massa, e nella società contemporanea i prodotti hanno perso sempre di più il loro carattere di uso (bene che resta) per acquistare quello degli oggetti di consumo immediato: app ene arti L’interminabilità del processo lavorativo – osserva quindi Arendt – è garantita dalle sempre ricorrenti esigenze di consumo; l’interminabilità della produzione può essere assicurata solo se i prodotti perdono il loro carattere d’uso per acquistare sempre più quelli di oggetti di consumo, o se, in altri termini, la velocità d’uso e il rapido andirivieni dei beni di consumo, diminuisce fino a essere insignificante (Arendt 1958, 90, III.16). a ro ne. mo ffisi Il progresso illimitato della ricchezza ha solo il problema di riuscire ad adeguare ad esso il consumo umano. Rispetto a questo punto, Arendt, suggerisce una semplice soluzione, che effettivamente appare profetica: «la soluzione […] consiste nel trattare tutti gli oggetti d’uso come se fossero beni di consumo, così che una sedia o un tavolo vengono oggi consumati con la stessa rapidità di un abito, e la durata di un abito è di poco superiore a quella del cibo» (Arendt 1958, 89, III.17). ma g 0@ 200 34 Parte I - La categoria del moderno Persino se lo sviluppo delle forze produttive – p.e. l’automazione – fosse così elevato che rimanesse come attività quasi solo lo sforzo del consumo, per esempio il 99,9% del tempo quotidiano fosse impiegato a consumare, l’uomo finirebbe comunque per divorare il mondo in un giorno per ri-produrlo subito dopo e ri-consumarlo ancora. E, in tal caso, per ovviare al grave problema del tempo libero che si creerebbe quando la fase del lavoro raggiungesse una minima proporzione rispetto alla fase di consumo, si tratterebbe di trovare «come provvedere sufficienti opportunità di spreco quotidiano per mantenere intatta la capacità di consumo» (Arendt 1958, 93, III.17). La funzione della vita rispetto al mondo è di consumarlo, o meglio consumare ciò che è durevole, e paradossalmente questa funzione in futuro non sarebbe stata mitigata, ma, al contrario, potenziata a dismisura dalla meccanizzazione e dalla automazione: Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole (Arendt 1958, 93, III.17). L’economia politica classica e l’utilitarismo di Bentham, assumendo che l’attività umana mira all’abbondanza e a massimizzare la felicità per il più grande numero, non rappresenterebbero altro che l’obiettivo utopistico, da sempre esistente, dei poveri. Dove stava, allora, secondo Arendt, l’errore di Marx? Stava nella speranza che il tempo libero creato dallo sviluppo delle forze produttive potesse emancipare gli uomini dalla necessità. La speranza di questa emancipazione si basava sul fatto che – secondo una concezione meccanicistica – la forza fisica risparmiata si sarebbe conservata disponibile per altre attività. Solo oggi, di fronte alla società capitalistica contemporanea – di cui è possibile scorgere la vocazione pervasiva alla futilità e al consumo illimitato – è possibile prendere atto dell’errore illusorio presente nella speranza di Marx: la forza-lavoro non spesa nella fatica di vivere, effettivamente, non è andata perduta, ma, al contrario di ciò che sperava Marx, non è andata a dar vita automaticamente ad altre superiori attività. Anzi, quell’energia liberata to Q s ue 1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio 35 è finita nel consumo connesso al ciclo del lavoro: «Un centinaio di anni dopo Marx comprendiamo l’errore […] il tempo libero dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti» (Arendt 1958, 94, III.16). La società contemporanea è una società di lavoratori, ovvero è una società di consumatori in cui si realizza l’ideale di una possibilità illimitata di consumo insieme a una progressiva diminuzione della fatica e della pena. Il bisogno di una sempre più rapida sostituzione delle cose ci porta a “divorare” letteralmente sedie, tavoli, abiti, case, cellulari, automobili. La precarietà del mondo artificiale creato dall’uomo, attraverso la sua modifica della “materia” trasformata in “materiale” e con lo spazio della libertà che è lo spazio dell’azione – mondo che è sempre stato in bilico di fronte alla potenza della natura – viene ingigantita fino al rischio di una sua estinzione: «È come se avessimo forzato i confini che proteggevano il mondo, l’artificio umano, dalla natura, dai processi biologici che vi si svolgono internamente come dai processi naturali ciclici che lo circondano» (Arendt 1958, 90, III.16). Arendt, quindi, rivolge la propria critica alla società capitalistica contemporanea. In essa individua, lucidamente, una serie di pericoli. Il primo pericolo è quello di una società dominata dal consumo, che annulli il precario mondo finora creato dalle attività superiori dell’uomo, ovvero «il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo» (Arendt 1958, 94, III.17). Inoltre, vi è il pericolo dello spreco, della pura attività di divorare tutto: ppar ook a b E o t Ques Uno dei più evidenti segni di pericolo, che mostra come siamo in procinto di tradurre in realtà l’ideale dell’animal laborans, è la misura in cui la nostra economia è divenuta un’economia di spreco, in cui le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte (Arendt 1958, 94, III.17). Ma, purtroppo, esiste anche il pericolo possibile di una improvvisa catastrofe: «ammesso che il processo stesso non giunga a una fine improvvisa e catastrofica» (Arendt 1958, 95, III.17). Questi pericoli sono tali, soprattutto, perché l’uomo non può so- 36 Parte I - La categoria del moderno pravvivere senza esercitare le superiori attività, non può annichilire l’homo faber e il suo portato di stabilità e permanenza: Il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla terra e fatta dei materiali che la natura affida alle mani dell’uomo, non consiste di oggetti da consumare ma di oggetti da usare […] Senza strappare le cose dalle mani della natura e senza consumarle, senza difendersi dai processi naturali della crescita e del deperimento, l’animal laborans non potrebbe mai sopravvivere. Ma senza trovare la propria dimora tra oggetti resi dalla loro durata adatti all’uso e alla costruzione di un mondo, la cui permanenza si pone in diretto contrasto con la vita, questa vita non potrebbe mai essere umana (Arendt 1958, 95-6, III.17). E, infine, il pericolo diviene, sorprendentemente, maggiore proprio quando, poiché la società del lavoro gira a ritmi crescenti, la pena o lo sforzo diventano minori, quasi invisibili, e l’abbondanza cresce. È il pericolo, forse, peggiore per Arendt: quello di una vita futile. Così Arendt conclude la sua riflessione sul “lavoro” nella vita activa: Più sarà diventata facile la vita in una società di consumatori, o di lavoratori, più sarà difficile rimanere consapevoli della necessità da cui è guidata, anche quando la pena o lo sforzo, manifestazioni esteriori della necessità, siano riconosciuti a stento. Il pericolo è che una società del genere, abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più a riconoscere la propria futilità – la futilità di una vita che “non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata” (Arendt 1958, 96, III.17, l’ultimo passo cit. è da A. Smith). Questo E-book e apparti Capitolo 2 LA RICERCA DELLA FELICITÀ (TRA ANTICO E MODERNO) 2.1. Un mondo artificiale l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente […] mentre l’uomo produce in modo universale […] l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura […] quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza. (Marx 1973, 78-9 [XXIV]) a ok a pp -bo esto E Qu Lo sviluppo gigantesco dei mezzi di produzione ha solo la forza di rivelare pienamente il senso della produzione, che è il consumo improduttivo delle ricchezze. (Bataille 1995, 87-8) Un punto cruciale della critica che Arendt rivolge a Marx, al di là della gran parte di richiami al suo pensiero economico e filosofico, consiste, quindi, come già sopra discusso, nel fatto che Marx (nell’Ideologia tedesca) crede che il tempo libero, conquista del progresso tecnico e dell’aumento di produttività che l’homo faber consegna all’animal laborans, possa definitivamente emancipare gli uomini. Nell’Ideologia tedesca si legge: «Il lavoro è libero in ogni paese civile; non è questione di liberare il lavoro: si tratta semmai di sopprimerlo» (Marx e Engels 2011, 719 [libro I, III.6.A]). Nel III libro del Capitale al cap. 48: «il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalle necessità e dalla finalità esterna» (1894, 1102 [cap. 48, iii]). Per Marx l’uomo in società si libera quando riproduce a livello collettivo le condizioni di lavoro artigianali e solo a quel punto «comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità» (1894, 1103 [cap. 48, iii]). Anni prima, un concetto analogo era espresso in questi termini: «in tutte quante le rivoluzioni che si sono avvenute fino ad ora non si è mai messo in discussione il 38 Parte I - La categoria del moderno genere dell’attività, ma si è semplicemente trattato di una nuova ripartizione di tale attività, di una nuova ripartizione del lavoro tra altri soggetti, mentre la rivoluzione comunista si dirige contro il modo dell’attività invalso fino ad ora, abolisce il lavoro» (Marx e Engels 2011, 449 [libro I, B.3]). L’attività dell’homo faber non si consuma immediatamente, resta nel tempo e man mano costruisce un mondo artificiale che avvolge quello naturale, lo umanizza, liberando energie che diminuiscono le fatiche dell’animal laborans. Che il tempo liberato venga occupato da attività “superiori” è – secondo Arendt – un miraggio dovuto al trasferimento nel mondo moderno del modello di vita dell’Atene di Pericle. Infatti, qui sta la critica a Marx e ai moderni, «il tempo libero dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti» (Arendt 1958, 94, III.17). Marx, considerando che ogni lavoro è produttivo (se genera plusvalore), è il pensatore che con maggior coerenza perfeziona la prospettiva della modernità nella quale si «considera solo il processo vitale dell’umanità, e in questo quadro di riferimento tutte le cose diventano oggetti di consumo» (Arendt 1958, 63, III.11). La società di massa (la fase “contemporanea” nelle età tipo di Arendt) è quella del «trionfo» completo dell’animal laborans, prima di allora chiuso nella propria sfera privata dei bisogni elementari e “bassi”, e che ora si trova ad aver conquistato e occupato la sfera pubblica dove può finalmente esibire apertamente le attività private, i suoi desideri intimi e irrefrenabili di consumo (Arendt 1958, 95, III.17). È il trionfo, come già accennato, preparato dalla “setta” degli economisti, che nobilitano il lavoro del contadino e poi del salariato industriale per il semplice fatto che essi svolgono lavori produttivi. L’economia dominata dall’animal laborans è – ripetiamo – un’economia di spreco caratterizzata da un processo di crescente produzione di cose da consumare e di sempre più immediato consumo delle medesime, un processo dinamico la cui stabilità non solo non è garantita ma che è invece soggetta anche ad una potenziale catastrofe. Il concetto è precisato ulteriormente con questa osservazione: «La richiesta universale di felicità e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società (le due facce della Ques -bo Qu es to E 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 39 stessa medaglia) sono i segni più convincenti che viviamo in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per essere appagata. Infatti solo l’animal laborans, e non l’artigiano né l’uomo d’azione, ha sempre chiesto di essere “felice” o pensato che gli uomini mortali possano essere felici» (Arendt 1958, 95, III.17). 2.2. La felicità insoddisfatta si ritiene che la felicità risieda nel tempo libero (σχολή); infatti sopportiamo fastidi allo scopo di essere poi liberi e facciamo la guerra allo scopo di vivere in pace. (Aristotele, Etica nicomachea, 917 [X, 7, 1177b]) La felicità è la realizzazione differita di un desiderio preistorico. Ecco perché la ricchezza dà così poca felicità: il denaro non è un desiderio infantile. (Freud 1986, 210) l’ordine del profano non può essere identificato sull’idea del regno di Dio […] L’ordine del profano va eretto sull’idea di felicità. (Benjamin 2011, 67) Due osservazioni a riguardo della felicità sono necessarie. La prima: c’è una sorprendente assonanza tra la visione di Arendt della società consumistica di massa e le osservazioni di Walter Benjamin sul «capitalismo come religione», nonostante lei non potesse essere a conoscenza di quel breve appunto pubblicato solo di recente, in cui Benjamin tratteggia una lucida e innovativa interpretazione della società capitalista in chiave teologica. Ma il trionfo dell’uomo-massa, accanito consumatore, indotto al consumo compulsivo da una religione a-dogmatica ma celebrativa, è diventato lo stesso ingranaggio fondamentale di un meccanismo produttivo, nel quale svolgono un ruolo essenziale la fidelizzazione alla nuova religione del lavoro – inteso come lavoro produttivo – e l’identificazione del lavoratore-consumatore con la propria “comunità” aziendale. Tale comunità viene intesa come chiesa di intercessione solo per mezzo della quale esprimere il proprio credo e ricercare una salvezza non concessa nemmeno come speranza, ma solo come impegno profuso di continuo secondo il proprio Beruf. Questo E-book 40 Parte I - La categoria del moderno apparti ene a r La seconda osservazione sviluppa un ulteriore accostamento a completamento del precedente. In questo caso l’accostamento può, forse, prestare il fianco alla critica di una certa forzatura interpretativa del pensiero espresso da Arendt sulla rivoluzione americana1. Ma la felicità evocata nel passo alla fine del paragrafo precedente richiama la costituzione americana, in cui happiness compare come diritto naturale, al pari della vita e della libertà, una costituzione tanto celebrata dal pensiero liberale anche in contrapposizione con le costituzioni repubblicane francesi, nelle quali il concetto di felicità, com’è noto, è assente. Nell’Europa dei Lumi, come ricorda Starobinski, la felicità è intesa più come libero godimento, di libertini e libertari2. A fine secolo Saint-Just espresse in forma lapidaria un concetto di felicità universale: «Le bonheur est une idée neuve en Europe»: la felicità è un’idea nuova in Europa, ed era la Rivoluzione Il riferimento è specialmente alle proposizioni ricorrenti in Sulla rivoluzione riguardo all’esperienza americana della lotta per l’indipendenza, dove si riconosce l’elemento di continuità con la tradizione inglese. In Vita activa si continua a distinguere la rivoluzione americana, come caso a sé, rispetto alle altre rivoluzioni di età moderna per le quali Arendt osserva: «tutte (con l’eccezione di quella americana) mostrano la stessa combinazione del vecchio entusiasmo romano per la fondazione di un nuovo corpo politico con la glorificazione della violenza come unico mezzo per “realizzare” questo compito e ciò «sintetizza la convinzione dell’età moderna e trae le conseguenze dalla sua più intima fede che la storia è “fatta” dagli uomini come la natura è “fatta” da Dio» (Arendt 1958, 168, V.31). L’osservazione induce a riflettere sulla distinzione tra violenza difensiva (quella, ad esempio, dei coloni americani) da quella che viene glorificata per segnare un punto di non ritorno e l’inizio di un “uomo nuovo”. 2 Starobinski (2008, 17): «Questo secolo (almeno nei suoi rappresentanti più qualificati) si voleva libero d’inseguire la felicità come di conquistare la verità. Libero godimento, ma anche libero esame. Libertini e libertari» e – aggiunge – una ricerca di «felicità nel gioco delle idee piuttosto che nelle gioie immediate della vita sensibile». Altrove l’accostamento è più alla voluttà che non alla virtù (idem, 52). La rappresentazione artistica esprime il senso della felicità nel XVIII secolo: «La felicità vi è rappresentata, precisamente, come un’energia interamente rivolta a dissiparsi nella casualità del gesto; la felicità era l’attività senza scopo e il riposo senza immobilità; la danza rappresentava la riuscita perfetta di questo divertimento movimentato, il capolavoro di un’animazione pura» (idem, 84-5). È più il vivere negli agi del lusso e della spensieratezza, forse, più che in quello della serena austerità esaltata dagli antichi. 1 offi st Que 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 41 a renderla accessibile a tutti, concetto in cui la felicità non era espressa come opulenza ma come Verità, compagna della Virtù secondo Helvetius (Postigliola 1992, 175-6, 181). Per Thomas Jefferson, e altri padri della costituzione americana, il principio di autodeterminazione e di legittimazione di un governo era finalizzato alla felicità dei governati3. Secondo alcuni studiosi, Jefferson avrebbe però ripreso l’idea dalla Teoria dei sentimenti morali di Smith4. Tutto acquista un suono molto più prosaico in Francia nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), nella quale i «diritti naturali» sono la libertà, l’uguaglianza e la proprietà. Della felicità non si fa menzione alcuna. Il diritto alla ricerca della felicità nello spirito dei costituenti americani non è affatto lontano da quello della proprietà, ma la proprietà è evidentemente un mezzo per la felicità, che non è uno stile di vita ma un fine. Per i puritani Dio era eternamente felice di se stesso5. Nel primo numero del Federalist del 27 ottobre 1787 Alexander Hamilton, con fama di senza patria, monarchico, conservatore, sostenitore delle classi benestanti6, interveniva per propugnare il progetto di costituzione predisposto a 3 La Dichiarazione d’indipendenza recita: «Consideriamo come evidenti queste verità che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità; che, per assicurare questi diritti, vengono istituiti tra gli uomini governi i quali attingono i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta una forma di governo porta a distruggere questi scopi, il popolo ha diritto di cambiarla o di abolirla, istituendo un altro governo su principi tali e con tale organizzazione di poteri da avere le maggiori probabilità di assicurare sicurezza e felicità». Cfr. anche il documento stilato da Jefferson a nome della commissione nominata il 10 giungo 1776 dal Congresso continentale e composta anche da John Adams, Benjamin Franklin, Roger Sherman e Robert Linvingston, in Aquarone (1961, 53). 4 Hill (2016, 3) rinvia al passo seguente: «Tutti i governi [costituzionali], tuttavia vengono valutati solo in proporzione alla loro tendenza a promuovere la felicità di coloro che vivono sotto di essi» (Smith 1759, 377 [IV.i.11]). 5 “Happy” e “happiness” fanno anche parte di un lessico puritano v. Jones (2016, 50-1); e il credente deve sforzarsi di raggiungere la felicità come dono della grazia; v. Roberts (2016, 102-3 e 106). E solo in assenza di miseria la felicità può essere conseguita (ibidem, 113). 6 Per la contrapposizione con gli altri “padri” della patria v. de Caprariis (1961, 7-8). Cfr. Hamilton, Madison e Jay (2004). 42 Parte I - La categoria del moderno Filadelfia, dicendo: «Sì, cittadini, sento il dovere di dirvi che […] l’adottarla, corrisponda a vostro interesse. Sono persuaso che essa rappresenta la migliore soluzione per la vostra libertà, la vostra dignità, la vostra felicità»7. È all’interesse che rivolge le sue esortazioni Hamilton ed è con lo stesso realismo che porta l’attenzione dai diritti alle forme di governo perché «mano a mano che le ricchezze aumenteranno – obietterà ai suoi avversari alla convenzione di New York per la ratifica della Costituzione – e saranno concentrate nelle mani di pochi, e il lusso prevarrà nella vita sociale, la virtù sarà sempre più considerata quasi una graziosa appendice della ricchezza […] questa è la comune disgrazia che minaccia la nostra Costituzione, come tutte le altre» (cit. in de Caprariis 1961, 19). I “vizi privati, pubbliche virtù” di Mandeville (1727) diventano rights and public happiness in Madison8. Non va però neppure dimenticato che la “pubblica felicità” era un compito che le monarchie assolute dovevano paternalisticamente svolgere per i loro sudditi e, nel senso del cosmopolitismo illuministico, una dimensione universale di “pace perpetua”, che poteva essere realizzata anche dalle monarchie purché illuminate dalla ragione9. La felicità ha un’accezione meno politica e più individualistica nel passo famoso del saggio kantiano Sopra il detto comune. Qui, lo stato civile, fondato sul diritto, segue i tre princìpi a priori di libertà, eguaglianza e indipendenza, e libertà e felicità sono così iene Questo E-book appart 7 La frase è tratta da Aquarone (1961, 80). V. anche Hamilton, Madison e Jay (2004, 3). 8 “The Federalist” n. 14, in Hamilton, Madison e Jay (2004, 63). Hamilton ribadiva il concetto di «the great ends of public happiness and national prosperity» nel n. 36 dell’8 gennaio 1788 (idem, 168) dove la felicità è “pubblica” e la prosperità “nazionale”. 9 Nella ricordata prima stesura della dichiarazione d’indipendenza Jefferson menziona una lunga lista di «offese ed usurpazioni» del sovrano verso i sudditi delle colonie, per questo accusato di dispotismo e di tradimento della propria missione (cfr. Aquarone 1961, 54-8) per concludere così: «Insieme avremmo potuto essere un popolo grande e libero; ma sembra che una comunione di grandezza e di libertà sia al di sotto della loro dignità [dei britannici]. Sia pur così, dato che lo vogliono; la strada che porta alla gloria ed alla felicità è aperta a noi pure; la percorreremo separatamente, e ci pieghiamo alla necessità che pronuncia il suo definitivo Adieu!» (idem, 59). 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 43 intese: «Nessuno può costringermi ad essere felice a suo modo (nel modo cioè in cui egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ad ognuno è lecito cercare la propria felicità per la via che a lui sembra buona, purché alla libertà degli altri di tendere ad analogo scopo, la quale può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale, egli non rechi pregiudizio alcuno» (Kant 1995, 154). Il principio è infatti «dare preferenza a ciò che mira alla felicità piuttosto che a ciò che la ragione pone come condizione suprema: ossia rendersi degni di essere felici» (Kant 1995, 152). Kant condanna infatti senza mezzi termini i governi paternalistici (imperium paternale) che lasciano i sudditi in uno stato di minorità, incapaci di esprimere un volere autonomo, senza quell’autodeterminazione che solo la libertà assicura contro ogni forma di dispotismo (Kant 1995, 154). Quando Madison si interroga su quali siano i principi su cui fondare una confederazione di Stati, la risposta che dà è il ricorso al principio dell’auto-conservazione (self-preservation), delle «trascendenti leggi di natura e della natura di Dio, che dichiarano che la sicurezza e la felicità della società sono i fini a cui mirano tutte le istituzioni politiche e a cui tutte le istituzioni devono essere sacrificate»10. Qui e altrove, la felicità è una dimensione “pubblica” o “politica” e un compito istituzionale; per il suo perseguimento è ancora lo Stato, ora repubblicano e non assoluto, a farsi carico di compiti abdicati da una monarchia dispotica come quella da cui gli americani volevano staccarsi. La distanza con Kant è sostanziale. Tale distanza è la stessa sottolineata da Benjamin Constant nella sua critica a Gaetano Filangieri. «Il Filosofo napoletano – scrisse Constant – sembra di voler sempre affidare all’autorità la cura d’imporre a se stessa dei limiti […]. È ormai passato il tempo, in cui si diceva, che conveniva far tutto per il bene del popolo, e nulla col popolo. […] Cognite e definite sono le funzioni dell’autorità. Non devono già emanare da lei i miglioramenti, ma dall’opinione, che comunicata nella massa del popolo m il.c o a gm @ 00 0 .2 on e im e tr ie n a o f fis r a k bo o to ap p E- Q ue s Dal “The Federalist” n. 43 del 23 gennaio 1788, in Hamilton, Madison e Jay (2004, 216). 10 Parte I - La categoria del moderno 44 colla libertà […] ripassa da questa massa popolare in quella da essa scelti per suoi organi», cioè i rappresentanti del popolo e le assemblee parlamentari11. Quel che sottolinea Constant è la differenza tra il liberalismo e il riformismo dell’assolutismo illuminato («far tutto per il bene del popolo, e nulla col popolo»). Nel primo, i limiti al potere statale erano posti dalla volontà popolare, nell’assolutismo erano autolimitazioni imposte da governi riformatori. L’altro elemento importante nella posizione che Constant rivendica per se stesso è il ruolo svolto dall’«opinione» – «tramessa alle masse popolari» («transmise à la masse populaire») – e la fabbrica dell’opinione è uno dei meccanismi di governamentalità12 liberale che presuppone la costruzione di un «mercato tendenzialmente liberalizzato» (Habermas 2002, 86). Infine, Constant ribadisce ancora meglio il concetto della sua distanza da Filangieri: «Laddove Filangieri vede una grazia, io scorgo il diritto, e dovunque egli implora protezione, io reclamo libertà»13. est Qu 11 Si riprende da Constant (1828, 6). Sul pensiero di Filangieri e le critiche di Constant si rinvia a Pecora (2007). 12 Il concetto di “governamentalità” rappresenta il fulcro della teoria sviluppata da Foucault nei suoi corsi per formulare una originale e complessa analisi sia delle forme di potere che della connessa formazione della soggettività nel mondo occidentale. Il concetto di governamentalità viene concepito da Foucault in tre modi, complementari fra loro. Limitandoci alla prima definizione, estremamente utile per inquadrare il regime di governo neo-ordoliberale, che è specialmente l’oggetto del par. 15.4, la governamentalità è «l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale» (Foucault 2017a, 97-8). Foucault si occupa principalmente del governo nei termini di razionalità e pratiche applicate alla sovranità politica, ma anche alla produzione della soggettività dei governati, come peraltro emerge dalla sua definizione di governo: «governare può voler dire dirigere qualcuno, nel senso propriamente spirituale del governo delle anime, […] imporre un regime a un malato, […] può riguardare la condotta morale, […] il dominio che si può esercitare su se stessi e sugli altri, […] non si governa mai uno stato, né un territorio, né una struttura politica. Si governano persone, individui e collettività» (Foucault 2017a, 75). 13 Constant (1828, 7). ok -bo oE rt pa ap 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 45 Nella cameralistica14 germanica del XVII-XVIII secolo, il paternalismo del principe “buono” è ancora il dispensatore di Wohlfahrt, benessere dei sudditi, termine che ha un’accezione diversa dal bonum commune della scolastica, ed è un benessere da stato di «polizia», essenziale per il bene dei sudditi e per la prosperità dello Stato nazionale. Il cameralismo si pone come «scienza di polizia», metodo di governo dell’economia privata e di prescrizioni da scienza delle finanze15. Questo concetto di ordine e stabilità non è lontano dalla happiness dei padri costituenti americani. Sempre per Hamilton l’importanza dell’Unione sta nella «vostra [si rivolge ai Fellow Citizens] sicurezza politica e felicità»16. A cogliere il senso del repubblicanesimo americano con un tagliente spirito critico non era del tutto lontano Stendhal, che al suo “eroe” repubblicano Lucien Leuwen, che vive la sconfitta della rivoluzione di luglio e l’instaurazione della monarchia “borghese” di Luigi Filippo nel 1830, fa dire: «In America creperei di noia, tra persone, se si vuole, perfettamente eque e assennate, ma rozze, e Questo E-book appart ie ne a roffisimone.2000 14 Per cameralismo (da Kammer, l’organo che si occupava del patrimonio del principe e della finanza pubblica nella Germania) si intende un eclettico insieme di dottrine fiorito in Germania nel XVII e XVIII secolo – Federico Guglielmo I di Prussia istituì due cattedre di Scienze camerali ad Halle e a Francoforte sull’Oder nel 1727 e in Italia nel 1769 Cesare Beccaria ottenne la cattedra di Scienze camerali nelle Scuole palatine di Milano – che unisce le questioni relative all’amministrazione dello Stato con quelle del benessere generale ed economico. Queste dottrine, o scienze camerali, si occuparono di numerosi campi del sapere più o meno connessi con le due precedenti questioni, quali la politica, il diritto amministrativo, la popolazione, l’attività economica e la ricchezza nazionale, la scienza delle finanze, le teorie della bilancia commerciale. L’ottica con cui il cameralismo approcciava questo ampio raggio di questioni economiche, politiche, giuridiche e sociali erano quella del mercantilismo per quanto riguarda l’economia e quella dell’organicismo sociale – una concezione organica della società col vertice (monarca, principe o altro) attento verso tutte le componenti della medesima – per quanto riguarda la società; tuttavia la caratteristica principale dell’approccio cameralistico era il focus dottrinario e pratico sulla “amministrazione”. L’attenzione alle tecniche amministrative e alla cornice legale dello Stato anche nell’approccio all’economia e alla società ne fanno un “sapere” interessante anche per la comprensione del moderno pensiero neo-ordoliberale e le modalità di “governo” da esso ispirate. 15 Schiera (1983, 1143). Sul tema anche Napoli (2003). 16 Nel n. del 1 dicembre 1787 in Hamilton, Madison e Jay (2004, 64). Parte I - La categoria del moderno 46 che non pensano che ai dollari»17. L’happiness stendhaliana è più vicina al concetto degli happy few di Shakespeare (Enrico V, 4, 3)18 di quanto non lo sia a quella della costituzione americana o anche al severo individualismo kantiano. 2.3. La felicità dei moderni Mi convinsi che nelle relazioni umane la verità, la sincerità e l’onestà erano di fondamentale importanza, per il raggiungimento della felicità. (Franklin 1967, 105) Felicità raggiunta, si cammina | per te sul fil di lama. | Agli occhi sei barlume che vacilla, | al piede, teso ghiaccio che s’incrina; | e dunque non ti tocchi chi più t’ama (Montale, Ossi di seppia, 1990, 40) La felicità [...] deve essere in qualche modo prelevata e trasformata in utilità dello stato: fare della felicità degli uomini l’utilità dello stato, è la forza stessa dello stato. (Foucault 2017a, 238) Nel Traité d’économie politique (1615), Antoine de Montchretien (1576-1621), primo a introdurre il termine “economia politica”, svela anche, meglio di ogni altro, il senso della felicità dei moderni laddove osserva che «la felicità degli uomini consiste principalmente nella ricchezza, e la ricchezza nel lavoro». La passione per la ricchezza era però una delle passioni da controllare, perché la- Stendhal, Lucien Leuwen, Torino, Einaudi, 1956, p. 67 che traduce il passo: «Je m’ennuierais en Amérique, au milieu d’hommes parfaitement justs et raisonnables, si l’on veut, mais grossiers, mais ne songeant qu’au dollar» (Paris, Flammarion, 1982, I, p. 157 [cap. VI], in corsivo nell’originale). 18 «Potessi esser morto! Tale fosse davvero la volontà del buon Dio: infatti, che altro v’è in questo mondo se non affanni e sventure? O Dio mio! credo, in verità, ch’io avrei vissuto una vita felice, non essendo altro che un modesto campagnolo» (Would I were dead, if God’s good will were so – | For what is in this world but grief and woe? | O God! Methinks it were a happy life | To be no better than a homely swain) dalla 3a parte di Henry VI, 2, 5, 19-26; ma cfr. Curtis (2009). La felicità è l’idealizzata “gioia dell’anima” e pienezza nell’amore fino alla felicità di morire in Desdemona; in Zamir (2007, 160-3). Happiness significa qualcosa di molto simile a quello che per i francesi è il bonheur come stato d’animo colmo di soddisfazione; cfr. Mauzi (1960). 17 Q to ue s oo Eb E-bo ok ap pa 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 47 Ques to sciandola preda di una concorrenza sfrenata, al pari di quella per la ricerca della gloria, comportava una maggiore insicurezza per tutti. E per Hobbes uscire dall’insicurezza dello stato di natura, nel quale «la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve»19, è la sola condizione per far volgere gli interessi verso un bene comune (un commonwealth), in modo da superare «il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, la trascuratezza, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità»20. Se si legge lo stato di natura hobbesiano alla luce di Vita activa, le opere sono quelle che liberano l’animal laborans da una condizione umana opprimente e invivibile, senza possibilità di libertà. In Rousseau, sempre seguendo le indicazioni arendtiane, lo stato di natura è considerato secondo i parametri della sapienza antica e, dunque, non come conflitto di ambizioni passionali, bensì come una felicità istintiva, priva di passioni distruttrici, di un uomo libero, che è in pace con se stesso e in buona salute, ma che anche in questo caso gode della libertà perché non è afflitto dal lavoro, non vive in una società che è «assemblage dʼhommes artificiels & de passions factices» («un’accolta di uomini artificiali e di passioni fittizie»), che non hanno alcun fondamento nella natura, e perciò «ne respire que le repos & la liberté, il ne veut que vivre & rester oisif» («non respira che quiete e libertà; non vuole che vivere e restare ozioso»)21. A dividere Hobbes da Rousseau c’è lo stesso fossato che separa l’animal laborans dall’azione del cives, il quale è libero, al contrario dell’animal laborans, dal fardello di una quotidianità affannata alla ricerca disperata di beni di consumo. Arendt ritiene che, se di felicità si può parlare (in Vita activa “happyness” non è nobilitata come categoria a sé), ha senso solo in riferimento a una condizione sociale. La fecondità del metabolismo uomo-natura, che scaturisce dalla naturale abbondanza di forza-lavoro [esubero di “labor power”], appartiene ancora alla sovrabbondanza che vediamo ovunque nel regno della natura. La “benedizione o la gioia” del lavoro è la maniera umana di sperimen- 19 La frase, famosa, è tratta dal Leviathan, XIII I, 13, nella versione Hobbes (2001, 144). 20 Da De cive, X, I in trad. it. Hobbes (1948, 226). 21 Dal Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes (1754), II parte, le parti tradotte sono da Rousseau (1972, 75). 48 Parte I - La categoria del moderno tare la mera beatitudine di essere vivi che condividiamo con tutte le creature viventi, ed è inoltre il solo modo in cui anche gli uomini possono rimanere e muoversi con soddisfazione nel ciclo prescritto della natura, faticando e riposando, lavorando e consumando, con la stessa regolarità felice e senza scopo con cui si susseguono il giorno e la notte, la vita e la morte (Arendt 1958, 76, III.14). L’aggettivo happy, qui sottolineato, dà il senso di una condizione condivisa in uno spazio politico di libertà e non di persistente pursuit che fa leva sulla massimizzazione di mezzi scarsi per alimentare un’insoddisfazione perenne e inappagabile. La cura di se stessi e dei propri interessi non ha nulla a che vedere con la libertà e col luogo di partecipazione a una vita collettiva di azione e parola. La libertà autentica è «regolarità felice e senza scopo», appagamento e pace sociale. «La libertà dal lavoro in se stessa non è nuova; un tempo era uno dei privilegi più radicati in pochi individui»; lo sviluppo tecnologico pare prospettare che tutto ciò può essere accessibile anche ai più, tuttavia «[l]’età moderna ha comportato anche una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una trasformazione dell’intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nelle fiabe, giunge al momento in cui può essere solo una delusione» e quella odierna è «una società che non conosce più quelle attività superiori e più significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere conquistata» (Arendt 1958, 4, prologo). La conclusione è amara se anche i governanti equiparano le loro funzioni a un lavoro necessario alla società e se anche tra gli stessi intellettuali solo in pochi sentono di svolgere «un’attività creativa piuttosto che […] un mero mezzo di sussistenza. […] Certamente non potrebbe esserci niente di peggio» (Arendt 1958, 5, prologo). Il termine “società di lavoro” fa riferimento al libro di Ernst Jünger, Der Arbeiter, uscito un anno prima dell’avvento del nazismo, nel quale la guerra industriale moderna e la «mobilitazione totale» delle risorse e dei mezzi della tecnica hanno spinto la società industriale alle estreme conseguenze di una struttura di fabbrica integrata, dove l’operaio-automa diventa un ingranaggio di una macchina complessa per il cui funzionamento lo «Stato nazionale è obbligato alla concorrenza» (Jünger 1984, 173). Quest’ultima affermazione dello Qu es to E- bo ok a arti 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 49 Ques to -b o o k app E scrittore filosofo tedesco coglie sorprendentemente, in anticipo sui tempi, le idee del pensiero neo-ordo-liberale che nei medesimi anni dell’avvento nazista si andava formando, basandosi proprio sulla proprietà ordinativa di una concorrenza imposta dallo Stato a se stesso e a tutti gli ambiti della società. L’operaio perde il senso di quel che fa: compie gesti ripetitivi; altri dispongono della sua forza-lavoro come vogliono. Jünger prende a riferimento la Germania, o meglio la tradizione prussiana della nazione tedesca, e rende visibili i germi della formazione ordoliberale della governamentalità moderna, che trae origine dalla lunga tradizione cameralistica. Ciò è evidente quando afferma: «sia la libertà che l’ordine si riferiscono non già alla società, bensì allo Stato, e il modello di ogni struttura [organizzativa] è la struttura militare, non certo il contratto sociale»22. Lo Stato neoliberale (che trattiamo nella III parte) tende perciò a una «smodata concorrenza» dove una pace non può essere «mai garantita da un contratto sociale tra Stati, ma soltanto da uno Stato dal rango indubitabilmente imperiale, nel quale si uniscano imperium et libertas» (Jünger 1984, 177). La «smodata concorrenza [che] opprime, senza distinzioni, produttori e consumatori» dato che «[a]lla legge economica si sovrappongono leggi simili a quelle che reggono la strategia di guerra – non solo sui campi di battaglia, ma anche nell’attività economica» (Jünger 1984, 163 e cfr. anche 103 e 134). Già nella Jünger (1984, 15). Rispetto al concetto di «prussianità» merita soffermare l’attenzione su queste considerazioni: «La severa disciplina di una specie che si forma nel deserto di un mondo razionalizzato e moralizzato suggerisce il confronto con lo sviluppo della prussianità. C’è da dire che il concetto prussiano di dovere si adatta ad essere applicato, nel suo carattere intelligibile, proprio al mondo del lavoro» e poco più avanti aggiunge: «Nel concetto prussiano di dovere si compie l’atto con cui è domato l’elementare, secondo esempi registrati nella memoria: il ritmo delle marce, la condanna a morte dell’erede al trono, le magnifiche battaglie che si dovettero vincere con una nobiltà domata e mercenari addomesticati» (Jünger 1984, 63-4). Il riferimento alla condanna a morte rinvia, forse, all’ostilità di Federico II, detto il Grande, per il figlio Federico, principe ereditario fuggito in Inghilterra, ripreso e processato che, sul punto di essere giustiziato, fu rinchiuso nella fortezza di Küstrin solo per intercessione dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo (cfr. Barbero 2007, cap. V). Interessante, ma non sviluppato, l’accostamento tra esercito prussiano e ordine dei Gesuiti, entrambi frutto o reazione della Riforma, e modelli dell’organizzazione moderna del lavoro (in Jünger 1984, 93n.). 22 Parte I - La categoria del moderno 50 sua forma non pienamente matura, lo Stato neoliberale si forma su un avversario contro il quale combatte per raggiungere la posizione più elevata sulla frontiera dell’efficienza e l’avversario è chi lavora senza essere efficiente, cioè senza avere come obiettivo quello di raggiungere, come il minatore Stachanov (Vigne 1984), il primato da schiavo e la gloria da combattente che ha resistito sul fronte del lavoro e ha consentito quell’avanzamento di posizione trascinandosi dietro emuli compagni. Quella che Jünger chiama la «dittatura del pensiero economico»23 ha prodotto, in Germania, l’operaio erede della prussianità, «milite ignoto che viene annientato sui campi di battaglia del lavoro, e proprio per questo, d’altro canto, egli si fa avanti come signore e ordinatore del mondo» (Jünger 1984, 40). La digressione sull’Arbeiter jüngeriano era necessaria perché i termini di riferimento che Arendt tiene sempre presenti sono, da un lato, l’antichità e, dall’altro, il mondo contemporaneo della tecnica24. Il mondo dell’autentica libertà a cui Arendt si riferisce è quello fatto di relazioni umane intessute di «azione» e «discorso» (quel che in Aristotele sono praxis e lexis, costitutivi del bios politikos), che, come una trama e un ordito, creano la tessitura dello spazio politico. A differenza del “lavoro” o dell’“opera”, nell’attività umana dell’“azione” è imprescindibile la presenza di altri uomini per dar corpo a un «mondo di cose in cui vivono gli uomini, un mondo che fisicamente si trova tra loro e dal quale derivano i loro interessi specifici, oggettivi, mondani. Tali interessi costituiscono, nel senso più letterale del termine, qualcosa che inter-est, che sta tra le persone e perciò può metterle in relazione e unirle» (Arendt 1958, 133, V.25). Azioni e discorsi creano uno spazio relazionale per il quale Arendt usa il termine in-between (reso nella traduzione italiana con infra). Tale spazio è parte integrante di ogni La supremazia dell’economico ha dell’imperscrutabile; il mistero è enunciato da Jünger con due constatazioni: «in primo luogo, l’economia non è una forza destinata a conferire libertà; in secondo luogo, un significato economico non può spingersi fino a toccare gli elementi della libertà e a penetrarli» (1984, 28). 24 Va notato, tuttavia, che né in Vita activa, né in Le origini del totalitarismo del 1951, ci sono rinvii a Jünger. Né le loro posizioni né il clima politico dell’epoca erano concilianti; tuttavia, Lyotard (1999, 86) scorge nel concetto di totalitarismo elaborato dalla Arendt un eco della mobilitazione totale di Jünger. 23 Que Ques to Eboo 2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno) 51 relazione umana, anche della più oggettiva, a cui si sovrappone e ricopre di parole e atti, per quanto non lascia consistenze tangibili. «Ma con tutta la sua intangibilità, – aggiunge Arendt – questo spazio è non meno reale del mondo delle cose che abbiamo visibilmente in comune. Noi chiamiamo questa realtà “l’intreccio” [web] delle relazioni umane» (Arendt 1958, 133, V.25). L’homo faber ha prodotto “opere” che hanno ri-creato l’ambiente umano e consentito di liberarsi dai cicli naturali. Il dominio della natura è contrastato; il rapporto dell’uomo con la natura è mediato da oggetti che umanizzano uno spazio prima incorporato nella naturalità delle cose. L’opera sottrae, in altri termini, il lavoro dalla dimensione di un tempo circolare (Arendt 1958, 15, I.3; e 35, II.6) e introduce una nozione di tempo lineare per accumulo di opere che si trasmettono di generazione in generazione producendone di nuove senza ritorni da capo. L’operare si svolge lungo un’asse teleologico di progetto e realizzazione, per il superamento di limiti biologici. Nella parte finale del libro, Arendt si sofferma sulla rivoluzione costituita dal cannocchiale di Galileo, autentico compimento della rivoluzione copernicana, che estende dalla scienza alla morale un nuovo radicale rapporto con la conoscenza del mondo e di sé. Col cannocchiale la visione dell’uomo si sposta in un autentico “punto archimedeo” posto al di fuori del mondo umano, dal quale è permesso di sollevare, in tal modo, il velo dei segreti della natura25. Anche il tempo è umanizzato, ma diventa memoria e storia solo attraverso l’azione che dà continuità alle istituzioni politiche26. 25 La «metafora giudiziaria» di una natura posta di fronte al tribunale kantiano della ragione coglie il senso dell’interrogare la natura con metodo ed esperimento a partire da Bacone, Galileo, Torricelli e Stahl; con loro inizia il disvelamento dei misteri che l’illuminismo massonico, invece, estende nei riguardi di altre rivelazioni; cfr. Hadot (2004, 133 e 345). 26 «Tutte e tre le attività e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più generali dell’esistenza umana: nascita e morte, natalità e mortalità. L’attività lavorativa assicura non solo la sopravvivenza individuale, ma anche la vita della specie. L’operare e il suo prodotto, l’“artificio” umano, conferiscono un elemento di permanenza e continuità alla limitatezza della vita mortale e alla labilità del tempo umano. L’azione, in quanto fonda e conserva gli organismi politici, crea la condizione per il ricordo, cioè la storia» (Arendt 1958, 8, I.1). 52 Parte I - La categoria del moderno La vita activa si dispiega su tre livelli ambientali e di relazioni umane. Il primo è una sorta di stato di natura nel quale prevale la lotta per la sopravvivenza. Il passo verso lo stadio superiore e più complesso è dato dalla stratificazione di strumenti di lavoro e oggetti fabbricati che fecondano le possibilità del lavoro umano. La rivoluzione industriale rappresenta il prodotto di attività prometeiche che non hanno precedenti storici se non nell’avvento di un’agricoltura stanziale (Arendt 1958, 85-6, III.16). Arendt fonda il proprio ragionamento sulla base della distinzione aristotelica tra oikos, spazio della vita privata, rivolto ai bisogni biologici della nuda vita, e agorá, una delle dimensioni della sfera pubblica27, piazza nella quale i cittadini convengono ed esercitano la loro “azione” ed effettuano i loro scambi. L’atto e il discorso sono il tipo di relazioni che si esplicano nell’attività politica ed è tale attività che immette nella storia. La vita istituzionale della polis si basa su quella dell’oikos, ma tende a superare i rapporti di violenza e di soggezione che caratterizzano l’organizzazione del lavoro nella famiglia. Nella polis l’esercizio del potere segue regole e riti che tendono a disinnescare l’uso di relazioni violente che negano la pratica del discorso. L’opposizione violenza familiare-discorso politico porta Arendt ad accentuare un rapporto essenzialmente conflittuale che riscontra anche tra oikos e polis. k oo -b E o st e Qu 27 L’agorá è qui vista, anche metaforicamente, come luogo di contesa permanente tra la libertà politica e la libertà di mercato; è perciò luogo deputato allo scontro tra l’“azione”, in senso arendtiano, e le attività mercantili e bancarie, intese secondo la nostra estensione della tassonomia arendtiana delle attività umane (v. par. 3.2 e tav. 2). All’epoca di Omero – come precisano Austin e Vidal-Naquet (1977, 43) – gli scambi commerciali erano ancora poco sviluppati e l’agorá delle città non svolgeva ancora funzioni economiche, ma era principalmente un luogo d’incontro. Omero non usa un termine preciso per definire il mercante. Solo successivamente, ad Atene e in altre città, l’agorá accoglie stranieri per i loro commerci, sui quali le autorità imponevano tributi (Austin e Vidal-Naquet 1977, 1223). Nella Tessaglia l’agorá, originariamente piazza di incontri pubblici, diventa il centro economico, con una separazione tra un’agorá “libera” e una “commerciale”; quest’ultima è quella a cui si riferisce Platone nelle Leggi (v. idem, 124). ie ap rt pa Capitolo 3 LA COSTRUZIONE DELL’ANIMALE POLITICO E IL TEATRO DELLO SCAMBIO 3.1. L’azione e la libertà resoconto di Senofonte su Sparta, dove tra 4000 persone sulla piazza del mercato uno straniero poteva individuare non più di 60 cittadini. (Arendt 1958, 247) Non tenevo mai, a quei tempi, libri dei conti, degni soltanto di un animo gretto. Non avevo debiti. Pagavo con magnanimità tutto quello che acquistavo e acquistavo tutto quello che volevo. (Thackeray 1844, 160) L’intera costruzione arendtiana della vita activa ha – come accennato – le sue radici nell’etica aristotelica e nelle elaborazioni successive di vita contemplativa (bios theoreticós), non riducibili alla sola dimensione di vita teoretica né assimilabili a quella di “buona vita” nel senso di libertà esistenziale1. Arendt chiarisce la propria posizione, distinguendola dalla tradizione della filosofia politica («contraddice apertamente la tradizione»), per evidenziare le articolazioni interne alla vita activa e fornire un quadro concettuale di riferimento al di là di capovolgimenti nell’ordine gerarchico dell’antichità (Arendt 1958, 13-4, I.2). La nozione di azione è, sotto questo profilo, quella più controversa, perché è posta al vertice della gerarchia dominante sia nel pensiero greco che in quello cristiano, per la superiorità assegnata alla vita contemplativa rispetto a tutto il resto. L’azione così concepita si distingue dalla razionalità individualistica della ragion pratica in senso kantiano per una visione più concreta, meno trascendentale, un’azione politica come azione degli uomini che conoscono solo il mondo che hanno creato e sul quale continuano a intervenire. La storia è possibile perciò con la creazione di uno spazio pubblico, che permette il collocarsi fuori 1 Quest’ultima è la tesi di Voice (2014, 47). Questo Ebo o st ue Q 54 Parte I - La categoria del moderno dalla ciclicità naturale. Lo spazio pubblico è quello fatto di «discorso e azione» che consentono agli uomini di distinguere le rispettive individualità (Kohn 2000, 125). L’azione si distingue nettamente dal lavoro e dall’opera per assenza di corporeità nel senso che Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere gli altri a lavorare per sé [cioè gli homines laborantes], e possono benissimo decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d’uso [ossia nessun’opera]; la vita di uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere inique, ma essi sono certamente esseri umani. Ma la vita senza discorso e senza azione – è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini (Arendt 1958, 128, V.24). La sfera domestica era il luogo della necessità (dove la sopravvivenza sia individuale che della specie era curata); la polis era il luogo della libertà: la raggiunta sicurezza nella prima era condizione necessaria per l’accesso alla seconda. Necessaria ma non sufficiente, perché l’accesso era riservato ai coraggiosi, perché tali bisognava essere per lasciare la casa, luogo di cura della propria vita e sopravvivenza, e dedicarsi o alla gloria, o, soprattutto, agli affari politici della città. Prima di Machiavelli, nel mondo post-classico, nessuno, secondo Arendt, si era accorto dell’alta dignità della sfera politica e del coraggio richiesto per appartenervi, dignità e coraggio che Machiavelli riconosce nel Principe che ascende dalla vita privata – condizione comune di tutti – al principato, condizione per la signoria e per la gloria, mentre in precedenza nei feudi come nelle comunità mercantili cittadine, caratterizzati da un atteggiamento cristiano verso la politica, non vi era di fatto alcuna sfera pubblica, persino la corporazione non era altro che una “compagnia” di privati: Non è quindi sorprendente che il pensiero politico medievale, interessato esclusivamente alla sfera secolare, ignorasse lo scarto tra l’esistenza protetta nell’ambito della vita domestica e l’essere esposti senza alcuna protezione nella impietosa realtà della polis, e ignorasse di conseguenza il coraggio come una delle più elementari virtù politiche […]. Chiunque volesse accedere alla sfera politica doveva prima essere pronto a rischiare la vita, e un amore troppo grande per la vita impediva la libertà, era un segno certo di spirito servile. Il coraggio diventava quindi la virtù politica per eccellenza (Arendt 1958, 26, II.5). 3 - La costruzione dell’animale politico 55 Se il prezzo della libertà – di azione – era alto, altrettanto importante era il suo rendimento: si trattava cioè del passaggio dalla nuda vita alla “buona vita”, scopo della esistenza della polis stessa, dove la “buona vita” «non era quindi solo migliore, più libera da preoccupazioni pratiche o più nobile della vita ordinaria, ma di una qualità del tutto differente […] non era più legata al processo biologico della vita» (Arendt 1958, 27, II.5). Il salto qualitativo, la liberazione dalla necessità biologica, consentono la trascendenza in una potenziale immortalità terrena, trascendenza che è, di fatto, una condizione persino necessaria per l’esistenza della politica e della sfera pubblica. È la sfera pubblica, che precede e succede al singolo in una lunga catena di continuità, che sola può assicurargli che qualcosa di lui si preservi dall’oblio del tempo: Per molti secoli prima di noi – ma ora non più – gli uomini entrarono nella sfera pubblica perché volevano che qualcosa di proprio […] fosse più duraturo della loro vita terrena […] la polis era per i greci, come la res publica per i romani, la prima garanzia contro la futilità della vita individuale, lo spazio protetto dalla futilità e riservato alla relativa permanenza, se non all’immortalità, dei mortali (Arendt 1958, 41-2, II.5). ppa ook a -b est oE Qu Nelle prime pagine di Vita activa c’è, forse, il solo indizio di cosa sia l’uomo per Arendt quando osserva che l’“animale politico” (o sociale) della definizione classica è tale solo se entra in gioco il linguaggio: «Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio che fa dell’uomo un essere politico» (Arendt 1958, 3, prologo). La stessa osservazione si ritrova nelle lezioni di Foucault (2017b, 2445). È chiaro che né l’homo laborans, né l’homo faber sono animali politici; per essi il linguaggio non è essenziale, hanno vita, ma non identità, sono morti all’azione politica. L’azione rivela agli altri la persona e qualifica la platea di coloro che assistono come spettatori. I regimi totalitari – come Arendt aveva messo in luce nel libro del 1951 – non hanno spazi pubblici per l’esercizio della volontà politica, ma solo – si potrebbe aggiungere – spazi di propaganda per ottenere acclamazione di massa, cieco fanatismo e esaltazione dello spirito di sacrificio (Arendt 2010, 481-8 [cap. XI]). Lo spazio pubblico e politico è uno spazio comunitario, come l’agorá nella com Parte I - La categoria del moderno gmail. @ 0 0 .20 56 ppa a k o o o E-b Quest rtie fisim f o r a ne one polis2. Contrariamente all’opera, l’azione è finalizzata in se stessa. L’osservazione di Arendt che «l’azione non ha fine» la porta a precisare un altro concetto importante come quello della libertà. Quando osserva, poco più avanti (Arendt 1958, 172, V.32), che «chi agisce non sa mai cosa sta facendo e diventa sempre “colpevole” delle conseguenze che non ha mai inteso provocare o nemmeno ha previste», introduce un aspetto della dimensione comunitaria e storica nella quale l’azione come «facoltà umana della libertà» si infila in un «intrico delle relazioni umane», in un campo nel quale l’intenzione segue curvature impreviste per l’agente. La proprietà dell’azione che è sfuggita all’antichità è quella della “processualità”. L’azione umana innesca processi consequenziali sia nella natura che nella storia. Quindi l’azione umana non è finita nel senso di avere un inizio (la causa) e una fine (l’effetto), ma è solo l’innesco di un processo potenzialmente infinito e, quindi, incerto negli sviluppi e negli esiti. Qui Arendt si pone al centro della dicotomia basilare che distingue il pensiero etico dal pensiero tecnico ed economico: per il primo è l’intenzione dell’azione che rileva per il giudizio (indipendentemente dalle conseguenze della medesima), per il secondo a rilevare è la conseguenza o risultato dell’azione (indipendentemente dall’intenzione della medesima). E, di fronte alla inevitabilità delle conseguenze non intenzionali dell’azione umana, Arendt sembra comunque ritenere sempre colpevole l’agente (ricordiamo il suo libro sul caso di Eichmann). Ma, inoltre sembra anche farsi convinta della inevitabilità della eterogenesi dei fini, che per Mandeville e Smith agisce sempre, fortunatamente o provvidenzialmente, per assicurare l’esistenza della società capitalistica moderna. L’agente potrebbe perciò solo astenersi, stoicamente, per evitare colpe. Su questo punto Arendt ha la soluzione per salvare la libertà umana dalla via senza uscita dell’inazione. L’errore principale, secondo lei, consiste nell’identificazione della libertà con la Cfr. Esposito (1999, 94-106) il quale riconosce ad Arendt di aver fornito uno dei contributi più significativi all’elaborazione del concetto di comunità: «non solo Arendt ha pensato la comunità, ma è colei che nel nostro secolo lo ha fatto con maggiore intensità» (p. 94). 2 3 - La costruzione dell’animale politico 57 sovranità (ma potremmo aggiungere noi – la sovranità è scevra da colpe, per definizione). La spiegazione è la seguente: «Se fosse vero che […] sovranità e libertà si identificano, allora nessun uomo potrebbe esser libero, perché la sovranità, l’ideale di non compromettere l’autosufficienza e la padronanza di sé, è in contraddizione con la condizione della pluralità» (173, V.32). Per Arendt, allora, è forse possibile coniugare la libertà con l’assenza di sovranità: «Dobbiamo allora domandarci se […] la capacità di agire non alberghi in se stessa certe potenzialità che le consentano di sopravvivere nonostante l’assenza di sovranità» (Arendt 1958, 174, V.32). Lo spazio pubblico in cui gli agenti compiono liberamente discorsi e atti è, di fatto, una rete di relazioni predeterminate, nella quale tutti quelli che vi partecipano vengono inevitabilmente condizionati. La libertà è sempre condizionata. Ed è questo che introduce nella sfera pubblica legami e colpe. Pare trasparente – seppure non citato – il riferimento alla Genealogia della morale di Nietzsche in tema di promesse [II, 1]3. La promessa entra nel ragionamento di Arendt nella sequenza logica della sovranità-libertà. L’animal laborans era salvato («redento» così dice) dal ciclo vitale ricorrente di lavoro-consumo-lavoro dall’homo faber alleviatore di fatica, e quest’ultimo, attanagliato nella tensione mezzi-fini della tecnica, era, a sua volta, redento dal discorso e dall’azione. Ma anche l’azione ha il proprio circolo vizioso, che è quello appena visto della colpa, anche inconsapevole. Il modo per uscirne è quello di «fare e mantenere delle promesse», come rimedi «all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro» (Arendt 1958, 175, V.33). L’allevamento nietzschiano a poter «fare promesse» è il modo di rendere responsabile e di introdurre qualche certezza in un mondo che non ne ha. Considerata nel contesto arendtiano dell’azione, la proposizione ricordata contribuisce a delineare il complesso reticolo di legami che sostiene l’intera comunità di relazioni, ma nel quale inevitabilmente si trova impaniata ogni persona agente. La libertà d’azione – si può dire – è conquistata mediante una riduzione dell’incertezza (e dell’inattività) a condizione che s’infittisca la rete di impegni reciproci. In Questo E-book appart 3 Sulla questione v. Gazzolo (2014, 31-54). Parte I - La categoria del moderno 58 questo senso si può comprendere il nesso stabilito dalla Arendt tra promesse e perdono quando afferma che queste due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato [tra cui le promesse non mantenute], i cui “peccati” pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni generazione; e l’altra, il vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza, quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini (Arendt 1958, 175, V.33). Ovviamente Arendt non ha in mente solo le promesse di credito-debito (vedi parte II), ma soprattutto quelle degli accordi politici e dei patti sociali. Ma in cosa si differenziano i debiti da altri tipi di impegni presi nel passato per rendere prevedibile il futuro? La riconoscibilità di una controparte, non solo nelle relazioni economiche, diventa più chiara attraverso le promesse. Il ragionamento di Arendt a tal riguardo è pertinente persino se ci limitiamo a considerare un contesto semplicemente economico. Riassumiamolo in questo modo: la condizione umana della pluralità genera incertezza, superabile attraverso legami, che aiutino a definire la propria e l’altrui identità, in base a impegni per l’adempimento di promesse. Si legge appunto: 2 ne . o isi m ff ien e a ro rt oo k pp a a b E- to ai ue s Q gm @ 00 0 Senza essere legati all’adempimento delle promesse, non riusciremmo mai a mantenere la nostra identità; saremmo condannati a vagare privi di aiuto e senza direzione nelle tenebre solitarie della nostra interiorità, presi nelle sue contraddizioni e ambiguità – tenebre che solo la sfera luminosa che protegge lo spazio pubblico, mediante la presenza degli altri che confermano l’identità di chi promette e chi mantiene, può dissolvere (Arendt 1958, 175, V.33). Ma la capacità di agire, e anche quella di contrarre promesse e mantenerle, sarebbe paralizzata, o espressa in atti singoli che non hanno repliche, se non ci fosse una qualche possibilità di «essere perdonati». Il perdono è dunque l’altra faccia della promessa ed entrambi, promessa e perdono, sono da considerarsi il collante essenziale di una comunità di uomini liberi che agiscono con parole e atti. Il perdono libera dalle conseguenze di fatti e promesse, dissolve gli impegni, redime e offre possibilità di ripresa. 3 - La costruzione dell’animale politico 59 3.2. Lo «spazio dell’apparenza» Q u e st o L’immagine fantastica ha infatti una sua verità (Giordano Bruno 2003, [61] Articolo XXX) E-b ook a p par t i e n ea Ogni rivoluzione scientifica ha trasformato la immaginazione scientifica in un modo che dovremo descrivere […] come una trasformazione del mondo entro il quale veniva fatto il lavoro scientifico. (Kuhn 1978, 25) L’intelletto ha la vista lunga in fatto di metodi e strumenti, ma è cieco rispetto a fini e valori. (Einstein 2000, 221) ne.2 00 o roffi sim Lo «spazio dell’apparenza» è propriamente il mondo di cose e di relazioni così come si rappresentano a chi si trovi all’interno di esso. È lo spazio che si forma laddove gli uomini «condividono le modalità del discorso e dell’azione» (cfr. Arendt 1958, 145, V.27 e p. 146, V.28). È quindi uno spazio di civiltà e di potere, di un potere che non si accumula ed è sostenuto da parole e atti volti a mantenere i patti, le trasparenti promesse4. La sfera pubblica è un fragile spazio di apparenza. Nulla di più effimero vi è della fiducia nel potere pubblico, a causa dell’eredità del pensiero platonico e agostiniano che inocula un’intrinseca diffidenza verso il potere temporale. Inoltre è evidente che, in uno spazio basato su patti e accordi più o meno informali, la fiducia e la certezza del rispetto della parola data diventano cruciali. Allora, data la fragilità e la complessità della natura umana, appare evidente che anche lo spazio pubblico risulta indebolito. Infatti, osserva Arendt: 0@ gma il.c Non esiste forse nulla nella storia che sia così effimero come la fiducia nel potere, nulla che sia stato più duraturo della sfiducia platonica e cristiana nello splendore che accompagna lo spazio in cui esso appare, nulla infine, nell’età moderna, più comune della convinzione che “il potere corrompe” (Arendt 1958, 150-1, V.28). om L’animal laborans e l’homo faber stanno fuori da tale spazio, e ne sono tenuti fuori. Essi non hanno tempo per l’ozio. Il loro essere 4 «Il potere è realizzato solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per nascondere le intenzioni ma per rivelare la realtà, e i gesti non sono usati per violare o distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà» (Arendt 1958, 146, V.28). 60 Parte I - La categoria del moderno impolitici li porta a considerare le attività pubbliche solo per la loro utilità, il primo perché preoccupato di rendersi la vita più facile e lunga, il secondo perché valuta il mondo in funzione di cose usabili. Entrambi non possono, tuttavia, fare a meno della sfera pubblica perché senza di essa anche la loro realtà non tiene. Lo spazio dell’apparenza fornisce quella fiducia nella loro stessa identità, li preserva dal dubbio (Arendt 1958, 153, V.29). Si può aggiungere (ma Arendt non lo fa, sebbene lo lasci intendere) che l’infiltrazione della corruzione nella sfera pubblica viene dal suo interno, quando non c’è più dialogo né udienza e quando i gesti politici tendono a mutarsi in violenza; per esempio, la corruzione nasce, principalmente, a causa della formazione di gruppi che coagulano potere, escludono gli altri da informazioni e decisioni e, per questa via, stravolgono i patti originari, seminando sfiducia, ma anche per effetto delle più forti pressioni che possono giungere dal “basso”, da parte dei marginali, esclusi dal discorso e dall’azione, cioè da parte di coloro che si muovono in un altro ordine di finalità, per interessi particolari e sete di guadagno. Le relazioni all’interno della fragile sfera pubblica e l’importanza del binomio promessa-perdono, inteso come fattore di coesione sociale e di sicurezza nell’azione, suggeriscono un’ulteriore considerazione che riguarda la figura del mercante. Il mercante è il tipico uomo d’affari, che non è oggetto di una riflessione particolare nei modi della vita activa. Da un lato, Arendt riprende infatti la considerazione aristotelica che assimila l’«attività acquisitiva del mercante» a quella dell’artigiano indipendente nelle proprie occupazioni, ma sempre soggetto, come uno schiavo, alle dure necessità della sopravvivenza (Arendt 1958, 11, I.2), dall’altro, il mercante compare come figura anfibia tra l’homo faber e il trafficante che esce dall’isolamento per fondare il «mercato di scambio» e far sbocciare il valore di scambio dal valore d’uso (Arendt 1958, 117, IV.22). Allora, ovviamente, il mercante non compare sulla scena dove si svolge l’attività dell’azione. A ben riflettere, anche il mercante, come l’uomo d’azione, svolge le proprie attività d’affari sulla base di promesse. Ma tali promesse trasportano il mercante verso un altro tipo di mediazione, che non è quella politica ma è quella economica. Come prima avveniva nella metamorfosi dell’homo faber, ora, l’uomo d’affari, alla ricerca di occasioni di profitto, diventa il Questo E-b 61 mediatore tra la sponda dei bisogni e quella dell’azione disinteressata, in quanto costruttore di promesse e di fiducia. In altre parole, ciò significa che la figura del mercante rimane necessaria, sebbene confinata fuori dello spazio pubblico. La funzione di mediazione propria dell’attività mercantile intreccia trasferimenti di merci con negoziazioni di promesse. Ciò è ancora più evidente in una figura più specifica di mercante come quella del mercante di denaro. Il banchiere tratta una “merce” che è propriamente “non merce”, essendo un prodotto particolarmente fragile; tale prodotto non è, come le altre merci, soltanto il frutto di un processo di produzione privato, di una fabbricazione con input appropriabili. Infatti, nella funzione di produzione della banca compare, fra gli input, un bene non tangibile e non prezzabile sul mercato, come la “promessa” e un insieme di regole che la rendono credibile (v. II parte). In altre parole, intervengono dei “beni pubblici” che non gravano sui costi aziendali, ma sono il frutto di quel “bene” che Keynes chiama «stato della fiducia»5. La merce “non merce” ha del paradossale; la sua comprensione richiede qualche premessa. È noto che il banchiere, quale intermediario di credito, ha come atavica raffigurazione quella piuttosto odiosa dell’usuraio. Costui non ha mai trovato grande comprensione né sociale né teorica fino alle elaborazioni degli economisti e, in particolare, di Jeremy Bentham6. Marx, anche in questo caso, si pose nel solco della tradizione aristotelico-tomista, e pur in epoca industriale vide pullulare attorno alle banche usurai, fiancheggiatori di «que- Qu E o t s e - ka o o b p tie par ne ffis o r a ne imo .2 3 - La costruzione dell’animale politico Lo state of confidence per Keynes (1936, 344 [12, V]) è un aspetto decisivo per la stabilità del mercato del credito e dei capitali; è una condizione generale e non aziendale, un peggioramento dello stato di fiducia «è sufficiente a provocare un crollo» finanziario, «il suo miglioramento, se è condizione necessaria della ripresa, non è condizione sufficiente». Come ricorda Graeber (2012, 239) la moneta è un simbolo di promesse, «il segno di un accordo collettivo». L’esempio che fa è significativo: le «immagini impresse sulle monete greche (il leone di Mileto, il gufo di Atene) erano generalmente gli emblemi del dio della città, ma anche una sorta di promessa collettiva, con cui i cittadini convenivano che non solo le monete sarebbero state accettate in pagamento per i debiti con le autorità pubbliche, ma in senso più ampio, che ognuno le avrebbe accettate, per tutte le transazioni, e quindi che potessero essere usate per comprare qualunque cosa si desiderasse». 6 Sulla questione si rinvia a Guidi (1991, 90-7, 106-7, 132-3 e, specialmente, 145-6, 169-73). 5 62 Parte I - La categoria del moderno Questo E-book appartiene a roffisimone.2000@gmail.com sta classe di parassiti», all’opera per «decimare periodicamente i capitalisti industriali, ma anche [per] intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva – e questa banda non sa nulla della produzione e non ha nulla a che fare con essa» (Marx 1894, 748 [33]). La tradizione giudaico-cristiana, specialmente dopo la netta prescrizione evangelica del «prestare senza nulla sperare» in premio – inde nihil sperantes (Lc 6, 34-35) – resiste ovviamente anche dopo Bentham, e anche pensatori lontani dal pensiero marxista, come Veblen o Keynes o, persino, Schumpeter, distinsero nettamente economia “reale” da “finanza”, attività d’investimento in impianti e macchinari da investimenti in attività finanziarie scambiate nei mercati borsistici, dove gli operatori hanno prospettive di guadagno “corte”, e sono pronti a rivendere immediatamente le attività detenute pur di realizzare guadagni in conto capitale. La tradizione di condanna morale del prestito a interesse aveva esentato pochi prestatori e banchieri dal peccato e dal reato di usura. Non che questa condanna frenasse il fenomeno. Per non porsi del tutto fuori dalla legalità coloro che continuavano, per necessità e per mestiere, a prestar denaro ricorsero ad artificiose procedure tecniche, torsioni giuridiche e teologiche. Un solido fondamento teorico contro tali pratiche risale agli inizi del XIV secolo, quando il vescovo di Worcester Tommaso di Cobham, da fine teologo e autore di uno dei primi trattati per confessori, ricorse non solo alle solite parole durissime contro l’arte della banca, ma introdusse un argomento di una certa consistenza, per quanto non ampiamente ripreso nei dibattiti teologico-filosofici che già a quell’epoca iniziavano a trovare soluzioni a una pratica dilagante e, obtorto collo, riconosciuta necessaria. Va da sé che per Tommaso di Cobham, come per altri teologi, le ragioni della condanna erano senza via di scampo. Ma, per lui, la pretesa di ottenere un frutto, un interesse, oltre alla restituzione del capitale, altro non era che una forma particolarmente odiosa di furto. Non si trattava di una semplice appropriazione di un bene altrui, ma di un bene appartenente a Dio. L’usuraio è un ladro del tempo, vende tempo, e il tempo appartiene a Dio7. Questo il 7 Tommaso di Cobham è stato riscoperto da Le Goff (1992, 33), che ha messo in valore le argomentazioni del vescovo-teologo. Si veda la Summa confessorum di Thomae de Chobham (1968) alla Questio XIa De usura, dove sono ripresi 3 - La costruzione dell’animale politico 63 ragionamento di Tommaso di Cobham: «Unde fenerator nihil vendit debitori quod suum est, sed tantum tempus quod dei est»: l’usuraio non vende nulla di suo ai propri debitori, ma soltanto il tempo che è di Dio (Thomae de Chobham 1968, 505). Pertanto, se nessuno può esigere un profitto da una cosa che non è sua, tanto meno, può esigere un compenso quando compie il sacrilegio di appropriarsi di una cosa fuori dalle disponibilità umane perché res sacra. In epoca moderna il concetto di debito odioso è stato rinverdito, in particolare dal periodo post-coloniale in poi, per designare col termine di odious debt i rapporti di disparità e di assoggettamento delle economie in via di sviluppo attraverso l’indebitamento nei confronti delle banche dei paesi avanzati. In certe condizioni di difficoltà commerciale e di crisi del cambio, il servizio del debito estero è l’ingranaggio fondamentale che rende inevitabili le politiche di austerità imposte dai creditori, anche col ricorso a pressioni politiche e militari, per imporre il rimborso e sanzionare le politiche espansive che il debito aveva accondisceso fino ad allora8. È quanto accaduto in Grecia nel 2015 dopo la crisi dei debiti sovrani. Questo E-boo e commentati tutti gli argomenti contro il fenerator che trae lucro senza lavorare, opera senza sudore, guadagna anche dormendo; rende in miseria il povero (1968, 505); è un avaro e un idolatra (1968, 506). 8 I debiti pubblici sono stati denunciati come “odiosi”, o “intollerabili”, specialmente in fasi rivoluzionarie o alla fine di conflitti. Dopo la guerra di secessione americana, l’Unione vincitrice dichiarò privi di valore i debiti degli stati confederali sconfitti. Lo stesso successe dopo la rivoluzione d’Ottobre per i debiti dell’impero zarista. Ma la nozione giuridica di debito “odioso” fu sviluppata da Sack (1927) in riferimento alle conseguenze della guerra ispano-americana del 1898. In quel caso il passaggio di Cuba sotto il protettorato americano pose ai vincitori il problema di accollarsi gli oneri di un debito contratto dalla corona spagnola, perciò si ritenne di respingere un’ipotesi del genere con la giustificazione che quel debito era stato contratto senza il consenso popolare e contro l’interesse generale di generazioni ora liberate dall’oppressore. In questo modo, si introducevano due concetti abbastanza evanescenti per sostenere il diritto di annullare il debito e tutte le pretese dei detentori locali di titoli legittimamente acquistati prima dello scoppio del conflitto. Una tesi avversa alla scelta “ripudiatrice”, fatta degli americani nel caso cubano ma anche da altri paesi nel corso della storia, ritiene che il ripudio di un debito sovrano comporti, se non ci sono rotture di regime politico, una perdita irrimediabile di credibilità e il peggioramento delle condizioni nel caso di dover contrarre nuovi debiti. consuma Nel “tempo libero” «ha sempre chiesto di essere felice» privata Sfera di attività «gioie del lavoro» e della tecnica “virtù” borghesi accumula risparmio / lusso mercato privata mercato consuma e idea attrezzi e macchine filisteismo borghese homo faber trasporto e fornitura di beni dio denaro accumula e si accultura mercato / anticamera delle istituzioni riservatezza e introspezione credito onore e virtù agisce e parla contempla, prega pubblica istituzioni cives, bios politicos vita contemplativa beni pubblici istituzioni libertà l’azione è finalizzata in sé – politica. Vivere bene Azione (action) Parte I - La categoria del moderno Credenze animal laborans beni che restano consumi durevoli profitto Intermediari di credito ubi pecunia ibi patria Mediazione mercantile Ques Stile di vita beni di prima necessità consumi caduchi schiavitù Regime di libertà Prodotto sussistenza creazione di opere sussistenza riproduzione della vita Finalità relativa autonomia dell’artigiano Opera (work) 64 Lavoro (labour) Tav. 2 - Caratteristiche della vita activa e, in aggiunta, il “corridoio” dei mediatori di fiducia. on ok ap to E-bo parti offisim r a e n e 3 - La costruzione dell’animale politico 65 Questo E-book appar La condanna dell’usura, al di là delle motivazioni morali, ha avuto forti motivazioni politiche e sociali nel corso della storia. Manfredini (2013) ha ripercorso buona parte del lungo periodo delle lotte persistenti e delle crisi ricorrenti tra debitori e creditori. La salvezza dell’anima va considerata all’interno di una salvezza della società. Il “corridoio” che abbiamo introdotto nella tav. 2 (rispetto alla tav. 1) è quello che nella vita activa arendtiana trova uno spazio molto ridotto per una sorta di compressione esercitata dalle prime due sfere, del lavoro e dell’opera, da una parte, e dalla sfera dell’azione, dall’altra parte. La salvaguardia della res publica è assicurata nella misura in cui la politica ha un predominio sulle altre sfere della vita, che sono da essa garantite e tutelate. Un varco nella garanzia che la politica offre alla res publica si apre per quelle caratteristiche di mediazione fiduciaria, svolta in particolare dai banchieri e dai mercanti, a loro volta distinguibili, come vedremo, per alcune caratteristiche. Ma, come ogni “ponte” o “corridoio”, l’opera di mediazione, avendo accesso alla sfera della politica, può esercitare su questa una “contaminazione” di principi affaristici che possono avere effetti letali per il buon ordine sociale, compito della “buona” politica. Sebbene un certo grado di “contaminazione” sia sempre stato presente persino in tempi famosi per la bontà della politica, come nel periodo più fulgido del liberalismo classico, ci appare evidente che nel periodo corrente tale grado sia fortemente aumentato fino ad un punto tale da rendere l’attività della politica non più quella autonoma, distaccata e superiore, esercizio di virtù, di memorialità e di storia degna, disegnata da Arendt. Il motivo del pericolo per la società sta nelle finalità proprie dei mercanti, che sono dediti alla ricerca di profitto; è proprio questa finalità che li porta a non riconoscere nessun attaccamento alla patria. La loro è una patria strumentale: ubi pecunia ibi patria. Il motto è una corruzione di ubi panis ibi patria, che esprime invece il regime che assicura la tranquillità dell’animal laborans. La patria dei mercanti si identifica con un territorio di caccia senza limiti al profitto, che poteva limitarsi anche alle sole occasioni di scambio previste in spazi cittadini ben definiti e autorizzati. Per negoziare, mercanti e banchieri, hanno bisogno di reciproca fiducia, di un ambiente di confidence che faciliti le transazioni, riduca incertezza e complessità. Per Luhmann 66 Parte I - La categoria del moderno o Quest la fiducia consente agli individui di effettuare scelte e sopportare l’«estrema complessità del mondo» (2002, 5.) E qui il varco verso una sfera limitrofa o intersecante quella politica è aperto e necessario. In molte antiche civiltà i sacerdoti diventano banchieri proprio perché, come ricorda Tommaso di Cobham, essi hanno accesso a una res sacra e la loro funzione è quella di essere mediatori e intermediari tra il mondo dei profani e il mondo sacro. La fides è un mezzo che consente di portare in pegno del profano la testimonianza e la documentazione per dargli confidenza che la promessa verrà mantenuta. La fiducia può essere creata dal banchiere non meno di quanto lo sia quella garantita dall’azione politica di chi opera nelle istituzioni. Ma vediamo di entrare meglio nel “corridoio” dei mediatori di fiducia. Esso non è espressamente trattato in Arendt (1958), anche se non mancano le piste e le intuizioni che spingono la riflessione in questa direzione: il concetto di mercato di scambio (trattato in IV.22), la formazione degli spazi dell’apparenza (V.28 e 29), nei quali la fiducia svolge una funzione essenziale per dare consistenza all’effimero della costruzione politica (1958, 150, V.28) e per «preservare dal dubbio» (1958, 153, V.29). Le figure sociali dei mercanti non possono, secondo noi, essere assorbite sotto il segno dell’“opera”. Anche quando l’artigiano si presenta sul mercato per mettere direttamente in vendita i prodotti del proprio lavoro, la sua attività commerciale è ben diversa da quella del mercante; anche in quel momento il suo scopo vitale resta quello del costruttore di beni durevoli, mentre il profitto che ricava sulle vendite resta per lui secondario. Quando però il mercante viene considerato un puro mediatore di merci, allora egli non è più artefice di opere che restano, ma un soggetto interessato a realizzare un profitto da compravendita; egli non trasforma e non crea, bensì mette in contatto chi produce con chi compra, attraverso transazioni che lasciano persino pochi segni del loro accadimento fintantoché una qualche autorità politica non si incarica di registrare i prezzi, il che, peraltro, accade sia per lo scopo di organizzare meglio i mercati, evitare le liti, le frodi e altre appropriazioni indebite, sia per quello di poter imporre tributi. Mercante puro e banchiere puro cominciano a differenziarsi quando ognuno di loro si specializza in un tipo di traffico, o di rtiene k appa E-boo com gmail. 2000@ . imone a roffis 3 - La costruzione dell’animale politico 67 .200 0@ gma i l.co m merci o di crediti. Ciò differenzia anche i loro stili di vita. Il borghese, espressione civile della mercatura, ha spesso una visione grettamente retriva e avversa ai cambiamenti9. È talmente esposto alle fluttuazioni dei mercati da risultare un uomo che esige, in quanto calcolatore, anche per il resto del suo mondo, un ordine in partita doppia. Non a caso, dalla fine del XVII secolo in poi, nelle università tedesche intellettuali e studenti guardarono con un certo distacco e disprezzo il borghese al punto da affibbiargli l’epiteto di filisteo che ebbe un’ampia fortuna anche per i secoli successivi10. Il filisteo era specialmente il piccolo borghese egoista, Que sto E-b ook app artie ne a roffi sim one 9 Questo non significa però che oggi si debba riproporre un cliché del borghese come sostanzialmente caratterizzato da conservatorismo, perbenismo, legalismo, tradizionalismo ecc. Ciò vale magari per il piccolo borghese ma non per il capitalista finanziario. Ma soprattutto notiamo che non si tratta di definire la psicologia del singolo capitalista, quanto piuttosto lo “spirito” del capitalismo, che, invece è per sua natura, per la necessità della continua accumulazione e della strenua difesa del saggio di profitto, mobile, cangiante, proteiforme, debordante ogni argine e confine, sia territoriale che valoriale. Marx, per primo, ne individua il carattere continuamente dissacratore di ogni tradizione e di ogni valore. Come ci ricorda Michéa – sulla base di quanto già avvertiva Marx quasi due secoli fa – è folle e inverosimile pensare al capitalismo come un sistema conservatore: «Questa illusione, per dir così trascendentale, è l’idea secondo la quale il sistema capitalista rappresenterebbe per natura un ordine sociale conservatore, autoritario e patriarcale, basato sulla costante rimozione del desiderio e della seduzione, una rimozione imposta dalla disciplina del lavoro, della quale la Famiglia, la Chiesa e l’Esercito sarebbero gli agenti privilegiati. […] Essa pretende però che ci si dimentichi che già nel 1848 Marx aveva preso la precauzione di invalidare in anticipo un’interpretazione dei fatti tanto folle quanto inverosimile. “La borghesia” ammoniva “non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali, [mentre] l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione era invece, per tutte le classi industriali precedenti, la prima condizione della loro esistenza». Per questo, aggiungeva, man mano che il sistema capitalista progredisce, «si dissolvono tutti i rapporti sociali stabili e fissi, con il loro seguito di concezioni e di idee tradizionali e venerabili; i nuovi rapporti invecchiano prima di essersi consolidati. Qualsiasi elemento di gerarchia sociale e di stabilità di casta se ne va in fumo, tutto ciò che era sacro è profanato”» (Michéa 2012, 100-101). 10 I filistei erano una popolazione indoeuropea insediata sul litorale della terra di Canaan, nell’attuale Palestina. Il dio adorato dai filistei Baal nella mitologia ebraica era detto in maniera sprezzante Baal-Zebub, “signore delle mosche” (2Re 1, 2-6.16) e, poi, identificato nella tradizione cristiana con Belzebù, principe dell’inferno (Mt 10, 25; 12, 24 e 27; Lc 11, 15-19). V. anche le osservazioni di Arendt (2017, 260-3). Parte I - La categoria del moderno 68 oE est Qu servile in pubblico, uomo d’ordine ma ribelle quando le autorità pubbliche lo pungevano nelle sostanze più care, attraverso l’obbligo di pagare tributi all’erario. Ovviamente, più in alto saliva nella scala sociale, più il borghese cercava di distinguersi dalla feccia, spesso in maniera non meno ridicola nell’ostentazione volgare della ricchezza, sebbene nelle forme più affinate ciò avvenisse per emulazione e assimilazione all’aristocrazia, per togliersi definitivamente di dosso gli ultimi residui della scorza originaria. Il lusso ostentato, una volta raggiunto un certo grado di prosperità e ricchezza, seguiva i canoni del mecenatismo delle classi nobili, a dimostrazione di una raggiunta sicurezza economica e sociale. Per virtù borghesi si intende la radice dello stile di vita che ha nella spinta al successo negli affari quel requisito essenziale, condensato, in definitiva, nel self-interest, nella virtù del risparmio, del calcolo e della razionalità strumentale rivolta al “piacere” dell’accumulazione della ricchezza. Mediatore di fiducia per eccellenza nel mondo degli affari è, però, il banchiere, colui che per professione esercita un’attività di intermediazione creditizia, offrendo proprie passività (depositi e altro) per raccogliere fondi, e concede crediti (attività proprie in vari tipi di strumenti, scadenze, ecc.) a chi non dispone di mezzi. In questa funzione il suo lavoro – come puntualizza Schumpeter (1939, 145) – «non è solo un lavoro altamente specializzato», che non può essere semplicemente acquisito per esperienza, ma si tratta «anche [di] un lavoro che richiede qualità intellettuali e morali che non si trovano in tutti coloro che si dedicano al mestiere bancario». L’insieme di tali qualità intellettuali e morali sono qualcosa che va al di là della mera professionalità. Schumpeter, in questo caso, si riferisce a un banchiere che ha caratteristiche weberiane: in primo luogo, quella di intendere il proprio lavoro come una professione praticata come “missione” (Beruf), in secondo luogo, quella di svolgere funzioni di leader. Il leader in Max Weber ha un’autorità carismatica, cioè investita di quel dono della grazia di cui parla l’apostolo Paolo e che si esplica in una serie di doti che danno capacità di comprensione e di guida in condizioni difficili e complesse (ad es. in Rm 12, 6-8). Le stesse doti Schumpeter le riscontra nei banchieri che svolgono bene il loro mestiere e le loro funzioni, «funzioni così difficili da realiz- -bo 3 - La costruzione dell’animale politico 69 zare, che molti di coloro che ci si provano rimangono terribilmente al di sotto di quello che ottiene un operaio, un artigiano o un contadino mediocre» (Schumpeter 1939, 145). Il commercio di credito, nelle economie capitalistiche come in quelle precapitalistiche, non è solo una semplice trasformazione di scadenze e di rischi che si realizza attraverso la concessione di un finanziamento, ma qualcosa di assai più complesso. Il banchiere trasforma un rischio “reale”, industriale, in un rischio finanziario 000@gm .2 e n o che riesce, a certe condizioni, a frammentarerin porzioni di titoli e im is ff o e a elevati, artienmolto altri strumenti conogradi dipliquidità specialmente p a k o b sto E con gli immobilizzi degli investimenti industriali ueconfrontati Qse in capitali. Questi ultimi, infatti, 1) offrono rendimenti che solo in più esercizi ripagano le somme inizialmente erogate e 2) sono generalmente incorporati in strumenti, macchinari e impianti di tipo specifico per una certa impresa e linea di produzione, cioè in beni capitali che hanno specificità tecnologiche tali da essere efficienti solo se usati per una particolare attività di produzione in combinazione con altri specifici beni capitali, e questo li priva, almeno in parte, di valore nel caso dovessero essere rivenduti e impedisce la nascita di un mercato secondario di una qualche consistenza in cui poterli rivendere; infatti, in caso di una liquidazione quel che può esser ricavato non va molto oltre quello realizzabile su un mercato per “ferri vecchi”. È questo il problema che vedeva Keynes nelle economie avanzate, cioè quello di un «rischio che la speculazione prenda il sopravvento sull’intraprendenza» nel caso in cui s’ingenerino dubbi e sfiducia sulla possibilità per un individuo di poter liquidare, senza conseguenze patrimoniali rovinose, i propri portafogli di investimenti, dato che «l’alternativa di acquistare beni capitali reali non può venir resa abbastanza attraente (specialmente per chi non li amministra […] e conosce molto poco su di essi), se non organizzando mercati nei quali quei beni possano essere facilmente realizzati in moneta» (Keynes 1936, 345 e 347 [12, vi]). Ed è a questo stesso concetto che si richiama Schumpeter quando osserva che l’arte della banca non è solo una professione come un’altra, in essa la fiducia svolge un ruolo fondamentale e insopprimibile al punto che i banchieri, «come corporazione», devono difendersi da chi «può infilarsi negli affari bancari, trovare clienti e trattare con essi in base alle sue proprie Qu es to E-b 70 Parte I - La categoria del moderno oo impostazioni» che non siano almeno al livello standard necessario per non «trasformare la storia dell’evoluzione capitalistica in una storia di catastrofi» (Schumpeter 1939, 146). Per i banchieri non sono sufficienti le attitudini morali normali dell’homo oeconomicus, poiché è proprio sulla loro responsabilità professionale e morale che si gioca buona parte del destino del capitalismo. In definitiva «i banchieri si meritano il pane che guadagnano solo se si rendono profondamente impopolari con i governi, con i politici e con il pubblico» (Schumpeter 1939, 147). Si legge in queste parole quella funzione sacerdotale e pastorale che i banchieri, di una certa levatura, svolgono per proteggere le reti fiduciarie di un’intera economia di mercato. Le funzioni di leader a cui sono chiamati i banchieri non sono realizzabili attraverso la semplice ricerca del profitto («alla stessa maniera con cui uno lascia un impiego che paga poco, per un altro che paga molto»; idem, 145). La banca “cattiva” interferisce sul buon funzionamento dell’intero sistema economico: è una mela marcia che deteriora l’ambiente di mercato nel suo complesso. Si ricordi che Schumpeter scrive il suo libro sui Business Cycles nell’epoca della grande depressione, ed individua – come Keynes – nel sistema bancario e finanziario l’anello fragile dell’economia, ma anche in quel momento di crisi continua a pensare ancora, come nella sua Teoria dello sviluppo economico del 1912, che il banchiere svolga una funzione imprescindibile nel sostegno finanziario dell’imprenditore e nella selezione e controllo sulla qualità dei piani d’investimento che quest’ultimo cerca di realizzare. Per ritornare alla prospettiva dalla quale eravamo partiti, quella del “corridoio” mercantile che si situa in mezzo alle due attività dell’opera e dell’azione, riteniamo che nella sempre più importante figura del banchiere sia riposta, nelle moderne economie, quella funzione di costruzione della fiducia che, in altre epoche, Arendt vede appannaggio quasi esclusivo della politica. Ora anche i “sacerdoti” del denaro sono detentori di una “pietra filosofale” capace di costruire legami sociali11. ka pp 11 Sulle responsabilità del banchiere “morale” contro gli istinti del banchiere “amorale” si rinvia a Conti (2003). Ritorneremo su molte delle questioni qui affrontate nel cap. 7. art ien 3 - La costruzione dell’animale politico 71 Nella visione arendtiana, le dinamiche caratteristiche della sfera dell’azione sono rivolte a preservare dal dubbio e a garantire il mantenimento delle promesse. Il corridoio intermedio tra lo spazio pubblico e quello della vita biologica, da noi evidenziato e che invece risultava meno definito nel quadro complessivo della vita activa di Arendt, è calcato dai mercanti, e su di esso i banchieri agiscono per far da ponte verso la sfera pubblica. Su questo ponte camminano il credito, in senso generico, e, specialmente, la moneta, che sono componenti e strumenti essenziali per unire Q ue Tra la sfera la “piazza del mercato” con il “palazzo del comune”. pubblica e quello che abbiamo definito “corridoio”ssussiste un to rapporto di tensione e di reciproca corrispondenza, perché E-a collegarli e legarli sono quelle promesse alle quali occorre darebuna oo certa prevedibilità nei loro esiti. k L’altro teatro sul quale merita aggiungere qualche altra considerazione è quello del mercato, che Arendt chiama – come accennato – «mercato di scambio». Se Arendt non ha sottolineato l’importanza di figure, pur caratteristiche fino da epoche antiche e medievali, come “argentari”, cambisti, mercatores, banchieri e semplici usurai, probabilmente è perché non avevano assunto caratteri così dominanti come negli ultimi decenni, specialmente dopo le liberalizzazioni finanziarie successive agli anni ’80 del XX secolo. Per noi l’introduzione di un “corridoio” intermedio, collocato tra le basse sfere delle attività di mera sussistenza e quelle artigianali e anche mercantili, da un lato, e la sfera dell’azione politica, dall’altro, pareva necessario per cogliere il fenomeno di attività e figure che risultano del tutto evidenti alla luce di una indagine genealogica delle attività umane. Questa evidenza emerge, soprattutto, come prodotto ultimo del capitalismo moderno, nella sua versione finanziaria e turbo-finanziaria, ma anche per quella funzione di soglia tra privato e pubblico che è svolta sia già nell’antichità dai sacerdoti dei templi, nel registrare e tenere memoria sociale (contabilità) di un dare e avere, con la possibilità di concedere crediti, sia dai “principi” della banca moderna che “creano” fiducia e creano credito ex-nihilo, come sottolinea, tra gli altri, Schumpeter. Oggi quel “corridoio”, che abbiamo introdotto nello schema arendtiano, sembra diventato ancora più ap pa rti e Parte I - La categoria del moderno 72 potente per l’azione di “leva” creditizia (più potente della leva di Archimede!) di promesse su promesse, con la conseguenza di far dipendere la realtà contingente da “simulazioni” di eventi futuri12. 3.3. L’apparenza del mercato ue Q o st Gli errori dunque non consistono né nell’astratto né nel concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti. (Galilei 1632, 252) b E- È un luogo dove si quota quanto valgono i re, dove si soppesano i popoli, dove si giudicano i sistemi, dove i governi sono confrontati alla misura dello scudo da cento soldi, dove le idee, le credenze sono ridotte a cifre, dove tutto si sconta, dove Dio stesso s’indebita e dà in garanzia i redditi delle anime, poiché anche il papa vi tiene il suo conto corrente. (Balzac 1835, 116-7) oo k pa ap e en rti Res similis fictae: sed quid mihi fingere prodest? (Sembrerà un’invenzione; ma che me ne verrebbe a inventare?) (Ovidio, Metamorfosi, libro XIII, 935) a 0@ 0 20 e. on sim ffi ro Arendt, nella distinzione tra sfera privata e spazio pubblico, contrappone in maniera molto netta l’organizzazione della casa nella Grecia antica (oikia) alla polis. La famiglia, fondata su rapporti di autorità patriarcale e regole domestiche dispotiche e di violenza, non fornisce spazi interni di libertà. Solo con la distruzione delle comunità parentali, la phratria e la phylē, sorge la polis come luogo di vita pubblica, in cui il cittadino agisce politicamente, libero dalle basse occupazioni e dagli affanni della vita privata, e dedito così alla “buona vita” (Arendt 1958, 19, II.4)13. Emerge una dop- om l.c ai gm 12 Secondo un acuto banchiere la caratteristica degli strumenti derivati (opzioni o futures) è che «il loro valore deriva da altri strumenti finanziari»; p.e. i futures sono contratti che obbligano ad acquistare o a vendere a una data prefissata nel futuro. Con i derivati diventò possibile, dopo gli anni ’70, «simulare perfettamente» un qualsiasi portafoglio composto da altri titoli (azioni, obbligazioni) (Morris 2008, 70-1). Cfr. anche Aglietta (2016, 34-6). 13 La contrapposizione è ripresa essenzialmente dall’introduzione di Fustel de Coulanges alla Cité antique (libro 4, cap. 5) e dal saggio di Jaeger (1959, 3, 111). Ma per una rassegna recente dei problemi v. Ferrucci (2007). 3 - La costruzione dell’animale politico 73 pia vita, una vita “naturale” e una vita che diventa bios politikos. Una dicotomia tra le due sfere, rappresentata a tinte forti, serve alla Arendt anche per tracciare la parabola evolutiva della fine dell’antichità, che si realizza con l’estensione progressiva della comunità domestica e delle attività economiche che la caratterizzano, fino ad acquisire un dominio sulla sfera pubblica (Arendt 1958, 25, II.5). Il “corridoio” dei mediatori e uomini d’affari, che abbiamo inserito nella tav. 2, è quello relativo ad attività che la polis cerca sempre di tenere ai margini e sotto controllo per porre un freno alle loro tendenze pervasive. Tali attività sono quelle che svolgono appunto un’azione corrosiva nei confronti della “buona vita” e rappresentano un fattore di potenziale sovvertimento, lento e quanto mai inesorabile, del senso e del ruolo assegnato alla sfera pubblica, una volta che esse siano riuscite ad aprirsi una breccia nella medesima. La formazione delle poleis risale attorno all’VIII secolo, con l’incremento della popolazione in Atene e nell’Attica e con un impulso proveniente dall’organizzazione economica dell’oikos14. L’oikos era poi la cellula costitutiva della polis anche nell’età classica, anche se, come nota Roy (1999, 5), solo occasionalmente la legislazione della polis interferiva nello spazio proprio della famiglia, ma spesso gli interventi miravano a proteggere l’oikos o a sostenere l’oikos per servire agli interessi della polis (Roy 1999, 12). Tuttavia, anche Arendt riconosce l’interdipendenza tra i due livelli, al di là della contrapposizione presente nella concezione del pensiero politico classico, cementata dalla sacralità riconosciuta al focolare domestico, inviolabile da parte della polis non tanto per un rispetto verso la proprietà privata, quanto perché senza l’amministrazione di quella complessa organizzazione delle attività domestiche non si dava alcuna possibilità di partecipazione del cittadino agli affari del mondo, né alla “buona vita”, più nobile della vita domestica (1958, 22 e 27, II.5). Occorre sottolineare che Arendt 14 Welwei (1988, 47-8). Welwei sottolinea pure l’importanza delle fratrie nello stesso processo di formazione della polis (idem, 54) e quella dell’oikos per l’origine dell’uomo ateniese (idem, 64). Sull’origine v. anche Hansen (2012, cap. 5). Questo si serve della contrapposizione tra le due sfere e i due poli che caratterizzano l’antichità per spiegare, attraverso la crescente tensione interna, il cambiamento che si realizza in epoca moderna. La dimensione storica di quel cambiamento è al centro del contributo arendtiano sulla vita activa. Il nostro contributo, qui, consiste, quindi, nella rivisitazione della importante tassonomia dell’attività umana e della sua evoluzione storica proposta da Arendt, evidenziando due attività, quelle del mercante e del banchiere, che, alla luce dei più recenti sviluppi, assumono una caratterizzazione e una dinamica da un lato, autonome, e, dall’altro, “contaminanti” rispetto alle sfere di attività arendtiane, particolarmente rispetto alla sfera dell’azione. La società mercantile e i primi stadi del capitalismo moderno rappresentano – come ricorda Arendt – l’affermazione del dominio dell’homo faber che esce dal proprio isolamento e si fa attore sul «mercato di scambio», prima ancora di dar forma e forza all’industria moderna. Egli inizia a produrre per il mercato, e non più su ordinazione, «oggetti di scambio piuttosto che d’uso» (Arendt 1958, 117, IV.22). In termini economico-contabili, il passaggio dalla produzione artigianale, orientata alla creazione di beni utili, a quella mercantile, orientata a produrre per un valore di scambio, si riflette nel seguente mutamento: la produzione diventa finalizzata ad essere accumulata “per il magazzino” (Arendt riprende il concetto da Smith, che intitola il II libro della Ricchezza: “Della natura, dell’accumulazione e dell’impiego dei fondi”), e non è più la finalizzazione di un impegno lavorativo eseguito in base a ordinazioni e consegne stabilite direttamente da una committenza che interagisce col produttore spiegando a costui quali sono le esigenze specifiche da soddisfare. È solo su un mercato organizzato che le opere diventano “valori”. A conferire valore alle merci, non è tanto il lavoro, il capitale o altro, bensì «solo ed esclusivamente la sfera pubblica dove esso [l’oggetto] compare per essere valutato, richiesto o rifiutato» (Arendt 1958, 117-8, IV.22). Qui Arendt sottolinea l’aspetto sociale del valore, aderendo al concetto che Locke dà di valore di mercato e in base all’insistenza di Marx sul valore come prodotto di rapporti sociali. Ma di Marx, come di altri economisti classici, ella critica i «vari tentativi» di trovare Questo E Parte I - La categoria del moderno offisimone.2 r a e n e ti r a -book app 74 3 - La costruzione dell’animale politico 75 una fonte oggettiva di valore – nel lavoro, nella terra o nel capitale – quando «nessun “valore assoluto” esiste nel mercato di scambio» (Arendt 1958, 119, IV.22), e cercarlo è come tentare la quadratura del cerchio. Il mercato introduce una relatività valoriale sconcertante. I prezzi determinati dal mercato sono alla ricerca di un “metro” invariante. Tuttavia, né l’oro né altri feticci di merci possono illudere fino in fondo di aver trovato il valore “vero”, se non per approssimazione e come tensione verso una sorta di continua “ricerca dell’assoluto”15. Il mercato introduce una «relatività universale»: le cose esistono solo per relazioni reciproche e i prezzi sono relativi e correlati alle fluttuazioni della domanda e dell’offerta. Rispetto a tale “relatività” valoriale, anche il tentativo di assegnare un valore trascendente a una moneta universale rientra in un esercizio di mistica teologico-economica da non sottovalutare, sul quale è opportuno leggere Norman Brown (1986) (vedi parte II). L’ampliamento dello spazio mercantile e il vettore dell’esca dei prezzi nell’orientare le produzioni comportano un rivolgimento completo nelle graduatorie delle attività. Il passaggio dall’antico al moderno giunge a compimento con la progressiva considerazione del lavoro come virtù. Marx è il teorico più conseguente e determinato nell’identificare lavoro e opera, lavoro salariato e abilità tecniche, ma con opportuni distinguo che in altri economisti mancano. Nella contrapposizione del lavoro al capitale, Marx vede nel proletariato la forza capace di liberare il lavoro stesso dalla condizione di desolante alienazione vigente nel sistema capitalistico. L’esaltazione del lavoro è fatta iniziare da Arendt con gli albori del pensiero liberale. Locke è a riguardo il filosofo che individua nel lavoro la fonte della proprietà e della libertà modernamente intese. Il rovesciamento rispetto al mondo antico è a quel punto completo, e la soddisfazione che l’uomo ritrae dal lavoro è felicità, che, declinata come virtù, acquisisce i requisiti di quella virtù pubblica e politica, condivisa ancora nel La ricerca dell’assoluto è il titolo di un romanzo di Balzac del 1834. Ci è sembrato opportuno richiamarlo come un concetto paradigmatico che rappresenta le lacerazioni interiori del protagonista del romanzo, ovvero quelle di un uomo di genio preso da ricerche alchemiche e dissipazioni di valori umani. 15 ok Que sto E -bo sto Parte I - La categoria del moderno Qu e 76 XVIII secolo sia dall’assolutismo monarchico che dai costituenti americani. Si ricordi che Walter Benjamin, nell’XI tesi sul concetto di storia, attribuisce la disfatta della socialdemocrazia tedesca all’essere caduta nella trappola dell’alienazione e aver assegnato al lavoro e alla tecnica un potere liberatorio che non poteva avere (Benjamin 1997, 39). Tuttavia, sebbene il lavoro, ormai del tutto unificato nel suo aspetto più biologico e pedestre – quella dell’animal laborans – sia divenuto l’unica attività dell’uomo contemporaneo e il consumo del “mondo” il suo unico e inconsapevole fine - cosa per cui si manifesta in Arendt un evidente pessimismo (v. il precedente par. 1.7) – sarebbe da domandarsi se forse sia ancora possibile un orizzonte di speranza basato sulla umanistica centralità dell’uomo e sulle sue corrispondenti facoltà superiori, di cui la libertà di azione politica è la più alta. Ma questo presuppone che si continui a considerare la tecnica – pur riconoscendone la proliferazione invasiva – come uno strumento di cui l’uomo si possa ancora servire come supporto per il proprio libero agire. Ma se l’enorme espansione della tecnica produce non solo un effetto quantitativo ma qualitativo, allora essa, autonomizzandosi - come acutamente osserva Galimberti (2002, 42) – «non si limita a contrapporsi all’uomo, ma è in grado di integrare l’uomo nell’apparato tecnico» e allora ciò che nasce è «un sistema uomo-macchina dove la guida passa alla macchina». E se è la macchina che si mette alla guida del sistema e l’uomo è divenuto un suo strumento, allora questa inversione mezzi-fini implicata nella relazione fra l’uomo e la tecnica nel mondo attuale, non può che renderci dubbiosi sulla possibilità umanistica che l’uomo possa ancora agire liberamente per i propri fini e destini. Capitolo 4 4.1. Le tre (cinque) età della vita activa Lo stesso Zinzendorf dice occasionalmente: «Non si lavora solo per vivere, ma si vive per il lavoro, e se non si ha più da lavorare si soffre o ci si addormenta». (Weber 1904-05, 314) 00 il.co a m @g m L’ORDINE DEL MONDO, IN MOTO VERSO IL PREZZO “GIUSTO” im 20 one. Si è riusciti a trasformare l’assassinio nella nobile virtù del valore ma mi sembra improbabile che si possa fare qualcosa di simile con i calcoli e i computi; non v’è bontà in essi, né dignità, né profondità, il denaro cambia tutto in concetti, è sgradevolmente razionale. (Musil 1972, I, 527) offis r a e Non già l’ozio e il godimento, ma solo l’agire serve ad accrescere la gloria di Dio […] E quindi perdere tempo è, di tutti i peccati, il primo e quello per principio più grave […] L’avversione al lavoro è sintomo dell’assenza dello stato di grazia. (Weber 1904-05, 217-8) Q -bo E o t ues ok rti appa en Le forme concettuali in cui si divide la triade della vita activa non sono figure immobili. I loro cambiamenti scandiscono il tempo storico. Le trasformazioni nella società e nell’economia, se modificano anche una sola delle tre dimensioni dell’agire, comportano uno sconvolgimento nella gerarchia preesistente tra i tre tipi di attività e ridisegnano i rispettivi spazi in cui tali tipi operano e interagiscono. Per questo la Vita activa è essenzialmente un libro che tratta la condizione umana secondo un approccio di evoluzione storica, dall’antichità, nella quale la triade trova la sistemazione originaria, fino alla nostra epoca di capitalismo avanzato. La filosofia politica di Arendt è, in definitiva, una storia del predominio di ordini e ordinamenti gerarchici che cambiano l’agire sociale e politico di un’epoca rispetto alla precedente. Habermas, che contribuì al recupero e al risveglio dell’interesse verso quest’opera di Hannah Arendt, le riconobbe il merito di aver impostato una teoria dell’agire co- Parte I - La categoria del moderno 78 municativo capace di superare le rigidità delle visioni strumentali della politica, ma la criticò al tempo stesso per l’approccio normativo dei concetti aristotelici presi a riferimento e, in sostanza, per l’incapacità di penetrare nella piena comprensione dei caratteri istituzionali e di potere della modernità1. Tuttavia, l’apparato concettuale preso a riferimento da Arendt è solo apparentemente immutabile, e – secondo noi – il merito dell’opera sta proprio nell’aver mostrato una dinamica di sviluppo del mondo moderno e contemporaneo, al di là della scelta espositiva del proprio materiale concettuale, che incasella in una triade di attività umane una serie di problemi e tensioni che forniscono preziose indicazioni sulla formazione sociale e istituzionale della “modernità”. In altri termini, il riferimento di Arendt è sì l’aristotelismo antico, ma il confronto è soprattutto con Marx e Weber sulla formazione e sulle dinamiche dell’economia di mercato. Proprio sotto questo profilo si rivela la fecondità di un’analisi capace di cogliere anche molti cambiamenti, che, all’epoca in cui Arendt scriveva, erano solo a uno stadio embrionale, ma con contorni ben delineati nelle tensioni interne ai rapporti di potere della modernità. La tavola 3, a doppia entrata, riduce a schema la dinamica presente nell’opera arendtiana riferita a tre epoche, e da noi estesa aggiornandola all’epoca post-moderna e a quella contemporanea. Un primo problema riguarda le cinque età (tre “più” due), poste nella testata orizzontale. La “quarta”, quella dell’età post-moderna, è il costante punto di riferimento e di arrivo anche Habermas (1986). Nell’opera precedente, Habermas aveva fatto proprie le dinamiche individuate in Vita activa: v. Habermas (2002, 24-5). Simona Forti parla di Arendt come «pariah della cultura filosofica», il cui pensiero politico risultava difficilmente incasellabile per «l’apparente paradosso di un’opera contesa da correnti filosofiche tra loro in disaccordo: […] fautore del liberalismo, del neoaristotelismo, del comunitarismo, della tradizione repubblicana, di una teoria delle élite, così come di un anarchismo conflittualista e libertario. E il paradosso di un pensiero filosofico annesso a un tempo all’universalismo, al relativismo, al soggettivismo, al decostruzionismo, al razionalismo, al nichilismo» (Forti 1999, IV). Riguardo a Vita activa anche Forti fa riferimento all’«approccio “metafisico” al mondo […] elaborato in Vita Activa e […] nelle opere successive» (idem, XIX). Q ue st 1 4 - L’ordine del mondo 79 nella analisi di Arendt, ma può essere considerata un’età spuria nel senso che, in fondo, porta solo a conseguenze estreme quanto già emerso nella precedente età moderna. Per questo motivo abbiamo preferito rappresentarla come “quarta”, ma al tempo stesso considerarla parte integrante della precedente, una sorta di appendice di un presente che solo nella dilatazione del suo passato prossimo trova spiegazione e senso. Infine, la quinta età, quella contemporanea, che ovviamente non poteva essere inclusa da Arendt nel suo libro, merita – secondo noi – di essere evidenziata nella sua specificità, in quanto contiene elementi di rottura persino strutturali con l’età precedente. Nella prima riga è riportata la posizione occupata dalle tre attività - lavoro, opera e azione - nella graduatoria che esprime l’ordine di importanza di ciascuna di loro nell’etica e nelle pratiche della società nelle cinque età considerate. Questa graduatoria fornisce, di fatto, una definizione sommaria di ciascuna età, che risponde alla tensione delle ambizioni di vita, ma anche di ruoli occupati nella società, da parte di coloro che esercitano un’attività o un’altra, divisi in classi sociali, in élite e classi subalterne, o, volendo usare uno schema più semplice, divisi in governanti e governati. Nella seconda e terza riga sono rappresentate sia la dicotomia tra gli ambiti – privati/pubblici – nei quali si esercitano le attività, sia le caratteristiche specifiche che le contraddistinguono nel corso della successione delle età. L’autonomia assegnata in ciascuna epoca alla sfera “privata” definisce quanto e come alcune fasce sociali possono godere di un proprio perimetro di vita più o meno “indisturbata”2. La triade delle attività è tradotta dalla Arendt, come già discusso, nei tre tipi umani e sociali dell’animal laborans, dell’homo faber e di quello che, in termini aristotelici, è il cittadino, il quale è partecipe dell’élite di coloro che hanno un’esistenza da bios politikos, dimensione che, però, esaurirà progressivamente i tratti originari e distintivi nel corso delle età. Que s t o E -b o o k ap 2 Arendt, che segue in molti casi l’analisi storica di Marx, non sembra condividere il concetto di classe sociale, o almeno non si riferisce a una divisione del genere se non per riferimenti storici precisi. La sua proposta è più un’antropologia storica di tipi di attività e di umanità che assumono tali “maschere” nel teatro dell’esistenza umana. “il privato è pubblico” fabbrica/società di massa – capitalismo/ Stato manageriale Parte I - La categoria del moderno e n e i t r impresa mondo-azienda (corpus mysticum) individuo – “capitale umano” società globale ff o ar Legenda: L = lavoro; O = opera; A = azione oikos Spazio privato individuo/ associazione (club, loggia, ecc.) società civile/Stato assoluto/liberale mercato A a p ap vita domestica come modello delle relazioni pubbliche chiesa/convento intellettuali/ corporazioni O k polis organizzazione di persone libere (O A) A L Età contemporanea dagli anni ’80 - o bo Sfera pubblica LO L LO Età post-moderna dal 1914 e E sto L O A - vita contemplativa Età moderna dal XVII sec. Qu A Medioevo dal IV sec. d.C. 80 Ordinamento della vita activa Antichità greco-romana Tav. 3 - Le tre (cinque) età della vita activa e le loro caratteristiche. on m isi gm om c . ail 4 - L’ordine del mondo 81 Qu to es E o -bo k ea n rtie a p ap fis rof i 0@ 0 .20 e n mo Come si può osservare seguendo la successione della riga dell’ordinamento nella tav. 3, l’azione (A) perde via via il primato che aveva e al posto d’onore subentrano, in età moderna, il lavoro (L) e l’opera (O), nobilitati nella considerazione sociale per il loro contribuito alla “ricchezza delle nazioni”. Se si varcano, poi, i confini temporali considerati dalla Arendt, in età post-moderna il lavoro ottiene il riconoscimento di “motore” sociale ed economico preminente, che col passaggio all’età contemporanea assume una ulteriore rilevanza; infatti, tale età segna una dominanza del lavoro sulla stessa azione e, si potrebbe aggiungere, segna anche la sudditanza della politica rispetto all’economia, come si vede dalla sequenza verticale LOA rispetto a quella AOL, propria dell’antichità. Le implicazioni di questo rovesciamento etico e pratico saranno meglio illustrate nella III parte. Sempre in forma stilizzata, nella riga successiva sono indicati i cambiamenti dei luoghi dell’azione “libera”, cioè la sfera pubblica. Anche in questo caso, cambiando l’ordine di priorità delle attività cambiano le sfere di pertinenza, i luoghi d’elezione dell’attività dominante. La sfera pubblica, che, nell’antichità, si concentrava sulla polis, e, nel medioevo, sia sulla vita religiosa e contemplativa che sulle “fratellanze” corporative, nell’età moderna inizia a concentrarsi sul mercato e sull’organizzazione statuale. Caratteristica dell’età moderna è la rivoluzione industriale. L’industrializzazione sposta dal mercato all’impresa il luogo “pubblico” – la fabbrica moderna –, che, in realtà, significa la traslazione della sfera pubblica in una sfera privatissima ma centrale a causa della socialità delle relazioni umane insite in quel modo di produzione. Nell’età contemporanea, lo spazio pubblico assume una dimensione “globale” sia per la sopravvenuta prevalenza di imprese multinazionali e delocalizzate, che per la supremazia di alcuni organismi sovranazionali rispetto alle istituzioni nazionali. Le conseguenze dei mutamenti nella sfera pubblica si riflettono, ovviamente, sugli spazi lasciati alle attività private. Vediamo adesso cosa accade alla sfera privata nella sequenza delle età. Se nell’antichità il cuore della sfera privata era la “casa”, nel medioevo la vita domestica diventa il modello di riferimento di tutte le relazioni pubbliche e in tale sfera sono assorbite tutte le attività che assumono un carattere privato a discapito di ogni loro dimen- Parte I - La categoria del moderno Q st e u o 82 sione pubblica (v. Arendt 1958, 25-6, II.5). L’età moderna si caratterizza per l’emergere dell’individualismo3 e di nuove forme di socialità, come i club, le associazioni, i salotti privati. Nella società post-moderna lo spazio privato viene occupato da soggetti “socializzati” nei luoghi di lavoro della produzione di massa. Le vite private sono sempre più coinvolte in forme di impegno sociale, che sono rappresentate dall’adesione ai movimenti sindacali e ai partiti di massa (il noto slogan degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso ‒ “il privato è pubblico” ‒ esprime abbastanza bene una socialità che trae la propria origine nelle forme collettive di lavoro). Il cambiamento che avviene con il trapasso nell’età contemporanea è, anche sotto questo profilo, radicale. L’individualismo moderno, che pare soppiantato dall’organizzazione interdipendente e gerarchica dell’impresa, nella quale gli individui trovano il loro mondo di lavoro e di soddisfazioni, riemerge, nell’età presente, ma in forma mistificata. Il processo, che sembrava avviato con una sorta di liberazione dell’individuo dai legami oppressivi di tipo parentale, finisce per catturare le ambizioni soggettive all’interno dei vincoli gerarchici e di subordinazione propri dell’impresa. In una società globalizzata, quelle aspirazioni soggettive, quei disegni di realizzazioni personali vengono quasi interamente assorbiti all’interno delle stesse logiche del corpus mysticum Il passaggio cruciale della separazione tra Stato e società civile, che si forma nell’età moderna, e che stabilisce confini netti tra la sfera pubblica e la sfera privata, apre la strada non al “dolce” commercio pacificatore fra gli uomini, bensì alla rottura della comunità e alla liberazione degli spiriti egoistici scatenati nella lotta di tutti contro tutti. Paradossalmente con questa interpretazione della modernità si inverte la narrazione cronologica hobbesiana che fa passare dall’homo homini lupus dello stato di natura alla legge e alla pace dello Stato dell’età moderna: per Marx è, invece, proprio con l’età moderna che si realizza una guerra permanente tra gli uomini, mentre l’uomo nello stato di natura ha un’essenza comunitaria. Infatti, secondo Marx, la società civile viene relegata «dal diritto pubblico al diritto privato. Essa non è più lo spirito dello Stato, ove l’uomo – ancorché in maniera limitata, sotto forma particolare e in un ambito specifico – si comporta come ente di genere, in comunità con altri uomini; essa è diventata lo spirito della società civile, dell’ambito dell’egoismo, del bellum omnium contra omnes. Essa non è più l’essenza della comunità, bensì l’essenza della distinzione. Essa è diventata l’espressione della separazione dell’uomo dalla sua natura comunitaria, da sé e dagli altri uomini, ciò che essa era in origine. Essa è ancora solo l’astratto riconoscimento dell’assurdità particolare, della stravaganza privata, dell’arbitrio» (Marx 2007, cap. I). 3 4 - L’ordine del mondo 83 aziendale. Alle forme di vita privata che, trovavano momenti e ragioni di convergenza negli impegni collettivi, subentra, invece, la concorrenza per la carriera. Il riconoscimento sociale trova ora espressione compiuta nei generi e nelle quantità di consumi indotti dalla missione di accrescere e saper valorizzare il proprio capitale umano, come fosse un qualsiasi marchio di fabbrica (vedremo meglio tutto ciò nella III parte). Dall’età moderna ad oggi, il baricentro della vita conosce uno slittamento progressivo verso la nozione di utilità e il lavoro sale così nella scala della considerazione sociale fino ad assorbire in sé il luogo “pubblico”, ovvero, in altri termini, con l’emergere dell’economia di mercato, l’intera società finisce con l’identificarsi nel mercato. La stessa politica finisce con l’assegnare al mercato quei compiti di indirizzo e di coordinamento che prima, nell’antichità, spettavano alla polis e ai luoghi dell’azione politica. Lo slittamento si nota già nell’evo di mezzo, nel quale il decadimento delle polies e la fine dell’impero romano lasciano alle istituzioni ecclesiastiche, compresi i monasteri, l’occupazione di spazi politici sempre più rilevanti. In questi spazi l’“azione” è interpretata come vita contemplativa e il lavoro viene equiparato all’opera ed entrambi – lavoro ed opera – cominciano ad assolvere una funzione di encomiabile complemento dei riti della preghiera. Nel corso dei secoli successivi l’ordinamento etico e pratico viene messo in crisi. La modernità è la glorificazione del lavoro e la quasi equiparazione dell’opera all’attività contemplativa, intesa come mondo dell’intelletto e “occupazione” delle classi inoperose, o meglio improduttive. Si può ricordare l’accostamento compiuto da Weber, sulla scorta del pietismo, tra la glorificazione del lavoro e la grazia del carisma dei discepoli: «la variante del pietismo rappresentata da Zinzendorf, per esempio, esaltava [glorificava] il lavoratore zelante e fedele [leale] al proprio lavoro, che non cerca di guadagnare, in quanto vive secondo il modello degli apostoli ed è quindi dotato del crisma [ossia “carisma”, come dall’originale] del discepolato» (Weber 1904-05, 236 [II, 2], le varianti tra parentesi quadre sono nostre)4. 2000@gma roffisimone. a ne ie rt pa ap k oo -b E Questo Il conte Nikolaus Ludwig von Zinzendorf (1700-1760) è un importante teologo pietista costantemente richiamato da Weber. 4 Parte I - La categoria del moderno 84 ook Questo E-b Come ha mostrato Perrotta, nel corso del XVII e XVIII secolo, la consacrazione di stili di vita eccessivi, nel godimento dell’abbondanza e del lusso come nell’ostentazione delle ricchezze, andò di pari passo col riconoscimento al lavoro di una funzione essenziale nel processo produttivo (Perrotta 2008). «Gli ideali dell’homo faber, il costruttore del mondo – osserva Arendt –, che sono permanenza, stabilità e durevolezza, sono stati sacrificati all’abbondanza, l’ideale dell’animal laborans» (Arendt 1958, 90, III.16). L’ideale dell’animal laborans è l’abbondanza e il consumo crescente della crescente abbondanza. Quello dell’homo faber è la durata della creazione, è la modifica della natura come era stata ereditata dal momento della creazione originaria e dal corso delle sue leggi naturali. Il lusso contribuì ad allargare l’ambito dei beni di consumo e a rendere essenziale il voluttuario. Al tempo stesso contribuì ad accelerare la rapida sostituzione degli oggetti da acquisire e consumare, spingendo gli ingranaggi della produzione a muoversi con maggior sollecitudine. Il circuito della produzione e quello del consumo sono messi in perfetta comunicazione senza che ci siano pause e arresti nei flussi dell’economia come, per analogia, nella “macchina” del sistema sanguigno degli esseri viventi. Nella sezione dedicata all’opera (work), Arendt introduce l’avvento del mercato come realtà e teatro, diventato prepotentemente spazio pubblico prevalente, dove celebrare la definitiva glorificazione del lavoro. Il confronto anche qui è con l’antichità e Arendt lo riprende da Marx, del quale, non a caso, riconosce il grande senso storico. Marx commenta la definizione di Benjamin Franklin sull’uomo produttore di strumenti come tipica dell’età moderna, così come l’antichità aveva, come elemento caratterizzante, la definizione di animale politico5. E Arendt aggiunge e parafrasa appartie ne a ro ffisim one.2 0 0 0 @ gmai Marx (1867, 218 [III, 5, 1]) dove si afferma: «Franklin definisce l’uomo “a toolmaking animal”, un animale che fabbrica strumenti» e aggiunge alla stessa pagina: «Non è quel che viene fatto, ma come vien fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epoche economiche». Questa potente affermazione di Marx ci induce a ritenere la corrente età in cui viviamo – definendola 2.0 o 4.0 che sia – come una nuova distinta epoca economica. Sulla definizione di Franklin, Marx ritorna anche in sez. IV, cap. 11, p. 399n. in questi termini: «la definizione di Aristotele dice che l’uomo è per natura cittadino. Essa è caratteristica dell’antichità quanto 5 4 - L’ordine del mondo bo ok ap pa rtie ne ar off isi mo ne .20 00 @ gm ail .c secondo i propri concetti, in questo modo: «l’età moderna era interessata a escludere l’uomo politico, cioè l’uomo che agisce e parla, dalla propria sfera pubblica, proprio come l’antichità era interessata a escludere l’homo faber» (Arendt 1958, 114, IV.22). Nella nostra metafora del “corridoio”, gli uomini della polis ne tolleravano l’esistenza, purché fosse ristretto, senza troppi canali aperti con le altre sfere e specialmente con la sfera pubblica della politica, per evitare tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato, compresa la temibile diffusione di corruzione e la degenerazione del buon governo, come ben avevano diagnosticato filosofi e moralisti. Solo nell’età contemporanea il lavoratore, animal laborans senza proprietà, è pienamente ammesso nella sfera pubblica come uomo-massa, grazie alla redenzione di dignità conferitagli dal valore della sua produttività. Infatti, la produttività è divenuto il valore esaltato nell’economia teorica. La centralità della produttività e della razionalità strumentale ha giustificato la cancellazione sempre più evidente dell’aggettivo “politica” dalla denominazione di “economia”, aggettivo dal sapore troppo antico, dunque “morto”, odoroso di decisione arbitraria, dunque ascientifico. La società moderna esalta il lavoro produttivo come organizzazione collettiva della produzione e non più nell’isolamento dell’homo faber archimedeico. Anche l’amministrazione della cosa pubblica è sottoposta al medesimo processo di razionalizzazione produttivistica. La burocrazia moderna in Max Weber è molto diversa dalla segreteria del principe o dell’imperatore. Anche la legge e l’ordine sono piegati all’esigenza della contrattualizzazione dei rapporti privati6. om 85 Qu es to E- è caratteristica dello spirito yenkee la definizione del Franklin, la definizione che l’uomo è per natura “facitore di strumenti”». Va aggiunto anche che in Franklin la virtù era dimostrata dalla metodicità nel lavoro (Methods of Working) e dall’abitudine (Habits) nell’uso appropriato e regolare di tutti gli strumenti per raggiungere perfezione «in the Art»; cit. in Smith Pangle (2007, 82). 6 È opportuno richiamare la storicizzazione che Foucault (2017b, 155) introduce riguardo alle forme di Stato: «l’État administratif, l’État-providence, l’État bureaucratique, l’État fasciste, l’État totalitaire», sebbene con tale tassonomia Foucault non intenda affatto suggerire una linea evolutiva delle forme statali. Invece nel pensiero neo e ordoliberale tali forme sono sostanzialmente indistinte a causa di un’ideologica «fobia di stato». Supiot (2005, 79) ritiene che una caratteristica e ti ar p 86 Parte I - La categoria del moderno p a k o o -b E Tuttavia anche nell’antichità, ricorda Arendt, esistono comunità al centro delle quali non è posto il cittadino; piuttosto, la vita pubblica è occupata da chi lavora per il popolo, cioè un dēmiurgos distinto dal lavoratore domestico, oiketēs. Si tratta di comunità “non politiche”, che eleggono l’agorá a luogo pubblico nel quale ritrovarsi e procedere agli scambi e agli incontri. Diventa quello il luogo dove gli artigiani possono portare i loro prodotti per venderli. I tiranni greci incoraggiarono lo sviluppo dei mercati per distogliere i cittadini dalle preoccupazioni per la cosa pubblica (Arendt 1958, 114, IV.22). Arendt sottolinea questo aspetto del mercato, rompendo, in tal modo, la nozione ideologica – contemporanea a lei e a noi – di un asse tra mercato e libertà, tra mercato e democrazia7, e, anzi, delineando una inedita relazione fra tirannia e mercato. Lo scopo dei tiranni era quello di trasformare l’agorá da luogo di mercato a luogo di botteghe, sul modello dei bazar dei regimi dispotici dell’Oriente (Geertz 1979). Le città medievali ereditarono quello stesso modello di mercato e di vita pubblica cittadina incentrata sulla vita mercantile e sulle sue regole. L’animal laborans continua, nonostante tutto, a condurre una vita «simile a quella del gregge» (Arendt 1958, 115, IV.22), mentre l’homo faber trova la propria dimensione nello spazio mercantile dove può esibire i suoi prodotti che parlano per lui. L’homo faber, infatti, «può stabilire relazioni con altre persone solo attraverso lo scambio dei rispettivi prodotti» (Arendt 1958, 115, IV.22). La sua è una socialità mediata dalle merci. Quindi, l’homo faber non è l’artista, creatore di opere durature per migliorare la natura umana, ma, al massimo, un intellettuale perfettamente inserito nel mercato dei beni durevoli intangibili (quadri, letteratura, ecc.). Molti passaggi di Vita activa sembrano sviluppi dell’idea marxiana di alienazione e Arendt non manca di riconoscerne la paternità (Arendt 1958, 116, IV.22). sto e Qu dei totalitarismi del XX secolo sia quella di considerare «il Diritto e lo Stato una questione di convenzioni sempre rivedibili», semplici strumenti vuoti di senso, subordinati alle verità della Scienza e ai progressi irresistibili delle tecniche». Quella caratteristica dei totalitarismi si ripresenta interamente nell’epoca attuale delle liberalizzazioni finanziarie allo scopo di «liberare l’homo oeconomicus dalle leggi che lo incatenano e per rimetter tutto al libero gioco dei contratti» (idem, 79). 7 Tra i numerosi lavori di apologetica storica sul binomio mercato-libertà, v. Fontaine (2014), anche per un certo equilibrio nelle valutazioni. 4 - L’ordine del mondo 87 Con Smith, lo scambio di mercato diventa carattere precipuo del genere umano. Infatti, gli individui sono resi pacifici, civilizzati, dalla consapevolezza che i loro bisogni possono essere soddisfatti solo dallo scambio e lo scambio libera l’uomo dalla condizione animale: «[n]essuno – specifica – ha mai visto un cane con un suo simile fare lo scambio deliberato e leale di un osso contro un altro osso» (Smith 1776, libro I, ii). Marx e Arendt si pongono nel solco della tradizione aristotelica: hanno un’idea della vita activa graduata in base alle preferenze della polis, perciò rovesciano l’idea smithiana e moderna come tipica di un’alienazione di uomini che si sentono liberi solo perché parzialmente liberati dai bisogni più elementari, ma in realtà oppressi dal giogo, non meno gravoso, degli affari. La borghesia mercantile e industriale, classe liberatrice dai bisogni essenziali e dalle “trappole malthusiane”, è espressione dell’homo faber per eccellenza, la sua libertà è una libertà fortemente condizionata dall’impegno costante negli affari, dal riconoscimento del proprio valore e merito attraverso il profitto mercantile e attraverso il consumo ostentato. La borghesia ha costruito nel mercato il proprio teatro, nel quale mettere in scena le prestazioni economiche nel senso letterale che il termine performance ha nella lingua inglese. Lo spirito della modernità plasmato nella razionalità strumentale anche Max Weber lo vede espresso, in tutto il suo orgoglio borghese8, in Benjamin Franklin, padre fondatore dell’America indipendente, il paese che, più di qualsiasi altro, non aveva un passato da difendere o a cui richiamarsi. L’America è forse l’unico paese che non è rallentato nella sua corsa verso la modernità né dai ceppi dei retaggi medievali, né, soprattutto, da quelli dell’antichità greco-romana, rinvenibili, seppure in maniera trasfigurata, nei codici delle aristocrazie europee, alle quali le stesse borghesie del vecchio continente guardavano con soggezione, persino scimmiottandole spesso, e con le quali ambivano a integrarsi. In questo, almeno fino alla prima guerra mondiale, ossia all’ingresso prepotente sulla scena delle masse operaie e lavoratrici, consisteva la “purezza” del nuovo continente rispet- book Questo E - ffisimo appartie ne a ro 8 Il tema dell’orgoglio borghese è enfatizzato da McCloskey (2006). 88 Parte I - La categoria del moderno to al vecchio. In Europa, nelle crisi del ’900, venne detronizzato quell’ordine aristocratico e aristocratico-borghese e, in maniera drammatica, solo dopo due grandi guerre mondiali giunse a compimento, con la fine del liberalismo ottocentesco, l’avvento di una società di massa e di modelli culturali adeguati alla nuova situazione, avvento realizzato attraverso quella restaurazione borghese di cui parla il classico libro di Charles Maier (1999). Alla fine, alle borghesie europee non restava che, mestamente, far proprio il sogno americano, borghese e plebeo, che meno di altri le era appartenuto9. Si consumava un nuovo “ratto di Europa”, o almeno l’inizio di un tentativo di mutazione genetica che, forse, ha nell’ordine neo-ordoliberale il compimento completo. L’individualismo del borghese faber è quello non più del mero costruttore di oggetti, ma del costruttore di un’intera società secondo le proprie esigenze. La società borghese scopre sia l’interiorità e la tutela della privacy che l’anonimato all’interno di uno spazio di coordinamento del mercato. Arendt ricorda che per i greci l’idion, «ciò che è proprio», è ciò che è posto fuori dal mondo, è l’“idiota” (e gli idiōtēs, gli idioti, erano i privati senza cariche pubbliche). Per i romani il ritiro dalle cariche pubbliche era solo una condizione temporanea di riposo e di attesa (Arendt 1958, 289, II.6). In quello spirito Cassio, nel Giulio Cesare (I, ii, 139-141) di Shakespeare, afferma: «Gli uomini, in certi momenti, sono padroni del loro destino. La colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle, ma di noi stessi, che siamo degli schiavi». Nel Coriolano il «doppio potere» [double worship], che ha sia del divino che dell’umano, è quello che paralizza l’azione autenticamente politica, perché da «una parte disprezza con ragione e [dal]l’altra insulta senza ragione; dove nobiltà, nome, saggezza non possono decider nulla senza il sì o il no della comune stupidità; non può che trascurare le vere necessità dello stato e lasciar tutto, intanto, in mano all’instabilità e alla leggerezza» (Coriolano III, i, 143-148). In un’altra scena, Shakespeare – che come sostiene Bloom (2001) ha «inventato l’uomo», l’uomo moderno, anche modernamente antico – sviluppa il con- oE Quest 9 La crisi dell’Europa è anche la fine del liberalismo per autoconsunzione in Moore (1969) e Koselleck (1972), e approdo verso una società autoritaria in Kühnl (1973) e Maier (1999). Questo E-book apparti 4 - L’ordine del mondo 89 flitto lacerante tra privato e pubblico per bocca del protagonista: «[ma] resterò fermo come un uomo che è tutto opera di se stesso e non ha che sé stesso al mondo» (Coriolano, V, iii, 35-37). 4.2. Dalla società alla piccola comunità, al mercato e “ritorno” I rapporti economici sono impersonali […] È il mercato, la possibilità di scambio, che è funzionalmente reale, non gli altri esseri umani; questi non sono nemmeno strumenti per l’azione. Non si tratta di un rapporto di cooperazione né di reciproco sfruttamento, ma di un rapporto completamente non morale, non umano. (Knight 1935, 282) Non è qui il caso di tenere conto della moralità o dell’immoralità del bisogno cui risponde la cosa utile e da questa soddisfatto. Se una sostanza sia ricercata da un medico per curare un malato o da un assassino per avvelenare la famiglia, è una questione importantissima da altri punti di vista ma del tutto indifferente per il nostro. La sostanza è utile per noi in entrambi i casi e, forse, più nel secondo che nel primo. (Walras 1874) Da Locke in poi, però, la privacy è essenzialmente un modo di appropriazione (Arendt 1958, 78, III.15), un dominio imprenditoriale sulle cose e sull’organizzazione del lavoro subordinato. Quel dominio allarga il perimetro per società di persone e capitali, nella cui sfera associativa mantengono il carattere di “privative” che, nel XVIII secolo, era il nome assegnato ad attività che godevano, per legge e beneficio sovrano, una particolare protezione in deroga al diritto comune. Tale protezione era concessa perché l’interesse perseguito convergeva con qualche finalità pubblica, oppure perché le iniziative, intraprese con un certo dispendio di mezzi ed energie intellettuali erano a rischio, specialmente se rese di dominio pubblico10. Le società commerciali sono così espressione della privatizzazione della società civile, nel senso che valgono per esse quelle stesse prerogative di riservatezza che si dan- 10 Sullo sviluppo del diritto delle società commerciali e sul carattere monopolistico del godimento di privilegi di legge v. Ungari (1974). Sullo sviluppo della protezione dei brevetti v. Mokyr (2009 e 2017). 90 Parte I - La categoria del moderno no per l’individuo nella sua intimità familiare. In questo senso le società commerciali non sono assimilabili alla comunità, essendo esse spazi chiusi e privati; le società non sono identitarie come, invece, lo sono le comunità (sia le antiche polis, sia le moderne nazioni)11. Il mercato è la “comunità” di privati che si relazionano tra di loro senza perdere in termini di privacy. La disclosure è un dispositivo introdotto nel diritto commerciale statunitense, entrato in vigore con le regolazioni delle borse valori e delle società di capitali, per “schiudere” parzialmente la privacy di queste ultime su aspetti sospettati di essere la fonte di pericolosi conflitti d’interesse. Dopo gli anni ’30 del XX secolo, molti atti societari non potevano più essere secretati, come era stato ovunque in precedenza, quando si riteneva che renderli di pubblico dominio arrecasse vantaggi indebiti ai concorrenti. Quindi, adesso, la pubblicità di quei medesimi atti societari interni viene ad essere considerata una tutela per i piccoli azionisti e altri gruppi d’interesse, cioè, in definitiva la disclosure può esser vista come un modo per incentivare una corretta amministrazione ed evitare abusi e distorsioni profonde nel funzionamento dei mercati aperti12. Le associazioni sono comunità di persone che decidono di aggregarsi volontariamente, senza per questo regolare necessariamente le proprie attività e decisioni sulla base di uno statuto “aperto”, ma con un ingresso condizionato a certi requisiti e a una preselezione dell’ammissione di nuovi soci. I fondatori e i soci si possono accordare per restringere le nuove ammissioni alle sole persone che condividono gli stessi principi, praticano 11 A proposito di quanto detto, si rifletta sulle seguenti osservazioni di Roberto Esposito a seguito di un passo di Hobbes che distingue tra dono e contratto, tra dimensione pubblica e dimensione privata: «Non solo, dunque, il contratto non coincide col – né deriva dal – dono, ma è la sua negazione più diretta: il passaggio dal piano comunitario della gratitudine – insostenibile, secondo Hobbes, dall’uomo ‘moderno’ – a quello di una legge sottratta ad ogni forma di munus. È anzi distruttiva di quel cum cui il munus è semanticamente orientato nella figura della communitas. A questa potenza dissolvente risponde lo scambio sovrano tra protezione e obbedienza: a conservare gli individui attraverso l’annientamento del loro rapporto» (Esposito 2006, 14). 12 Sull’importanza dell’informazione per rendere i mercati effettivamente “efficienti” e portare il prezzo a coincidere con il costo marginale si veda l’eccellente, quasi “inossidabile”, Baumol (1965, 49-50). b to Q s ue E- apparti ene a 4 - L’ordine del mondo 91 Questo E-book gli stessi riti, hanno le stesse finalità. Le società segrete, di qualsiasi genere, sono quelle per le quali il principio della pubblicità scardinerebbe il senso stesso dell’associazione. Per esse la tutela di una cortina di riservatezza è requisito essenziale, ma non è così per le privacies dei singoli aderenti o postulanti. La società segreta condiziona l’ammissione alla possibilità di poter scandagliare attentamente nella vita privata ed esercitare un discreto controllo sulla medesima. I singoli aderenti volontariamente acconsentono di mettersi in pubblico, ma limitatamente ai soli membri (e talvolta solo ai vertici), come segno di fedeltà ai principi della setta13. Si tratta però di circoli che hanno finalità latamente “pubbliche” e non interessi pecuniari da dividere. Dove entrano in gioco motivi identitari, la violazione della privacy è il prezzo da pagare per partecipare a un gruppo come sodali e a non essere esclusi, ed è la condizione di poter regolare le espulsioni e garantire così l’unità e l’identità comunitaria (Simmel 1906). Il mercato, dai confini mobili, si adatta al coordinamento delle preferenze soggettive di singoli e di compagnie mercantili, proprio perché stende un velo di anonimato sulle relazioni intercorrenti fra i partecipanti. Tuttavia, il mercato viene trasfigurato in altri livelli di vita associativa, che paradossalmente si stratifica proprio per vincere le incertezze che il mercato diffonde. Ecco qui un paradosso formidabile: il mercato è visto come il risolutore dell’ignoranza e incertezza individuale attraverso il meccanismo magico dei prezzi, ma i partecipanti al mercato preferiscono negarlo associandosi in organizzazioni dove il mercato non vale. L’impresa stessa – organizzazione che nasce “contro” il mercato – è considerata il cuore della società proprio dai difensori estremi 13 Roberto Esposito critica Arendt sul concetto di comunità in questi termini: la comunità «non è semplicemente diversa dall’intersoggettività, ma il suo opposto. Non è un modo di essere, e tantomeno di “fare”, di “agire”, di “parlare” del soggetto [fare, agire, parlare stanno per il lavoro, l’opera e l’azione in Arendt]» nel senso di «una improprietà radicale che coincide con l’impossibilità di essere tutto se stesso o se stesso come un tutto» e aggiunge «Né l’azione né il discorso in quanto tali, come modalità soggettive, hanno qualcosa a che vedere con la comunità» e ancora «La comunità non è altro che la faglia che circonda e fora la soggettività, la sua finitezza mortale»; in Esposito (1999, 98-9). Parte I - La categoria del moderno 92 Que sto E -boo k ap part iene a ro ffisim one. 2000 @gm a il.co m del mercato concorrenziale, del quale vorrebbero fare l’art.1 delle Costituzioni politiche, cioè i neo-ordoliberali, e quindi ecco un altro paradosso che è innestato su un’altra evidente (ma non per i neo-ordoliberali) dicotomia: impresa versus mercato. Pertanto, la formazione dell’impresa stessa, che è istituzione gerarchica al suo interno, in un contesto di perfetta concorrenzialità è una contraddizione in termini, che necessiterebbe una spiegazione. La corrente teorica dei neo-istituzionalisti (Coase e Williamson), che per molti versi è in linea col pensiero neo-ordoliberale, tenta di giustificare l’esistenza dell’impresa considerandola un’alternativa alle transazioni di mercato, a causa di un solo motivo: queste ultime sono ritenute troppo costose. Ma inserendole così nella struttura gerarchica dell’impresa, il risultato è quello di conferire ad essa un potere di fissare i prezzi a proprio vantaggio (evitando costi di transazione e incertezze), sottraendo questa funzione al mercato, di cui però si continua a fare il peana, esaltandolo come l’unico mago che può far uscire dal cilindro dell’ignoranza, della tendenza prevaricatrice e dell’incertezza il coniglio del prezzo che tutto equilibra. L’impresa è dunque l’organizzazione anti-mercato per eccellenza. Le compagnie commerciali e le botteghe artigiane giustificano l’unione di capitali come mezzo per congiungere competenze e abilità al fine di svolgere con maggior perizia compiti che isolatamente non raggiungerebbero lo scopo sociale. Infatti, il “mastro” esercita un dominio sull’intera produzione, frazionata in compiti assegnati ai suoi vari aiutanti, per le necessità di divisione del lavoro e di coordinamento in una bottega, ma, anche e non ultimo, per dare prosecuzione alle attività dell’azienda oltre la vita delle singole persone. La stessa tendenza associativa si riscontra in altri ambiti della vita sociale non direttamente coinvolti negli scambi mercantili14. Il salotto borghese diventa un altro luogo “pubblico” per eccellenza, regolato dal vaglio della “buona società” Il libro di Seabright (2004) tratta, secondo un approccio storico evoluzionistico, la formazione delle istituzioni economiche che gestiscono i mercati e i propri affari facendo leva su una divisione del lavoro che mette insieme persone estranee e sconosciute. 14 4 - L’ordine del mondo 93 mediante le forme rituali dell’ammissione per invito15. Di fronte alla dispersione di una società di soli individui, si ricreano così ambiti privato-pubblici di filtro e controllo sociale sulla piccola popolazione che li frequenta. Il club è la sua forma più allargata. Si tratta sempre di gruppi aperti per cooptazione ma rivali verso altre sette, salotti, club di qualsiasi natura. In questa prospettiva il partito moderno può essere considerato la forma organizzativa che traghetta il club in uno spazio più ampio e agitato per prendere d’assalto la vita politica. L’intimità della vita privata viene immessa in questo modo in un processo di socializzazione. Per Habermas, man mano che la vita privata diventa pubblica, la sfera pubblica assume forme di esibizione proprie della vita privata. L’esempio che riporta è quello del modello americano dei sobborghi dove i cortili dissolvono la vita privata agli occhi del vicinato e le vetrate dei soggiorni, le mura sottili, espongono l’intimità domestica al pubblico. Per ricreare l’intimità perduta occorre compiere atti di volontà che, in precedenza, non erano necessari, essendo la sfera privata per defini- to es Qu 15 Delle forme di socialità che emergono all’epoca dell’assolutismo nella Francia del XVII-XVIII secolo si occupa Gordon (2017). Egli parla di un processo di «trasfigurazione» della realtà per poter preservare ambiti di dignità estranei e fuori dai territori della sovranità. Gordon propone cinque tipi ideali di sociabilità che stabilisce rapporti egualitari in un contesto di monarchia assoluta: 1) la sociabilità per «amore dello scambio», come forma di piacere e puro gioco di amicizie, 2) la sociabilità come «propagazione dell’assolutismo», quali sono le stesse corporazioni, non necessariamente avverse all’assolutismo monarchico, anzi tasselli nella gerarchia di rapporti tra pubblico e privato; 3) la sociabilità come vincolo tra estranei i cui circoli sono riconoscibili per marchio, insegna od ornamento e attraverso regole stabili; 4) la sociabilità come «socializzazione e educazione»; infine 5) la sociabilità come «recupero di logos», di reti sociali aperte a forme di protesta politica, ma entro i limiti dell’ordine pubblico assicurato dalla disciplina e da regole imposte e fatte osservare dalla polizia (Gordon 2017, 40), secondo le teorizzazioni del Traité de police di Delamare (La Mare [o Delamare] 1705, 33-42). L’istituzione di un’amministrazione poliziesca è ben descritta da Carl Schmitt in questi termini: «I prévôts (praepositi) francesi, che avevano poteri giudiziari, militari e amministrativi con carattere commissario, divennero funzionari residenti verso la metà del XV secolo (con il sorgere degli eserciti di stanza) con competenza su determinati distretti, nei quali mantenevano la sicurezza e l’ordine pubblico […]. Anche i baillis, che in origine erano missi del re per un determinato distretto con compiti amministrativi, si incorporarono parzialmente nella gerarchia feudale fungendo da intermediari tra il re e i prévôts» (Schmitt 1975, 236-7). Parte I - La categoria del moderno 94 Q u e sto zione “chiusa”. In epoca pre-borghese, i due ambiti della famiglia allargata e del vicinato erano spesso indistinti; ora, nella società borghese, mentre «la vita privata si pubblicizza, la sfera pubblica, a sua volta, assume forme di intimità» (Habermas 2002, 182). Per Hoffmann, la sociabilità si inquadra in una tensione tra istanze universalistiche e pretese di esclusività sociale e morale (Hoffmann 2007, 4-5). Nel XIX secolo ciò salda insieme virtù civica e società civile. Per la borghesia tedesca dell’epoca, l’associazionismo su basi locali cementa il senso di nazionalità e di universalismo umanitario. All’epoca, le logge massoniche rappresentano, ovviamente per la letteratura sociologica, un modello di associazioni civiche e, al tempo stesso, forme più tradizionali di comunanze e congreghe formatesi nel secolo precedente come spazio di comunicazione tra élites aristocratiche e borghesi. La società mercantile non ha solo una dimensione orizzontale, per quanto si voglia schiacciare tutto su tale orizzonte “aperto”. Sarebbe fuorviante considerare “orizzontale” la stessa dimensione del mercato (e della “piazza”) contrapposta alla dimensione “verticale” del potere politico e della burocrazia statale (la “torre”)16. L’economia di mercato si struttura in imprese che sono “alternative” al mercato e, al tempo stesso, lo prendono a riferimento per gli affari. Creano, se ci riescono, “nicchie” di mercato fidelizzando i clienti, evangelizzati da un “messaggio” che travalica il contenuto materiale del bene messo in vendita. Oggi si dice che si acquista il “brand” piuttosto che il suo supporto concreto e tangibile, ovvero il bene vero e proprio. Veblen aveva ben visto questa trasformazione della società dei consumi e dell’etica evangelizzatrice, attraverso il marketing e i suoi riti, verso masse bisognose di identità e di identificarsi in nuovi moloch. La società di mercato, analogamente alle gerarchie dell’impresa moderna, si struttura in un’architettura a diversi livelli di socialità e su molteplici spazi privato-pubblici: salotti, teatri d’opera, stadi, ippodromi e, ovviamente, anche chiese secondo, anche in questo caso, forme più moderne di aggregazione. Gli sviluppi delle strutture di sociabilità, dall’epoca moderna in poi, sono forme che, para- 16 Gioca su questa dicotomia il recente libro di Ferguson (2018). 4 - L’ordine del mondo 95 dossalmente, proteggono l’individualismo e sgretolano i valori comunitari. Il lavoro diventa l’architrave delle nuove strutture sociali. Non a caso Weber parla di mercato come «comunità di mercato» (Weber 1922, t. 2, cap. VI). La tavola 3 (nel par. 4.1), leggendo per riga da sinistra verso destra, dà conto dell’importanza crescente che il lavoro viene ad assumere nelle epoche più recenti. Dall’occupare l’ultimo posto nella gerarchia delle attività umana nell’antichità, il lavoro passa ad occupare un posto intermedio nel medioevo, e, infine, il posto preminente nell’età moderna. La «società basata sul lavoro – osserva ancora Arendt – conferisce alla forza-lavoro lo stesso valore più elevato che riserva alla macchina», cioè all’opera dell’homo faber (Arendt 1958, 116-7, IV.22). Tuttavia, solo apparentemente è una società più umana, perché più apprezzato del lavoro è «lo sfrenato funzionamento della macchina» e, sulla base del parametro della macchina-utensile, sono valutate le stesse prestazioni del lavoratore, apprezzate le sue qualità, stabiliti i suoi compensi. Lo sviluppo ulteriore, che nemmeno Babbage avrebbe forse immaginato in tutta la sua fantasia (Babbage 1832)17, è l’elaborazione di algoritmi che simulano prezzi-valutazioni laddove non si può nemmeno incontrare domanda e offerta, se non in forma potenziale o piuttosto virtuale, in fictio18. Ciò che dà valore alle cose non è il lavoro. Arendt, anche a tal riguardo, prende le distanze dagli economisti classici, e in primo luogo da Marx. Il mercato e gli artifici di mercato sono luoghi in cui le cose e i prodotti d’opera si presentano e sono più o meno acclamati da un pubblico opportunamente “preparato” all’evento da battage pubblicitari, per mezzo dei quali creare gli pseudo-bisogni che costituiscono la «falsificazione della vita sociale» di cui parla Debord (1997, Questo E-book appartie Schumpeter, nella sua Storia dell’analisi (1954, 656n. [III, cap. V.3]), giudica Charles Babbage (1791-1871) – ideatore di una delle prime macchine programmabili – «uomo notevole», uno dei successori di Newton nella cattedra di matematica a Cambridge, scrittore versatile in varie discipline e «anche economista di vaglia», per la capacità di teorizzazione delle moderne organizzazioni di fabbrica; «egli – aggiunge – eccelse nella concettualizzazione». 18 Sulla macchina per governare attraverso algoritmi, ratios, e misurazioni di prestazione v. Supiot (2015). 17 Parte I - La categoria del moderno 96 par. 68)19. Il valore di mercato per Arendt è un valore relativo «della proporzione esistente tra quella merce e un’altra» (Arendt 1958, 118, IV.22). L’idea di un confronto tra merci rende tutte le valutazioni molto incerte, come succede massimamente in borsa, dove tutti i “valori” sono tra loro beni assolutamente fungibili e il valore di un titolo è “fatto” dal valore degli altri titoli attraverso gli spostamenti di preferenze che si formano sulle previsioni di prezzo, sullo spostamento di fondi da titoli ritenuti in ribasso verso titoli reputati in rialzo. Per Locke il valore di mercato non ha nulla a che fare con un valore intrinseco a ciascuna merce, bensì il «prezzo di ciascun genere cresce, o scema in proporzione della sua quantità paragonata col suo smercio»20. Il riconoscimento della distanza tra valore d’uso e valore di scambio è il riconoscimento di un’evidenza nell’economia di mercato e Locke non è indotto, come saranno gli economisti dopo di lui o i filosofi prima di lui21, ad andare alla ricerca dell’arcano che tenga insieme e, possibilmente, uniti i due concetti di valore e prezzo (vedi par. 13.3)22. Per lui, come per ogni mercante, il valore dipende quindi dalle instabili valutazioni di coloro che effettuano Q ue st o E- bo ok Per Debord, gli pseudo-bisogni imposti ai consumatori e un’abbondanza di merci inusitata nella storia dell’uomo, che, insieme, costituiscono un “artificiale” sempre più illimitato, rompono lo sviluppo organico dei bisogni sociali, rendono il desiderio vivente del tutto disarmato e impossibilitato ad essere autentico e, quindi, falsificano la vita sociale. 20 Dalla parte iniziale del cap. XX p. 73 delle Considerazioni sulla riduzione degl’interessi della moneta, nella prima traduzione italiana di Some Considerations of the Consequences of the Lowering of Interest and the Raising the Value of Money del 1691 in Locke (1751). Per l’opera criticamente annotata: Locke (1991). 21 Nel medioevo i teorici della Scolastica, teologi-economisti, non avevano un’idea del valore di scambio, tutto il valore era determinato dell’utilità, intesa però come misura di soddisfazione dei bisogni umani secondo il detto di Buridano: valor rerum aestimatur secundum humanam indigentiam. La nozione di “giusto prezzo” aveva a riferimento un metro “oggettivo”, già definito da Aristotele, in termini che oggi potrebbero essere espressi in calorie minime di sopravvivenza. Cfr. Schumpter (1954, 114-6 [II, 4.b]). 22 Almeno da un punto di vista di vendite librarie, pare che gli studi di psicologia delle emozioni e delle intenzioni, rivelate attraverso l’osservazione di gestualità e segni non verbali, abbiano un certo successo nel mondo degli affari (di chi li scrive almeno), che trae vantaggio dalle tecniche di comunicazione per comprendere e scoprire quello che in economia è il prezzo di riserva; cfr. ad esempio il prontuario di un noto speaker acclamato come “psicologo d’affari”: Johnson (2019). 19 ap pa rti en e a ro ffi sim on e. 20 00 @ gm ai 4 - L’ordine del mondo 97 gli scambi. E anche per le merci il prezzo è molto erratico come quello dei corsi di borsa (Arendt 1958, 119, IV.22)23. 4.3. Mercato come bilancia sociale di giustizia La gente nova e i sùbiti gudagni | orgoglio e dismisura han generata, | Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni. (Dante, Inferno, canto XVI) Ques t È infallibile conseguenza di tutte le professioni attive promuovere la frugalità e far sì che l’amore del guadagno prevalga su quello del piacere. (Hume 1742, 709) o E-b ook le tecniche che derivano dalla magia risultano avere […] origini indirettamente religiose. Inoltre il valore economico è una specie di potere, di efficacia, e noi conosciamo le origini religiose dell’idea di potere. La ricchezza può conferire del mana […] l’idea di valore economico e di valore religioso non devono essere prive di rapporti. Però quale sia la natura di tali rapporti non è stato ancora studiato. (Durkheim 1973, 417n.) p a r t i e ne a ap Il mercato è considerato come luogo convenzionale, astratto più che fisico, dove le merci trovano misura e i prezzi sono nobilitati dalla continua (o sufficientemente ampia) reiterazione di contratti indipendenti tra coppie di soggetti (le controparti di venditori e compratori) che non si conoscono. È appunto la pluralità di contratti autonomi che forma prezzi “giusti”, cosa che, invece, lasciava sempre molti dubbi quando il prezzo era il risultato di contrattazioni singole, sporadiche, tenute in luoghi non pubblici, né sorvegliati, e in condizioni tali che tra le stesse parti non si poteva presumere un “equilibrio” di peso contrattuale, ovvero una delle due parti spesso si trovava in condizioni oggettive di bisogno e quindi senza autentica capacità contrattuale. Un punto di forza dell’arte del mercante è quello di non acquistare o vendere in stato di necessità, ma poter sempre avere il “fiato lungo”, e di resistere e rinviare gli affari quando non conviene concluderli. La teoria del “giusto prezzo” è considerata spesso un principio morale senza alcun fondamento economico. Schumpeter, però, nel commenta- r 00 offis i m o ne.2 0@ g m ail.co 23 Cfr. sul tema del valore Orléan (2014). m 98 Parte I - La categoria del moderno Questo E-book appartiene a roffis re il concetto di giusto prezzo in Tommaso d’Aquino, accosta la quantitatis valoris, valore “oggettivo”, metafisico, immutabile di prezzo, addirittura al «prezzo di concorrenza» distinto dal «prezzo pagato in una transazione particolare e il prezzo che “consiste” nella “valutazione della merce fatta dal pubblico”»24. Tuttavia, a ben guardare, il fondamento per il problema del “giusto prezzo” c’era ed era solido, se si considera che in epoche pre-moderne (o preindustriali) le attività di scambio erano rarefatte, effettuate principalmente su beni di prima necessità, in luoghi non integrati, dunque con sensibili differenze di prezzo da una piazza all’altra anche per le merci che più di altre erano oggetto di frequenti negoziazioni, spesso con contratti stipulati da una parte “forte” nei confronti di una controparte “debole” perché indebolita dal bisogno umano di sopravvivenza, o anche dalla necessità e urgenza di vendere per la medesima esigenza. L’estensione e l’irrobustimento dei mercati contribuì però a “espropriare” il ruolo di metro di valore che era attribuito al “bisogno umano”, limitato in senso stretto ai soli beni di consumo, ed esteso a misura di giustizia commutativa tra le parti. Raggiunte condizioni adeguate di volumi e frequenza delle transazioni, il mercato si elevò a dispositivo universale d’ordine economico e sociale. Un dispositivo che restava ambiguo, controintuitivo come metro di giustizia, dato che il prezzo era fatto da tutti e da nessuno, saltava fuori sulla pubblica piazza, aperta al confronto di merci e prezzi, e in condizioni che non lasciavano quartiere a giochi d’astuzia mercantile, cioè di conoscere la(e) controparte(i) per cogliere con opportunismo il momento più vantaggioso a vendere o a comprare25. Insomma, se valeva l’adagio vox populi, vox dei, perché non poteva valere quello di vox mercati, vox dei, dove le voci erano quelle dei prezzi gridati dai mercatanti per attrarre clienti?26 imone.2000@ 24 Schumpeter (1954, 114 [II, 4.b]). Nella frase tra virgolette Schumpeter traduce: «justum pretium … in quadam aestimatione consistit» che ritiene non possa significare altro che «prezzo normale di concorrenza». 25 Anche in questo caso, con la Melancholia di Dürer – sulla quale ci soffermeremo nelle pagine seguenti –, si potrebbe rinviare alle astuzie relazionali nelle numerose raffigurazioni pittoriche dei secoli XVI-XVIII riguardanti bari al gioco, arti divinatorie sulla “buona ventura”, fino agli imbonitori di Gianbattista Tiepolo. 26 Occorre ricordare che le contrattazioni “alle grida”, proprie delle borse valori e merci prima di diventare telematiche, avvenivano dentro un recinto nel 4 - L’ordine del mondo 99 to ue s Q Lasciarsi dietro le spalle il problema del “giusto prezzo” non era cosa di poco conto27. La sorpresa del mercato, un mercato aperto che aveva perso, in parte, la fisicità del luogo “di mercato”, per acquisire l’astrattezza del concetto, costituisce per filosofi, teologi e proto-economisti la constatazione di una sorta di rivelazione, l’ammissione di esser stati gabbati da un trompe-l’oeil, un inganno dei sensi che preannunciava, nel piccolo mondo dell’economia, l’altro inganno dei sensi, ben più eclatante, e che stava rimescolando le cognizioni sul cosmo. Anche il piccolo libro dell’economia era scritto in caratteri matematici e in numeri sensati (quelli sì) come il gran libro dell’universo. In economia non si corse così in fretta nel decifrarne i caratteri e le leggi come avvenne con la rivoluzione copernicana-galileiana; occorse ancora almeno un secolo per vedere gli albori di una scienza minore che emulava la maggiore. Nella società mercantile, e soprattutto per i suoi teorici (economisti), il problema e la «fonte profonda di disagio» – come ricorda Arendt – sono rappresentati dal «fatto che [l’]homo faber, la cui intera attività è determinata dall’uso costante di metri, misure, regole e criteri, non poté sopportare la perdita delle misure “assolute”» (Arendt 1958, 119, IV.22). La nozione di giusto prezzo fu sottoposta, fin dalla cosiddetta seconda Scolastica, a un attacco vigoroso e, forse, senza precedenti, per un concetto-guida di carattere profano, ma che aveva incamerato un denso spessore morale e religioso, ancorato in un lontano passato. Nondimeno è comprensibile che agli albori dell’età moderna il concetto moralmente robusto di giusto prezzo attraesse su di sé tutti i fulmini polemici di parte laica, e anche religiosa, e ciò a segnalare quanto quel punto fosse nevralgico, prima, forse, che fossero sferrati altri E- k bo o a ap p n rti e quale si riunivano gli intermediari autorizzati, agenti di cambio e altri, per gridare le rispettive proposte di acquisto e di vendita su quantità specificate di titoli e merci. Dai contratti “chiusi” si giungeva finalmente alla fissazione del prezzo ufficiale di ogni merce e titolo. Tutte le altre negoziazioni effettuate fuori della “corbeille” erano da considerarsi private. Sulla questione v. Garruccio (2004). Le grida anche nei mercati di prodotti agricoli in età moderna erano considerate una forma di trasparenza e lealtà. Economisti e antropologi moderni si sono a lungo contesi sulle ragioni del silent trade presso popolazioni arcaiche; v. Grierson (1903); e, per una rassegna più aggiornata, Dolfsma e Spithoven (2008). 27 Sul giusto prezzo e la «communis aestimatio in foro» v. Prodi (2009). 100 Parte I - La categoria del moderno ok -bo oE est Qu attacchi del genere ad altri aspetti del mondo antico e medievale, per aprire un varco all’incipiente processo di secolarizzazione. La modernità, si può dire, venne tenuta a battesimo con la battaglia ideologica per detronizzare il giusto prezzo. L’altro punto non meno sensibile e importante era quello del tasso d’interesse e della polemica sull’usura28. La misura assoluta, che era quella del bisogno, aveva come parametro fondamentale il povero, il bisogno del povero. Per quanto anche quella misura fosse “storicamente” relativa – è quanto osservò Marx per la nozione di “salario minimo di sussistenza” – era comunque sempre un criterio fondamentale di benessere; non un benessere fondato sull’efficienza tecnologica e produttiva, ma un benessere da garantire a ciascuno secondo la sua partecipazione al mondo, alla sua comunità di appartenenza. Il prezzo “giusto” appariva, con la modernità, essere così quello fissato sul mercato, consacrato dalla continua e volontaria licitazione di domande e offerte multiple nel nuovo santuario della modernità. Cristo li aveva cacciati dal tempio, ma i mercanti ne crearono uno nuovo molto più imponente, dal quale cacciare le dottrine etiche con la benedizione delle nuove teologie secolarizzate sub specie oeconomia. Lo sconforto, il «profondo disagio», sopraggiunse tuttavia ben presto, per la difficoltà nella ricerca di una misura delle misure, una misura invariante, che reinsediasse un monoteismo valoriale in un mondo politeista di merci. Per Supiot (2005, 31) l’immagine dello sconforto moderno è l’incisione della Melancholia II di Dürer, al centro della quale un angelo spaesato e assorto, contornato da una babele di strumenti di misura, resta inerte e, forse, confuso. Aggiunge Supiot: a app ne rtie Il nihilismo giuridico e il fanatismo religioso non sono che le due facce della stessa tentazione e si nutrono oggi l’uno dell’altro, lasciando insoddisfatto il debito di senso delle nuove generazioni rompendo così gli argini della violenza. Il Diritto non è l’espressione di una Verità rivelata di un Dio a ro 2 ne. imo ffis 28 La letteratura sull’usura è sterminata, ma si possono rileggere i classici Dempsey (1948) e Nelson (1967 [1949]). Importante e accurato il recente lavoro di taglio giuridico di Luisa Brunori (2015). 4 - L’ordine del mondo 101 o la scoperta della Scienza; è piuttosto un dispositivo che potrebbe essere giudicato alla luce dell’efficacia (efficacia per chi?). Come gli strumenti di misura della Melancholia di Dürer, serve ad approssimare, senza mai raggiungere una rappresentazione giusta del mondo. (Supiot 2005, 31). Se l’angelo di Dürer resta sospeso tra una perdita di bussola etica e un mondo realmente senza misura, disorientato, paradossalmente, per il fatto di averne troppe a disposizione, non mancano, dopo quella, altre opere che, tuttavia, non tardarono a celebrare l’amor borghese per la precisione della partita doppia e per l’accumulo di denaro29. Il “denaro” ha perciò rappresentato il bisogno di stabilità di una misura e di un denominatore comune per i valori di merci e servizi30. Con l’avvento del capitalismo mercantile, l’economia si caratterizza sempre più per essere un’economia di mercato, nella quale il mercato si impone come il dispositivo più adatto a stabilire la giustizia commutativa. È giusto quel che risponde al principio di reciprocità31 e quando la cosa giusta è giusta per tutti (Rigotti 29 Il termine “denaro” ha qui il significato generico di ricchezza e non tanto quello di moneta. Peraltro, Turri (2009) intravede uno spessore “ontologico” nel denaro quale espressione “astratta” delle monete “concrete”, queste ultime incarnazioni (metafora metafisica e religiosa quasi d’obbligo) e rappresentanti imperfette e transitorie del loro concetto idealizzato (nella caverna platonica sta il “denaro” le cui ombre sono le varie “monete”). È di un certo interesse la tesi di John R. Searle del denaro come entità posta dall’intenzionalità sociale a delegarlo come tale e quella di Maurizio Ferraris che sottolinea la documentabilità, registro contabile di valore per la società; v. i loro saggi in Searle e Ferraris (2018). L’ostinazione a usare un linguaggio differenziato rispetto al denaro nei filosofi “continentali” è forse dovuta al mantenimento di saldi legami con una tradizione di differenziazione anche linguistica delle concezioni “monetarie”, che va dalla teoria del denaro in Marx alla filosofia del denaro di Simmel. Sul feticismo del denaro in Marx si rinvia a Dussel (2018, 108, 162-3 e 168). 30 Va aperta una parentesi su denaro e moneta; i letterati e i filosofi si ostinano a preferire il primo termine, ma in economia è ormai sostituito con il secondo. Qui manteniamo distinti i due termini, affinché ciascuno possa tradurre nella propria lingua il concetto che intende meglio. 31 Il principio di reciprocità appartiene alla sfera etica, presente in molte culture e religioni diverse, spesso definito anche come la “regola d’oro” (golden rule); si distingue per due formulazioni (esattamente come il concetto di libertà), l’una in positivo (“fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”) e l’altra, meno cogente, in negativo (“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto Questo E -book app artiene 102 Parte I - La categoria del moderno 1982, 27). Anche il mercato, come una bilancia, ha i suoi tempi di taratura, per far corrispondere le indicazioni di scala con le grandezze da misurare. E come bilancia complessa, in un mondo di oggetti e valori continuamente variabili, tarare il mercato è un processo continuo, istituzionale, storico, di messa a punto in un contesto non affatto asettico, bensì sensibile alle interferenze di coloro che possono trarre vantaggio da uno strumento di misura alterato. Il metodo dell’asta, quando si afferma nel nitore di quella del banditore walrasiano32 e, latamente, nel funzionamento di una borsa valori ben organizzata, è generalmente quello che mette a confronto i desideri dei vari soggetti, li “pesa” in pubblico, e, infine, li valuta. Il prezzo, così vagliato, rappresenta, appunto, un prezzo teoricamente “giusto”. Lo strappo che comincia a farsi è, anche qui, tra antico e moderno e più precisamente è un distacco, di pratica e non solo di “ragion pratica”, dalla ragione antica, anti-crematistica, per la quale il giusto è definibile in assoluto e non in probabilità. Il mercato, come “spazio dell’apparenza”, non è però più quello di compravendite isolate in fiere e occasioni di mercato, né si è avvicinato alla purezza walrasiana, ha bensì conosciuto, con l’avvento dell’industria moderna, una mutazione e trasformazione rilevante per la presenza di imprese che hanno prima ingombrato e poi soffocato quello spazio, sottraendo ad esso contratti e transazioni per internalizzarli nelle proprie strutture gerarchi- a te”). Leibniz, nel suo interrogarsi sulla giustizia e la morale a partire dalle sue riflessioni sul calcolo della probabilità e sui giochi, ipotizza un modo semplice per applicare la “regola d’oro”: mettersi al posto degli altri, nel senso di scambiare la posizione da cui si pensa, noi al posto degli altri e gli altri al posto nostro. Una simile, ma più complicata, applicazione la propone Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali quando formula la sua teoria dello spettatore imparziale. 32 Nel modello dei mercati secondo Léon Walras, l’equilibrio generale è raggiunto quando tutti gli agenti economici massimizzano la loro utilità o il loro profitto e in tutti i mercati c’è uguaglianza delle quantità domandate e di quelle offerte. Ma per raggiungere questo equilibrio viene postulato un immaginifico processo di ricontrattazione continua “a tentoni” fra gli scambisti, che è governato da un ipotetico “banditore”, la cui funzione consisterebbe nell’annunciare i prezzi, valutare le domande e le offerte che si formano a quei prezzi, e quindi nell’aumentare oppure nel ridurre i prezzi, a seconda che si verifichi un eccesso di domanda o di offerta, fino al conseguimento dell’equilibrio su tutti i mercati. Qu es o est E Qu 4 - L’ordine del mondo 103 che e di comando. La piazza ha lasciato il posto a organigrammi aziendali verticistici e chiusi. Il mercato resta soprattutto operante come spazio di attività finanziarie, cioè di diritti di proprietà e di decisione, astratti e lontani dagli spazi reali della produzione. In questo caso il mondo moderno ha approfondito una sua dicotomia tra “reale” e “finanziario”. to Ques ne.20 o m i roffis a e artien p p a ok E-bo 0 20 0 . on e im ffi s Capitolo 5 a ro CREMATISTICA E ANTICREMATISTICA (DA “ALLORA” A OGGI) en e a r ti p k bo o ap 5.1. La crematistica e la vita beata E- andando avanti a incrementare i propri beni, quanto più stimano questi, tanto meno stimano la virtù. E non è forse vero che la ricchezza e la virtù sono a tal punto differenti, che ponendo ciascuna sui bracci della bilancia li piegano in direzione opposta? (Platone 2009, 849 [VIII. 550e]) o es t u Q si potrebbe ben presto andare così lontano da non cedere a una inclinazione alla vita contemplativa […] Una volta era tutto il contrario: era il lavoro ad avere su di sé la cattiva coscienza. Un uomo di buoni natali nascondeva il suo lavoro quando le necessità lo costringevano a lavorare. Lo schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa di spregevole. (Nietzsche 1882, 190 [329]) Rigotti, in un saggio già richiamato, definisce «principio di benevolenza» il postulato aprioristico dell’antica tradizione moralistica per contrapporlo al «postulato di razionalità», avanzato da Cartesio e Leibniz, e dai moralisti inglesi del XVII-XVIII secolo, prima ancora di affermarsi nell’economia politica. Accosta il metodo del «gioco delle prospettive» di Leibniz, cioè di giungere a una valutazione mettendosi al posto degli altri, al panopticon di Bentham, dove uno può “valutare” tutti gli altri perché vede ovunque, come un dio ubiquo (Rigotti, 1982, 32). Il problema che sorge – osserva ancora Rigotti – è lo sprofondare in un labirinto di specchi che simula la pluralità di punti d’osservazione, ma rischia di perdersi in un rimbalzo continuo di probabilità (si replica la malinconia dell’angelo di Dürer come stato d’animo dell’impasse di decisione, per disorientamento della ragione) (Rigotti, 1982, 31). In fondo il mercato realizza tutto questo – la “mano” resta “invisibile” – purché tutti siano bien informés et bien éclairés (informazione “perfetta”, non distorta, e piena razionalità), altrimenti ci troviamo nel- Parte I - La categoria del moderno 106 o oE -b st Qu e ien pa rt p ok a la situazione keynesiana del casinò. La borsa valori in Keynes non ha nulla di analogo col gioco degli scacchi: la scacchiera ha confini, è divisa in caselle, sulle quali ogni pezzo si muove secondo passi prevedibili; gli avversari (due) possono esaminare rapidamente le mosse possibili e desumere la strategia dell’avversario e formulare la propria. Nulla di tutto ciò nel casinò-mercato che quasi giunge alla perfezione teorica in borsa1, nell’ipotesi mainstream della perfetta efficienza di tale mercato e della conseguente perfetta aleatorietà (random walk) dei prezzi di borsa dove la strategia potenzialmente vincente, con ampio campo d’incertezza, è quella di prevedere quello che gli altri prevedono, cioè quali possano essere le aspettative degli altri operatori circa il random walk futuro dei corsi di borsa. Foucault parla di un mercato in libertà controllata per sostenere interventi giustificati come «costo economico dell’esercizio delle libertà» e comunque per porre di nuovo il mercato in condizione di essere lasciato nuovamente a se stesso (Foucault 2017b, 70). Il successo dell’arte di governo del neoliberalismo ordoliberale di ascendenza germanica è giustificato dall’esigenza di stabilizzare la libertà di mercato dalle crisi (Foucault 2017b, 71-2). Nel lessico ambiguo dei neo-ordo-liberali la libertà di mercato è il vessillo da sbandierare per garantire soprattutto la libertà d’impresa. L’esaltazione della libertà d’impresa tuttavia non garantisce affatto la riduzione del “grado di monopolio” nei mercati e, quindi, la difesa delle imprese medesime, nella misura in cui esse si formano sottraendo contratti al mercato, può apparire una sottrazione di benessere e di sovranità al consumatore. Ma, prima di esaminare tutto ciò, torniamo alla crematistica. La crematistica era intesa come ragionamento sul mondo degli affari. Il termine crematistico, khrēmatistikós, derivazione di khrēmatízō, “mi occupo d’affari”, è lo stile di vita di coloro che sono presi negli affari, impaniati al punto da non poterne più farne a meno. Arendt ricorda che Platone si scaglia contro il detto di Protagora che “l’uomo è la misura di tutti gli oggetti d’uso (chrēmata), dell’esistenza di quelli che sono e della non-esisten- Si tengano presenti comunque i vulnus alla perfetta previsione (perfect foresight), come li mette in luce Baumol (2004). 1 107 za di quelli che non sono”, generalmente travisato in “l’uomo è la misura di tutte le cose” (Arendt 1958, 113, IV.212). La parola chrēmata sta a indicare specificatamente le cose d’uso, per bisogno o per possesso3. L’attacco di Platone si spiega appunto con il fatto che non gli era sfuggito il fondamento affaristico-mercantile dell’“uomo” di Protagora e il pericoloso passo che poteva essere compiuto tirandone le conseguenze. Infatti, se l’uomo è misura di tutte le cose passibili di essere utilizzate, l’uomo strumentalizza il mondo in cui vive; è essenzialmente homo faber, non uomo d’azione, che pensa, discute e fa. Non è più, cioè, il modello di stile di vita del cittadino disinteressato a se stesso e “interessato” al bene comune, impegnato nella comunità. Il comportamento umano legittimato dall’uso, dalla possibilità di strumentalizzare tutto come mezzo in funzione di un fine, porta a conseguenze disastrose: la foresta – per aggiornare l’esempio di Arendt – è sfruttabile come fonte di materie prime da vendere e solo come tale, non più per la bellezza, per l’amenità del luogo o altro ancora. L’uomo, da misura delle cose che dipendono da lui, diventa misura di tutto l’esistente. Il detto, non autentico, attribuito a Protagora, è precursore di quello kantiano: «se l’uomo è misura di tutte le cose, l’uomo è la sola cosa che sfugge alla relazione mezzo-fine, il solo fine in sé» (Arendt 1958, 113, IV.21). Così l’imperativo categorico kantiano: «è, dunque, uno solo, e precisamente il seguente: agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge universale», o «potrebbe anche suonare così: agisci come se la massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una legge universale di natura» (Kant 1994, 123 e 125, sez. II). Merita Q s ue to bo E o p ka p ne e i t ar fis f o ar im 5 - Crematistica e anticrematistica Il detto «l’uomo “è misura di tutte le cose”» è attribuito a Protagora nel Cratilo (Platone 2001, 137 [385-386]); in un passo successivo prosegue con le seguenti parole di Socrate: «non è proprio di ogni uomo stabilire il nome, ma di un artefice di nomi. E questo è, come sembra, il legislatore, che, tra gli uomini, è il più raro degli artefici» (idem, 139 [388 E-389 A]). Nel Teeteto, il passo è: «Protagora ha detto le stesse cose in un modo un po’ diverso. Dice, infatti, pressappoco: “Di tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che sono in quanto sono, di tutte quelle che non sono in quanto non sono» (idem, 203 [152 A]). 3 Si veda l’esegesi che fa Arendt del detto di Protagora e del termine chrēmata (Arendt 1958, 265, IV n. 23). 2 108 Parte I - La categoria del moderno riportare per intero il commento di Arendt che chiarisce meglio il senso della critica platonica: Platone sapeva bene che le possibilità di produrre oggetti d’uso sono illimitate come i bisogni e i talenti degli esseri umani. Se si permette che i criteri dell’homo faber pervadano il mondo finito come devono necessariamente presiedere alla costituzione di questo mondo, allora l’homo faber si servirà di ogni cosa e considererà ogni cosa che è come mero mezzo per sé. Giudicherà ogni cosa come se appartenesse alla classe delle chrēmata, degli oggetti d’uso, così che, per seguire l’esempio di Platone, il vento non sarà più inteso nel suo giusto senso come forza naturale, ma sarà considerato esclusivamente riguardo ai bisogni umani di calore o di fresco – il che, evidentemente, significa che il vento come qualcosa di oggettivamente dato è stato eliminato dall’esperienza umana. È a causa di queste conseguenze che Platone, il quale alla fine della sua vita richiama ancora una volta nelle Leggi il detto di Protagora, replica con una formula quasi paradossale: non l’uomo – che a causa dei suoi bisogni e dei suoi talenti desidera usare ogni cosa, e quindi finisce col privare tutte le cose del loro valore intrinseco – ma “dio è la misura [anche] dei meri oggetti d’uso” (Arendt 1958, 113-4, IV.21). to es Qu La frase di Platone, nelle Leggi, a cui Arendt si riferisce, enuncia: «Il dio è per noi misura di tutte le cose, e molto di più dell’uomo, come alcuni pensano» (Platone 2001, 1535 [716 C]). In questo passo Platone riprende il detto di Protagora per sostituire “dio” (ho theos) a “uomo” (anthrōpos) e prosegue dicendo: «colui che fra noi è temperante è caro al dio perché gli è simile», perché segue quella massima considerata «la più bella e la più vera delle massime. Per l’uomo buono, sacrificare e innalzare continue preghiere agli dèi e offerte votive secondo le regole del culto, senza nulla trascurare, corrisponde al modo migliore, più nobile ed anche più efficace per avere una vita felice e pienamente all’altezza dei suoi meriti» (Platone 2001, 1535-6 [716 D - 716 E]). Nella graduatoria aristotelica degli stili di vita, i livelli bassi sono quelli di coloro che conducono un’esistenza sottomessa al bisogno e priva di scelta. Il lavoro più vile è quello dello schiavo, sottomesso all’obbedienza al suo padrone per procurare a lui e a se stesso tutto ciò che è necessario per sopravvivere. L’artigiano gode di una certa indipendenza, è consapevole di quel che fa, ma come homo faber vive isolato nel proprio mondo. La vita del mercante, non meno di quella delle altre figure lavorative, è in continuo af- ne rtie pa ap ok bo E- isim off ar to Ebook ap 5 - Crematistica e anticrematistica 109 Ques fanno, rivolta all’acquisizione e all’accumulo di ricchezze4. Il bios politikos designa per Aristotele il regno della vita autenticamente umana che si esplica nella praxis; la sua azione è rivolta al bello, rappresentato da beni né appropriabili, né consumabili piuttosto che da cose utili o necessarie. Solo tre attività sono libere, cioè indipendenti dal giogo delle necessità biologiche. Sono tali le attività della politica, il senso degli onori e dell’immortalità delle grandi azioni per il bene comune. Sono tali anche le speculazioni filosofiche (bios theoreticós) che sono svolte da coloro che si dedicano alla ricerca fine a se stessa, e infine lo sono anche le attività di contemplazione delle cose eterne. Sono queste le occupazioni anticrematistiche. La protezione dell’oikos nel mondo antico è protezione di quello che oggi si direbbe uno stile di vita, anche se è qualcosa di più. Sini (2015, 101) definisce l’oikos in questi termini: «[a]nticamente né la terra né l’appartenenza a essa possono essere alienati. L’oikos, la casa, è un possesso e un’economia comune, comunitaria, ed è simbolo di vita eterna», cioè di pienezza esistenziale. La crematistica è invece l’attività che i mercanti portano all’estremo. Essi, più di altri, praticano l’economia innaturale della ricerca dell’arricchimento fine a se stesso, con mezzi che non sono quelli degli agricoltori che raccolgono quel che hanno mietuto, né degli artigiani che trasformano con le loro mani e il loro ingegno materie in oggetti d’uso. I mercanti prendono quel che altri hanno fatto per scambiarlo con altri beni e contro denaro. Il mercante si porta dietro qualcosa di più del marchio d’infamia che accomuna tutti coloro che non fanno parte della polis. Egli è l’espressione della distorsione della “buona vita”, cioè di quel che i filosofi greci, prima di tutti, costruiscono come categoria etica della virtù civica5. Pur tuttavia, il mercato è un’istituzione necessaria alla stesSugli affari-affanni v. Benveniste (1976, I, 108-9). Platone fa declamare al filosofo sofista Callicle nel Gorgia un elogio delle passioni sfrenate ideale di felicità: «o Socrate, per quella verità che tu dici di voler perseguire, la cosa sta in questo modo: la sfrenatezza, la dissolutezza e la libertà, se si trovano in condizioni a loro favorevoli, costituiscono la virtù e la felicità; tutte queste altre cose non sono che orpelli, convenzioni degli uomini contro natura, chiacchiere che non valgono assolutamente nulla» (Platone, 2001, 902 [492 C]). In un altro passo del Gorgia Platone, in una discussione sulla giustizia, fa definire a Socrate la crematistica in questo modo: «E qual è l’arte che libera dalla pover4 5 110 Parte I - La categoria del moderno sto E e u Q app k o -bo a ro e n artie ffis e.2 imon 000 ail.c m g @ om sa sopravvivenza della struttura economica della società antica, nella misura in cui l’agricoltura e le altre attività produttive della polis non sono autosufficienti. Perciò il mercato è un luogo da tollerare, ma al tempo stesso da sorvegliare per evitarne l’invadenza da “contagio” morale e sovvertimento del buon governo. Nella tassonomia platonica delle città ingiuste, il degrado inizia con la timocrazia, o Città del coraggio e dell’onore, ipocrita e menzognera, resa instabile dall’ambizione; ma subito dopo la corruzione prosegue e si scatena nella Città del denaro, nell’oligarchia di coloro che non solo sono assillati da vanagloria ma anche da sete di arricchimento. Si scende ancora più in basso con la democrazia, o Città del disordine e dell’arbitrio. Al fondo di tutto sta la tirannide, o Città della bestia, della perversione totale, devastata dal delitto e dalla paura. Nell’abisso a spirale non si perde nulla dei livelli precedenti: alla fine tutto tiene: i mali si accumulano, non si elidono. La Città del denaro è uno scalino particolarmente pericoloso per lo scivolamento progressivo verso il basso. È dominata dalla plutocrazia avara, avida e senza scrupoli. In essa la scala dei valori è invertita e la ricchezza occupa il primo posto: «virtù e denaro hanno immenso divario» (Koyré 1996, 90-2). La città sana è una città né troppo piccola né troppo grande, relativamente povera, ma autosufficiente. Sini chiama “teorema di Mandeville” quel punto di rottura per cui si passa dalla comunità frugale retta dalle virtù dei meriti alla società opulenta retta dai vizi umani. La virtù civica si manifesta nelle piccole comunità, in cui solidarietà e virtù private sono necessarie per creare e mantenere prosperità, come accade nelle piccole città-stato, ma quando le dimensioni pubbliche aumentano e lo Stato diventa grande, la virtù non ha più lo stesso potere e, anzi, il vizio dell’accumulazione del denaro e di servirsi di eserciti mercenari e di funzionari stipendiati è la leva della prosperità: i vizi privati e la corruzione endemica sono gli strumenti per avere un’economia prospera (Sini 2015, 90). tà? Non è produrre ricchezze?» (idem, 890 [477 d]), accostando, subito dopo, alla crematistica l’arte del medico per la cura della malattia, e, infine, assegnando al giudice quella di guarire dall’ingiustizia. In questo modo riconosce però solo una funzione sociale al mercante che l’esercita, senza però nulla più di questo. Sulla posizione di Callicle v. Gastaldi (2003, 33-5). 5 - Crematistica e anticrematistica 111 5.2. Ancora su economia antica e moderna: le visioni storiche Niente turba uno Stato come l’innovazione: il solo cambiamento dà forma all’ingiustizia e alla tirannia. (Montaigne 2012, 1777 [libro III, IX]) Esistono però uomini rari che preferiscono morire piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza il piacere di lavorare […] A questa rara specie di uomini appartengono gli artisti e i contemplativi d’ogni genere, ma anche quegli oziosi che passano la vita a caccia, nei viaggi o in amoreggiamenti e avventure. Tutti costoro vogliono lavoro e ristrettezze in quanto sono connessi col piacere, e anche il lavoro più difficile e più duro, se così dev’essere. Altrimenti, sono di una pigrizia ostinata. (Nietzsche 1882, 68 [42]) artien Questo E b o o k app e.20 e a roff isimon Come abbiamo già visto, il pensiero sociale ed economico antico ha un comune modello antropologico per l’economia e la società. Aristotele stabilisce più classi antropologiche, prima ancora che sociali, di vita activa. Arendt è, forse, uno degli ultimi pensatori, insieme a Foucault, ad aver rilanciato una visione della società contemporanea e moderna secondo paradigmi aristotelici e classici (Forti 2006, XXII-XXIII; Villa 1996, 3-5, 42-3). Le diverse antropologie definiscono “economie” diverse tra loro per funzionamento e, allo stesso tempo, parallele perché coesistono relativamente isolate, dato che non si contagiano nonostante i molti punti di contatto che si stabiliscono tra loro. La grande dicotomia fra antico e moderno contiene altre dicotomie con caratteri alternativi che contraddistinguono le economie del passato da quelle capitalistiche. Gli economisti contemporanei appartenenti al mainstream focalizzano la loro attenzione su concetti di crescita che smorzano le discontinuità e i break strutturali facendoli passare per rallentamenti e shock casuali esterni. Nelle posizioni più radicali, tali economisti negano la legittimità di fare distinzioni fra sistemi economici; in quelle più moderate, prevale il disinteresse a interrogarsi su aspetti di strutture sociali complesse e “organiche”, che non siano strettamente legate a problemi di differenze di gradi e di intensità tra grandezze economiche osservabili; in ogni caso, le differenze nelle grandezze economiche vengono fatte risalire all’interferenza della persistente forza repressiva e – per usare una metafora manzoniana – delle 112 Parte I - La categoria del moderno “grida” di autorità che gettano sabbia negli ingranaggi dell’economia al solo scopo di garantirsi rendite di posizione. Per questi economisti, il capitalismo – quale sistema complesso e organico – non è più definibile come tale, proprio perché non è più opponibile a sistemi alternativi o antecedenti. Insomma, per loro, il capitalismo è, in realtà, soltanto l’unico sistema economico esistente e possibile, e quindi inutile come categoria a sè stante. Come svanisce lo stesso concetto di capitalismo, identificato tout court con “economia”, svaniscono concettualmente anche altri sistemi e restano solo scambi e prezzi osservabili, indipendentemente da quanto siano rappresentativi e dalle caratteristiche della loro formazione. Una volta liberati e scatenati gli istinti utilitaristici, tutto si riduce a spiegare le differenze nelle varie economie ‒ per esempio una produzione fatta in maniera diversa e un consumo composto di cose diverse ‒ soltanto attraverso l’incidenza di cambiamenti tecnologici, miglioramenti organizzativi, miglior definizione e razionalizzazione. Quel che questi economisti osservano è una “corsa” verso la frontiera dell’efficienza, sempre spostata in avanti dall’innovazione tecnologica, ma verso la quale impreQuepensando che solo le più se ed economie cercano di avvicinarsi, sto E -boIloproblema efficienti riusciranno ad accostarsi il più possibile. k ap a dello sviluppo economico, secondo loro, è quello di consentire pa un seme e a un virgulto ‒ quelli del mercato e della tecnica ‒ di rtiene maturare e passare da uno stato embrionale a uno più compiuto. Viste così le cose, allora non c’è più bisogno di analizzare le economie antiche con un metro diverso da quelle moderne. Tutte sono uguali, tutte hanno, nel tempo e nello spazio, un solo carattere, lo scambio di mercato. In alcune, questo si è evoluto bene, in altre meno. Allora, in questa ottica “monoteista” in cui solo quel carattere conta, le grandi dicotomie scompaiono, diventano “piccole”, insulse, perché le differenze rilevanti sono, invece, quelle tra economie con scambi male organizzati ed economie avanzate, che invece hanno diritti di proprietà definiti e garantiti, e, di conseguenza, mercati che funzionano bene, in maniera più efficiente, e offrono opportunità di investimento e di guadagno agli agenti capaci di coglierle. Questa visione della storia, e dei sistemi economici ridotti a unico sistema uguale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, riaf- a 5 - Crematistica e anticrematistica 113 fermatasi prepotentemente negli ultimi decenni, ha una lunga tradizione, che risale almeno agli albori della scienza economica. Già nel XIX secolo molti economisti, specialmente minori ma non meno influenti, si disaffezionarono nei confronti delle prospettive storiche, se non per fini aneddotici. Le specializzazioni disciplinari e gli affinamenti degli statuti metodologici in un campo e nell’altro (cioè, storia ed economia) contribuirono a innalzare barriere e a orientare le discipline verso specialismi e tecnicismi. Per imporsi come scienza, l’economia non poteva coltivare dicotomie (o, peggio, pluri-tomie) nel proprio seno. La salvaguardia di un’unità di statuto scientifico sacrificava storicismi ritenuti teoricamente deboli. Mentre in molte scienze sociali, la modernità è un asse di senso e mantiene una dignità analitica centrale, salvando così, insieme alle nuove, le categorie “antiche” e i loro paradigmi, in economia le cose sono andate in senso opposto e molte scuole – vedremo in particolare quelle neoliberali – hanno decisamente respinto un doppio, o plurimo paradigma, per riaffermarne uno solo: quello coincidente con l’economia di mercato, col capitalismo maturo. La grande dicotomia tra economie antiche (precapitalistiche) ed economie moderne (capitalistiche o di mercato) ha allora fondamento se si riconosce un ruolo alle istituzioni e alla loro dimensione storica e politica. La questione si sposta così sul terreno istituzionale e nel corso del XX secolo la polemica inizia lentamente a coinvolgere le istituzioni. Anche sulle istituzioni si ripropone una grande dicotomia, per quanto spesso non riconosciuta come tale. Si prendano le istituzioni intese secondo il paradigma del “vecchio” istituzionalismo di Veblen e di altri e si mettano a confronto con le istituzioni intese secondo quello che si è affermato successivamente con l’impostazione della moderna economia neo-istituzionalista di Coase, Williamson e North: quel che emerge sono appunto divergenze inconciliabili. L’istituzionalismo di “vecchio” stampo, come corrente di pensiero dai molti innesti, si formò nel corso della seconda metà del XIX secolo per insoddisfazione e reazione nei riguardi dell’approccio neoclassico che si stava affermando in economia. Le scuole istituzionaliste, da allora, sono state molte, spesso divise su aspetti fondamentali e diversamente caratterizzate an- Questo E- .2 one roff isim 114 Parte I - La categoria del moderno Que sto E-b o ok a ppa rtien ea che in base a orientamenti culturali nazionali. Qui prendiamo a riferimento il pensiero di un solo rappresentante, Thorstein B. Veblen, uno dei maggiori esponenti con un approccio di critica radicale ai fondamenti utilitaristici del pensiero economico neoclassico e socialista, entrambi ritenuti prigionieri di schemi teleologici, di “leggi naturali” avulse da ogni analisi del concreto funzionamento dei fattori istituzionali che influiscono sui processi storici, quali gli “abiti mentali” che condizionano il comportamento economico e sociale degli individui. Nelle società moderne sopravvivono, come Veblen mostra, tra l’altro, ne La teoria della classe agiata (1899) – il suo testo più noto –, elementi e istinti di società «barbariche» e primitive, come istinti rapaci di rapina e di saccheggio, gli stessi che Veblen riscontra trasformati e affinati nelle vocazioni speculative della finanza moderna e del mondo degli affari in genere. Queste tendenze del capitalismo affaristico-finanziario (v. Veblen 1904) entrano in conflitto con la tradizionale attitudine alla creatività artigianale finalizzata alla perfezione del manufatto, all’accumulo di conoscenze tecniche, che in Veblen è tuttavia un’inclinazione lontana dalla morale del lavoro puritana di Benjamin Franklin e, invece, – come sottolinea Bairati (1981, 17) – è ispirata alla concezione del lavoro rappresentata dalla «figura dell’operaio ingegnoso e del filosofo artigiano» della Ricchezza delle nazioni di Smith. Veblen evidenzia una dicotomia che distingue tra due tipi di istinti, l’istinto all’operosità, promotore di progresso tecnologico, e gli istinti barbarici del consumo per ostentazione e della predazione finanziaria; i due tipi di istinti sono nettamente contrapposti e il secondo ostacola sempre il primo. L’homo oeconomicus, perfezionato dall’economia neoclassica come macchina progettata per seguire razionalmente istinti utilitaristici, è per Veblen un’astrazione metafisica che non tiene conto di istinti tribali, né delle strutture istituzionali che condizionano i comportamenti sociali. In Veblen l’istituzionalismo ha una valenza di critica radicale all’approccio “economicistico”. In questa sede non è tanto importante stabilire quanto Arendt possa aver attinto da Veblen; entrambi guardano alla tecnica moderna come risultato di un processo storico-culturale e, pur con categorie diverse, confrontano il moderno all’antico. Si può inoltre osservare 5 - Crematistica e anticrematistica 115 rt a p ap e ien a i ff is ro m 00 0 2 e. n o @ gm a o il.c m che Veblen è uno dei pochi autori, tra sociologi ed economisti, a essere citato in due passaggi di Vita activa. La dicotomia vebleniana, qui sopra accennata, ci sembra rilevante come un altro modo di guardare alla dicotomia presente nella Vita activa tra azioni che hanno come teatro le istituzioni, e che contribuiscono a creare e a mantenere, e le attività di coloro che sono schiacciati dal giogo del lavoro o dalle incombenze dell’opera. Non si deve nemmeno dimenticare che all’epoca in cui scrivono, non solo Veblen, ma anche Arendt, era quasi un luogo comune distinguere comportamenti sociali ed economici fra epoche storiche caratterizzate da strutture istituzionali profondamente diverse e, per molti aspetti, antitetiche. Anche economisti che non avevano un atteggiamento critico, o tantomeno di repulsione, verso l’economia neoclassica riconoscevano e condividevano impostazioni istituzionali di quel genere, cioè storicizzate. Un esempio per tutti è il libro, troppo spesso dimenticato, di John Hicks, Una teoria della storia economica (1969), ma altri esempi non mancano. Come vedremo meglio (nella II e III parte), in quegli stessi anni fu messo a punto l’attacco più coerente e integrale, sferrato da Hayek e da altri esponenti di rilievo di scuole e club del neoliberalismo, contro lo storicismo in genere (la “miseria dello storicismo”) e contro quel modo di intendere le istituzioni. Essi si richiamavano ai fondamenti di pensiero della scuola austriaca, che con Carl Menger in particolare, avevano fatto una distinzione netta tra istituzioni «sociali», cioè spontanee, e istituzioni statali, cioè artificiali e politiche (Menger 1892, 255). Oltre a negare ogni fondamento scientifico all’analisi storica, per sostenere l’individualismo metodologico6, il programma neoliberale, sempre con Hayek, precisò alcuni punti di distacco dall’impostazione della scuola neoclassica e specialmente riguardo al concetto walrasiano Qu e sto E- ok o b 6 Con “individualismo metodologico” si indica un paradigma, secondo il quale un fenomeno sociale dipende sempre da cause individuali; per esempio in economia ogni fenomeno va spiegato con le azioni, le credenze e i comportamenti degli individui. Menger, che ne è il primo ispiratore, parlava anche di atomismo, per indicare appunto che la società è composta di tanti individui da intendere singolarmente come atomi e solo essi sono i soggetti da considerare per spiegare ogni fenomeno sociale. 116 Parte I - La categoria del moderno to es Qu di equilibrio economico generale, che – come avremo modo di accennare – viene criticato per non aver tenuto in conto il problema delle dispersioni di conoscenza in un mercato atomistico. Ma il punto principale e la risultante intellettuale di tale programma erano quelli di delegittimare teoricamente ogni diversità sostanziale tra le società e tra le economie; infatti, a causa dell’assunzione che solo gli individui singolarmente agiscono e interagiscono tra loro, ogni tentativo di dedurre da ciò comportamenti sociali, o di gregge (aggregati per “classi” o “nazioni”), e a maggior ragione tendenze della storia, risulta privo di ogni fondamento scientifico a causa della arbitrarietà analitica dell’aggregazione (individuata dalla logica come fallacy of composition). Le storie personali valgono quel che valgono (sono materia di psicologia) e le storie collettive sono prive di senso: questo il risultato di un combinato disposto di fallacies. Per ora rinviamo le questioni inerenti all’ideologia neoliberale e al ruolo di Hayek alla parte III; quel che invece qui ci interessa constatare è l’emergere di un altro attacco ai fondamenti dell’istituzionalismo “classico”, che è indipendente e alternativo – specialmente in Veblen – al paradigma della teoria economica neoclassica dell’individualismo metodologico. Tale attacco può esser fatto risalire agli anni ’70 con l’emergere di un filone di studi che aveva il suo precursore in Ronald Coase. Il programma di ricerca era volto a trattare i fenomeni istituzionali non più come separati dai canoni analitici dell’economia, ma sempre più orientato ad abbattere quella separatezza che rendeva le istituzioni cornice esterna e condizionante dei comportamenti dell’economia, per considerarle invece prodotto dei rapporti economici e della logica della domanda e dell’offerta di beni; insomma, si trattava di applicare ai fenomeni istituzionali quella stessa logica che nell’economia neoclassica presiede e guida ogni comportamento economico. L’operazione scientifica e culturale mirava ad abbattere una dicotomia scomoda: quella che divideva le istituzioni da una parte e l’economia dall’altra. L‘obiettivo era il superamento della visione di un’economia incasellata entro un contesto istituzionale dato, e «storicamente determinato». In questa visione, le istituzioni, intese come “cornice” dei rapporti economici, segnavano i confini interpretativi ok bo E- en rti pa ap e a Questo 5 - Crematistica e anticrematistica 117 dell’economia, perché la inglobavano e la condizionavano, e anche perché i cambiamenti nell’economia sono frequenti e rapidi rispetto alla resilienza delle istituzioni. Un grande economista come Vilfredo Pareto era stato un teorico del modello istituzionale che i neo-istituzionalisti si apprestavano a demolire. Pareto – come sottolinea Bobbio (2005, 20 e 27) – considerava la sociologia come teoria unificatrice delle scienze sociali. L’intento dei neo-istituzionalisti era quello di invertire l’ordine delle scienze sociali e rendere la teoria economica, nella versione neoclassica, la teoria cardine di tutte le scienze sociali, da rifondare sulle basi unificanti dell’individualismo metodologico. Pareto aveva introdotto una dicotomia netta distinguendo le azioni logiche dalle azioni «non logiche». Le prime «consistono in mezzi appropriati al fine e uniscono logicamente i mezzi al fine» (Pareto 1978, 25 [II, 62]); quelle non logiche includono semplicemente tutte quelle in cui il rapporto tra il fine oggettivo e quello soggettivo è “rotto”, non tiene, è spurio. La differenza è perciò tra azioni comandate e condotte dalla «ragione» ed azioni sotto il dominio del «sentimento» (Bobbio 2005, 21). Bobbio riporta una lettera indirizzata a Pantaleoni nella quale Pareto scrive all’amico: «Persuaditi che la ragione vale poco o nulla per dare forma al fenomeno sociale. Operano ben altre forze. Ciò vorrei dimostrare nella mia sociologia» (cit. in idem, 19-20)7. Pareto, come mostra Bobbio (2005, 42), resta estraneo al «problema della natura del “sociale”, coi problemi connessi della tipologia delle varie forme di società». La sua sociologia «è prevalentemente un’analisi critica di ideologie» (idem, 43), cioè di giustificazioni religiose, filosofiche, politiche e di altro genere per azioni non logiche dettate dalle passioni. Ma, anche per questo, Pareto, nonostante proponga una sociologia che non pretende di costruire sistemi, e anzi schiva le generalizzazioni e i concetti che tentano di raggruppare soggetti sociali, guarda alla storia senza vedervi costruzioni artificiose volte a razionalizzare istituzioni in base a criteri economici ottimizzanti. La sua sociologia mira ad analizzare le ciclicità storiche dei movimenti 7 Ranchetti (2000, 210) insiste sull’idea metafisica di utilità in Pareto. Qu es 118 Parte I - La categoria del moderno sociali, dei gruppi politici, dell’alternanza tra governanti e governati, di élites che salgono, occupando le posizioni di potere detenute in precedenza da altre élites che quindi sono costrette ad abbandonarle: insomma una «circolazione» continua di élites dominanti. Veblen e Pareto esprimono, da basi diametralmente opposte, due sociologie che, però, su alcuni aspetti non secondari presentano elementi di contatto. Veblen cerca di sbarazzarsi dell’utilitarismo economicista per comprendere, invece, i comportamenti istintivi dell’uomo moderno, eredità di un passato ancestrale ancora vivo – sebbene in forme esteriori diverse – e le cui antiche inclinazioni non possono essere tenute a freno. Pareto, nella sua sociologia, va oltre le perfette razionalità che conferiscono ordine e nitore alla sua costruzione economica. Per Pareto, mentre l’agire economico risponde a razionalità, lo stesso non può dirsi dell’agire in altri contesti che sono poco, o per nulla, permeabili dal calcolo economico. Sia Veblen che Pareto considerano la natura “politica” delle istituzioni e dei meccanismi istituzionali. In entrambe le loro sociologie non c’è spazio per istituzioni tipo quelle mengeriane, in cui vengono contrapposte le istituzioni “naturali” e razionali a quelle “sociali” e politiche, ma le prime, se “liberate”, tendono a piegare le altre ai propri fini. 5.3. Le istituzioni al centro di grandi dicotomie Qui su l’arida schiena | Del formidabil monte | Sterminator Vesevo | […] Dipinte in queste rive | Son dell’umana gente | Le magnifiche sorti e progressive. (Leopardi, La ginestra, 177-178) Che leggi vuoi che facciano i senatori? | Una volta arrivati i barbari, saranno loro a farle. (Kavafis 2017 [Aspettando i barbari]) Mentre, nel secondo dopoguerra, la mitologia mengeriana delle origini della moneta faceva sempre più breccia nelle pagine dei manuali di economia per introdurre le funzioni della moneta grazie alla sua semplice narrazione logico-evolutiva delle istituzioni “naturali” (di cui la moneta era da considerarsi un esempio, vedi 5 - Crematistica e anticrematistica 119 parte II), molti studiosi battevano altre strade. Prendiamo qui in considerazione solo due lavori, che ci sembrano rappresentativi delle diversità culturali che contraddistinguono i loro autori e, anche, dell’impatto avuto nei rispettivi campi di ricerca e fuori da essi. Il primo è un innovativo saggio di Nicholas Georgescu-Roegen, che non pare abbia avuto sviluppi ulteriori nella letteratura economica, l’altro è invece l’influente libro di Karl Polanyi, che ebbe un discreto successo in ambito storico e antropologico con un influsso su altri ambiti delle scienze sociali. Nel 1960 usciva il lungo saggio di Georgescu-Roegen Economic Theory and Agrarian Economics. Ebbe una circolazione discreta nell’ambito degli studiosi di economia agraria, grazie anche a traduzioni in riviste specializzate8, ma la risonanza non andò al di là di quelle discipline malgrado alcuni importanti encomi, che si persero col passare degli anni. Specialmente tra gli storici, il saggio passò del tutto inosservato, in particolare anche tra coloro che erano interessati alle questioni delle economie tradizionali e della transizione verso economie capitalistiche, temi che animavano i dibattiti del periodo. Georgescu-Roegen, da studioso di teorie e filosofie scientifiche, era forse consapevole di tali difficoltà quando scrisse: l’«atteggiamento di un’epoca […] è un fenomeno tipicamente compatto, che reclamizza solo quel che gli piace, e procede senza curarsi dell’autocritica espressa da una minoranza» (Georgescu-Roegen 1973, 51). Il suo contributo, inoltre, non si apriva con parole concilianti né verso l’economia “classica” (oggi si direbbe neoclassica), né verso le scuole di pensiero marxiste. Gli economisti neoclassici non erano interessati alle economie non capitaliste di cui, come i marxisti, attendevano la loro “maturazione”, partendo «da idee preconcette intorno alle leggi di un’economia contadina» (idem, 159). Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne ar off isi mo ne 8 In Spagna Teoría económica y economía agraria, fu pubblicato in «El Trimestre Económico», 34, 1967, n. 136-4, pp. 589-638; in Francia Théorie économique et économie politique agraire, in «Économie rurale», 71, 1967, pp. 51-76. La prima traduzione italiana è quella del 1973 a cura di Giacomo Becattini e qui presa a riferimento; una versione ridotta fu quella in Josling e Pasca (1981, 57-88). Maneschi e Zamagni (1997, 696) dedicano solo un fugace accenno al saggio nella commemorazione per la morte di Georgescu-Roegen. .20 00 @ g a en e ap pa rti Parte I - La categoria del moderno 120 Q ue st o E- bo ok Quali sono però gli aspetti di quel contributo che qui interessano? Innanzitutto, la definizione delle economie precapitalistiche e arcaiche come «economie di sussistenza», cioè economie agricole caratterizzate da sovrappopolazione e in condizioni di vita precarie (idem, 159). Per tali economie non è appropriato – secondo Georgescu-Roegen – applicare «una teoria economica che descrive con successo […] il sistema capitalistico», poiché «le società umane variano nel tempo e nello spazio» (idem, 161). Come sappiamo, la teoria standard si fonda su individui che seguono impulsi edonistici e imprenditori che cercano di massimizzare il profitto monetario. Ma per Georgescu-Roegen l’assiomatica delle teorie economiche moderne non è adatta a descrivere società agricole sovrappopolate, senza diritti di proprietà definiti, né mercati ampi e organizzati, né imprenditori che guidano i processi produttivi. L’«osservazione ancor più importante» di Georgescu-Roegen riguarda le istituzioni: «ciò che caratterizza un sistema economico sono le sue istituzioni, e non la tecnologia che usa. Se non fosse così non disporremmo più di alcuna base per distinguere il comunismo dal capitalismo, mentre d’altra parte dovremmo considerare il capitalismo di oggi e quello, per esempio, di cinquant’anni fa, come sistemi essenzialmente diversi» (idem, 162). Sono le istituzioni a caratterizzare fondamentalmente un sistema economico. E per «realtà senza teoria», come quelle di tutte le economie contadine sovrappopolate dei paesi sottosviluppati e di quelle precapitalistiche, la griglia d’analisi di società industriali non può essere di alcun aiuto. Georgescu-Roegen aggiunge un’osservazione importante: «regolare la produzione in base al principio della massimizzazione del profitto è probabilmente la peggior cosa che possa capitare a un’economia sovrappopolata, perché determina un aumento del tempo libero non desiderato, contemporaneamente a una diminuzione del prodotto nazionale» (idem, 197). L’obiettivo in funzione del quale erano per lo più organizzate le economie precapitalistiche era tuttavia un principio razionale che mirava a salvaguardare la società dalla penuria e dalle carestie e perciò si trattava di impiegare tutta la manodopera disponibile, anche per lavori poco produttivi, ma grazie ai quali era comunque possibile aumentare il prodotto. Seguire il principio della teoria della produttività marginale al fine di rea- 5 - Crematistica e anticrematistica 121 lizzare il benessere ottimo avrebbe compromesso la sussistenza. Per questo motivo Georgescu-Roegen giungeva alla conclusione che né il capitalismo né la pianificazione socialista erano i sistemi economicamente migliori per lo sviluppo di economie arretrate con eccesso di popolazione (idem, 199). Anni prima della pubblicazione del saggio di Georgescu-Roegen, senza lo stesso spessore teorico e analitico, ma seguendo la stessa impostazione di fondo, era uscito il libro di Karl Polanyi La grande trasformazione (1944), incentrato sull’affermazione storica della moderna economia di mercato. Il libro è stato considerato una delle maggiori opere nel campo delle scienze sociali del XX secolo (Block 2003, 275). La tesi di fondo è che le istituzioni liberali e, in particolare, il mercato erano il risultato di una grandiosa utopia e di un’operazione ideologica per porre al centro della società il mercato autoregolantesi. L’economia, che era in precedenza “incassata” (embedded) nella società, regolata secondo criteri stabiliti da essa e dalla politica, una volta svincolata da regole restrittive che limitavano il commercio e la ricerca del profitto, finiva per sottomettere la società. Il mercato usciva dai confini angusti dei mercati dei beni e sottometteva, con le proprie regole, la terra, il capitale e il lavoro. Il concetto di embeddedness esprime l’idea della tradizionale non autonomia dell’economia e della sua dipendenza dalla società. Quel concetto, come ricorda Stiglitz (2001, xxiii), è il più celebre contributo di Polanyi alle scienze sociali e con esso si spiega, per converso, l’utopia liberale di “disincassare” l’economia dalla società attraverso lo sprigionamento delle forze di mercato, per poi lasciarle agire in piena autonomia, con la conseguenza spiacevole di provocare la grande depressione. Quel sistema di economia di mercato sfrenata e senza limiti era contrario al reale funzionamento di ogni società umana. L’opera di Polanyi ebbe una lenta gestazione, che può esser fatta risalire agli anni precedenti alla prima guerra mondiale con la partecipazione del giovane Polanyi al Circolo Galilei a Budapest, di orientamento radical socialista, nel quale si difendeva l’affermazione della libertà in ambito accademico e scientifico (Stanfield 1986, 4-5). La discussione sull’economia di mercato si accese dopo che von Mises nel 1920 pubblicò un vero e proprio «ma- Qu e Parte I - La categoria del moderno 122 Q u e sto nifesto liberale», ribadito nel 1927, nel quale l’autentica tempra liberale svelava esplicitamente le sue inclinazioni più profonde laddove non mancava di esaltare il fascismo italiano per aver salvato nientemeno che la civiltà europea9. In quel contesto Polanyi, che prese parte al movimento socialista cristiano, sia nel periodo viennese che durante l’esilio londinese dopo il 1933 (Dale 2010, 39-44), maturò un’analisi del fascismo come attacco al socialismo e alle sue radici morali e religiose, come un prodotto della mistica dell’individualismo dell’economia di mercato (Polanyi 1935). Per Polanyi è impossibile separare individuo e società, mercato e politica. La “grande trasformazione”, del titolo dell’opera, allude alla costruzione artificiosa dell’economia di mercato e all’impossessamento da parte del mercato di terra, capitale e lavoro, facendone merci “fittizie”, fino ad allora fuori da logiche strettamente economiche (Polanyi 1944, 94). La grande crisi è per Polanyi la dimostrazione dell’impossibilità di separare l’economia di mercato dalla sfera politica e il fallimento del progetto liberoscambista di lasciar governare l’intera società dagli istinti animali degli homines oeconomici. Alcune tesi centrali dell’analisi di Polanyi sulle origini economiche dell’epoca moderna sono sintetizzate nei due passi seguenti. Nel primo egli introduce un concetto chiave, di sapore dialettico hegeliano: il «doppio movimento». Tale concetto introduce una tensione interna a una società che cerca di proteggere se stessa dall’espansione incontrollata del mercato: E p b o o ka ea part ien roffi sim n e . 2 000 o Per un secolo la dinamica della società moderna fu governata da un doppio movimento: il mercato si espandeva continuamente ma questo movimento si incontrava con uno opposto che controllava l’espansione in determinate direzioni. Per quanto vitale fosse questo secondo movimento per la protezione della società, esso era in ultima analisi incompatibile con l’autoregolazione del mercato e quindi con lo stesso sistema di mercato (Polanyi 1944, 167). @g m m a i l.co Il saggio di Ludwig von Mises del 1920, Die Wirtschaftsrechnung in Sozialistischen Gemeinwesen, fu pubblicato in «Archiv für Sozialwissenschaften» e, poi, incluso nella raccolta di scritti curata da Hayek (1935). Invece, per il libro di Mises (1927), il giudizio sul fascismo si trova a p. 43. 9 5 - Crematistica e anticrematistica 123 il.co a m @g m Il concetto è ripreso ancora per evidenziare opposizioni e dicotomie, già anticipate da Veblen, tra forze che sono spinte inesorabilmente da massimizzazioni pecuniarie e che instaurano la centralità dei mercati e forze che oppongono resistenze e ricercano protezioni quando l’impeto dei mercati minaccia di travolgere l’intera società: e.2 n o im 000 quello che abbiamo indicato come un duplice movimento […] può essere rappresentato come l’azione di due principi organizzativi nella società, ciascuno di essi ponendosi fini istituzionali specifici, avendo l’appoggio di precise forze sociali ed usando i propri metodi particolari. L’uno era il principio del liberalismo economico che mirava all’istituzione di un sistema autoregolato […] l’altro era il principio della protezione sociale che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura oltre che della organizzazione produttiva, basandosi sull’appoggio variante di coloro che erano più immediatamente toccati dall’azione deleteria del mercato […] ed impiegando una legislazione protettiva, delle associazioni restrittive ed altri strumenti di intervento come suoi metodi. (Polanyi 1944, 170) Qu Eesto boo par k ap tie rof a e n fis Dopo il libro del 1944, Polanyi spostò l’asse dei propri studi sulle società arcaiche e, in un saggio del 1957, un anno prima della pubblicazione di Vita activa, contribuì ad aprire un ricco fronte di studi di antropologia storica con la riscoperta di Aristotele “economista”. L’obiettivo di fondo era verificare, sulla base di evidenze archeologiche e storiche, l’eccezionalità del mercato come forma di organizzazione economica delle società umane, compresa quella del capitalismo industriale. In economie precapitalistiche, arcaiche o feudali, la presenza di forme embrionali o più avanzate di scambi mercantili costituiva realtà spesso circoscritte e confinate ai margini di economie agricole. I commerci, talora, conoscevano un certo sviluppo senza però sconvolgere gli orientamenti produttivi, che restavano organizzati secondo logiche lontane da quelle pecuniarie e strettamente imprenditoriali di ricerca del profitto. In questo ordine economico e sociale, anche il pensiero dei filosofi antichi e le prescrizioni di leggi civili o religiose avevano una coerenza in termini economici, ed era, quindi, un errore considerarli in base a parametri contemporanei come semplici indicazioni etiche e di buon governo, limitate a faccende domestiche. Le logiche di sistema non erano quelle del capitalismo moderno, e miravano a proteggere la società dalle tendenze autodistruttive dei mercati. Parte I - La categoria del moderno Lo “spirito del capitalismo”, la brama di profitto, pur presenti anche in società arcaiche, non si erano mai imposti come paradigma di comportamento prevalente. Prima del totale predominio del capitalismo, anche le forme di calcolo razionale che guidavano i comportamenti soggettivi rispondevano a finalità molto diverse; la contabilità risultava spesso inaccurata per mancanza di certezza e trasparenza nei prezzi e nei valori e, persino quando risultava ai limiti del perfezionismo, quasi mai seguiva protocolli massimizzanti il profitto. Quando Marx, a varie riprese nella sua sterminata opera, insiste sulla storicità delle economie intende proprio che è necessario cambiare gli schemi di riferimento con i quali comprendere le economie del passato. Ogni analisi falsata del passato induce a forme di autoinganno sul presente, a causa del preconcetto ideologico secondo il quale la differenza tra passato e presente sta solo nel grado di intensità della conoscenza tecnologica, e l’evoluzione sociale è intesa come uno scontro fra i Lumi scientifici, da un lato, e le pratiche magico-religiose, dall’altro. Insomma, tale riduzionismo impedisce di poter valutare e comprendere gli uomini del passato secondo i canoni propri dei loro contemporanei, impedendo così di cogliere le dinamiche più profonde, per fermarsi, invece, ad ammirare, banalmente, le “magnifiche sorti e progressive”. Ad esempio, nel confronto fra l’etica economica antica e quella moderna appare rovesciato il senso del rapporto dell’uomo con la produzione. Il seguente passo di Marx è molto chiaro in tal senso: «l’antica concezione secondo la quale l’uomo, quale che sia la sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre il fine della produzione, pare assai superiore rispetto al mondo moderno, nel quale la produzione si manifesta come obiettivo dell’uomo e la ricchezza come obiettivo della produzione»10. Nelle società precapitalistiche l’obiettivo moderno della produzione per la produzione è assente e la produzione non sovrasta l’esistenza, che si orienta liberamente verso la coltivazione di altre attività. Il rapporto tra bisogni e loro soddisfacimento resta un rapporto diretto e lineare, che non passa indirettamente attraverso il persegui- Qu e sto E o -b o p ka p 124 10 Il passo è tratto dalle Forme di produzione precapitalistiche di Marx (2009, 165); fanno parte dei Grundrisse, v. anche, con una diversa traduzione, in Marx (1968, II, 112). 5 - Crematistica e anticrematistica 125 gm a .20 0 0@ e mo n i off is e a r n ar tie p ka p o e s to E bo Qu mento di un altro fine. Nella modernità del capitalismo tutto ciò si capovolge: l’uomo è un ingranaggio in un circuito materiale di capitale che serve ad accumulare nuovo capitale. Infatti, nell’«economia politica borghese – e nell’epoca della produzione ad essa corrispondente», il completo dispiegarsi «dell’interiorità dell’uomo si manifesta come un assoluto svuotamento […] a vantaggio di un fine completamente esterno» e mentre «il puerile mondo antico appare come un che di più elevato […] il mondo moderno lascia insoddisfatti, oppure, dove esso risulta soddisfatto di sé, è volgare»11. Una distinzione analoga è messa in evidenza anche da Polanyi. Pare difficile liquidarla al pari di una visione romantica del passato12. Nello studio di economie e società antiche e arretrate, Polanyi propone una triade di principi economici che orientano i comportamenti, fondati essenzialmente sul modo di transazione di beni e servizi. Il mercato è solo uno di questi modi ma non è l’unico, ed anzi, soltanto in tempi recenti, per effetto dell’ideologia liberale del libero scambio del XIX secolo, è stato consacrato a modo universale, con quelle stesse conseguenze sottolineate da Marx nei passi qui sopra citati. Polanyi respinge lo schema a senso unico delle elaborazioni teoriche dell’economia politica che, dalla fine del XVIII secolo in poi, guardano alle organizzazioni economiche arcaiche o feudali come forme inefficienti e con spazi di mercato ristretti e incatenati in regole irrazionali. Lo schema storico e analitico dell’economia politica è perciò riassumibile nella metafora dell’esodo e del raggiungimento della liberazione con la terra promessa del capitalismo moderno, caratterizzato dal “latte e miele” che promana dall’estensione e avanzamento dei mercati in ambiti che prima di allora risultavano protetti, come quando le realtà mercantili erano circoscritte e poste “fuori” dalla comunità o dalla polis. La terra è stata a lungo un bene estremamente vincolato nella trasferibilità e nelle destinazioni d’uso e solo col capitalismo, e grazie ai diritti di proprietà che lo caratterizzano, diventa oggetto di libere contrattazioni, e vie- il . c om Marx (2009, 167, il corsivo non è aggiunto; oppure 1968, II, 112-3). Le accuse di “romanticismo” sono state riprese e rilanciate da Godelier (1978, IX-XLIV). Per una critica a Polanyi secondo canoni di razionalismo economico v. Pavanello (1993). 11 12 126 Parte I - La categoria del moderno Questo E-book appartiene a roffis ne assegnata in base a un prezzo. Lo stesso dicasi per il lavoro, in precedenza protetto nelle dimensioni extramercantili, come dimostrano le regolamentazioni corporative e delle prestazioni d’opera. Non ultimo, anche per il capitale e per la moneta vigevano restrizioni e controlli, ed entrambi erano vincolati nella trasferibilità. Gli interessi sui prestiti – intesi come prezzo del denaro – erano generalmente condannati e di fatto limitati in una sorta di “mercato nero”, anche per la viscosità dei rendimenti e la scarsa standardizzazione delle attività finanziarie, comprese quelle più rappresentative come i debiti statali e di enti pubblici. Quel che Polanyi riscontra nelle società arcaiche è «l’assenza di qualunque istituzione separata e distinta basata su motivi economici» (1944, 62), e cioè di istituzioni che orientino i comportamenti verso il guadagno individuale in maniera sistematica come avviene in un’economia di mercato. Gli isolani trobriandesi della Melanesia occidentale sono un esempio di organizzazione sociale governata su altri principi, che sono stilizzati da Polanyi nei principi della reciprocità e della redistribuzione, in assenza di scambi mercantili. La reciprocità opera soprattutto nei rapporti familiari e di parentela secondo forme rituali di dono, le cui pratiche conferiscono un riconoscimento e una reputazione sociale. Il principio della redistribuzione interviene nei rapporti di gerarchia che, nella stessa comunità, svolgono una funzione importante come quella dell’immagazzinamento e della conservazione di scorte di beni necessari al mantenimento delle attività vitali e comunitarie (Polanyi 1944, 63). Anche in questo caso le occasioni rituali, tipo le feste o gli incontri con i vicini di altre isole, sono momenti di donazioni e redistribuzioni di beni, non più secondo lo schema della «simmetria», come nella famiglia, ma in osservanza di quello della «centricità», che presuppone strutture istituzionali di tipo gerarchico, un’organizzazione burocratica, un uso di scritturazioni, per governare seguendo rituali di subordinazione e di lealtà. Le società precapitalistiche adottano in prevalenza forme organizzative che stanno «a mezza strada [tra] le necessità della reciprocità e della redistribuzione» (Polanyi 1944, 65). Gli scambi di mercato sono confinati, sporadici, soffocati, affinché non prevalgano sull’ordine sociale mettendolo a soqquadro. imone.2000@gmail.com e.20 n o m i s i ff ne a ro 5 - Crematistica e anticrematistica 127 app E-book artie Generalmente – afferma Polanyi (1944, 72) – è corretto dire che tutti i sistemi economici che ci sono noti, fino alla fine del feudalesimo nell’Europa occidentale, erano organizzati alternativamente sui principi della reciprocità o della ridistribuzione o dell’economia domestica o di una combinazione dei tre. Questi principi furono istituzionalizzati con l’aiuto di un’organizzazione sociale che inter alia faceva uso dei modelli della simmetria, della centricità e dell’autarchia. In questo quadro la produzione ordinata e la distribuzione dei beni era assicurata da una grande varietà di motivi individuali disciplinati da principi generali di comportamento. Tra questi motivi, quello del guadagno non era preminente, la consuetudine e la legge, la magia e la religione cooperavano nell’indurre l’individuo a seguire regole di comportamento che alla fine assicuravano il suo funzionamento entro il sistema economico. Questo I sistemi economici precapitalistici per Polanyi sono sistemi misti nei quali prevalgono, in misura diversa, a seconda di specifici assetti istituzionali, i principi di reciprocità e redistribuzione e, in gradi ridotti, quelli del guadagno mercantile. Tali sistemi misti sopravvivono anche in epoca moderna, dove rappresentano le forze a difesa della società che fronteggiano gli effetti autodistruttivi dei soggetti presi nel vortice degli affari. Le stesse politiche di welfare state rientrano nelle misure di protezione, che anche le moderne società esprimono, attraverso quel meccanismo di “doppio movimento”, di campo di forze e tensioni interne alle società e alle economie. L’ideologia del laissez faire rovina sugli scogli della grande depressione degli anni ’30, e la reazione ad essa sono i dispositivi di protezione e di riforma sociale, con valenze politiche molto diverse, che hanno finito per caratterizzare le “varietà” dei capitalismi dal secondo dopoguerra in poi fino alla seconda globalizzazione, quando sono state rimesse in moto le spinte verso la convergenza al modello unico di capitalismo, ben note agli economisti della crescita. In tempi recenti non sono perciò mancati, come vedremo, neppure tentativi per rimettere in piedi un programma politico di libero mercato e libera impresa. Un programma tenuto a battesimo fin dagli anni tra le due guerre dai fondatori del neoliberalismo e dell’ordoliberalismo (vedi parte III). Parte I - La categoria del moderno 128 5.4. I giochi pericolosi dello scambio e la crematistica L’oro è lo spiritualismo delle vostre società attuali. […] Nessuna ricchezza può mentirci, noi possediamo i segreti di tutte le famiglie. Abbiamo una specie di libro nero dove scrivere le annotazioni più importanti sul credito pubblico, sulla Banca, sul Commercio. Casuisti della Borsa, noi formiamo un Sant’Uffizio in cui si giudicano e si analizzano le azioni le più indifferenti di tutti coloro che possiedono un qualsiasi patrimonio, e noi siamo sempre in grado di cogliere nel vero. (Balzac 1830) Anche l’industria è legata alla terra – come l’elemento contadino [...] Solo l’alta finanza è completamente libera, completamente inafferrabile. A partire dal 1789 le banche e quindi le Borse si sono sviluppate come una potenza autonoma [...] e, come il danaro in tutte le civilizzazioni, questa potenza ora vuol essere l’unica potenza. (Spengler 1995, 1395) Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. (Svevo 1930, 533-4) Il concetto di “doppio movimento” allude a una polarità, a una dicotomia entro la quale si mettono in moto forze che, nelle società precapitalistiche, si cercava di depotenziare per immunizzare la società e gli uomini dalle conseguenze di una “liberazione” delle potenze pecuniarie dei mercati. Il mercato annulla i rapporti personali, soggettivi, di status o di discriminazione. Impone proprie regole di allocazione delle risorse e di distribuzione del reddito. L’anonimato e l’impersonalità del mercato riduce tutto a quello che Carlyle definì, pertinentemente, cash nexus, cioè un vincolo che è di puro pagamento in contanti e che scioglie ogni contratto di compravendita, o ogni altra obbligazione, attraverso la liquidazione per cassa del dovuto. La servitù del bisogno lega l’individuo bisognoso a un altro contraente in grado di soddisfarlo, ma il rapporto viene immediatamente sciolto dal potere della moneta di riscattare e, in un colpo solo, liberare da ogni obbligazione residua. Le due parti si sono incontrate da estranei e da estranei si lasciano, senza trasmissione di sentimenti. La moneta media quel rapporto impersonale, sfrondato da ogni tipo di coinvolgimento passionale, ma introduce un’altra passione che finisce per sconvolgere il mondo -b Q uest oE 5 - Crematistica e anticrematistica 129 tradizionale. «C’era una sorta – osserva Péguy (2016, 72) – di silenzioso contratto tra l’uomo e la sorte; e prima dell’avvento dei tempi moderni quel contratto la sorte l’aveva sempre onorato». Prosegue, spiegando il senso di quanto appena detto: «chi tentava di evadere dalla povertà rischiava evidentemente di precipitare di nuovo nella più disperata miseria» (Péguy 2016, 73). L’azzardo di uscire da una condizione, per quanto penosa, raramente ripagava, e chi non azzardava almeno non correva il pericolo di precipitare nella miseria. Ma nel mondo moderno le cose si invertono e «chi non gioca perde, e perde sempre; […] chi si limita nella povertà è incessantemente inseguito persino nel rifugio di questa povertà» (idem). Ciò spiega abbastanza bene, per le economie arcaiche, antiche, o feudali, i motivi che le spingono a contenere la forza espansiva delle transazioni mercantili in spazi ben definiti: l’agorá, la fiera, le occasioni di mercato, e sotto il controllo delle autorità. Polanyi introduce il concetto di port of trade per descrivere un’istituzione rivolta a regolare la concorrenza e garantire gli scambi fra comunità primitive e arcaiche in un luogo neutrale, nel quale assegnare lo svolgimento di attività di commercio. La funzione è quella di un «tipico strumento del commercio d’oltremare […] in grado di soddisfare i requisiti di sicurezza degli scambi negli stati antichi», derivazione degli scambi taciti, o del primordiale emporium protetto da mura nelle città costiere del Mediterraneo (Polanyi 1980, 229). Le città dell’interno si trovavano così “protette” dai rapporti commerciali d’oltremare, da una pervasiva corruzione dei costumi, e, allo stesso tempo, sfruttavano i benefici di un’apertura col resto del mondo. Tutto il pensiero antico e di epoche successive, fino all’incirca agli albori della società di mercato moderna, è un pensiero “anti-mercato”, di diffidenza verso le figure dei mercanti. Aristotele distingue tra una crematistica “naturale”, quella del sistema di produzione e di distribuzione dei prodotti all’interno dell’oikos, dell’ordine economico della famiglia signorile quasi autosufficiente (appunto oikonomía), da una crematistica “innaturale”, propria dell’avidità di guadagno che trova sfogo in spazi delimitati dove i mercanti possono effettuare scambi, sostenere rischi, per brama di profitto e per accumulare ricchezze. Venturi Ferriolo, in un’importante monografia sul tema, esamina il doppio significato del termine crematistica, al di là di una Q Parte I - La categoria del moderno to Ebook app 130 Ques varietà di accezioni minori (Venturi Ferriolo 1983, 45-48 e 59-62). Da una parte, la crematistica ha il significato comune di possesso e acquisizione di ricchezze finalizzate a una “buona” economia, quella domestica dei valori autarchici propri dell’economia agricola. La crematistica è dunque un’arte per uscire dalla trappola della povertà e per non essere in debito con nessuno, né uomini, né dèi per sacrifici loro dovuti. Nella Repubblica si legge: «ritengo – afferma Cefalo, ma approva anche Socrate – che l’essere ricchi sia una grande fortuna, non per chiunque, ma per l’uomo di senno ed equilibrato. In effetti, il possesso di ricchezze giova soprattutto a impedire che si defraudi o si imbrogli qualcuno anche senza volerlo e che si resti debitori di sacrifici agli dèi o di denaro agli uomini e che per tutto ciò si finisca laggiù nel terrore» (Platone 2009, 1035 [I 331 A - 331 B]). In Gorgia (Platone 2001, 889-90 [477 B, E]) la povertà è considerata un male, insieme alla malattia e all’ingiustizia che è il danno più grave. La ricchezza è perciò «l’arte che libera dalla povertà». Ma comunque il «[p]iù felice di tutti, dunque, è colui che non ha malvagità nell’anima (idem [478 D]). L’amministrazione familiare, per vivere in armonia all’interno e col mondo circostante, deve attenersi alle regole della crematistica “naturale”. Da un’altra parte, però, la crematistica è anche brama di ricchezze, spasmodica ricerca di guadagno e ciò va oltre la misura dell’amministrazione della casa (dell’economia naturale, appunto), diventa un’attività d’affari in ambito commerciale, nel quale si perde il contatto con attività naturalmente produttive, con la natura propriamente detta e con il lavoro che forma e trasforma oggetti. In questa accezione, la ricchezza da strumento diventa “valore” di vita. L’esempio di Aristotele, nella Politica (I, 9, 1257 a 9-16), sul doppio uso delle calzature, per camminare o per essere vendute, si riferisce a ogni altra cosa (infatti, «di tutto si può fare scambio»). In quel contesto, egli introduce il concetto della doppia crematistica, quella dell’oikos e quella insaziabile di re Mida: «la crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque, bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha a che fare col denaro perché il denaro è principio e fine dello scambio» (Politica, I, 9, 1257 a, 5 - Crematistica e anticrematistica 131 Questo 20-24; e Venturi Ferriolo 1983, 51-3). La modernità, per riprendere il concetto e la prospettiva che qui ci interessano, ha origine dalla riaffermazione della crematistica con la centralità assegnata al mercato e alla ricerca di profitto. La caduta in disuso del termine, come testimoniano anche innumerevoli dizionari specialistici in materia, è essa stessa espressione dello spirito dei tempi. 5.5. L’annebbiamento del tempo o le critiche dei neo-istituzionalisti E-book Invitare gli dèi rovina i rapporti con loro, ma mette in moto la storia. Una vita dove gli dèi non sono invitati, non vale la pena di essere vissuta. Sarà più tranquilla, ma senza storia. E si può pensare che quell’invito pericoloso sia ogni volta ordito dagli dèi stessi, che si annoiano degli uomini che non hanno storia. (Calasso 1991, 433) ne a rof appartie La storia non si snoda | come una catena |di anelli ininterrotta. | In ogni caso | molti anelli non tengono. | La storia non contiene | il prima e il dopo […]. La storia | non si fa strada, si ostina, | detesta il poco a poco, non procede | né recede, si sposta di binario | e la sua direzione | non è nell’orario. (Montale, Satura I, 1990, 323) ciò che caratterizza un sistema economico sono le sue istituzioni, e non la tecnologia che usa. (Georgescu-Roegen 1973, 162) fisimone Nella Storia dell’analisi economica Schumpeter ritiene che il pensiero economico greco sia una sociologia economica incentrata sulla polis come unica esistenza civile, perciò su una visione moralistica della realtà sociale e politica, impedendo così l’elaborazione di un pensiero economico coerente e accurato (Schumpeter 1954, 66-6 e 81 [I, 2 e 5]). Polanyi, nel noto articolo del 1957 su Aristotele, fa del filosofo lo “scopritore” dell’economia, cioè dell’economia del suo tempo, giungendo a fornire di essa una formulazione teorica del tutto appropriata e non distorta. Aristotele economista è in grado di comprendere il sistema economico della propria epoca meglio di quanto non lo siano stati gli economisti moderni attrezzati degli strumenti analitici più sofisticati, i quali dimenticano di averli forgiati per economie capitalistiche e che perciò non possono essere adatti a cogliere le differenze e le logiche economiche di società precapitalistiche. m gmail.co .2000@ 132 Parte I - La categoria del moderno Polanyi – secondo cui le istituzioni non sono prodotti di natura, bensì prodotti artificiali13 – attribuisce le differenze fra economie essenzialmente alle istituzioni e considera lo stesso mercato un’istituzione artificiale come tutte le altre. Le stesse società capitalistiche, nelle quali la centralità economica e sociale dei mercati è caratteristica fondamentale, si distinguono per il peso e il ruolo assegnato al mercato stesso. Un capitalismo di laissez faire, come quello che si afferma nel corso del XIX secolo e collassa nella grande depressione degli anni ’30 del secolo successivo, è salvato dalla forza distruttiva dei mercati lasciati a se stessi dall’esperienza del new deal e dall’avvio delle politiche di welfare state. La diagnosi di Polanyi non è condivisa da Schumpeter, che vede nel capitalismo regolato una gabbia burocratica che, alla lunga, avrebbe soffocato lo spirito imprenditoriale impedendo il pieno funzionamento di quel «processo di distruzione creatrice [che] è il fatto essenziale del capitalismo»14. Dalton ha notato la coincidenza della pubblicazione di The Great Transformation di Polanyi con quella di The Road to Serfdom di Hayek, che contemplano due opposte visioni, del tutto dicotomiche, sulla natura dell’economia di mercato15. L’idea hayekiana è che ogni deviazione dai sistemi di mercato è la causa della distruzione della libertà personale e della democrazia politica e, quindi, dell’inevitabile avvio verso società “chiuse”, verso sistemi totalitari. Per Polanyi vale esattamente il contra- 13 Il miglior esempio di questo paradossale concetto di “istituzioni naturali” è fornito da Hayek (1967, 44) con l’esempio del sentiero quale ordine tracciato da azioni indipendenti di individui. 14 Schumpeter (1942, parte II, cap. VII). Cfr. anche Schumpeter (1943). 15 Dalton osserva, inoltre, che l’estensione dei controlli pubblici sui mercati, specialmente negli anni successivi alla pubblicazione del libro di Hayek, in Inghilterra e negli Stati Uniti, non portò affatto alle conseguenze che Hayek prevedeva. Infatti, osserva: «l’Inghilterra si è spinta più avanti nella nazionalizzazione dell’industria e nella fornitura di alcuni servizi assistenziali», perciò non pare che «né in America né in Inghilterra vi sia seriamente da temere che il permanente abbandono del sistema di mercato non regolato stia distruggendo la democrazia politica e le libertà personali. I fatti dimostrano il contrario: si pensi, ad esempio, ai diritti civili per i negri americani, e alla riduzione della diseguaglianza delle opportunità di lavoro in Inghilterra (determinata dalle riforme nel settore dell’istruzione)» (Dalton 1980, XV). Cfr. Tamir (1993 e 2019). Ques 5 - Crematistica e anticrematistica 133 sto e Qu rio: i meccanismi di mercato, quando sono diventati pervasivi e inducono alla ricerca di profitto in maniera esasperata, producono effetti autodistruttivi, per i mercati stessi, per la società e per le libertà civili. Il punto di forza del paradigma di Polanyi era essenzialmente la storicità di istituzioni irriducibili a pura logica economica di contabilità secondo lo schema costi-benefici. Quel paradigma non era solo di Polanyi, ma di molti economisti neoclassici “eclettici”, che, come Georgescu-Roegen e altri, non rifiutavano di misurarsi con i problemi e con le evidenze empiriche, senza, però, condividere progetti ideologici di un’economia come sapere scientifico totale. Con l’avvento progressivo del neoliberalismo della scuola di Chicago, di Friedman e, soprattutto, di Hayek, l’economia conosce una mutazione politica decisiva che coincide, paradossalmente, con l’abbandono del fossile aggettivo ‒ “politica” ‒ che fino ad allora aveva sempre accompagnato il sostantivo. Una scienza non poteva essere una scienza dimidiata, una competente per economie precapitalistiche e un’altra per quelle del capitalismo avanzato. Ovviamente, una scienza con almeno due cassetti degli strumenti distinti e separati non avrebbe potuto pretendere di avere uno statuto come quello delle scienze “dure”. Insomma, la scienza economica che si stava formando, si stava anche allontanando dall’esortazione keynesiana di farne un sapere socialmente utile, composito perché dotato di competenze specifiche e con un atteggiamento «umile» verso il mondo («competenti e umili» come dentisti, era l’auspicio di Keynes 2011, 283). La pretesa di disporre di principi universali era una delle ambizioni degli economisti di scuola neoliberale, del mainstream o del “fondamentalismo di mercato”, per stabilire un insieme di strumenti “asettici” con i quali poter vivisezionare qualsiasi economia e società del presente e del passato. È di un certo interesse genealogico risalire, perciò, a come alcuni storici economici cominciarono ad abbracciare in maniera originale il nuovo “verbo” della scienza economica purgata delle contaminazioni politiche, ultime delle quali quelle keynesiane. Per questi storici economici, messo in soffitta Marx, Polanyi era rimasto lo scoglio principale per demolire la dicotomica opposizione tra economie precapitalistiche e capitalismo. Uno dei primi attacchi al E- k bo o e a p pa r tie n a r im o f fis 2 o n e. @ 00 0 gm .c ail 134 Parte I - La categoria del moderno ro a e pensiero di Polanyi fu sferrato, seppure in maniera rmolto tiengarbata, a p p da Douglass North sul finire degli anni ’70 del secolo scorso. North, ok fuauno o vincitore del Nobel per l’economa nel 1993, dei fondatori del b E Il suo articolo su o t neo-istituzionalismo in economia. Polanyi, forse s ue uno dei meno notiQ o almeno dei meno citati, è rivelatore di una svolta epistemologica che definisce alcuni postulati del neo-istituzionalismo. Il nuovo approccio di una scienza economica “impolitica” doveva necessariamente passare per l’operazione di rendere assoluto il paradigma del mercato. Un mercato – è bene sottolinearlo – che viene inteso, però, senza far molte differenze tra un mercato formato da attori price taker, con prezzi stabiliti su basi d’asta, o un mercato formato da organizzazioni gerarchiche in grado di avere un potere sui prezzi fino a imporli (imprese price maker). In questo modo il mercato era un’entità sempre presente, anche quando il suo posto era occupato e dominato da imprese, oppure, da istituzioni in senso proprio che, se anche costituite in forme del tutto diverse dall’impresa, secondo i neo-istituzionalisti erano, comunque, da intendersi come travestimenti di imprese, come corpi gerarchici, luoghi di potere, che erano stati costituiti, in definitiva, da agenti economici (incluse le stesse imprese) per superare problemi di costi insormontabili, eliminare forme di opportunismo, fornire forza a contratti, imporre ordine e regole del gioco. Secondo questo modo di vedere, anche le economie precapitalistiche erano delle forme embrionali di economie di mercato moderne, con logiche di funzionamento non diverse da queste ultime. L’altra conseguenza importante dell’approccio neo-istituzionalista era quella di superare una storia dell’economia intesa come successione nel tempo di differenti sistemi economici: questo perché l’unicità del “sapere” scientifico imponeva unicità sostanziale di mondi empirici. Le leggi di mercato erano leggi universali che potevano essere fatte valere per ogni luogo e per ogni tempo, perché la regola della massimizzazione del profitto avrebbe anche potuto essere soffocata da prepotenze politiche, ma l’homo oeconomicus non poteva, come figura antropologica invariante, ragionare e agire altrimenti. Gli attori sociali sono perciò sempre agenti economici, con un’unica logica di funzionamento e di razionalità che sarebbe meglio dire metafisica, dato che le regole di mercato erano prevaricate – nella costruzione neo-istituzionale – dalle logiche gerarchiche dell’impresa. Queste e on m i s i f f 5 - Crematistica e anticrematistica 135 oo ues t o E-b Q ultime, per uno storico, sarebbero però più assimilabili a forme di feudalesimo che alla libertà dei mercati. Anche Hicks (1969) introduceva il mercato nel capitolo II dal titolo dicotomico di custom and command, nel quale distingueva le organizzazioni economiche precapitalistiche in economia di clientela (customary economy) e in economia gerarchica e dispotica (command economy). Aggiungeva: «il sottofondo è l’economia clientelare, resa più o meno gerarchica da un elemento di comando» (idem, 25). Ma persino un’economia di mercato (mercantile economy), distinta nettamente dalle precedenti perché «altamente individualistica», sebbene non anarchica, non può svilupparsi finché, per “comando”, non vengono create strutture politiche che possano sostenerla (idem, 33). L’attacco di North a Polanyi si giustificava perché rivolto a uno degli studiosi che aveva individuato un Aristotele economista, e aveva rivolto le sue ricerche a rintracciare le origini, la “genealogia”, del mercato, come, peraltro, fino ad allora avevano fatto anche molti economisti indipendentemente dalla scuola di appartenenza16. Il mercato andava glorificato come entità superiore e indipendente dai processi storici concreti, come una sorta d’idea della caverna platonica che rifletteva le sue ombre imperfette nel corso della storia e in ogni angolo della terra; l’idea era “pura” e limpida, per quanto i suoi riflessi fossero imperfetti e mutevoli. Senza quell’idea sembrava cadere ogni costruzione economica e teorica. Tuttavia, i neo-istituzionalisti, insieme ai neoliberali, erano poi i primi, dopo aver eretto, come primo passo del loro programma teorico-politico, il “mercato” a loro vitello d’oro, a compiere anche un secondo passo, in cui lamentavano invece l’insussistenza del mercato ‒ quello di concorrenza perfetta degli economisti classici ‒ nella realtà economica; tale realtà era composta, invece, da imprese che con le loro “mani visibili” avevano infestato e profanato la “mano invisibile” dei mercati autentici. Naturalmente questo secondo passo era solo teorico e propagandistico, essendo rtie k ap pa ne a ro .20 imo ne ffis 16 Si ricordi che le distinzioni per epoche e sistemi economici e sociali erano accettate da storici antichisti come Moses Finley, tra gli altri, in opere che parafrasavano il titolo del saggio di Constant (Finley 2008). Infine si rilegga un piccolo libro, dimenticato, ma che regge prodigiosamente all’usura del tempo, nel quale un economista come Hicks (1971) ragiona con distinzioni tra sistemi ed epoche. @gm 0 0 0 ne.2 136 Parte I - La categoria del moderno to Ques E-b ppa ook a rtien offisi r a e mo poi il terzo passo la desiderata giustificazione concreta dei poteri economici e della palese assenza di concorrenza, considerandoli soltanto come fenomeni transitori, come prodotti endogeni ed ineliminabili della dinamica concorrenziale, persino come effetti ottici (come non accorgersi che, a ben vedere, anche un monopolista si comporta come un’impresa perfettamente concorrenziale, scrivono i chicaghiani, vedi parte III). Non solo gli storici e molti economisti non ortodossi, ma anche i filosofi hanno, forse, minimizzato l’operazione che si stava portando a termine, considerando la questione una sorta di schermaglia di scuole, una discussione tra storici e tra definizioni economiche17. Alcuni economisti, il riferimento qui è a Stiglitz, hanno compreso l’importanza di rispolverare, a mezzo secolo dalla pubblicazione, il “vecchio” Polanyi, ma senza entrare nel merito dell’operazione ideologica messa in piedi dai suoi avversari di allora e di oggi18. North – ritornando a lui – contesta Polanyi su due aspetti strettamente connessi: primo, di non essere uno storico economico; e, per questo, di non trattare economicamente i problemi di economie antiche e moderne. Il primo punto è una petizione di principio senza argomentazioni: gli storici economici sono solo quelli «che Valeria Pinto ha però colto molto bene le implicazioni di quella che, seguendo Luc Boltanski, chiama “maledizione di Popper” e cioè la messa al bando delle conspirancy theories of society e l’imposizione del paradigma dell’economia neoclassica nelle scienze umane da quando la coalizione Popper-Hayek iniziò negli anni ’50 la loro opera di demolizione dei saperi e degli approcci storici, olistici e, in definitiva, di senso storico; Pinto (2012, 7-8). 18 Il richiamo è alla premessa di Stiglitz a The Great Transformation dove osserva che «la scienza economica e la storia economica devono riconoscere la validità delle tesi principali di Polanyi» (Stiglitz 2001, xiii), mettendo in evidenza i difetti di autoregolazione di «una cosiddetta economia di mercato autoregolantesi [che] può evolvere in capitalismo mafioso – e in un sistema politico mafioso – come, sfortunatamente, sta succedendo in alcune parti del mondo» (idem, xv). In Francia un gruppo di studiosi, prevalentemente antropologi, sociologi e storici, dal 1981 ha dato vita alla Revue du M.A.U.S.S., il cui acrostico compone il nome del grande antropologo e si scioglie come “mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales” per rivendicare polemicamente le ragioni di una tradizione di pensiero che nelle scienze sociali cominciava ad essere posta sotto assedio da un individualismo metodologico invasivo e sempre più dominante. Un primo manifesto rappresentativo del paradigma economico e antropologico proposto può essere considerato Caillé (1991) e, il più recente, Caillé e Grésy (2014). 17 5 - Crematistica e anticrematistica 137 Ques to E- book appa rtiene a roff isimo ne.20 00@ gm ail.co m usano l’economia neoclassica nella storia – cioè i “new economic historians”»19. Per North c’è una sola economia (teorica) ed è solo con quella, e non con altro, che vanno individuati e affrontati i problemi storici dell’economia. L’accusa rivolta a storici e scienziati sociali è quella di ricorrere a spiegazioni ad hoc. North non contesta a Polanyi che i mercati abbiano dominato il modo di allocare le risorse solo per un breve periodo della storia contemporanea, all’epoca di quello che Polanyi chiama capitalismo di laissez faire, e principalmente nell’area dei paesi occidentali. Tuttavia, anche in epoche precedenti – e questo è il secondo aspetto del suo attacco – non ci si può esimere dall’applicare gli strumenti della teoria economica (cioè neoclassica) che postulano comportamenti rivolti alla massimizzazione della “ricchezza” («wealth-maximizing behavioural postulate») per studiare struttura e performance di economie precapitalistiche (North 1977, 703-4). Polanyi si sarebbe messo fuori da un’analisi di storia economica perché non spiega capitalismo e sistemi precedenti applicando il ragionamento massimizzante dell’economia neoclassica, cioè perché non fa riferimento a un homo oeconomicus a una sola dimensione: utilitarista, macchina di calcolo di mezzi scarsi per fini immoderati, egoista razionale20. Di figure ontologicamente differenti di homo oeconomicus Polanyi ne conosce almeno tre, definibili sulla base dei loro comportamenti nelle tre tipologie di scambio e allocazione delle risorse da lui individuate: due di queste sono fuori dallo scambio di mercato e seguono i principi di reciprocità e di redistribuzione. North non mette in discussione le tipologie polanyiane (North 1977, 709), ma le riconduce dentro il solco dell’economia teorica neoclassica, di un unico comportamento massimizzante (Conti e Schisani 2019). North, come altri storici economici della new economic history, evita sempre di distinguere tra sistemi economici del passato e del presente, se North (1977, 704). Nonostante la sprezzante accusa di North, ricordiamo però che Polanyi era stato nominato professore di storia economia alla Columbia University nel 1947, ma quella era, per North, solo la “vecchia” storia economica. 20 North aggiunge, gettando via in un colpo solo decenni di studi di antropologi e di antichisti: «gli storici economici non hanno ancora iniziato ad occuparsi di tali sistemi di allocazione non di mercato e finché essi non lo fanno, può esser detto molto poco sulle società in cui i mercati avevano compiti allocativi molto limitati» (North 1977, 706). 19 138 Parte I - La categoria del moderno non per catalogarli tutti dentro una medesima categoria a registro binario: società “aperta” o “chiusa”; di libero mercato o di repressione dell’imprenditorialità, registro poi modulato secondo una molteplicità di varianti, ricondotte tutte all’intensità della presenza del mercato, o meglio della libera impresa massimizzante. Quel che North contesta è che possa esserci un’organizzazione, come l’oikos greco, non solo alternativa alla produzione per il profitto, ma anche negazione degli scambi acquisitively oriented del mercato, dell’uso della moneta, della contabilità costi-ricavi21. In definitiva, North combatte l’idea dell’uomo inteso come animale sociale piuttosto che economico, idea espressa da Polanyi nei termini seguenti: Questo E-book apparti l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali (Polanyi 1944, 61). North ammette che il caso che siano i mercati a fare i prezzi (mercati price-making) non è mai stato dominante nemmeno nel XX secolo. Istituzioni, come famiglie, imprese, corporazioni, feudi, sindacati, cooperative e altro, tutte operanti in modi differenti e alternativi rispetto all’allocazione di risorse attraverso i mercati, si sono affermate per la semplice ragione che sono risultate, paradossalmente, più convenienti dei mercati medesimi. Lo schema teorico dei costi di transazione consente, nell’approccio neo-istituzionalista, di riportare le spiegazioni della mancata dominanza dei mercati perfettamente concorrenziali fondate sulla socialità (cioè, forme cooperative, associative, organizzate piuttosto che individualismo concorrenziale) ancora una volta ad un motivo di calcolo strumentale, cioè all’unico obiettivo della minimizzazione di costi22. Se negli scambi di mercato ci sono costi di transazione, una 21 «Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel XIX secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda età della pietra, il suo ruolo era soltanto incidentale nei confronti della vita economica» (Polanyi 1944, 57). 22 North (1977, 709). Si ricorda che i costi di transazione dipendono dal numero di operatori, dai costi di accertamento e misurazione della qualità, dai e 5 - Crematistica e anticrematistica 139 istituzione come l’impresa in cui non si comprano i fattori produttivi sul mercato ma si creano internamente, può essere vantaggiosa. Con la teoria dei costi di transazione, che spiega l’insorgenza di istituzioni in cui internamente sono eliminati gli scambi di mercato, si evitano così altre spiegazioni per la mancata dominanza del mercato in taluni sistemi economici, facendo in tal modo salva l’unicità del “sistema” (del mercato capitalistico): il sistema è unico, come unica è la teoria economica. Anche se si formano (o vengono create) istituzioni differenti dal mercato, tuttavia ogni costruzione istituzionale «è chiaramente – sostiene North – un’istituzione massimizzante la ricchezza i mercati price-making» Qeuche essostituisce (North 1977, 711). I neo-istituzionalisti to Espiegano le strutture econo-b“naturale” miche “miste” con il fatto che la soluzione ook – il mercato – non sia riuscita ad affermarsi pienamente per alcune esterapragioni p rt primo ne al funzionamento del mercato medesimo. Invocano,ain iene luogo, ragioni “tecnologiche”, quindi esterne e non modificabili dall’azione del mercato; in secondo luogo ipotizzano l’esistenza di costi di transazione elevati, senza peraltro spiegare come fare per calcolarli vista l’assenza del mercato in cui dovrebbero manifestarsi, se non ricorrendo a imputazioni fittizie “come se” il mercato ci fosse: ritorna così l’idea della “caverna” platonica e la distanza delle “ombre” dalla loro proiezione; inoltre, in terzo luogo, ma non di minor peso, affermano la presenza di “repressioni” alle libertà d’impresa da parte di poteri politici, o di forme di rent-seeking esercitate da autorità e mafie che estraggono reddito ed estorcono tangenti (con l’equazione, spesso implicita, che anche le tassazioni legittime sono economicamente equivalenti alle grassazioni). Tali inefficienze, finché non sono eliminate, trattengono le economie in condizioni di arretratezza e ne precludono il progresso sulla “via dello sviluppo”; ritorna qui la metafora teologica del cammino verso la Terra promessa e di un Mosè che, questa volta, ritorna dal Monte con le tavole delle leggi, quelle dell’economia. Abbiamo già trattato la critica di Georgescu-Roegen a questo tipo di ragionamento, fondato sull’assolutizzazione dell’economia capitalistica e costi per acquisire informazioni, dai costi di alterazioni al contratto, dai costi di agenzia, ecc. a ro ffisi 140 Parte I - La categoria del moderno dei suoi principi anche per economie agrarie precapitalistiche. Egli ha mostrato che in tali condizioni la regola della massimizzazione del profitto sarebbe stata economicamente e socialmente disastrosa, dunque non razionale. Il quadro istituzionale considerato da Polanyi è più complesso, multivariato nelle spiegazioni. Le istituzioni non sono solo originate dal contratto e da forme di bargaining tra interessi egoistici, ma rispondono anche a logiche di protezione dal rischio e dall’insicurezza che riguardano la società intera, obiettivi economici che mirano alla sussistenza di tutti, con classi di occupazioni stratificate: schiavitù, servitù domestica, élite che vivono una vita beata e si occupano della polis, e così via. Anche sulla questione della determinazione dei prezzi nell’economia, le differenze su cui insiste Polanyi, e sulle quali sorvola North, sono le differenze già considerate dagli economisti classici e da molti neoclassici o di scuole alternative, più eclettiche e meno chiuse. Per esempio, la superiorità “sacrale” del mercato “sovrano” nel determinare i prezzi rispetto alla loro determinazione alternativa da parte di altri “sovrani” politici non può essere un dogma indiscusso. Infatti, secondo Polanyi, e non solo, i prezzi amministrati hanno proprietà vantaggiose perché livellano i profitti e riducono i rischi (risk-free), sia di aspettative sbagliate, sia di credito per insolvenza del debitore, rispetto alle condizioni dei price-making markets che sono soggetti a fluttuazioni di prezzi. Un altro esempio riguarda il trattamento del debito. In contrasto con le economie moderne, le società arcaiche stabiliscono obblighi pubblici in cui i debiti sono spesso garantiti collettivamente (Polanyi 1957b, 20-1). Si consideri in proposito la questione del giubileo nella tradizione giudaica. Il Levitico (25, 2-7) dispone il riposo della terra ogni sette anni, quindi, dispone di lasciare, in quell’anno, ai poveri la raccolta dei frutti spontanei e di festeggiare un condono dei debiti il cinquantesimo anno (Lv 8-55; 27, 17-21 e Nm 36, 4). L’anno giubilare, detto anche sabbatico perché consacrato al Signore come il settimo giorno, è dunque un anno di rinascita. In quello stesso senso è inteso da Gesù che riprende da Isaia il senso dell’«anno di grazia» (Lc 4, 19), quale missione propria dell’«annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista» (Lc 4, 18). Questo E-book apparti Capitolo 6 IL MODELLO NEOISTITUZIONALE DEL MERCATO E IL CAPITALISMO COME RELIGIONE 6.1. L’infelicità nel mercato autoregolantesi e la ricerca della vita beata Viviamo in un’epoca in cui l’uomo, signore di tutte le cose, non è signore di se stesso. Egli si sente sperduto in mezzo alla propria abbondanza […]. Per l’uomo moderno, vale quanto fu detto del reggente durante la minorità di Luigi XV: aveva tutte le doti, tranne quella di saperle usare. (Ortega y Gasset 1930, 167-8) il processo capitalistico, analogamente a come distrusse l’intelaiatura istituzionale della società feudale, tende a corrodere la propria. (Schumpeter 1942, 142) Ora, siccome il fine della vita retta [...] è la felicità celeste, rientra nelle mansioni del re organizzare una buona esistenza sociale, secondo un criterio che risponda ai requisiti per raggiungere la felicità celeste. (Tommaso d’Aquino 1979, 467) -book app to E Ques Nel neo-istituzionalismo, di North e di altri, il modello di riferimento è sempre il mercato che si autoregola e non ha bisogno di interventi esterni, anche quando è solo una ridotta sotto il controllo dei fortilizi delle imprese. Le altre istituzioni, compreso l’impresa, di qualunque dimensione e potere di mercato, sorgono in presenza di un eccesso di costi di transazione per sostituirsi al mercato. I costi di transazione – sia detto en passant – non sono altro che la ragione dell’incapacità dei mercati di autoregolarsi e dunque di dotarsi di una rete di protezione e di sicurezza che renda le transazioni sicure, a basso costo, purché, in definitiva, ci siano istituzioni di altro tipo (rispetto alle imprese private) che abbiano definito diritti di proprietà, indotto un enforcement sui medesimi, diffuso le informazioni, e, tra l’altro, consolidato uno stato della fiducia generalizzato. Ecco qui un altro paradosso: se il mercato concorrenziale vuole funzionare (per esempio, eliminando i costi di transazione) e non essere soppiantato, deve al- artie Parte I - La categoria del moderno 142 lora appoggiarsi a un “sovrano” forte, efficace, sapiente. Inoltre, nascono due aporie logiche dal punto di vista dell’analisi storica del mercato. La prima è relativa alla seguente domanda: come possono spiegare la creazione di istituzioni finalizzate a consentire la nascita e la protezione del mercato (cioè di quelle istituzioni deputate a definire diritti di proprietà ecc.) coloro che considerano il mercato come lo stato di natura che pre-esiste a tutto e per il quale, quindi, non c’è genealogia da fornire? Inoltre, ed ecco la seconda aporia, perché – dopo che un sistema con alti costi di transazione ha indotto a creare istituzioni fortemente gerarchiche come le imprese o i clan – imprese e clan, una volta divenuti dominanti, dovrebbero essere disposti a farsi spiazzare e, da price-maker, diventare price-taker, cioè abbandonare, senza resistere, quei vantaggi che faticosamente hanno conquistato indebolendo o eliminando le regole di mercato? Ciò che occorre spiegare sono anche i passaggi da un ordine di anonimato di mercato a un altro di tipo gerarchico-aziendale. Il ragionamento di Hicks, che abbiamo succintamente riportato nel precedente paragrafo, spiega l’economia di mercato come risultato di un cambiamento nelle strutture di una società autoritaria e gerarchica, ma non spiega il passaggio inverso dal mercato all’impresa gerarchica, ovvero non spiega le gerarchie a partire da un’istituzione fragile come il mercato, in forza di uno spontaneismo contrattuale come nella visione neo-istituzionalista. In tale visione basterebbe il “naturale” (ricompare ancora l’aggettivo) istinto alla concorrenza e agli affari per sgretolare assetti di potere solidi, poteri di comando che non avrebbero capacità di resistere e di opporsi alla bacchetta magica delle forze concorrenziali espresse da un mercato. Nella visione classica l’opposizione tra oikos-polis e mercato è radicale, ma anche fondata su un’integrazione funzionale del mercato nella polis per colmare un deficit di autosufficienza produttiva (o anche per non dissipare un surplus di beni disponibili) e accedere a risorse esterne (o esportarne di interne)23. Solo l’atti- Que sto E-b ook app arti ene È quanto emerge chiaramente dal passo seguente: «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà esiste per render possibile una vita felice» (Aristotele, Politica, I, 2, 1252 b 28-31). 23 a ro ff to Ebook appa r 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 143 Ques vità dei mercanti è in grado di fornire tali servizi. Tuttavia, la società si tutela dall’invasività mercantile, circoscrivendo lo spazio libero del mercato per garantire le libertà civiche e i valori che le contraddistinguono24. Tutto ciò per evitare che i mercanti invadano la polis e la governino secondo i propri interessi col rischio che degeneri in Città del denaro. Il pericolo è quello ricordato di cadere nella plutocrazia di pochi ricchi. Per questo il mercato è considerato un’escrescenza esterna, un luogo di tutti coloro che non hanno né terra, né “famiglia”, né patria. Le loro ricchezze sono per definizione mobili, i loro interessi non hanno radici territoriali, la loro cultura, religione o identità sono strumenti fiduciari. Come schiavi e artigiani, i mercanti non partecipano alla vita della polis e quando vi partecipano la corrompono. Nonostante la loro opulenza vivono all’esterno della realtà comunitaria; socializzano soltanto sulla piazza di mercato dove svolgono affari al fine di accrescere le loro ricchezze. L’oikos, la famiglia, è il cuore della vita privata autonoma, ordinata su basi diverse dallo scambio (Booth 1994, 211-2). Nella tradizione di pensiero che si richiama a Platone e Aristotele, per far solo i loro nomi, la ricchezza, per coloro che vivono in famiglia e nella polis, non è il fine dell’esistenza umana ma uno strumento per una vita felice. Ciò vale soprattutto per coloro che sono attivi nella polis, vivono una vita privata agiata, per cui possono dedicarsi alla ricerca della felicità. L’eudaimonia, ossia la “buona tutela demoniaca”, è il possesso di un buon demone, un nume tutelare favorevole che aiuta nella buona sorte; è una connessione tra felicità e fortuna, soddisfazione e piacere per la vita che si conduce (Fermani 2006, 40-3). La felicità, da un punto di vista meramente esistenziale, è un’arte di costruirsi la propria vita secondo virtù e capacità di temperanza25. 24 Ricorda Venturi Ferriolo (1983, 21) che Platone nelle Leggi (IX, 858 A-B) pone i mercanti ai margini della “buona” polis; il fatto di svolgere un’attività commerciale estromette dalla città il mercante come il meteco e lo straniero (XI, 920 A), e si fa dell’agorá un luogo chiuso, al di fuori del quale non siano permesse legalmente transazioni commerciali. 25 Ovviamente, la felicità è tanto un concetto centrale della filosofia e delle religioni, quanto un concetto controverso ed elusivo quant’altri mai. Per amor di precisione, dobbiamo ricordare che, per esempio, per Pascal la felicità è ciò che sta cercando di raggiungere anche colui che vuole impiccarsi. Parte I - La categoria del moderno 144 Attenersi a un giusto mezzo è, in questo senso, anche capacità di usare la ricchezza, senza abusarne26. È comunque chiaro che Aristotele non distingue tra dimensione privata e pubblica27. La buona sorte serve al raggiungimento di una vita agiata, intesa come condizione necessaria per una vita beata, quale esercizio di virtù e ozio: «a ognuno tocca tanta felicità quanta virtù, prudenza e attività informata a prudenza e virtù» (Politica, VII, 1, 1323 b, 21) e, più avanti precisa: Questo E -book a la buona fortuna è diversa dalla felicità (ché dei beni esterni all’anima causa è il caso e la fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per caso o in forza del caso). Viene di seguito, e in base agli stessi ragionamenti, che lo stato migliore è felice e sta bene: ma è impossibile che stiano bene quelli che non compiono belle azioni: ora nessuna bella azione si dà né di uomo né di stato senza virtù e prudenza (Politica, VII, 1, 1323 b, 30-34). Il concetto è poi ribadito e sintetizzato in questi termini: «la vita migliore per ciascuno, da un punto di vista individuale, e per gli stati, da un punto di vista collettivo, è quella vissuta con la virtù, provvista di mezzi adatti a compiere azioni virtuose» (Politica, VII, 1, 1323 b, 40-41 - 1324 a, 1-2). La vita felice è solo un privilegio di pochi e una conquista per ancor meno. Aristotele comprende bene i limiti della vita felice individuale e collettiva. Infatti, la buona crematistica, che rientra nell’amministrazione della casa, «si dà un limite», mentre nella realtà «quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica […]. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, ché l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento» (Politica, I, 9, 1258 a, 33 e 35-38). Il vivere bene ha un significato economico e politico, per il singolo e per la comunità, perciò scivolare verso i piaceri del corpo o verso il potere dei guadagni sposta l’asse da una crematistica all’altra (Venturi Ferriolo 1983, 57-8). Fermani (2006, specialmente le pp. 59, 180, 186n., 203-5) ricostruisce il senso esistenziale della felicità e del rapporto stretto con la vita virtuosa. Il rapporto con i beni esteriori è assolutamente strumentale (idem, 51, 209, 214-6, 245-6). 27 Il tema è approfondito in Gastaldi (2003, 134-8). 26 Q st e u 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 145 Agostino considera l’otium la libertà da incombenze e occupazioni quotidiane. La vita contemplativa è una vita otiosa distinta dalla vita negotiosa, consacrata agli affari. L’ozio non è però «inerte pigrizia», ma vita rivolta «alla ricerca o alla scoperta della verità» (Agostino, La città di Dio, 974, XIX, 19). Per Agostino tutta la filosofia morale antica è finalizzata al perseguimento del bene e della vita beata. Il sommo bene e la felicità intesa come eudemonia è per i pagani da realizzare in questa vita, unione di corpo (piacere) e anima (virtù), mentre per il cristiano la beatitudine è raggiunta nella vita eterna (idem, 959, XIX, 11). Holte ha messo in luce le condizioni storiche che portarono alla “sintesi” agostiniana relativa all’integrazione, nel pensiero cristiano, di un insieme di problemi e concetti del pensiero più antico, di tradizione pagana, sui fini dell’uomo e in particolare sulla vita beata e sulla saggezza (sapientia), cristianamente tradotti in beatitudine e saggezza (Holte 1962). Qualche secolo dopo anche Dante parla di contemplazione e azione: «l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica» (così nel De monarchia, I, iv, 1 [Dante 1997, II, 543]). L’azione è ancora quella aristotelica della vita activa, ma pare si apra anche un qualche spiraglio verso altri tipi di attività. 6.2. Verso il primato degli interessi Come poterono nell’età moderna acquistare rispettabilità il commercio e la banca e le altre attività dirette solo al guadagno, dopo che per secoli erano state condannate o disprezzate come forma di cupidigia, amore del lucro, e avidità? (Hirschman 1979, 15) Un affetto non può essere ostacolato né tolto se non da un affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare. (Spinoza 2010/11, 1447 [IV, proposizione 7]) In Europa, all’incirca alla stessa epoca della nascita della scienza moderna, iniziano a circolare compendi di buone maniere e dell’arte della dissimulazione per un incivilimento dei costumi delle élit- Qu es to E- bo ok ap pa rti im ro ffis en e es e per una ritualizzazione dei poteri (Elias 1998). L’educazione, attraverso la socialità delle buone maniere, è un mezzo per riscoprire i valori autentici delle polies antiche in un’epoca in cui altre forme di stasis, come le guerre di religione, stavano lacerando la cristianità (Agamben 2015a). Per saper stare in società Giovanni Della Casa suggerì di mascherare gli interessi mediante l’eleganza delle virtù, perché «chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale fa grosso guadagno» (Galateo, 1558, xvi). Un’accortezza analoga è dettata anche da Baltasar Gracian, all’incirca un secolo dopo nel suo Oráculo manual y arte de prudencia (1647), che ebbe fortuna a partire dalla traduzione francese col titolo L’Homme de cour (1684). In esso si legge: «un favore anticipato ha due virtù, primo per la prontezza […], secondo per il dono, che più tardi sarà un debito». I doni sono strumentali al tornaconto (la “virtù” potrebbe tradursi in “vantaggio”). Uno slittamento ulteriore verso la degradazione della virtù nelle relazioni sociali non tardò molto a essere espresso in maniera netta da François de La Rochefoucauld (1613-1680) in una delle famose Massime (la 171): «le virtù si perdono nell’interesse come i fiumi si perdono in mare». La Rochefoucauld testimoniava l’esaurimento progressivo delle opere di misericordia, dietro le quali finiva per smascherarsi ogni più bieco opportunismo. Si approssimava l’epoca di una maggiore regolazione della vita sociale, attraverso un diritto per mezzo del quale porre un perimetro d’azione al libero movimento degli interessi e lasciare a ciascuno la responsabilità di decidere sul proprio destino attraverso un impegno attivo nella vita economica nella quale far valere tutti i propri talenti. Le buone intenzioni della misericordia finivano per corrodere il senso di responsabilità, peggiorando la stessa qualità della vita collettiva. Gli interessi, comunque, cominciavano a essere più tollerati delle passioni perché, come mostra Hirschman (1979), gli interessi liberati da costrizioni morali cominciavano a essere considerati la forza per poter tenere a freno le passioni stesse, e così pacificare e armonizzare la vita sociale. Il dono, quale rito e pratica per rafforzare i legami sociali, estromesso dall’interesse, si ritrova ancora, ma soltanto racchiuso in ambiti più riservati della vita privata. Nell’Europa cristiana permane la tradizione paolina della carità, virtù fondamentale per l’apostolo sulla quale rafforzare nella fede la comunità cristiana per o Parte I - La categoria del moderno a 146 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 147 renderla «corpo di Cristo» (1 Cor. 12, 4-7 e 13). La carità «non cerca il suo interesse» (1 Cor. 13, 5), ma qualcosa che va oltre. Il concetto è espresso da S. Tommaso come la società dell’uomo con Dio che inizia nell’esistenza con la grazia e si perfeziona con la gloria (Summa Theol. I, q. 23, a. 3, e q. 25 a 5; q. 43 a. 5)28. Sini (2015, 101), riprende tale concetto per riferirsi all’economia del dono come alla «prima economia politica», nella quale «il dono è un atto qualitativo spontaneo, cioè non misurabile, non quantificabile, non trascrivibile, non prevedibile nel senso di precalcolabile, esso è anche inalienabile», non fa cioè parte di un sistema di relazioni di scambi mercantili nei quali la misura, il calcolo, la prevedibilità sono la norma. In qualunque modo lo si intenda, era difficile che la legittimazione dell’interesse sopprimesse del tutto le manifestazioni del dono, per farne semmai la maschera di buone intenzioni nei riti delle buone maniere. Le moderne buone maniere si rifanno all’antica Grecia e all’antica Roma, nelle quali il dono evergetico (da euergétēs) era un’istituzione sociale, un mezzo per acquisire onori, prestigio o un potere politico, che ha solo qualcosa di comparabile nelle opere di carità di età moderna o nella fiscalità redistributrice di reddito nelle economie più avanzate caratterizzate dal cosiddetto Stato del benessere (welfare State). Nella Grecia antica gli evergeti erano i ricchi “benefattori”, a Roma l’evergetismo offriva alla plebe panem et circenses, una serie di donazioni in forma di opere pubbliche a cui i ricchi opulenti non potevano e non volevano sottrarsi. Il mecenatismo delle epoche successive o i costruttori di opere di carità erano i degni discendenti di questa lunga tradizione (Veyne 1976). Riti e pratiche antiche sono riscoperti dalle società borghesi moderne, finché imitano le aristocrazie nobiliari in declino e non sono volgarizzati e contabilizzati sotto forma di brand, pratiche di marketing istituzionali, forme di fidelizzazioni. Marcel Mauss, in un lungo saggio sul dono (1923-24), mise in evidenza un’attività di scambio molto complessa, rituale, che va oltre il momento dell’atto stesso, in quanto il dono non è gene- Qu est oE -bo ok app art ien ea rof fisi mo ne. 200 La carità intesa come preoccupazione fondamentale nella società medievale per avere coesione e pace sociale nelle città e nei borghi attraverso una redistribuzione volontaria di beni, in Rubin (1987); sulle pratiche sociali delle fratellanze anche Oschema (2005). 28 0@ gm ai Parte I - La categoria del moderno .2 0 0 0 @ gm 148 Quest o E-bo ok app artiene a roffis imone ralmente unilaterale, bensì obbliga chi lo riceve a non rifiutarlo e a contraccambiare (vedi anche la parte II). Al pari della relazione di credito, il dono è l’altro forte vincolo sociale, cementa insieme chi lo fa e chi lo riceve e richiede la sua “estinzione”, per poter ripartire da capo. L’estinzione sta nel ricambiarlo come conferma di gradimento, di valore attribuito all’oggetto e al gesto. Nel credito-debito esiste una forma analoga di legame: il laccio del debito è spesso il cappio che strangola il debitore, ma il creditore è un soccorritore finché tutto si mantiene in equilibrio. Il dono è in questo senso un legame sociale forte, ricorsivo, che tiene saldamente unita una comunità secondo regole alternative a quelle di una semplice compravendita fondata sulla contrattazione e sull’equivalenza di valore. L’elemosina e anche il credito possono essere considerati polarità opposte, nel senso che diremo di seguito, di atti di dono. L’elemosina è ripulita dal contro-dono di ritorno, il credito toglie dal rapporto l’incertezza e l’arbitrarietà rispetto a tempi, durata, misura e oggetto del contro-dono. Nel credito-debito c’è la ricorsività in avere e dare. Il debitore ha sottoscritto volontariamente quando il credito ottenuto giungerà a scadenza, e dalla sua puntualità di pagamento sa, in anticipo, che dipenderà un eventuale rinnovo del debito. L’onorabilità del debito aumenta ogni volta che il rapporto è rinnovato ed estinto secondo i patti. La carità, massima virtù cristiana (1 Cor. 13, 2), è un donare volontario e unilaterale, senza attendere contropartite, come nell’insegnamento evangelico (Lc 14, 12-14), ad eccezione, ovviamente, della ricompensa, non secondaria, di far parte di una comunità, viatico per la salvezza eterna. Nelle società arcaiche il dono, nella versione dell’evergetismo greco e romano antico, nel mecenatismo moderno e perfino nella beneficenza in senso lato, svolge lo stesso ruolo di coesione sociale e di legame identitario, seppure senza intenzioni di gratuità assoluta. Che tipo di interesse c’è – per il donatore come per il donatario – nelle pratiche del dono, sia esso presente in modo evidente o nascosto? Derrida evoca il tempo fuori dai cardini (The time is out of joint) dell’Amleto come «l’appello del dono, della singolarità», di una relazione con gli altri che rinvia alla giustizia (Dike) «come incalcolabilità del dono e singolarità dell’es-posizione an-economica ad altri» (Derrida 1994, 48-9). Derrida si domanda quale sia 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 149 il dono della Dike: «Che cos’è questa giustizia al di là del diritto? Viene essa solo a compensare un torto, restituire un dovuto, fare diritto o fare giustizia? Viene solo a rendere giustizia, o al contrario a dare al di là del dovere, del debito, del crimine o della colpa?» (Derrida 1994, 51-2). In un altro saggio Derrida si è posto il problema della possibilità stessa del dono (Derrida 1991). Immerso nella dimensione circolare dello scambio, del dono e contro-dono, del debito e del rimborso, della ricompensa e della riconoscenza simbolica e di memoria, il dono perde la dimensione unilaterale, disinteressata, senza calcolo e, di fatto, si annulla come atto possibile, con dubbi sulla stessa intenzionalità del donatore, inconoscibile per definizione: un’aporia senza fine, circolare. Si tratterebbe di un dono senza restituzione, senza contabilità né calcolo, di uno stato di squilibrio, di un senso di colpa, di un debito da rendere. Salvioli distingue tra il dono unilaterale delle chiese riformate, tendenzialmente a carattere dispotico, per far sentire il peso di quanto dato, per porre in una condizione di perpetuo debito chi lo beneficia, rispetto alla versione cattolica della grazia, dono-scambio, tendente sì allo scambio di equivalenti, ma dentro un rapporto che insieme al dono libero unilaterale istituisce uno scambio perpetuo entro la divinità trinitaria e tra questa e i fedeli29. Salvioli riconduce il dono nell’ambito di una «metafisica trinitaria, strutturata da una concezione teo-ontologica della partecipazione», dove il «Verbum» corrisponde alla «possibilità di trattare correttamente del linguaggio, della storia e della cultura in relazione con Dio» e lo «Spirito Santo» alla «possibilità di pensare in radice la questione socio-politico-economica, in continuità con la dottrina tradizionale che chiama la terza Persona della Trinità Amor e Donum» (Salvioli 2014, 206). Il concetto è spiegato in questi termini: Q ue Lo Spirito Santo procedendo come Dono dalla relazione di reciprocità del Padre e del Figlio, uniti nell’Amore come un unico principio, ci permette così di pensare partecipativamente il dono in modo da vedervi integrata la reciprocità, confinata dal pensiero moderno nei limiti dello scambio di equivalenti (Salvioli 2014, 207). st o E- bo ok ap pa Sulla questione sono molto chiare le precisazioni e i commenti di Salvioli (2013, 165n. e 166). V. anche Milbank (1995). 29 rti en e a ro ffi s 150 Parte I - La categoria del moderno Il dono non può tuttavia essere ricondotto all’universalità del calcolo economico dello scambio tra equivalenti. Non tutto nel dono può appiattirsi sul self-interest illustrato dal famoso brano di Adam Smith con l’esempio del macellaio, del birraio e del fornaio, che non riforniscono i clienti di carne, birra e pane per benevolenza (1776, libro I, cap. ii). Nel dono c’è un qualcosa che i singoli individui non possono produrre da sé, né la divisione del lavoro è sufficiente a garantire: è quella carica di coesione sociale che pervade il dono a differenza degli scambi mercantili. Montaigne (nei Saggi, libro II, cap. 29, titolato appunto Della virtù) parlava di un bene comune che deriva da alcune condizioni sociali e istituzionali: «Salvo l’ordine, la moderazione e la costanza, ritengo che tutte le cose siano fattibili per un uomo oltremodo manchevole e nel complesso pieno di debolezze». Intendeva riferirsi a una pace sociale stabilita su regole condivise in grado di smussare e risolok -bo in vere i conflitti. Considerazioni analoghe si riscontranoE anche o Pascal che, per raddrizzare quelle debolezze, indica est un metodo, u oggi inattuale quanto rilevante, per le cose Q che affronteremo qui di seguito sull’ascesi dell’efficienza: «Le guerre civili sono il peggiore dei mali. Saranno inevitabili se si vorranno ricompensare i meriti, perché tutti ne vanteranno» (Pensieri [1657], 128 dell’ed. Sellier). Tuttavia va qui rilevato che, naturalmente, gli economisti hanno incorporato il tema del dono e del contro-dono – sviluppato dall’antropologia ma facilmente divorato dal mainstream economico – all’interno del paradigma della loro scienza, quello riformulato da Lionel Robbins nel 1932, per cui tale scienza ha per oggetto la scelta umana di mezzi scarsi a fini alternativi (sui quali ultimi l’economista sorvola). Per l’economia mainstream, il tema altruistico deriva semplicemente da – e collassa in – quello egoistico-utilitarista; essa appare immemore, quindi, sia di quanto già sostenevano Durkheim, Mauss e oggi Derrida – cioè che è impossibile derivare l’altruismo dall’egoismo – sia dell’appello di Keynes all’economia come scienza “morale”. Non è un caso che una sfilza di premi Nobel per l’economia siano stati apparentemente molto attenti all’altruismo (e che forse proprio per quella dissimulazione ben riuscita sono stati così premiati) e si siano dedicati al tema del dono (e del contro-dono, noto più tie ar p p a 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 151 partie p a k o -bo esto E ffisim o r a e n one gma .2000@ il.c o m tecnicamente come gift-exchange e reciprocity)30, solo per farne, però, un’ulteriore filiazione del calcolo economico utilitaristico (Fontaine, 2012): quindi, per limitarci a citare soltanto i premi Nobel, iniziamo, come al solito, col nome di Gary Becker che già nel 1961 scriveva – il titolo è del tutto auto-esplicativo – Notes on an Economic Analysis of Philanthropy, poi di Phelps (1975) che raccoglieva una serie di saggi rispetto all’altruismo, Ostrom (1990) che suggeriva un’azione collettiva di gestione dei beni pubblici sulla scia critica di Olson (1965), Akerlof (1982) che, attraverso il meccanismo del dono-contro-dono, spiegava i contratti di lavoro (un salario più alto della media da parte dell’impresa viene percepito come “dono” dai lavoratori, i quali, allora, si sentono obbligati a ricambiare col contro-dono di uno sforzo lavorativo più alto della media)31, o Kahneman e Thaler che, col medesimo riferimento al dono – sebbene sotto le spoglie della fairness – spiegavano certe anomalie dei prezzi nei mercati dei prodotti (Kahneman et al., 1986). Infine, anche un altro Nobel come Sen (1985), che, attraverso la focalizzazione sulle capabilities – secondo cui sarebbe errato misurare le differenze di benessere tra persone in base al reddito o alla ricchezza ma bisognerebbe, invece, “pesare” tali variabili in base alle caratteristiche personali come il sesso, l’età, l’istruzione, la salute – e il riferimento a valori “etici” nelle libertà economiche – secondo alcuni di sapore “aristotelico” –, si è guadagnato una posizione apparentemente “alternativa”32 rispetto al mainstream Qu Fehr e Gächter (2000, 159), i quali introducono nel tipico modello dell’homo oeconomicus la reciprocità, riportano che quest’ultima era già trattata, per esempio, nell’Edda, una raccolta del XIII secolo di versi epici norreni, nei seguenti termini: «Un uomo dovrebbe essere amico del suo amico e ripagare il dono con un dono. Le persone dovrebbero ricambiare sorrisi con sorrisi e bugie con tradimento». 31 Un’analisi dinamica complessa degli effetti dell’ipotesi di “dono-contro-dono” in termini di maggior salario-maggiore produttività in una economia marxiano-goodwiniana è sviluppata in Fanti e Manfredi (2000). 32 Per Sen, a parità di reddito, una persona malata e una persona sana non possano godere delle stesse opportunità, come pure, in tema di libertà di azione economica, digiunare volontariamente per l’obiettivo di uno sciopero della fame deve essere valutato diversamente dal digiunare perché non si ha l’opportunità di acquistare cibo. 30 Parte I - La categoria del moderno 152 economico, in realtà non si differenzia dal medesimo, che – come noto – incorpora ogni eticità e altruismo all’interno del paradigma dell’individualismo metodologico e del comportamento dell’homo oeconomicus. Anzi, il fatto di considerare il singolo individuo (e non una qualsiasi unità collettiva), come riferimento di base delle auspicate politiche di sviluppo, fa di Sen – che pur sembra sensibile ai visibili drammi connessi all’economia capitalista nei paesi in via di sviluppo – un estremo sodale dell’illuminismo kantiano contrapposto alle visioni marxiane dello sviluppo33. Insomma, l’economia del benessere tradizionale e quella del benessere secondo le capabilities di Sen, condividono nella sostanza lo stesso approccio metodologico e la stessa visione della scienza economica. Per semplificare, la differenza fra la concezione economica del capostipite neoliberale Becker e quella di Sen, è – ammesso che ci sia – del tutto secondaria: infatti, se il primo modella la famiglia (Becker 1991) come un’unità economica in cui il capofamiglia maschio appare altruista massimizzando la propria utilità calcolata come utilità della famiglia, cioè tenendo in conto beni e risorse degli altri familiari, il secondo avrebbe solo da ridire non tanto sul modello di Becker ma piuttosto – per la visione globalista anti-identitaria e multiculturale tipica di Sen – sull’assunzione – del tutto irrilevante nell’“economia” del modello beckeriano – del capofamiglia di sesso maschile che potrebbe apparire discriminatoria. In conclusione, l’indagine genealogica, condotta in gran parte dall’antropologia e dalla filosofia, su forme, contenuti e persistenza dello scambio inteso in termini di dono (e contro-dono) ha smascherato l’“universalità” nello spazio e nel tempo del concetto di scambio in termini di mercato, come pretesa dall’economia mainstream. e ien a rt k oo a pp a b oE st e Qu L’associazione fra Kant, l’individualismo e l’opposizione a teorie di azione collettiva come il marxismo sta nella ben nota affermazione che ciascun essere umano deve essere trattato come un fine in sé e non come un mezzo per soddisfare gli obiettivi altrui. 33 e n mo i fis f o r 0 0 .20 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 153 6.3. Dono e sacrificio e la soglia sacro-profano Ogni concezione religiosa del mondo implica la distinzione tra sacro e profano. Questi due mondi, quello del sacro e del profano, si definiscono rigorosamente solo l’uno per mezzo dell’altro. Si escludono e si reclamano. (Caillois 1950, 24-5) M. G. De Lapouge ha recentemente detto: «L’antropologia è destinata a rivoluzionare le scienze politiche e sociali così radicalmente come la batteriologia ha rivoluzionato la scienza della medicina». (Veblen 1898, 373) o st ue Q In materia di dono la letteratura economica contemporanea ha fatto di ogni erba un fascio, riconducendo tutto a una questione di puro interesse, sfrondando così quelle che erano ritenute dissimulazioni ipocrite e pratiche oscurantistiche, dovute a tabù inibitori che frenavano la libera espressione di interessi legittimi. A Gary Becker (1964 e 1974) si può attribuire il merito di questa operazione di “imperialismo economico”, che è speculare, per parte neoliberale, all’idea del marxismo volgare di ricondurre ogni espressione di pensiero e di condotta sociale a interessi materiali34. Lo schema analitico di riferimento “beckeriano” prevede che ogni azione sociale sia fatta per raggiungere alcune finalità con mezzi limitati a disposizione. Il modello, per esempio nel caso del crimine, è l’analisi del costo opportunità che il criminale (razionale) valuta, prima di agire, in base alla pena e alla probabilità di cadere nelle maglie di una giustizia. Tali maglie possono essere, a loro volta, tenute più o meno strette da un legislatore che, da parte sua, fissa misure di deterrenza tenendo conto di tutti i costi della giustizia, piuttosto che intervenire allo scopo di sradicare il crimine stesso. Studi analoghi hanno riguardato molti altri ambiti della vita sociale, comprese le fedi religiose trattate dall’economia delle religioni35. Merita ricordare che lo spirito liberale è fin dall’inizio del periodo illuminista indifferente ai valori etici tradizionali, al punto ok bo E35 e en rti pa ap Cfr. anche Becker (1998). Cfr. Ekelund et al. (1996); Iannaccone (1998); Becker e Woessmann (2009); Ekelund e Tollison (2011); mentre in un approccio di teologia politica Hauerwas e Wells (2004). 34 a Parte I - La categoria del moderno 154 fisim 2000 . e n o @ il.co gma m da “formalizzare” nello spirito “matematico” della nascente economia politica, persino la “delinquenza” ottimale36. Seppure possa apparire sorprendente, i nostri Beccaria e i membri dell’Accademia dei Pugni con la loro famosa rivista Il Caffè, sono di due secoli in anticipo rispetto a Gary Becker e alla sua Economics of crime. L’economics contemporaneo pare abbinarsi a ogni aggettivo qualificativo ad eccezione di political, finalmente messo da parte37 per dar rilievo di scienza “dura”, sempre meno storica e sempre più deduttiva. Anche le altre scienze sociali hanno ceduto e l’approccio economicistico ha fatto ormai breccia anche in esse. La presa di distanza dai Mauss e Polanyi si fonda su una nozione di scambio che ingloba e non considera più tutte le forme di reciprocità e redistribuzione38. È qualcosa di più di un dibattito interno a varie to E Ques -b ppa a k o o rtie rof ne a Infatti, questa tendenza appare in modo inequivocabile nella «attività impetuosa dei giovani liberali dell’Accademia dei Pugni e […] con quale allegro estremismo siano già in grado sulla loro rivista, “Il Caffè”, di sviluppare fino alle estreme conseguenze alcuni principi del tutto nuovi del liberalismo illuminista […] Vi si scopre fra l’altro, nelle pagine scritte da Beccaria, uno dei primi tentativi di esprimere in formule matematiche il comportamento economico razionale. Alla conclusione di dotti calcoli, il giovane autore ritiene di poter stabilire che “lo sforzo da compiere per controbilanciare l’imposta con il contrabbando sarà pari al quadrato del valore della merce, diviso per la somma del valore e dell’imposta”. Come si vede da questo esempio, lo spirito capitalista delle origini non si preoccupa poi tanto dei valori tradizionali. Ed è alquanto significativo che uno dei primi teoremi concepiti dalla «scienza» capitalista abbia per obiettivo la razionalizzazione di una pratica illecita» (Michéa, 2012, 48-49). 37 Ovviamente, l’imperialismo economico non ha mancato di invadere anche l’ambito della scienza politica, trasferendo la politica e la democrazia dentro il paradigma del calcolo economico, ovvero riducendole ad un mercato dove si scambiano voti e favori, e politici e lobbies massimizzano le proprie rendite (vedi parte III). Ma è proprio questo trasferimento paradigmatico, che ne evidenzia l’obiettivo di anestetizzazione del “politico” come conflitto e quindi anche come libertà di poter cambiare le regole del capitalismo e di de-politicizzare lo Stato, riducendolo ad essere e a comportarsi come un mercato. 38 La distinzione tra scambio, reciprocità e redistribuzione è fondamentale nell’analisi di Polanyi (1944) del funzionamento di un’economia di mercato. Un bel libro, che segue l’indirizzo della scuola economica ricordata, è di Zemon Davis (2002). L’impossibilità del dono è la lettura che Jacques Derrida (1991) fornisce del saggio di Mauss, del quale rovescia il senso del dono gratuito e senza ritorno. La visibilità del dono, secondo Derrida, ne snatura il gesto e in questo starebbe il paradosso del donare. 36 Q -b uest oE 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 155 discipline umanistiche e si configura piuttosto come tentativo di inclusione di ogni dimensione sociale nell’economia. L’“imperialismo” dell’economia teorica di mainstream ha come progetto di porre il mercato a paradigma di ogni indagine: il mercato era già stato il sostegno ideologico a quello che era il capitalismo di laissez faire del XIX secolo, e dall’ultimo quarto del XX lo è, inteso soprattutto come sinonimo di concorrenza, in misura ancora più fondamentalista e religiosa per il capitalismo neoliberale, promotore, in suo nome, della globalizzazione e di forme di governamentalità totalizzanti per l’economia e la stessa vita sociale. Prima di andare avanti nell’esaminare l’avvento dell’ideologia neo-ordoliberale (nella III parte), occorre capire meglio il concetto del dono. Mauss, nel Saggio sul dono, insiste – come abbiamo visto in precedenza – sugli aspetti rituali magici e religiosi che sono imprescindibili dall’atto del donare. La ritualità non riguarda solo le forme esteriori delle donazioni in varie società. Il cerimoniale è l’aspetto sostanziale di un procedimento identitario nel quale «la cosa donata […] non è una cosa inerte», ma animata e individualizzata (Mauss 1923-24, 172). E ancora: «gli scambi e i contratti trascinano nel loro turbine non solo gli uomini e le cose, ma anche gli esseri sacri, che sono più o meno associati ad essi» (idem, 1778). Si tratta di contatti e scambi tra uomini e dèi come avviene nel sacrificio. Il sacrificio è legato al dono; insieme, sacrificio e dono, fanno parte integrante di forme di religiosità, che non sono solo arcaiche. Giorgio Agamben chiarisce il senso di tutto ciò proponendo un diverso etimo del termine religione, che discenderebbe da relegĕre piuttosto che, come generalmente ritenuto, da religare. Mentre quest’ultimo farebbe riferimento, come noto, al legame che si stabilisce tra umano e divino, il primo etimo ricondurrebbe invece al riconoscimento di alterità e di separazione che gli uomini hanno nei confronti degli dèi, su cui riposa il fondamento di rispetto che separa la sfera profana da quella sacra (Agamben 2005, 109-10). Il rigoroso confine fra le due sfere può essere oltrepassato solo attraverso il sacrificio che appartiene all’ambito del dono, e che ha la caratteristica di sottrarre qualcosa ad un uso per restituirlo ad un altro uso. La dimensione donativa ha a che fare, quindi, con questo superamento del confine fra sacro e profano e con questa trasformazione di uso. La differenza sa- 156 Parte I - La categoria del moderno es Qu cro-profano è resa esplicita in latino con due accezioni: da una parte, sacer per indicare ciò che è consacrato agli dèi e che si porta dietro l’ambiguità di un senso sporcato di ciò che è, ad un tempo, «augusto e maledetto», «degno di venerazione e che incute orrore», dall’altra, l’aggettivo sanctus, che non è carico di nessuna ambiguità di quel genere (Benveniste 1976, 1, 187-9). L’ambiguità in sacer si spiega per il rapporto con il sacrificio. La cerimonia del sacrificium è infatti finalizzata a render sacro, attraverso la morte, un dono offerto alla divinità fonte di vita. La vittima sacrificale è annientata nel trapasso. Henri Hubert e Marcel Mauss pubblicarono uno studio sistematico sulla natura e sulla funzione del sacrificio visto come un dispositivo-soglia per mettere in comunicazione il profano col divino. Attraverso la mediazione sacerdotale e la celebrazione di un rito simbolico e cruento si realizza lo sconfinamento dal mondo dei viventi alla sfera dei morti e del sacro (Hubert e Mauss 1898). Dono e sacrificio sono strettamente legati anche per l’aspetto della condivisione. Benveniste (1976, 1, 70) traccia il lungo percorso linguistico che dalle forme greche di dono conduce al gotico gild, che nelle lingue delle aree germaniche si corrompe in gelt, nel senso di pagamento o sacrificio. La gilda dei mercanti è un “banchetto di corporazione”, un sodalizio insieme religioso, economico e giuridico. D’altronde la gilda deriva dal germanico gelt o geld che significa anche denaro e che, per estensione metonimica, ha dato il nome a una qualsiasi associazione in cui si ha contribuzione di denaro da parte dei soci per uno scopo. Dono e sacrificio – ma anche denaro – consacrano la vita sociale, hanno una funzione pacificatrice e di ristabilimento di un ordine turbato o minacciato (sul sacrificio anche Girard 1982, 125-6; e Caillois 1950, 34). ok bo E- a Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni. (Benjamin 1921, 284) to 6.4. Il capitalismo come religione di culto utilitaristico 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 157 Avete portato via gli dèi che mi ero fatti e il mio sacerdote e ve ne siete andati. Che cosa mi rimane? Come potete dunque dirmi: “che hai?” (Giudici 18, 24) C’è un’idea che un giorno scatenerà la vera guerra mondiale: che Dio non ha creato l’uomo come consumatore e produttore. Che i viveri non sono il fine della vita. Che lo stomaco non ha da crescere sulla testa della testa. Che la vita non si fonda esclusivamente sul profitto. Che l’uomo è posto nel tempo per avere tempo e non per arrivare con le gambe da una qualche parte prima che col cuore. (Kraus 1972, 316) Ques to E- book appa rtiene Abbiamo ora gli elementi per riprendere la questione iniziale. Come si è incrinata l’economia del dono al punto da giungere al rovesciamento dei vizi privati in pubbliche virtù? Per rispondere al quesito, che richiede di individuare e percorrere alcuni sentieri genealogici, bisogna, prima di tutto, evidenziare le differenti visioni teoriche dello scambio economico. Gli storici economici offrono generalmente due versioni estreme, con combinazioni intermedie variabili. La prima, forse maggioritaria, segue uno schema “schumpeteriano” di sviluppo economico promosso sul lato dell’offerta e della produzione per effetto di innovazioni tecnologiche che rompono la trappola malthusiana, dentro la quale le economie tradizionali si dibattevano tra povertà diffusa e dinamiche demografiche vincolate dalle risorse disponibili nel tentativo di raggiungere un punto di equilibrio ad un livello purtroppo inevitabilmente basso del reddito. L’altra impostazione è di tipo “smithiano”, perché insiste, invece, sui cambiamenti dal lato della domanda di beni indotti essenzialmente dall’estensione dei mercati e dalla loro integrazione, con la connessa espansione della divisione del lavoro e della crescita della produttività. Infatti, l’aumento della divisione del lavoro che deriva (o ne è all’origine) dall’allargamento dei mercati spiega così anche il miglioramento delle competenze e gli aumenti di produttività. Quest’ultima versione è, forse, quella che si accosta meglio all’idea di Polanyi (1944) di una sfera economica resa progressivamente del tutto indipendente dalla società e nella quale i mercati autoregolantesi portano a compimento il processo di non-incorporazione (disembeddedness) dell’economia. Se queste teorie dello sviluppo economico sono ben note, va però anche posto l’attenzione al fatto che oggi si assiste anche al recupero di una terza posizione, non incompatibile con le due precedenti, ma che a roff i Parte I - La categoria del moderno 158 sposta l’ottica dall’economia, in senso stretto, all’etica economica riprendendo una prospettiva weberiana ma in versione neoliberale (McCloskey 2010, North 2006). Ciò ripropone, con argomentazioni in parte non del tutto nuove, interpretazioni di tipo sociologico dello sviluppo delle economie industriali moderne. Lo spirito imprenditoriale, secondo soprattutto la scuola austriaca e gli ordoliberali tedeschi, doveva essere almeno risvegliato e rianimato per guidare il cambiamento dell’economia e della società. Occorreva però una diversa considerazione sociale dell’imprenditore, del borghese e soprattutto delle attività mercantili, della ricerca del profitto e dell’accumulazione di ricchezze. Lo snodo del cambiamento è collocato da Max Weber all’epoca della Riforma protestante e al successo della confessione calvinista, interprete dello spirito del nascente capitalismo (Weber 1904-05). L’ascesi cristiana tradizionale, di distacco dal mondo, si trasforma in ascesi intramondana, di perfezionamento dentro il mondo. Le virtù borghesi della vita austera e del risparmio, attraverso le quali razionalizzare i comportamenti economici e spingere alla ricerca del profitto, sono un recupero di rispettabilità per la crematistica “innaturale” disprezzata nel sistema di valori aristotelico-tomistici e di vita activa. L’etica della vocazione professionale (Beruf), della responsabilità e del prestigio sociale sono le vie che conducono alla salvezza, che rivelano al fedele se appartiene o meno alla schiera degli eletti. I comportamenti collettivi così forgiati contraddistinguono quello sviluppo speciale (Sonderentwicklung) che si realizza in Occidente una volta che il sacro e il divino hanno abbandonato il mondo lasciandolo privo di significati magico-religiosi, rimpiazzati da un’etica intramondana contagiosa e pervasiva. McCloskey si fa promotrice di una idealizzazione “spirituale” di pratiche borghesi, non più religiosamente motivate, come in Weber, attraverso una costruzione teologica che realizza l’ascesi intramondana, bensì come mistificazione dell’etica borghese: si è onesti e parsimoniosi, tipiche virtù borghesi, perché semplicemente conviene dal punto di vista degli affari39. Q ue st o E- bo ok ap pa 39 Sull’approccio di McCloskey, insistentemente focalizzato sull’efficienza, come fosse un vangelo, v. Sutch (2017) e Nelson (2017); e per i fondamenti neoliberali Engelmann (2017). rti en e a r 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 159 Q Il breve e incisivo frammento di Walter Benjamin del 1921, pubblicato solo nel 1985 nel VI volume delle opere complete, sviluppa in senso critico la prospettiva weberiana di un condizionamento reciproco tra etica protestante e capitalismo, ma in un senso ben lontano da quello di McCloskey, rendendo così più evidente l’operazione di mistificazione compiuta dalla storica americana. Il capitalismo non era attecchito solo sul calvinismo, ma anche sulle altre confessioni cristiane, cioè si era sviluppato, già da tempo, «parassitariamente sul cristianesimo, tanto che alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo parassita, il capitalismo» (Benjamin 1921, 121). Il capitalismo si è sostituito alla religione diventando esso stesso religione, una religione che lenisce paure e inquietudini moderne solo sublimandole in una tensione estrema verso fini produttivi socialmente accettabili. La razionalità economica, per Weber, se da un lato perfeziona il rapporto mezzi-fini, dall’altro capovolge la razionalità etica: «così irrazionale in questo modo di vivere, dove l’uomo è in funzione e al servizio dei suoi affari, e non viceversa» (Weber 1904-05, 93). Come una religione estrema, con un culto utilitaristico, senza dogmi né teologie, fuori da ogni trascendenza e promessa di salvezza ultraterrena, il rito del lavoro si svolge in un tempo indistinto, continuo, senza tregua né speranza, con uno zelo angosciante che non salva, ma è rinchiuso in sé stesso come il criceto che corre sulla ruota, anch’esso sans trêve et sans merci. Per realizzare il rovesciamento etico necessario a mettere in funzione l’efficienza economica, il dispositivo essenziale è il senso di colpa e di debito da estinguere, che nel “capitalismo religione” non è tanto il peccato originale, quanto, piuttosto, un debito altrettanto originario e qui inestinguibile. Come religione di puro culto e rito, il capitalismo «non toglie il peccato, ma genera colpa/debito» (Benjamin 1921, 119-120). La lingua tedesca compendia nell’unico sostantivo di Schuld il debito e la colpa. Una «demoniaca ambiguità del concetto», commenta ancora Benjamin sulle tracce di Nietzsche il quale rinfacciava ai «genealogisti della morale» di non essersi immaginati che «quel basilare concetto morale di “colpa” ha preso origine dal concetto molto materiale di “debito”» (Nietzsche 1887, 51 [II, 4]). Il debito-colpa è un dispositivo essenziale, come vedremo tra poco, nell’ordine artie ue s t o E b o ok app 000@gm ne a r o f f is im one.2 160 Parte I - La categoria del moderno morale del calvinismo-capitalismo, che coniuga moralità individuale e moralizzazione della società; senza quel dispositivo e in assenza delle “virtù borghesi” l’ordine economico si disperde e si corrompe. La vita activa moderna opera perciò un rovesciamento radicale, trasformando l’ascesi ultra in intramondana; si inverte, così, il senso della vita col sopravvento della razionalità economica totalizzante per la persona e per la società. Come osserva Tomba, qualche sollievo dalla continua tensione angosciosa si può ora, forse, ritrovare «sul lettino dell’analista dove l’inconscio paga gli interessi sul debito/colpa contratto da una coscienza sempre inadeguata rispetto alla tensione estrema imposta dal culto» (2014, 46). Le tesi penetranti di Benjamin, commento e sviluppo di quelle weberiane, sulla natura religiosa del capitalismo (Löwy 2006, 205 e 207), spostano la genealogia dello spirito capitalistico dal calvinismo al cristianesimo nel suo complesso. La questione della Riforma protestante ridimensiona il proprio peso in un processo di modernizzazione che può esser fatto risalire più indietro, con l’evoluzione di una società mercantile dopo l’anno 1000. Studi recenti, sulla scia del lavoro di Harold Berman (2003), hanno approfondito le rotture teologiche e etiche interne alla religiosità medievale e della prima età moderna, sviluppate in seguito dalla seconda tomistica e dai teologi gesuiti. La questione non ha solo un interesse storiografico e filosofico, ma ha aperto una diatriba all’interno del mondo cattolico contemporaneo perché alle risoluzioni dei dibattiti teologico-politici di quell’epoca si fa risalire la filiazione del liberalismo moderno e dei fondamenti etici del mercato. Il contributo principale e più innovativo a tale filiazione del liberalismo è attribuito alla teologia e filosofia francescana. Salvioli (2013) ha compiuto una sintesi critica di tale percorso genealogico a partire da Giovanni Duns Scoto e Guglielmo Ockham, filosofi e teologi francescani. Essi hanno contribuito a impostare il rapporto tra Dio e gli uomini in forma di alleanza contrattuale, conferendo agli uomini l’esercizio di diritti di proprietà all’interno di una sovranità più corrispondente all’imago Dei. In questo modo – osserva Salvioli (2013, 80) – la «teologia ha pertanto collaborato all’interno – e non per via di pura e sem- Que sto E-b oo 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 161 plice secolarizzazione ed ancor meno per il proprio ritrarsi dalla scena culturale – alla ridefinizione delle nozioni di “proprietà” e di “sovranità” che hanno permesso l’evolversi della teoria sociale moderna». De Muralt sostiene che le tendenze alterne e opposte della filosofia politica moderna, quelle della sovranità assoluta del principe di diritto divino e della sovranità popolare, attraverso il contratto sociale e politico, s’iscrivono entrambe, per quanto dicotomiche, nella linea di continuità con la filosofia morale di Scoto e Ockham, secondo la dualità attribuita alla volontà umana determinata sia de potentia ordinata dei, quindi per obbligazione legale imposta arbitrariamente da Dio, che de potentia absoluta dei, cioè assoluta rispetto a ogni determinazione oggettiva, perciò essenzialmente libera (de Muralt 2002, 89). La svolta compiuta sul piano filosofico-teologico è essenziale per l’affermarsi di nuovi principi e inclinazioni nei confronti di una realtà economica che vede nelle dinamiche mercantili l’affermazione della libera volontà delle parti. La disputa teologica non intendeva occuparsi direttamente di quel che succedeva nel mondo degli affari. Aveva un precedente contingente nella difesa del rifiuto dei francescani di ogni forma di proprietà al fine di seguire il principio di vivere in povertà “assoluta”, senza proprietà, secondo la regola del vivere sine proprio. Dopo la morte del Santo, l’ordine dei frati minori era giunto a un bivio critico: sebbene autorevole spiritualmente, tale autorità rischiava di frantumarsi a causa dei numerosi lasciti di privati, e minacciata dai poteri terreni attraverso le accuse del papato e dei teologi parigini. In particolare, papa Giovanni XXII con la bolla Ad conditorem canonum stabiliva l’impossibilità di separare la proprietà dall’uso, proprietà definita nel diritto comune come ius utendi et abutendi, cioè di avere piena disponibilità del bene, di usarlo e consumarlo. Per i francescani il semplice uso, usus facti, poteva ritenersi disgiunto dalla proprietà, in questo modo l’ordine poteva rispettare la regula e ricevere donazioni. L’opposizione papale sollevava critiche da un punto di vista strettamente logico-giuridico, respingendo il principio della separabilità fra uso e proprietà, che, specialmente, non poteva ritenersi applicabile ai beni di consumo, per i quali l’uso implicava appropriazione, esclusione e annullamento (abusus) e a ro Questo E-bo ok app artien 00 f f i s i m o ne.20 app k o o b to Es e u Q Parte I - La categoria del moderno 162 del bene. L’usufrutto, a cui facevano appello i francescani, poteva valere solo per quei beni durevoli che non erano distrutti nell’uso40. Agamben (2011, 164) trova che sia una forzatura quella di alcuni storici del diritto, tra i quali Paolo Grossi (1972), che hanno fatto risalire a Ockham e alle scuole francescane i fondamenti della moderna teoria del diritto soggettivo e della teoria pura della proprietà fondata sul principio della separazione, in quanto lo scopo principale della diatriba era solo e soltanto quello di giustificare e legittimare una povertà che rinunciava a ogni diritto e perciò cercava di circoscrivere il potere del diritto positivo, piuttosto che dare ad esso un fondamento di sovranità41. A partire dalla riscoperta delle dottrine giuridiche ed economiche francescane, la letteratura storica, specialmente italiana, ha sviluppato un proficuo filone di ricerche. I lavori di Prodi, Todeschini, Muzzarelli ed altri hanno insistito sul cambiamento intervenuto anche nelle stesse autorità ecclesiastiche, progressivamente più tolleranti anche nei riguardi del mondo degli af- La separazione fra uso e proprietà era stata la base della soluzione compromissoria escogitata da papa Innocenzo IV per permettere all’Ordine francescano di possedere proprietà ma solo come personalità “giuridica” fittizia – cioè solo accettando di essere incorporati in una persona giuridica, che avrebbe posseduto per tutti loro ciò che nessuno, per adesione alla regola francescana, poteva possedere individualmente – il cui rappresentante fosse il Papa medesimo, e nel frattempo permettere ai frati di poter usare e consumare parte di tali possessi per vivere. Appena tale compromesso andò in crisi, per vari motivi, la critica papale, tomista e giuridica, si scatenò basandosi sulla messa in evidenza di una serie di paradossi interni al compromesso, costruito sulla separazione fra proprietà e uso: che senso avrebbe avuto un dominio papale su cose, come cibo, vestiti, alloggiamenti, che i frati hanno consumato? Se l’Ordine avesse effettivamente ceduto la proprietà, ne avrebbe dovuto anche cedere il dominio su di essa, ma allora come poteva un frate consumare un pezzo di pane senza avere un dominio assoluto su di esso? E al papa, che nominalmente possiede il pane mangiato dal frate, che cosa resta una volta che il frate lo ha digerito? Ricordiamo, di sfuggita, che il dibattito sulla questione della separazione di uso e proprietà, così criticata nei termini sopra visti, fu un viatico importante per l’affermazione del diritto alla proprietà privata in quanto fondamentale diritto naturale della modernità (v. Vatter, 2013). 41 Sui termini teorico-giuridici delle tesi francescane v. ancora Agamben (2011, 169-71). 40 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 163 fari. Uno slittamento del genere era stato già messo in evidenza da Arendt con la legittimazione, lenta ma persistente, del labora come componente della stessa vita contemplativa. Pietro di Giovanni Olivi portò alle conseguenze più ardite l’elaborazione già avviata da altri teologi francescani. Pensare a una società senza moneta appare utopico, i mercanti che hanno fides pubblica svolgono un’azione moderatrice portando i prezzi di mercato ad accordarsi con i bisogni di coloro che sono poveri non per scelta di vita. La ricchezza acquista una luce diversa e può diventare non di ostacolo, ma di supporto alle opere della salvezza. Per questa via iniziano a cadere gli altri preconcetti, primo tra tutti quello riguardante l’usura. I monti di pietà, creature delle opere francescane, svolgono operazioni creditizie analoghe a quelle dei mercanti, ma il loro fine dichiarato è quello di combattere l’usura, moderando il prezzo del denaro e offrendo ai bisognosi l’opportunità di indebitarsi, ma con lo scopo sia di liberarsi dal debito oppressivo degli usurai che di uscire dalle condizioni di povertà in cui erano caduti. Anche nella città terrena può esserci una mano della provvidenza che nascostamente, o meno, aiuta a volgere gli interessi verso il bene. Le indicazioni presenti negli studi storici sono state sviluppate su basi economico-concettuali da Stefano Zamagni e Luigino Bruni seguendo un’impostazione di critica all’economia di mercato, specialmente nei più recenti sviluppi di un capitalismo finanziario senza controlli, che porta al soffocamento delle istanze di solidarietà presenti nella società. La loro proposta può essere interpretata come una salvaguardia di bisogni sociali, al fine di promuovere un capitalismo ben temperato, armonizzato eticamente in quella che definiscono “economia civile”. Per dissipare ombre e incomprensioni su di essa, tipo quelle di confonderla con un’economia sociale, con un mondo costituito di organizzazioni non profit o cose del genere, essi hanno chiarito i concetti fondamentali in un apposito Dizionario (Bruni e Zamagni 2009). L’economia “civile” è anzitutto la riscoperta di una tradizione di pensiero – radicata specialmente nella cultura italiana, e dominante fino a circa la metà del Settecento nell’ambito della filosofia morale. Si tratta perciò di un corpo di dottrine assimilabile al concetto di “capitale sociale”, nel senso di Robert sto Que Parte I - La categoria del moderno Putnam (2004)42, che può essere misurato dal grado di partecipazione degli individui alle organizzazioni della vita civile, con miglioramenti significativi della qualità delle relazioni sociali e un maggior riconoscimento della dignità umana. In tal modo, viene riproposta una scienza economica, adattata al presente, che superi il riduzionismo di un homo oeconomicus, in cui i legami sociali esistenti sono misurati soltanto secondo la dimensione dello scambio “puro”. Il riferimento alla tradizione di «Umanesimo civile», a cui si riallaccia l’«economia civile», è peraltro così ampio da lasciare in ombra le stesse polemiche tra tomisti e francescani sulla separazione fra uso e proprietà (Bruni e Zamagni 2009, 10) e tutta la tradizione anticrematistica che aveva radici profonde nel paganesimo e nel cristianesimo (cfr. ad es. Dodds 1993, 15-6; e Pieper 1998, 25-6)43. Vero è – come ricorda Arendt (1958) – che il processo di amalgama e contaminazione tra principi etico-religiosi e prassi mercantili tendente a superare il contrasto originario – aristotelico-tomistico fra crematistica e anticrematistica – fu lento ma inesorabile fino al punto di disperdere quasi interamente quella che era stata la tradizione anticrematistica. Quindi, se da un lato la tradizione storico economica “tomistica”, di cui era interprete Fanfani (2005), tendeva ad escludere ogni contaminazione fra pensiero cristiano e spirito del capitalismo, la recente storiografia ha rivisitato quella e Qu st -b oE o a ok p 164 Bourdieu (1980, 2) introdusse il concetto di capitale sociale inteso come una «rete stabile di relazioni» che facilita la circolazione di risorse di vario genere, attraverso rapporti istituzionalizzati e informali di “conoscenza” e “riconoscenza” reciproca tra i soggetti partecipanti. L’interazione frequente che si stabilisce tra essi costituisce un capitale sociale, caratterizzato da fiducia, solidarietà e reciprocità; un insieme di fattori che consente, appunto, una più ampia e rapida mobilizzazione di risorse. Putnam (2004) ha ripreso ed esteso il concetto in studi storico-comparati dei comportamenti collettivi contrapposti, dove la presenza di capitale sociale controbilancia e stempera gli effetti socialmente disgreganti dell’individualismo. 43 Un critico delle tesi weberiane come Fanfani in un libro del 1934 (ristampato nel 2005) faceva risalire il capitalismo moderno alla ripresa dei traffici commerciali nelle città-stato italiane dei primi secoli del secondo millennio, ma tendeva a ribadire, con Weber, l’estraneità dell’etica cristiana e della teologia tomista, fondamentalmente anticrematistica, dal capitalismo, inconciliabile con i principi dell’individualismo economico. 42 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 165 relazione individuando in un filone del pensiero cristiano medievale (ad es. Pietro Olivi) le prime giustificazioni etiche delle pratiche degli affari. Per molti intellettuali cattolici, scavare in quelle tradizioni di pensiero e d’azione non è stata solo un’operazione di specialisti per riaprire una polemica con le tesi weberiane, ma anche, e forse soprattutto, un modo per abbandonare una vecchia mancanza di “cultura d’impresa” e dunque pervenire all’accettazione dello spirito del capitalismo, e in special modo dell’economia di mercato, e, talora, persino dei fondamenti del liberalismo moderno (cfr. Bazzichi 2015, e, in parte, il recente Bruni 201844). Come considerare questi ultimi sviluppi culturali, se non alla luce di quel capitalismo che, nelle lapidarie tesi di Benjamin, si abbarbica sul ceppo di una tradizione religiosa fino a sostituirsi ad essa? 6.5. La forza disciplinante del debito per organizzare la società sull’utile e sull’efficienza Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio personale sul mondo, perciò gli regalò carrozze e cavalli: “Ora non hai più bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito di farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro effetto. (Anders 1963, 103). Que siamo di fronte a una profusione di scelte minori e una carenza di grandi scelte. Possiamo entrare in un ipermercato e scegliere tra venti diverse marche di margarina, ma molti di noi non hanno altra scelta che entrare nell’ipermercato. (Monbiot 2000, 16) sto - Marcello: Sa qual è il suo guaio? Di avere troppi soldi! - Maddalena [togliendosi gli occhiali da sole]: E il tuo di non averne abbastanza! Hm... intanto eccoci qua tutti e due! - Marcello: Questo non è mica un guaio: siamo rimasti così in pochi ad essere scontenti di noi stessi. (Federico Fellini, Ennio Flaiano et al., La dolce vita, 1960) k ap oo E-b ne a ie part 44 Un’ala più radicale (Antiseri e altri) ha ripreso da Michael Novak (1994; 2000) l’idea di far sposare la dottrina sociale cattolica con il neoliberalismo anarchico di Hayek. 166 Parte I - La categoria del moderno Il capitalismo come religione è la crematistica inoculata nell’animal laborans. È, oggi, la versione triste e sconsolata della crematistica energica dell’auri sacra fames degli spiriti animali imprenditoriali, non è attrazione individuale verso il guadagno, ma rassegnata autodisciplina sul lavoro senza più la “one best way” dei tempi di lavoro cronometrati alla catena di montaggio dell’industria fordista. Il capitalismo, organismo saprofito della religione, si sostituisce ad essa e ritualizza l’attività di produzione e consumo, pianifica la vita eliminando le fasi inattive, improduttive. Il sentimento della nuova religio non ha misteri teologici, tutti i fedeli sono accolti ai riti circolari della produzione-consumo-produzione (chi ne resta fuori è perché non ha meriti). L’ideologia del capitalismo come religione è attualmente quella neoliberale, nelle varie versioni e confessioni, comprese quelle che, forse, in forme più originali e mitigate finiscono per far confluire, dentro la grande famiglia dell’orgoglio crematistico, teologie neo-francescane, forme di umanesimi pecuniari e altre combinazioni di proposte interpretative che cercano di dare un’anima teologico-filosofica alle “virtù borghesi”. La questione è però da riportare sul terreno che le è proprio, quello della forza “morale” del dispositivo colpa-debito indelebile, una condizione senza speranza di riscatto. La diade debito-colpa induce a patire una condizione di debito permanente da dover rimettere in ogni istante. Come vedremo meglio nella parte III, l’ideologia neoliberale porta a compimento la collettivizzazione di un Beruf che, senza la gloria della salvezza, ma con la ritualizzazione dell’esistenza lavorativa e di un edonismo da consumo indotto, produce concorrenza e performance sul lavoro e negli altri luoghi residui della vita. Il principio “chi non lavora non mangia” era un principio egalitario, che nell’apostolo Paolo è invito a non vivere disordinatamente e a imitare chi segue le regole di una convivenza pacifica (2Tes 3). Il principio “chi non lavora non mangia” stabilisce un diritto a una retribuzione congrua con il soddisfacimento dei bisogni. Quel principio, nell’economics si trasforma in regola selettiva in base al motto: “ognuno mangia, in quantità e qualità, in base alla performance ottenuta sul lavoro”. L’idea di dare lavoro a tutti, che, come puntualizza Georgescu-Roegen, era un’esigenza di sopravvivenza in economie prein- Q ue st o E- bo ok ap pa rti en e a 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 167 Questo dustriali, diventa, per un certo periodo di tempo, anche un obiettivo discusso e spesso prevalente anche in economie avanzate. Infatti, la piena occupazione, come obiettivo primario di politica economica, si afferma come enunciazione di un principio solo dopo la crisi del ’29 e resiste fino alla metà degli anni ’70 del XX secolo in quei governi che, in qualche misura, si proponevano di realizzare un welfare state seguendo politiche economiche ispirate da Keynes. Ciò ha introdotto nel sistema capitalistico industriale elementi di quel principio che era implicito nelle economie arcaiche e precapitalistiche, cioè che tutti ottengono alimenti dentro l’oikos, nella polis composta da organizzazioni familiari, nel convento, e in genere in comunità agricole, per contemperare un’esigenza di poter contare sul lavoro per accumulare prodotti nelle buone annate e poter così far fronte alle ricorrenti carestie. Il principio di un lavoro per tutti ha, forse, introdotto nel capitalismo una spinta ulteriore verso la caduta del saggio del profitto, il conseguente infiacchimento dell’imprenditorialità e della concorrenzialità, a cui ha poi ridato fiato il colpo di reni della globalizzazione, della deregolamentazione e della progressiva eutanasia delle forze sindacali. Il nuovo ordine del capitalismo neoliberale, religione laica, ha così introiettato in ognuno il senso di colpa inestinguibile attraverso l’accanimento concorrenziale sul lavoro e il desiderio per un consumo ipertrofico. Occorre a questo punto ritornare alle tesi di Max Weber per precisarle meglio, in vista del loro interesse per far luce, in un’ottica genealogica, sul disciplinamento dell’individuo del XXI secolo, ricordando il disciplinamento dell’ascesi intramondana e delle comunità dei “santi” riformati studiati da Weber. L’ascesi della professionalità e della solerzia diventa l’esercizio spirituale della quotidianità, dell’applicazione razionale al lavoro e all’onestà nelle relazioni reciproche. Sono tutte condizioni basilari per il buon funzionamento del mercato, dell’ethos dell’efficienza e della concorrenza come principi regolativi della modernità (Zamagni 2016, 106). Il mercato, osserva Weber (1920, t. 2, cap. vi), «conosce unicamente riguardi per la cosa concreta, non per la persona, non conosce obblighi di fratellanza o di pietà, né alcuna delle spontanee relazioni umane che conoscono le comunità di persone». In questo senso il mercato è una forza dissacrante. Lo stesso concet- E-book fisimone ne a rof appartie gmail.co .2000@ 168 Parte I - La categoria del moderno to era tradotto da Thomas Carlyle nel lapidario cash nexus, a cui si riduce ogni rapporto interpersonale attraverso la mediazione operata sul mercato, organizzatore dell’allocazione delle risorse e della soddisfazione dei bisogni. Va ricordato che l’economia di mercato diventa sistema solo con il capitalismo. Prima i mercati sono sporadici, sottili, male organizzati, sottoposti a prezzi amministrati, regolati da poteri che contingentano i prodotti, vincolano i prezzi a vantaggio di produttori o di popolazioni urbane per assicurare pane e generi di prima necessità. Tra mercati di luoghi più o meno distanti sono inoltre pochi i vasi comunicanti e per lo più risultano ostruiti. Infatti, se la ricerca del profitto non nasce col capitalismo, ma è comune a varie epoche e categorie sociali, tuttavia tale ricerca non può essere identificata con lo “spirito” del capitalismo, che per Weber è organizzazione razionale e disciplinata al raggiungimento di uno scopo, che non è la produzione o lo scambio, ma il profitto (Weber 1920, 102). Ancora in età moderna, le attività mercantili, come i grandi affari commerciali e bancari a fini di lucro e di accumulazione (la crematistica ricordata), non godevano di una piena rispettabilità perché occupavano il tempo e lo spirito, impedendo la “vita beata”, o buona. Il labora sopraffaceva l’ora. La tradizionale visione riteneva che il lavoro fosse svolto per preparare alla preghiera, all’ozio, o alla meditazione, magari di pochi eletti che ne avevano vocazione. Tradizionalmente, la società e la politica – come già osservato – assegnavano spazi limitati e controllati ai mercati, la cui libertà d’azione era ampia ma solo dentro quei confini, per evitare che quelle attività compromettessero le funzioni essenziali del commercio al servizio delle economie domestiche nel loro complesso. Ma le cose cambiano drasticamente se si inverte l’ordine di dominanza, se sono i mercati ad assumere il predominio e ad assegnare spazi limitati agli altri ambiti. Polanyi, come abbiamo visto, esprime, con il concetto di «doppio movimento», l’altalena continua tra i mercati, che, da un lato, tendono a espandersi e a prevaricare, e le istanze della società, che, dall’altro lato, cercano di difendersi dalle instabilità e dalla forza autodistruttiva dei mercati. Il predicatore puritano Richard Baxter non pensava più di dover tenere a freno le forze di mercato, assunto invece a sistema regolativo Q 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 169 o st ue Q della vita sociale, quando invitava i fedeli a non rifiutarsi di essere «amministratori [stewarts]» per conto di Dio e ad accumulare ricchezze come doni ricevuti dal cielo e che (si noti un implicito dispositivo dono-contro-dono) potevano essere richiesti indietro (cit. in Weber 1904-05, cap. II.2, 222). Tuttavia, l’economia di mercato, per costruirsi su basi razionali e funzionare, non esigeva solo che tali prescrizioni fossero osservate dai singoli, ma che la stessa collettività imponesse quelle regole morali ai più riottosi e, specialmente, agli ignavi e ai dissipatori. L’ascesi intramondana diventava così una «gabbia di durissimo acciaio», spoglia di senso al di fuori delle «passioni puramente agonali, competitive» (Weber 1904-05, 240, cap. II.2). Qui sorge un aspetto importante e riguarda il mito dell’evoluzione “naturale” dei mercati. Le pagine di Weber, anche in questo, sono istruttive perché l’etica che rivitalizza lo spirito del capitalismo non ha solo un profilo individualistico. Il puritano sa che per discernere hic et nunc i disegni divini, cioè per poter leggere in essi i segni del dono della grazia, e poter sapere se egli farà parte della schiera degli eletti (la certitudo salus), deve essere un buon amministratore dei propri talenti e saper mettere a frutto la propria professionalità. Tuttavia, per avere successo imprenditoriale non basta la propria individuale professionalità, ma occorre anche operare in un ambiente favorevole, ripulito di vari ostacoli e di cattivi soggetti, tra i quali i ladri non sono i più pericolosi, bensì lo sono quelli che tradiscono la fiducia loro accordata. Afferma Paolo Prodi: «la criminalizzazione del furto si intreccia con lo sviluppo della religione della proprietà privata» e della «difesa della validità dei contratti come categoria generale, dei quasi-contratti e delle promesse sulla base del consenso, del presupposto della fiducia espressa e dell’obbligo della restituzione del maltolto, di qualsiasi ingiusto arricchimento». E ancora: «il criminale per eccellenza diviene sì il vagabondo ma in quanto persona che rifiuta la proprietà e il mercato e quindi almeno potenzialmente ladro» (Prodi 2009, 164). Va costruita una società che corrisponda ai principi a cui si ispira la comunità dei fedeli, i “santi” preservati nella grazia, altrimenti l’insuccesso mondano è quasi certo e la salvezza seriamente o definitivamente compromessa a causa di chi non mantiene fede (anche agli impegni), quindi anche per ok bo Eap im on rof fis Parte I - La categoria del moderno 170 Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne a colpa di ogni opportunista. Opportunismo e slealtà sono socialmente più dannosi del furto e della delinquenza comune. Swift ricorda che gli abitanti di Lilliput guardavano alla «frode come un delitto più grave del furto, perciò la punivano quasi sempre con la pena capitale», perché se è facile difendersi dai ladri con un po’ d’attenzione e di vigilanza, «e un briciolo di senso comune», non altrettanto si può dire che l’onestà sia al riparo dall’astuzia di chi mente e spaccia una cosa per un’altra (Swift 1726, 141 [I, vi]). L’imbroglione è descritto in modo dovizioso da Quevedo come quel don Cosimo che «[a]veva spogliato mezzo regno. Faceva credere quello che voleva. Non si è mai visto un tale artista della menzogna, che non dice la verità neppure per distrazione […]. Insomma, quando non infrangeva i comandamenti di Dio, li incrinava» (Quevedo 1626, 112-3 [libro III, cap. iii]). Anche nei confronti dei mercanti Quevedo non era più tenero. Gli uomini d’affari italiani erano «bari della penna “per fissare i prezzi che governano la moneta”» nelle fiere che si tenevano a Besanzone dove «si dirigeva il concerto dei virtuosi con le unghie», cioè mercanti e banchieri che giravano cambiali e fornivano crediti ai sovrani alle condizioni che lì si stabilivano45. In definitiva, concludeva Quevedo, «la coscienza di un mercante è come la verginità di una puttana, che si vende senza bisogno di averla» (Quevedo 1626, 76-7 [libro III, cap. iii]). Ritornando alla religione protestante, la comunità dei “santi” trova non solo i dispositivi morali ma anche quelli organizzativi per reprimere i fenomeni di frode, opportunismo e slealtà. Come osserva Poggi, l’ammissione a comunità e sette di chiese riformate doveva passare al vaglio dei membri anziani, ai quali spettava “certificare” l’autenticità della “chiamata” e della vocazione attraverso una rettitudine di comportamenti, controllata da perseveranza nelle fatiche del lavoro, propensione alla parsimonia, onestà, affidabilità nell’adempimento scrupoloso delle obbligazioni contrattuali (Poggi 1983, 77). A livello generale, la rete di rapporti commerciali che si veniva a costituire dava maggiori Sui metodi effettivi dei banchieri italiani dell’epoca cfr. ovviamente il lavoro di Deleplace, Gillard e Boyer-Xambeau (1991). 45 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 171 garanzie di affidabilità e di prevedibilità degli atti individuali e collettivi, spianando la strada al successo e alla conferma nella salvezza. In tal senso, l’ascetismo intramondano non riguardava solo una dimensione strettamente individualistica e isolata, come si potrebbe ritenere a prima vista. La non assenza dal mondo, per mettersi alla ricerca della salvezza, pone subito ciascun fedele in un legame con gli altri; si tratta di un legame che è concorrenza e insieme concorso con gli altri correligionari, che si sorvegliano a vicenda per non essere danneggiati da comportamenti opportunistici, per estromettere dalla setta, e se necessario dalla società, chi semina menzogne e falsità. Nessuno può ignorare i comportamenti degli altri che influiscono sui propri, né lasciare libero sfogo alle volontà altrui senza forme cogenti di controllo sociale. La comunità deve intervenire: la gabbia durissima di prescrizioni morali non riguarda solo l’interiorità di ciascuno ma è posta anche e soprattutto sul comportamento sociale di tutti gli altri, se ciascuno vuole scoprire di far parte degli eletti attraverso il successo che ottiene nel teatro degli affari e dell’economia. La condizione che può pregiudicare tutto ciò è quella di aver di fronte anche pochi concorrenti che non giocano allo stesso gioco, non rispettano le stesse regole, sono pronti ad alterare la posta in gioco a proprio vantaggio. In questo senso, la società del capitalismo come religione impone l’ethos dell’efficienza di cui parla Stefano Zamagni. E l’ethos dell’efficienza si afferma non tanto in un mercato “libero”, spontaneo, e nel relativo ordine naturale e anarchico delle relazioni intersoggettive, quanto in un’arena governata come un’organizzazione d’impresa dove funzionano le linee di comando. Ouchi (1980) mette bene in luce il complesso equilibrio di mercati fragili, i cui spazi sono minacciati dall’azione a tenaglia delle gerarchie d’impresa che si espandono a danno dei mercati, da un lato, e, dall’altro, dalla formazione di organizzazioni di clan, anch’esse alternative ai mercati e sodali con i gruppi di controllo delle imprese. Se i mercati falliscono, o sono deboli nell’indurre i vari agenti economici all’efficienza, allora occorre l’intervento di un’autorità per spingerli, in una direzione o in un’altra, sulla base di un insieme di incentivi prefissati che solo un centro di comando può fissare e imporre. Se tali incentivi g 0@ on im ffi s e r tie n o ok to Q ue s Eb a pp a a ro 00 e. 2 Parte I - La categoria del moderno 172 non sono “internalizzati” in maniera ascetica e individualistica, l’impresa, prima ancora dello Stato, può così intervenire con bastone e carota per spronare all’efficienza e disciplinare l’azione dei singoli in funzione di quelli che sono gli obiettivi stabiliti. L’etica manageriale, di cui oggi si parla con insistenza, mira a inculcare quell’istinto del gregge di cui parla Nietzsche (1887, 131 [III, 18]). Vi sono vari esempi storici di quanto appena Max WeQudetto. esto E-book ber, dopo la sua Etica, scrisse un saggio meno noto, ma molto incisivo, sulle sette protestanti americane (Weber 1906). È nota, inoltre, la dittatura moralizzatrice imposta da Giovanni Calvino per piegare una Ginevra libertina ai sani principi della santità cristiana, da applicare con ferrea determinazione, dal 1541 al suo ritorno e insediamento a capo della comunità riformata e della repubblica indipendente. Calvino istituì un governo dittatoriale austero e senza atti di clemenza (Moore 1964, 56-67). La messa al rogo di Serveto fu uno dei tanti atti di governo dittatoriale di Calvino (Bainton 2012). Il mercato è solo un’idea platonica, ma nel “mondo visibile”, poco importa se del tutto illusorio, solo le imprese possono esercitare la disciplina necessaria a raggiungere la salvezza del benessere. La formazione e lo sviluppo degli Stati nazionali non fu solo la conseguenza di una rivoluzione amministrativa che spinse poi verso l’assolutismo. Per Gorski fu l’esito di una «rivoluzione disciplinare» promossa principalmente dai movimenti religiosi riformati e, in special modo, dalle correnti calviniste. I movimenti ascetici intervennero sui comportamenti individuali di autodisciplina e su quelli collettivi, per mezzo di modifiche istituzionali e riforme sociali miranti a diffondere il rispetto di determinate regole e l’osservanza di comportamenti comuni. Lo schema seguente (tav. 4) incrocia livelli e modalità di interventi di disciplinamento. I livelli riguardano gli individui o la società nel suo complesso46. Le modalità di disciplinamento sono distinte tra le norme e le prescrizioni, che sono di carattere 46 (1993). Lo schema è ripreso con varie modifiche e integrazioni da Gorski appa e Qu 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 173 etico, per indurre i comportamenti individuali verso obiettivi di autodisciplina e indirizzare di conseguenza i comportamenti sociali al successo negli affari e all’affermazione professionale nelle carriere. I metodi per ottenere tali scopi sono la ritualizzazione di forme di controllo sui comportamenti individuali, premiati da forme di riconoscimento del valore e di ingresso o esclusione da gruppi e aggregazioni di setta religiosa o laica, di mestiere, di cultura o di ricreazione. A livello sociale i metodi riguardano strategie e politiche per incentivare l’ascesa sociale e la conquista di posizioni di prestigio. Le strategie di concorrenza, che sostituiscono gli obiettivi di “buona vita”, fomentano tensioni conflittuali e di rivalità non più per fasce, aggregazioni e classi sociali, bensì tra soggetti individuali che competono tra loro per le risorse, per la carriera. In questo modo anche il conflitto sociale è smorzato attraverso l’adesione degli individui alla medesima visione etica. Il capitalismo non è solo un sistema economico che organizza produzione e consumo, ma diventa sistema di vita interiore, rito permanente senza più divisioni tra lavoratore e cittadino, produce un’indistinta condizione di fedele che si adegua devotamente sia ai riti della produzione che a quelli del consumo, necessari per glorificare nuovamente le celebrazioni della produzione. Il passaggio dalla police al mercato – ben descritto da Foucault (2017a) – dev’essere inteso come il passaggio da uno strumento di governamentalità a controllo “esterno” (leggi di polizia, panopticon fisico come i carceri e i manicomi disegnati da Bentham) a uno soprattutto “interno”, cioè il lavoro e la concorrenza “interiorizzati” come forma di soggettivazione, di identità. Come funziona questo controllo interno introdotto dalla governamentalità di mercato? Si basa su un processo di soggettivazione che porta a una visione di sé che ha dell’incredibile: quella di vedersi come un capitale soggetto a riqualificazione e deprezzamento, e fruttifero di interessi. In altri termini il panopticon è trasferito dall’esterno all’interno, dove l’occhio vigile del mercato, con le sue impersonali e immodificabili leggi “ferree”, rende l’individuo orgoglioso di sottoporsi a «servitù volontaria», rivisitazione postmoderna del famoso Discorso di La Boétie. Parte I - La categoria del moderno Tav. 4 - Metodi di disciplinamento. MODALITÀ i Questo E-book appart 174 LIVELLO Normazione e prescrizione Metodi di omologazione per incentivi e vincoli Individuale Etica della professionalità e della responsabilità Riti identitari di inclusione e di espulsione nel gruppo Sociale Successo negli affari e nella carriera Strategie di concorrenzialità, premialità Gorski, ad esempio, ha sottolineato il ruolo primario svolto dal calvinismo, rispetto ad altri movimenti ascetici, nell’introdurre e innovare, sia sul piano soggettivo che su quello istituzionale, forme di disciplinamento che poi si sono diffuse in vari paesi, influendo sulla stessa formazione degli Stati nazionali (Gorski 2003, 75-6). Lo Stato neoliberale moderno (o meglio, ordoliberale) governa la società come si governa un’impresa, secondo linee guida manageriali, con incentivi e controlli, con un diritto considerato pura merce di scambio, rinegoziabile a seconda delle convenienze e dei rapporti di forza prevalenti, una pubblica amministrazione passata da servizio verso il cittadino a fornitore di beni verso il fruitore-utente, quindi divenuta da attore “esterno”, quasi in posizione arbitrale, a soggetto “interno” alla stessa macchina concorrenziale che regola, o tende a regolare, ogni ambito della vita sociale. Lo Stato austero spinge alla coazione ascetica del risparmio per mettere i singoli in condizione di rendersi economicamente responsabili, autosufficienti e laboriosi (senza più uno Stato di welfare o assistenziale che fornisca loro certezze sul futuro). Tutto quel che gli individui fanno è considerato in una prospettiva di accumulo di capitale “umano”. In questo modo si riducono gli spazi del dono inteso alla maniera antica, ma anche la ricerca di senso della vita nella gratuità di socialità, di meditazione, di creatività e di educazione al bello che il sistema di sicurezza sociale consentiva. Su tutto questo sono essenziali le considerazioni di Supiot (2015 e 2010), ma ritorneremo più avanti (parte III) in maniera più estesa sulle questioni attuali. 6 - Il modello neoistituzionale del mercato 175 Inoltre, nemmeno il mercato (l’economia di mercato) ne esce bene in un contesto nel quale il “vecchio” Stato di diritto, da arbitro, in qualche modo super partes, garante di diritti della persona, diventa esso stesso contendibile attraverso la legittimazione della negoziazione di quelli che sono gli incentivi da dare alle parti in causa fino a delineare un riconoscimento di “diritti” soggettivi all’impresa (aspetti ben individuati da Tilly 2001). Il consumatore è allora meno sovrano e la sua sovranità limitata inibisce i mercati dal funzionare secondo le stesse virtù esaltate da Mandeville, Smith e via di seguito. Ci si può così porre il problema di quanta libertà personale, di quanto spirito libero e critico resti in una società così disciplinata e cosa resti del dono, se anche il tempo è denaro e il tempo libero e quello dedicato agli amici e agli altri segue le stesse regole di contabilità. Il libro di Nuccio Ordine (2013) fornisce molti elementi per valutare sia i danni di un utilitarismo ossessivo fine a se stesso che i vantaggi, non solo morali e spirituali – si potrebbe aggiungere – dell’ozio intelligente. Si può chiudere questa parte con una considerazione di Maynard Keynes. Nel 1926 egli definì il problema politico come un’equilibrata combinazione di tre elementi: -bo Questo E l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale. Alla prima sono necessari senso critico, prudenza e conoscenza tecnica; alla seconda spirito altruistico, entusiasmo ed amore per l’uomo comune; alla terza tolleranza, ampiezza di vedute, apprezzamento dei valori, della varietà e dell’indipendenza, che preferisce soprattutto dare una chance illimitata all’elemento eccezionale e ambizioso (Keynes 2011, 262-263). ffisimo ok a p p a r t ie ne a ro In questo, ci pare si racchiuda lo spirito di un liberalismo “classico”, nel senso di ottocentesco, ma soprattutto classico perché erede di quel senso di “vita felice” proprio dei filosofi antichi e recepito dai primi padri della cristianità fino almeno all’alto medioevo, cioè almeno finché il baricentro dell’ascesi restò inclinato verso l’alto. Qu es E to -bo ok ne rtie pa ap @ 00 0 e.2 on isim off ar om .c ail gm Qu est oE -bo o ka ppa rtie ne ar offi sim one .20 00@ gm ail. com Parte II Moneta e debito. Una rivisitazione genalogica Questo E-book apparti ene a r ne.2 o offisim Questo E-book Capitolo 7 LE TEOLOGIE DEL CREDITO E DELLA MONETA. UN’INTRODUZIONE Siccome ogni nuova promessa impone un nuovo obbligo morale alla persona che la pronuncia, e siccome questo nuovo obbligo sorge dalla sua volontà; si tratta di una delle operazioni più misteriose e incomprensibili che si possano immaginare, paragonabile alla transustanziazione o agli ordini sacri, in cui una certa forma verbale, unita a una certa intenzione, cambia del tutto la natura di un oggetto esterno, e anche di una creatura umana. (Hume 1739, 1037 [lib. III, p. II, v]) Oh no, no, no, no; dicendo che è un uomo buono intendevo farvi capire che è solvibile. E tuttavia ci sono dubbi sui suoi beni. (Shakespeare, Il mercante di Venezia, I, iii, 15-18) La famiglia, la scuola, l’esercito, la fabbrica non sono più luoghi analogici distinti che convergono verso un proprietario, Stato o potenza privata, ma figure cifrate, deformabili e trasformabili di una stessa impresa che non ha se non amministratori. Anche l’arte ha lasciato i luoghi chiusi per entrare nei circuiti aperti della banca. (Deleuze 1990, 3) Il mito è un modo di prender possesso del passato per farlo parlare nel presente. Per questo è anche una “prefigurazione” per guidare l’azione in condizioni di incertezza (Blumenberg 2018). Tutto ciò spiega la forza di una narrazione mitica che ha fatto breccia in una disciplina come l’economia. Intendiamo riferirci al mito delle origini della moneta nella versione perfezionata da Carl Menger (1892). A lui può esser fatta risalire la costruzione più chiara e coerente di un mito basato su una narrazione ‘evolutiva’ della storia monetaria, che è poi divenuta popolare attraverso generazioni di specialisti, i quali, da più di un secolo, se ne sono serviti non solo per introdurre concetti in libri di testo, ma persino per elaborare opere “scientificamente” più avanzate. Tentare di scrostare e rimuovere dal “mito” la patina fascinosa che lo avvolge e andare al di là della pura rappresentazione @gmail.co 180 Parte II - Moneta e debito Questo E-boo ffisimone.2000 k appartiene a ro per verificare se nasconde qualcos’altro di più concreto, è un’operazione genealogica sul mito e sul suo oggetto. Nella VI delle tesi Sul concetto di storia, Walter Benjamin giustifica la costruzione di miti come un’appropriazione del passato: «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato davvero”». Il «proprio come è stato davvero» era il famoso programma dello storico Leopold von Ranke, il cui scopo era disciplinare con rigore metodologico le ricerche storiche. Quell’articolazione ha però per Benjamin il senso di «impossessarsi di un ricordo così come balena in un attimo di pericolo»; ma poco più avanti aggiunge anche: «bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla». La procedura genealogica che abbiamo seguito non ha solo un compito di demistificare. Non si tratta di sostituire una narrazione con un’altra. In materia di origini ci si imbatte anzitutto in problemi dovuti alla insufficienza irrimediabile di documenti, ai silenzi delle fonti, ai vuoti che occorre tentare di riempire, specialmente in una storia della moneta, perché in essa, forse più che in altri campi delle conoscenze storiche ed economiche, i “resti” del passato sono molto – troppo – selettivi. L’altro aspetto da non sottovalutare in un approccio genealogico è la stessa costruzione del mito, che va posta sotto la lente di osservazione. Cominciamo brevemente da questo per anticipare quanto affrontato con maggior dettaglio nei capitoli di questa parte. La mitologia monetaria “costruita” da Menger narra di una linea evolutiva, continua, per fasi ascendenti a partire dalla situazione iniziale del baratto e poi raffigurante una successione di ulteriori situazioni: prima si attribuiscono funzioni di mezzi di scambio a vari tipi di merci (persino ingombranti come buoi e pietre o minuscole come conchiglie), poi si coniano le monete vere e proprie, e, infine, si giunge alle monete fiduciarie di epoca moderna e contemporanea. Questa costruzione, che è del tutto artificialmente mitologica, è frutto, da un lato, di una specifica radice storica e, dall’altro, di un’istanza politica, cioè di quell’«attimo di pericolo» richiamato da Benjamin. Iniziamo in maniera molto schematica dall’occasione storica. Sulla moneta come concetto, e come prassi, ha funzionato la “trappola” (intellettuale) tesa da Locke e da Newton per “desovranizzare” la moneta attraverso p Questo E-book a 7 - Le teologie del credito e della moneta 181 una riforma radicale, rivoluzionaria per molti versi, consistente nel far aderire perfettamente il valore nominale della moneta coniata al valore intrinseco (v. il par. 10.2). Un progetto completato poi con l’impressione dell’iscrizione valoriale sul conio, divenuta universale dopo le riforme dei pesi e misure poste in atto con la Rivoluzione francese. La Rivoluzione, nel dar certezza alle misure, fornisce alla moneta quell’ultimo certificato di garanzia che fino ad allora era mancato. Da allora in poi, in tutte le monete, la zecca di ogni nazione civile imprime due banali descrittori: i) la denominazione (lira, franco, ecc.), e insieme ii) la quantità (50 cent., 1, 2, 5 e così via). Prima di allora, le monete coniate non avevano nessuna precisa descrizione che richiamasse, a chi se le trovava tra le mani e prima che potesse “valutarle” nel modo che vedremo, né come “si chiamavano”, né quanto valessero. Tutto ciò era rimesso alle leggi monetarie, che ne avevano ordinato l’emissione e, per ottenere maggior precisione, a una bilancia da orefice con la quale poterle pesare (v. anche par. 10.2). La non “trasparenza” aveva precise ragioni politiche, perché rendeva possibile a un principe e a uno Stato il compimento di azioni, molto note agli storici economici medievisti e di età moderna, definite in gergo “mutazioni monetarie”, cioè una sorta di proto-politiche monetarie, esercizi di “signoraggio” non sempre facili da mandare a buon fine per i disordini indotti nella circolazione. Per intenderci, dopo Locke e Newton, e dopo la Rivoluzione francese, finisce un’epoca e se ne inaugura un’altra, nella quale, per un lungo periodo, si tenta di costruire una moneta (del tutto artificiale, ma, paradossalmente, chiamata “naturale”) che sia definitivamente sottratta ad ogni subordinazione alla sovranità politica. Sulla moneta, resa finalmente una pura merce, eguale a tutte le altre, si forma, almeno fino al 1914, un solido pilastro per un’economia di laissez faire, che, però, si rivelerà anche come una enorme illusione (vedi cap. 12). Veniamo adesso agli aspetti politici sottesi al mito costruito da Menger. L’operazione di neutralizzazione e depoliticizzazione della moneta era, in realtà, più che una riforma economica, una finissima operazione politica (negata in quanto tale dai propugnatori, a partire da Locke e Netwon). Quali erano le sue conseguenze? Lo Stato vedeva fortemente ridimensionate le proprie 182 Parte II - Moneta e debito prerogative di sovranità monetaria. Tale sovranità era quasi completamente castrata, sterilizzata, se si esclude la valvola di sicurezza che rimaneva alla sovranità politica e che era rappresentata dalla creazione di cartamoneta affidata a banche di emissione (centrali), controllate e gestite da banchieri privati fino a circa la metà del XX secolo in molte economie avanzate. In che cosa consisteva l’obiettivo politico sia degli interventi sulla moneta sopra visti che della costruzione “mengeriana” di una storia monetaria artificiale e mistificante? Si trattava di praticare la politica di evirazione monetaria dello Stato, che consisteva appunto nell’assegnare a banchieri e finanzieri la completa gestione delle operaziogm ni creditizie e finanziarie. La creazione di crediti (e di debiti) era 00@ .e20 perciò sotto il pieno dominio privato. Il credito, in varie forme e n o imclassiche in una vasta gamma di strumenti tecnici, comprese le s i f f o in mano al cambiali e note di credito trasferibili, era sì a unrpotere e n composito settore privato dell’economia (quello dei mercanti e ie t r a banchieri), ma aveva i suoi punti deboli nella presenza del rischio aeplopsforzo k e nella difficoltà di gestirlo, era quello di trovare meco o -bsicuri E canismi più o o meno per rendere tali strumenti ampiamente stsia tra gli stessi banchieri che su mercati ben organize negoziabili u Q zati, capaci di consentire la valutazione e i trasferimenti dei rischi e la formazione dei prezzi. Mercati mobiliari ampi si formarono però solo con la presenza e l’espansione dei debiti pubblici, che per le banche furono un’attività liquida1 per mezzo della quale gestire meglio i propri portafogli di attività, in cui i titoli rappresentativi di tali debiti, con la loro quasi assenza di rischio, andavano a compensare le operazioni più rischiose e meno liquide. Le 1 Il concetto della liquidità sarà ripreso più volte. Ogni risparmiatore, ma anche l’investitore professionale – ricorda Keynes (1936, 341 [12, V]) – ricerca di investire parte del proprio patrimonio in attività facilmente rivendibili su «mercati di investimento organizzati avendo di mira la cosiddetta “liquidità”», ma aggiunge Keynes: «Fra le massime della finanza ortodossa, nessuna è per certo più antisociale del feticcio della liquidità, la dottrina che sia virtù positiva da parte delle istituzioni di investimento concentrare i propri mezzi sul possesso di titoli “liquidi”. Essa dimentica che non esiste liquidità dell’investimento per la collettività in complesso. Lo scopo sociale dell’investimento consapevole dovrebb’essere di sconfiggere le oscure forze del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuro». Qu 7 - Le teologie del credito e della moneta 183 banche si dotarono però di un ulteriore strumento, molto potente: con i depositi, trasferibili con un tratto di penna su uno chèque, poterono assimilare le proprie passività a breve (appunto i depositi) alla moneta, data la stretta parentela tecnica di quest’ultima con un mezzo di pagamento (l’assegno o chèque) reso di facile trasferimento attraverso sistemi di giroconto in un sistema bancario sempre più integrato. I privati (banchieri e operatori commerciali in genere) estesero così le loro operazioni su una scala molto più ampia, estesa in spazi sempre maggiori, attraverso la creazione (ex nihilo) di strumenti creditizi liquidi quasi quanto pura moneta. Per quanto i monetaristi (v. par. 13.1) si siano ostinati a definire come moneta solo una moneta di “base” costituita da mezzi di pagamento “puri”, Kindleberger (1981, 57) ricorda che, tuttavia, le banche creano «nuove forme di moneta per aggirare l’ostacolo» che vincolerebbe la loro offerta di credito, tra l’altro rivolta verso attività che per loro natura non sono affatto liquide, ma in contropartita delle quali possono offrire passività a breve, accettabili per comodità e sicurezza dai risparmiatori. Vista sotto questo profilo, la storia della moneta e del credito è un processo continuo di innovazioni e di ridefinizione degli strumenti monetari, che, lungi dall’essere “neutrali” rispetto all’economia reale, influiscono effettivamente sul livello dei prezzi ma anche della produzione. Le lunghissime diatribe sulla moneta “neutrale” – di cui diamo cenni nel cap. 13 – possono perciò esser lette come ricerca incessante di quell’attività finanziaria “liquida” che possa essere uno strumento appropriato per stabilizzare il credito e l’economia. L’operazione politica, che era alla base del mito monetario inventato da Menger nel XIX secolo, finiva per conferire al mercato una piena sovranità, assegnandogli il compito di allentare o restringere i cordoni della borsa a cui attingono le emissioni di titoli del debito pubblico e, quindi, di fatto esautorando la sovranità degli Stati nelle decisioni di eccedere in spese rispetto alle entrate fiscali2. La relazione (posizione) di dominio da parte del capitalismo finanziario nei confronti dello Stato, costretto all’indebitamento pubblico anche per merito del suo governo in mano alla borghesia stessa, viene espressa con magistrale chiarezza da Marx: «L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della 2 184 Parte II - Moneta e debito Insomma, la dipendenza dello Stato dal mercato era assicurata senza ricorrere a regole costituzionali o altri artifici3. La moneta mantiene comunque un privilegio rispetto alle altre attività finanziarie, anche rispetto a quelle più “liquide” (come, per esempio, le cambiali private a breve scadenza): quello di essere la chiave di volta per dar stabilità al sistema quando gli altri strumenti creditizi vacillano o entrano in crisi. Tutta la storia dell’evoluzione che trasforma le banche di emissione in vere e proprie banche centrali può esser vista attraverso questa griglia interpretativa, attraverso cui si osserva un potere sovrano che rivendica i suoi attributi di potere politico, e, quindi, si riappropria di prerogative che i privati avevano indebolito o persino sottratto del tutto; peraltro, per questa riappropriazione di sovranità politica, tramite la creazione della banca centrale, è complice il fatto che gli stessi operatori privati trovano, a un certo punto, conveniente non mantenere (a causa dei rischi sopra accennati) ma delegare il potere monetario e di mantenimento della stabilità finanziaria allo Stato, sebbene solo temporaneamente nei periodi di difficoltà e negli stati di eccezione. Quindi, viene così di nuovo riconosciuto allo Stato uno dei segni dell’ordine e del potere, quello monetario. È vero, infatti, che la moneta nell’epoca attuale, demercificata e senza pegno di collaterale, ha i caratteri di uno stato di eccezione; si tratta però di uno stato di eccezione particolare, in cui non resta definito né chi lo dichiara, né chi ne dichiara la fine, e che lascia aperto il conflitto interno frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che investe i suoi capitali in rendita dello Stato» (Marx 1850, 377). 3 Come sostiene Streeck (2013), nelle odierne democrazie occidentali ci sono due elettorati in conflitto: i) i cittadini o il popolo che votano per i propri rappresentanti politici i quali dovrebbero guidare lo Stato secondo gli obiettivi del popolo elettore; ii) i mercati (il popolo dei mercati, o meglio dei capitalisti internazionali) che comprano e vendono i titoli di Stato e che decidono se lo Stato debba rimanere a galla o affondare. to Q s ue 7 - Le teologie del credito e della moneta 185 to es Qu sulla moneta, come conflitto, in definitiva, sulla liberazione dal debito. Il mito della moneta, che la intende come una moneta-merce e la pretende anche neutrale, costruito a fini politici, pare sorto, per reazione, dal ricordo balenato «in un attimo di pericolo», per il terrore di un «flagello» finanziario – come quello di Law del 1720 agli occhi di Michelet –, un flagello che, da disordine monetario degenera poi anche in disordine politico. Il mito è, in questo caso, creazione laica di un feticcio sacrale per imporre allo Stato di non profanare regole auree. In epoca moderna, i sacerdoti della moneta sono i banchieri, coloro che una volta erano considerati i sacrileghi di cose sacre. Essi si sono generalmente insediati nel sancta sanctorum del credito, anche per decidere quanto e a che condizioni esso può esser concesso a Stati “sovrani”. Ma il mito della storia monetaria costruito da Menger e fatto proprio da storici ed economisti ortodossi, in particolare dai pensatori del neo-ordoliberalismo oggi dominante, principalmente per le motivazioni politiche sopra evidenziate, è appunto una costruzione che ignora o nasconde i due fondamenti imprescindibili per una storia monetaria: le origini e la natura della moneta e del credito. Il credito-debito originario, quello che le teologie trattano come colpa perpetua o come fardello da redimere, affligge le società arcaiche e precapitalistiche che, generalmente, lo risolvono in maniere radicali, senza bisogno di ricorrere a gettoni monetari, come quelli utilizzati per i piccoli pagamenti (vedi più avanti i cap. 10 e 11). È alle intricate relazioni tra creditori e debitori che bisogna far riferimento per comprendere la natura, non solo l’origine, della moneta. Il credito risolve le negoziazioni e gli scambi, purché ci sia un sistema di scritture e di segni contabili, anche senza bisogno di altri strumenti materiali, se non i pegni, da offrire in contropartita. Anche nella teologia monetaria lo spirito aleggia prima di incarnarsi. È lo spirito del credito, strettamente legato all’oscuro primigenio germe della colpa e della redenzione, che si trasforma in “ostia”. Il nesso direzionale è genealogicamente chiaro: dal credito alla moneta. Il paragone con la transustanziazione è, non a caso, ricordato da Hume, laddove sta parlando di promesse e ripreso, più volte, da Marx in riferimento alla trasfor- ok bo E- e en rti pa ap a ro e. on im ffis 0@ 0 20 m .co ail gm E-bo ok a 186 Parte II - Moneta e debito Ques to mazione dalla forma ideale di valore a quella reale di moneta. Al debito occorre trovare una o più exit strategies per assolvere o sciogliere l’obbligazione originaria. In questa prospettiva anche la moneta, moneta-merce o moneta-segno, poco importa, è una soluzione, nel senso proprio della funzione monetaria di liquidare un’obbligazione, di annullarla definitivamente. Il mito “artificiale”, che attribuisce origini materiali, evoluzionistiche, utilitaristico-funzionali alla moneta, doveva rovesciare la vera originaria causalità e far nascere anche il credito dalla moneta, e non viceversa. In quel modo, dal mito nasceva la “prefigurazione” (il mito offriva il suo servigio all’azione politica, – anche qui secondo un fondamento teologico – «affinché si adempia tutto quello che è stato scritto», Lc 21, 22) di lasciare la moneta, come qualsiasi altra merce, al solo “governo” della domanda e dell’offerta (cioè alla teologia “naturale” del mercato teorizzata dal fondatore dell’economia politica Smith, e ripresa, sotto mentite spoglie secolari, dai neoliberali Hayek e Friedman), di rimuovere il terrore del flagello finanziario, e, di conseguenza, legittimare il prezzo del denaro, anche quello stabilito dagli Shylock. I concetti dell’economia monetaria, come si vede, sono inestricabilmente concetti teologici. Il debito originario, come il peccato, conosce la sua redenzione, come via di salvezza. La casta dei banchieri detiene da secoli saperi esoterici, che però sono anche, al tempo stesso, per molti versi, poteri banali e quasi triviali, come nel racconto di Schumpeter (1954, 391n.) del guardarobiere che ha l’abitudine, ingegnosa o fraudolenta che sia, di approfittare del fatto che i clienti lasciano i soprabiti nel guardaroba del ristorante per noleggiarli: finché noleggia i soprabiti lasciati nel guardaroba del ristorante, mentre i clienti pranzano, si espone forse a qualche rischio, ma se, come nel caso della banca, «due persone – proprietario del soprabito e colui che lo prende a noleggio – vestano contemporaneamente lo stesso soprabito», allora la cosa assume tutto un altro aspetto. Il miracolo o la magia del credito salta agli occhi con la stessa potenza misteriosa della verità e dell’imbroglio descritta nel capolavoro di Melville The confidence-man. Capitolo 8 STATO E MERCATO: UNA GRANDE DICOTOMIA MODERNA 8.1. Le tensioni tra teologia politica e teologia economica Questo E-book a questi stessi distruttori di fiducia e filosofi menagramo del mercato azionario, sebbene falsi in sé, sono gli autentici esemplari di quasi tutti i distruttori di fiducia […] Ecco, se qui ci fosse un qualche filosofo menagramo, un orso teologico, che non manca di cogliere l’occasione per brontolare e abbassare le quotazioni della natura umana [...] direbbe che è il segno di un cuore che si indurisce e di un cervello che si rammollisce. (Melville 1998, 67 [cap. 9]) ppartiene a roffis i nostri possessori di merci pensano come Faust. In principio era l’azione. […] l’azione sociale di tutte le merci esclude una merce determinata nella quale le altre rappresentino universalmente i loro valori. […] Mediante il processo sociale, l’esser equivalente generale diventa funzione sociale specifica della merce esclusa. Così essa diventa – denaro. “Costoro hanno un medesimo consiglio: e daranno la lor potenza e podestà alla bestia. E che nessuno possa comprare o vendere, se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome. (Apocalisse)” (Marx 1867, 105-6 [I, 2]) In luogo dell’annunciata fine della storia, si assiste, infatti, all’incessante girare a vuoto della macchina, che, in una sorta di immane parodia dell’oikonomia teologica, ha assunto su di sé l’eredità di un governo provvidenziale del mondo, che, invece di salvarlo, lo conduce – fedele, in questo, all’originaria vocazione escatologica della provvidenza – alla catastrofe. (Agamben 2006, 34) imone.2000@gm La categoria della teologia economica integra e si collega, in maniera antinomica, a quella della teologia politica. La teologia economica definisce il senso della secolarizzazione e della divisione tra regno e governo nella tradizione occidentale. Il termine “teologia politica” fu introdotto, e a lungo elaborato, da Carl Schmitt a partire dal saggio del 1922 (Schmitt 1922), come concetto secolarizzato della filosofia della politica e del diritto. Il problema attor- ail.c a pp a k o -bo Qu E esto 188 Parte II - Moneta e debito no al quale ruota l’intera sua analisi è quello della fondazione di un ordine giuridico e di condizioni per rendere efficaci le norme che lo definiscono. L’autorità che ha potere di creare l’ordine giuridico e di prendere la decisione fondativa è un soggetto sovrano, colui cioè che dichiara lo “stato di eccezione”. La decisione originaria è perciò stabilire lo stato di eccezione per sedare le forze distruttive presenti nella società. I riferimenti costanti di Schmitt sono Machiavelli, e, soprattutto, Hobbes, al quale ha dedicato importanti studi (Schmitt 1986). Lo stato di normalità, nella visione schmittiana, è fragile, forse anche transitorio, posto tra uno stato di eccezione che lo instaura e un altro che, se necessario, lo ripristina e lo salva in caso di collasso dell’ordine costituito. L’autorità sovrana che può dichiarare lo stato di eccezione ha il proprio fulcro in un’“anima” spirituale che elabora le proprie formule politiche in un linguaggio di derivazione teologica, ed è perciò a quel sistema di immagini e termini a cui occorre far riferimento per scandagliare l’interezza delle azioni umane e della vita associata che si esplicano inevitabilmente nella politica e nello Stato, senza più le distinzioni che caratterizzavano il pensiero politico liberale volte a separare la società civile dallo Stato. In Schmitt lo Stato è “totale” (v. par. 8.3) perché tutto è “politico” e non può la tecnica sostituirsi come fondamento, in epoca contemporanea, a quello che era la religione per gli Stati di età moderna. La definizione concettuale di “politico” porta Schmitt a «ricondurre le azioni e i motivi politici» entro l’antitesi di amico (Freund) e nemico (Feind) (Schmitt 1932, 108); concetti antitetici da considerare «nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli» (idem, 110). Il concetto del “politico” dicotomizzato nell’antitesi amico/nemico non è certo quello del liberalismo che riduce il nemico, nell’economia, al concorrente (competitor) e, nella politica, all’avversario nella discussione; quella del “politico” non è questione riconducibile alla normatività, ma al realismo, come «possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica» (idem, 111). Agamben (2007, 14-5) considera un doppio paradigma in cui quello teologico-politico schmittiano si integra con quello teologico-economico secolarizzato, di tipo “gestionale” e “governamentale”. Se la teologia politica individua nella secolarizzazione il di- 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 189 Qu stacco politico dal divino e vede la sovranità ancora ammantata in un’aura sacrale, la teologia economica ravvisa le radici lontane dalle quali si sviluppa tutta la moderna azione di governo separata dalla stessa sovranità. La separazione interna al potere tra sovrano e governo, mostrata da Agamben (2007), crea una tensione tra i due poli che ha esiti diversi con l’assorbimento delle istanze della gloria del regno nell’immanente governo delle azioni umane. Infatti, se la teologia politica fonda il potere sovrano sull’unicità e sulla trascendenza divina, la teologia economica si riferisce a un ordinamento immanente, a un meccanismo domestico, non strettamente politico, a dispositivi tecnici di disporre la vita umana in rapporto ai beni e agli strumenti pertinenti a governarla. È il dispositivo governamentale della biopolitica, cioè del trionfo finale dell’economia e delle ragioni economiche su ogni aspetto della vita sociale e individuale. La genealogia della teologia economica è ovviamente un compito complesso e solo recentemente esplorato. Come nota Agamben (2006, 2007), i padri della Chiesa nei primi secoli (II-VI secolo d.C.) ripresero il concetto aristotelico di oikonomia, come gestione (management) della casa, sottolineandone il significato di “prassi”, specifica ad ogni problema particolare, per applicarlo alla teologia. In particolare, il concetto risultò efficace come soluzione al difficile e aspramente dibattuto concetto della Trinità, tre figure divine in una, al limite fra le interpretazioni polari “monarchiane” di un unico Dio e quelle para-gnostiche di una pluralità di divinità, magari in conflitto fra loro (Agamben 2006, 16-7). Detto più semplicemente, la patristica risolse il problema trinitario assumendo l’unicità divina in essenza, ma la pluralità divina nella prassi. Dio è unico nella sovranità (il Regno), ma quanto all’amministrazione del mondo creato (il Governo) si affida al Figlio, appositamente incarnato per la gestione – in nome della provvidenza – degli uomini e della via per la salvezza finale. L’economia della salvezza1 si basa su un insieme di regole, riti, prassi, saperi, misure, istituzioni (il calcolo razionale, la passione acquisitiva, il mercato, la concorrenza ne sono i più moderni elementi, rispetto a quelli pre-moderni come to es ok bo E- en rti pa ap 1 Per il suo compito nella gestione economica provvidenziale del mondo, come nota incisivamente Agamben, «in alcune sette gnostiche, Cristo fini col chiamarsi “l’uomo dell’economia”, ho anthrōpos tēs oikonomias» (Agamben, 2006, 17). e a 190 Parte II - Moneta e debito ok -bo oE est Qu la guida pastorale) il cui scopo è di gestire, governare, controllare e orientare i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini nel senso del bene o della storia della salvezza. Naturalmente la frattura teologica fra l’ontologia e la prassi divina si trasla parallelamente in quella mondana fra regno e governo, fra sovranità ed economia. Per quanto riguarda il soggetto umano, nel mezzo della scissione fra la sostanza (la vita umana) e l’azione (l’insieme dei dispositivi di governo della vita, ovvero l’economia in senso lato), ci sta l’identità soggettiva, sempre plasmata e catturata dagli strumenti economico-governamentali e quindi mutevole con le mutazioni dei medesimi. La recente trasformazione dei dispositivi economico-governamentali nel senso indicato dal pensiero neo-ordoliberale ha significato anche una nuova soggettivazione: il soggetto viene catturato “liberamente” dall’economia, che lo plasma (v. III parte). Il dispositivo economico è una macchina di governo soprattutto nella misura in cui plasma vite – paradossalmente – libere ed obbedienti, che, secondo Foucault, nel processo di assoggettamento creano “liberamente” la loro identità di soggetti assoggettati. Questi aspetti sono fondamentali per la comprensione sia del capitalismo moderno come religione in generale, già intuito da Benjamin (v. par. 2.2 e 6.4), che nella sua contemporanea specifica veste neo-ordoliberale basata sulla riduzione del soggetto umano a “capitale” sotto la legge della concorrenza (v. par. 6.5 e parte III). Un ambito della teologia economica finora poco esplorato, ma che, a nostro avviso, presenta i tratti più marcati della sua origine teologica è proprio quello dell’economia monetaria. In essa, e nella sua storia, appare più evidente sia la frattura fra sovranità ed economia che la continua tensione fra questi due poli, come emergerà nel seguito di questa parte II. Lo stesso Rousseau distingue tra la sovranità e l’«economia pubblica» (che chiama anche il “governo”) e che «consiste nel fatto che una ha il diritto legislativo e può talvolta sottomettere il corpo stesso della nazione, mentre la seconda non ha che il potere esecutivo da esercitare soltanto sui singoli privati» (Rousseau 1755, 101). Rousseau tocca un punto nevralgico del paradigma della teologia economica e, nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne, individua i limiti della separazione tra sovranità e governo: app en arti -b 191 Qu E esto 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna Uno dei maggiori inconvenienti dei grandi Stati, quello fra tutti che fa della libertà la cosa più difficile da conservare, è che il potere legislativo non può mostrarsi direttamente, e può agire solo per deputazione. La cosa include aspetti buoni e cattivi, ma il male supera il bene. È impossibile corrompere il legislatore, collegialmente, ma ingannarlo è facile. I suoi rappresentanti, invece, sono difficili da ingannare, ma facili da corrompere, e raramente accade che corrotti non siano (Rousseau 1771-72, 500 [ch. VII]). I limiti della democrazia per grandi numeri erano già stati individuati dai filosofi antichi. Per Rousseau la corruzione è inestirpabile e trova una breccia proprio nella separazione tra la sovranità e il governo. Egli individua la radice della corruzione politica e della sua diffusione nella delega del potere politico dal sovrano a una burocrazia, che si viene a trovare nella funzione delicata di mediazione e può favorire interessi particolaristici in cambio di ricompense (Karsenti 2010). Ma la corruzione non si serve solo della “pecunia”, ma anche di mormorazioni e congiure, e può sconvolgere gli animi: così ne parla Pirandello (in “Difesa del Mèola (Tonache di Montelusa)” da Novelle per un anno): «Vive orrenda tuttora negli animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dai Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumento». Insomma, la corruzione pecuniaria non è la sola, e si accompagna alla segretezza, al tradimento, all’informazione carpita e distorta (Bobbio 1980; e Id. 2011). Le impurità nel corpo politico hanno corrispondenza a quelle che infettano i luoghi del potere. Losano ricorda che autocrazia e democrazia «si fondano su due opposti instrumenta regni: il segreto e la trasparenza (Losano 2017, 675). La tirannia è la sovranità arbitraria, corrotta per l’uso dispotico nell’esercizio del potere, perciò è la forma di sovranità corrotta per definizione e auto-delegittimata perché è il sovrano stesso a tradire la sua legge. Il governo, per avere efficacia e proteggersi dai germi della corruzione, deve ricevere una consacrazione di tipo religioso, che, da un lato, è fonte di rafforzamento dei valori comunitari del popolo, e, dall’altro, si esprime attraverso l’acclamazione popolare del governo medesimo. L’osservazione acuta di Benjamin sul capitalismo come religione si può riallacciare a questa osser- 192 Parte II - Moneta e debito o st ue Q vazione e alla tensione che durante i mesi del Terrore spacca il fronte giacobino in due schieramenti radicalmente contrapposti e va letta anche attraverso la polarità sovranità - governo, che non è solo una schermaglia di tipo politico-amministrativo, ma nella stessa gestione della Rivoluzione acquista valenze imprescindibili per il tipo di governo dell’economia e della società. La Rivoluzione francese, che, peraltro, ha anche un riferimento diretto in Benjamin, è un momento rilevante per il tema sovranità-governo perché in essa si consuma uno dei fondamentali passaggi politici dall’antico al moderno e, si può dire senza esitazioni, che essa costituisce un termine di paragone di ogni riflessione sulla politica, e non solo sulla politica dall’inizio del XIX secolo in poi. L’economia, da governo originario su uomini e cose per amministrare con cura l’ambiente domestico secondo le disposizioni padronali, diventa tecnica per affrontare situazioni di risorse scarse. Il concetto di scarsità di mezzi ha la propria immagine speculare nel concetto di bisogni illimitati, formati da un’avidità smisurata e da desideri non placabili; i due concetti attivano forze contrapposte che bisogna comporre in modo strumentale, cioè si deve fare fronte al massimo di bisogni possibile col minimo uso possibile dei mezzi scarsi. Proprio questi ultimi – la limitazione nella disponibilità di tempo e nella dotazione di risorse – impongono scelte su come disporne per soddisfare molteplici bisogni, e nel processo di scelta di quali e quanti bisogni soddisfare sotto il vincolo di tempo e risorse limitate si trova un punto di equilibrio in cui possono essere soddisfatti solo certi bisogni a fronte di desideri illimitati. La mentalità acquisitiva si forma e si radicalizza con il cambiamento di atteggiamento nei confronti dei beni di lusso, che da oggetti futili per soddisfare una vanità cortigiana sono ammessi nel rango di “necessità e bisogni”, diventando così un caposaldo normativo dei desideri. L’opposizione tra desideri e bisogni è un dualismo essenziale e persistente, già individuato da Aristotele nell’opposizione fra crematistica naturale e innaturale, corrispondente a quella, rispettivamente, fra economia del bisogno ed economia del desiderio; la percezione di tale opposizione viene, però, a sfumare nel corso del XVII-XVIII secolo. Inizialmente i desideri sono considerati insaziabili e incostanti, frutto di vanità e sregolatezza, mentre i bisogni sono ok bo E- e en rti pa ap a ro o m si ffi 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 193 virtuosamente definiti e stabili; in questo senso il bisogno era un principio fondamentale di temperanza e naturalità per filosofi e moralisti da Platone in poi, un parametro per non eccedere, né in un senso né nell’altro. Tuttavia, con la rivoluzione dei costumi indotta da una prorompente economia mercantile nel corso dei secoli qui ricordati, i bisogni, tradizionalmente intesi, iniziano a cambiar pelle per le classi alto borghesi e basso aristocratiche, che nutrivano ambizioni di accedere ai ranghi più alti della società, fino ad allora considerati sede di corruzione morale. L’assimilazione dei desideri ai bisogni fu un momento di una rivoluzione più ampia dei costumi. Per le categorie nascenti dell’economia, tale assimilazione influì sul senso di un distacco sempre più netto dai valori morali tradizionali, perché anche i desideri – temperati o smodati che fossero – potevano essere avvertiti e sentiti come semplici manifestazioni di preferenze progressive in una società che si civilizza togliendosi di dosso i panni della miseria (Berry 1994, 177; ed Elias 1992). Con la consapevolezza di una scarsità di strumenti a fronte di finalità sfrenate, immoderate, iniziano a definirsi comportamenti razionali e massimizzanti2. Quel che qui interessa non è tanto ragionare sui fondamenti dell’episteme dell’economia, quanto considerarlo in quella prospettiva che ne fa uno dei cardini della secolarizzazione. Il punto di tensione e di rottura trova un vertice nella Rivoluzione francese, nella quale giunge a compimento uno scontro che ha come origine la moderna dottrina dell’economia politica intesa da un Dupont de Nemours (De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, 1768) quale scienza «dell’ordine naturale», ordine illustrato da Quesnay nel Tableau économique (1758). Governare significa seguire l’«ordine naturale» della società. Dupont de Nemours pone l’ordine naturale «tra il sovrano e la nazione» in un governo sospeso tra questi due termini, come elemento che li unifica3. Ogni alterazione di tale ordine derivante dalle istituzioni umane genera la situazione 2 Sulla definizione di “economia” si rinvia alla nota tesi di Robbins (1932), recentemente ripubblicate nel 2018. 3 Il passo seguente si riferisce proprio a questo e richiama il principio fondamentale della teologia economica come governo del mondo: «La comunità d’interessi tra il sovrano e la nazione, evidentemente stabilita per la divisione pro- Que sto E -boo k ap pa Parte II - Moneta e debito 194 di scompiglio, di caos dispotico. L’economia come nuova scienza rintraccia sotto le sedimentazioni istituzionali della storia, le leggi per riportare armonia, una volta estirpate le strutture di privilegio e di restrizione alle libertà. L’ordine naturale governa il mondo come un’organizzazione provvidenziale della società. Turgot nelle Refléxions sur la formation et la distribution des richesses (1776), pubblicate nello stesso anno di An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations di Smith, aveva individuato il problema principale dell’economia nello scarto tra l’avarizia della natura e i bisogni dell’uomo. I desideri, smisurati e innaturali, sono ormai santificati e ammessi nel cuore dei bisogni, quindi, come espressione della vita naturale, affettiva e spirituale dell’uomo. L’istinto che spinge l’uomo ad andare oltre il minimo necessario per sopravvivere, o del vivere “beato” dei moralisti, diventa propellente per raggiungere il benessere. La ricerca del benessere è la nuova formula che va a rimpiazzare il classico viver bene. Infatti, osserva Turgot, «la natura non tratta affatto con lui [cioè con l’uomo] per obbligarlo a contentarsi dell’assolutamente necessario» (Turgot 1844, t. 1, p. 11 [I § VII]). La preghiera del “dacci oggi” resta un’invocazione senza possibilità di trattativa mercantile. Il bisogno non è negoziabile, è necessità vitale, dono di vita. L’allontanamento della divinità dal mondo costituisce l’altro importante tassello nella costruzione di un’etica morale di laboriosità e di razionalità. La laboriosità comune del contadino e dell’artigiano non è una spinta naturalmente autopropulsiva. In una nota, Dupont de Nemours, a commento delle posizioni di Turgot, aggiunge quanto sia importante abbandonarsi alle disposizioni della natura per goderne dei vantaggi. Le leggi di natura e la bontà della Provvidenza – osserva – lottano, di solito con successo, contro le follie e anche contro i crimini degli uomini; ne rimediano i tristi effetti. Cosa accadrà quando gli uomini diverranno abbastanza illuminati per non opporre resistenze, se non debolmente, alle leggi di natura, in modo da gioire in pace e con riconoscenza dei benefici del cielo? (Dupont de Nemours 1844, t. 1, 71). Que sto E-b porzionale del prodotto netto del territorio, è il garante più sicuro dell’osservanza delle leggi dell’ordine naturale» (Dupont de Nemours (1768, 358 [§ XVIII]). ook app 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 195 -b e s t oE Qu Ma la natura richiede all’uomo di piegarsi alle dure necessità del lavoro. E l’uomo che riconosce nella natura l’operare dell’ordine provvidenziale non deve opporvi resistenza. Era così in un mondo in cui l’economia preindustriale e precapitalistica costringeva l’uomo a estrarre mezzi di sussistenza con un lavoro estenuante. Una volta fuori dall’Eden, la generosità della natura riversa i suoi doni solo con molta parsimonia. La liberazione compiuta da Prometeo consegnando agli uomini il fuoco, ovvero la tecnica, cambiava l’ordine delle cose: la natura continuava a sembrare poco generosa solo perché i bisogni (nella versione di “desideri”) erano diventati (artificiosamente) illimitati e inappagabili. L’operosità che rischiava di essere appannaggio di fanatici stakanovisti, ritornava a essere spronata dalla concorrenza di tutti contro tutti per ottenere di più e di meglio. Nel paradigma della teologia trinitaria, il solo regno dell’inoperosità è quello proprio della sovranità, mentre l’operosità è relegata (e delegata) nella sfera dell’oikonomia, nella quale opera la provvidenza e dove, appunto, si concilia «la trascendenza di Dio con la creazione del mondo» (Agamben 2007, 81). Lo stesso paradigma di separazione tra il regno e il governo si afferma soprattutto nel corso del XVIII secolo, con la teoria politica liberale e con le prassi istituzionali relative, poi riassunte nel motto, forse coniato da Thiers e ripreso da Schmitt, «il re regna, ma non governa». Motto, questo, che non si riferisce solo alla separazione dei poteri, ma che ammicca, soprattutto, a un potere istituzionale svuotato. La separazione fra regno e governo è simbolicamente rappresentata dal “trono vuoto”, in quanto il re ha delegato i poteri amministrativi e di governo a una burocrazia permanente di ausilio a governanti pro-tempore. Agamben (2007, 11, 211-2, 266-8) sottolinea, appunto, tale concetto con l’immagine del trono vuoto quale simbolo della gloria e della sovranità che regna ma non governa. Ortega y Gasset associa significativamente l’imperium all’intrapresa. Si riferisce all’origine del comando assoluto in una società ancora tribale come quella delle orde latine; per esse imperium e imperare, era inteso nel senso di comando e comandare, una derivazione da im-parare, «cioè di “preparare tutto il necessario per un’impresa, organizzare una impresa”. L’imparator è quindi qual- pp ook a arti en ea o r o f f isim 00 ne. 20 Parte II - Moneta e debito 196 cosa di simile all’imprenditore» in una società senza un’organizzazione stabile con funzioni proprie di uno Stato, di un esercizio di un potere pubblico (Ortega y Gasset 1978, 103-4). L’imperator è perciò imprenditore, uno che mette ordine, decide e dispone cosa fare; è uno che comanda non di diritto, ma di fatto. Il passo successivo, che spiega l’evoluzione istituzionale dell’organizzazione del potere e il superamento dei clan, è quello dell’insediamento di un rex, di una regalità, cioè un «rettore, poiché regge o dirige i riti religiosi, i sacrifici – rex sacrorum – […] l’insieme degli atti sacri». Il rex esercita l’imperium, è capo permanente, generale dell’esercito, legislatore, giudice supremo, perché ne ha diritto in quanto «il popolo crede che gli dei lo vogliono», e per discendenza di sangue rende efficaci i sacrifici, possiede una «grazia magica», ha il charisma, che in greco designa la vicinanza agli dei, qualità indispensabile per proteggere la comunità (Ortega y Gasset 1978, 116). A quel punto la distinzione tra un momento civile e un momento bellico diventava sempre più netta e imperator era colui che prendeva il comando dell’esercito, aveva un potere assoluto e illimitato, anche di vita e di morte sui militari in situazioni di emergenza, ma – come sottolineato da Cesare nel libro III della Guerra civile – quel potere si contrappone – proprio nella sua essenza – a quello del legato (legatus), che era sottomesso a quanto gli era prescritto4. Nella Roma antica l’imperator era tale per conferimento di un potere eccezionale in tempo di guerra, senza però esercitare alcun potere dentro l’urbe nella quale «regnava sola l’autorità, e l’autorità è […] la legge impersonale» e il depositario della legge era «magis degli altri, era maggiorato, era magister e magistrato», a differenza dell’imperatore, e, in quanto magistrato, «l’uomo si tramutava in un automa della legalità», «la sua personalità umana usciva dal suo corpo, e nel vuoto della sua persona si installava l’entità anonima che è la legge» (Ortega y Gasset 1978, 72). C’è un aspetto importante, confermato anche in questi passaggi di Ortega, e riguarda la posizione del sovrano, il rex, che riceve un’investitura sacra. La consacrazione, il sacre, è la ceri- Q ue st Come denotato dall’accezione originaria del termine legatus, participio perfetto del verbo legare, esso svolge la funzione di delegato, cioè di incaricato da un superiore a rappresentarlo per svolgere un compito specifico. 4 o E- bo ok ap pa 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 197 monia dell’unzione con la quale la regalità si trasferisce nei re di Francia a pieno titolo di successione (Bloch 1989). Quell’investitura discende da una «grazia magica». Il carisma nelle dottrine cristiane è una grazia divina, straordinaria: apporta i doni di profetizzare, compiere miracoli, vincere battaglie in condizioni di netta inferiorità, doni che conferiscono un potere speciale di salvezza per l’intero popolo al seguito del suo capo. Mosè nella teologia giudaico-cristiana è capo carismatico per eccellenza. Il carisma è un concetto cardine nella teologia paolina della grazia5, sulla quale lo stesso Max Weber costruisce la sua teoria del leader. Il dominio carismatico è intermedio tra il dominio tradizionale e quello legale-razionale. David Norman Smith (1998) chiarisce il senso di questa medietà del dominio carismatico. Per Weber, il carisma non è una qualità personale ma uno status sociale, e come tale non è permanente, ma, come una credenza o i costumi di una tradizione, richiede un continuo riconoscimento sociale che vincola il capo al gruppo dei seguaci e se quel vincolo si scioglie viene meno anche la rilegittimazione come atto di riconferma, di nuova “unzione” (Weber 1922, l, 239). La posizione dell’autorità carismatica è pertanto precaria, sempre in bilico, non fa concessioni e non ricerca consensi, è riconosciuta per acclamazione. Il riconoscimento avviene per rivelazione, ordalia, o simili procedure, comunque sempre attraverso scelte avvolte in un’aura ultramondana, numinosa, anche nel caso di designazione diretta di un successore da parte del capo carismatico (Weber 1922, I, 244). Sono aspetti questi, che Agamben tratta nella prospettiva della teologia economica e dell’apparato rituale della Gloria, che costituisce il dispositivo tradizionale attraverso il quale si rende efficace l’azione del governo, persino nelle versioni moderne e deviate di stretta osservanza laica come le parate pubbliche, le feste popolari, i mass media, che non solo costituiscono lo sci- Sul carisma S. Paolo, elenca nove facoltà o carismi in I Cor. (12, 11-30) e cinque in Rom. (12, 6, 8). I primi sono: la parola della sapienza, la parola della conoscenza, la fede, la grazia di dar la salute, la virtù dei miracoli, la profezia, la discrezione o discernimento degli spiriti, la facoltà di parlare più lingue, l’interpretazione dei discorsi; ai quali si aggiungono quelli degli apostoli, dei profeti, dei dottori, l’ausilio e il governo. 5 iene a ro Questo E-book appart t s Que 198 Parte II - Moneta e debito volamento secolarizzato di forme rituali religiose, ma svolgono la stessa sostanza di conferimento e, appunto, sacralizzazione di un’autorità civile. Sull’economia si misura in effetti tutta l’efficacia del dispositivo. 8.2. Le fragili fondamenta della comunità di mercato Non è vero che sia prescritta una “libertà naturale” per le attività economiche degli individui. Non esiste alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che posseggono o a coloro che acquistano. (Keynes 1925, 125-6) Il funzionamento della concorrenza non solo richiede un’adeguata organizzazione di certe istituzioni come la moneta, i mercati, i mezzi d’informazione – alcuni dei quali non possono mai essere soddisfacentemente garantiti dall’impresa privata – ma dipende soprattutto dall’esistenza di un sistema giuridico appropriato, un sistema concepito sia per preservare la concorrenza sia per renderla il più possibile benefica. (Hayek 1944, cap. 3) fede è sustanza di cose sperate | e argomento de le non parventi (Dante, Paradiso, XXIV, 64-65) Complementare al non governo del sovrano è la macchina burocratica e governamentale che gli Stati moderni costruiscono pezzo su pezzo in forma di funzioni permanenti, professionali, la quale è, a partire dal XVI-XVII secolo, posta alle dirette dipendenze dell’autorità statale, e non opera più attraverso appalto di servizi, come avveniva con le milizie mercenarie o con la riscossione dei tributi in ancien régime. Riguardo ai “tempi”, Foucault, per il versante della biopolitica6, e Agamben, per quello della teologia economica, giungono a individuare genealogie quasi coincidenti, 6 Foucault (2017a, 13) chiama biopotere «una serie di fenomeni di un certo rilievo, ovvero l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia politica, di una strategia generale di potere. In altri termini, si tratta di capire in che modo la società, le società occidentali moderne, a partire dal XVIII secolo, si siano fatte carico dei dati biologici essenziali per cui l’essere umano si costituisce in specie umana. È il fenomeno che chiamo genericamente biopotere». 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 199 se ci riferiamo a queste due visioni come a un doppio processo di secolarizzazione, che si completa vicendevolmente in due sfere, le quali, fino ad allora, non si erano rese del tutto autonome, anche se il governo economico poteva godere di una debole indipendenza. La costruzione delle fondamenta del mercato è un processo che richiede numerosi passaggi, e minaccia sempre di lasciare il mercato medesimo preda di una sua intrinseca fragilità. La politica e l’economia adottano principi di razionalizzazione a partire da quei secoli. La burocrazia professionale nel primo caso (Richardson 2010), l’organizzazione di segnali e stimoli forniti ai soggetti economici per competere sulle opportunità di scambio, nel secondo, sono i principali pilastri su cui costruire l’architettura del mondo moderno. L’organizzazione dei traffici economici su basi decentralizzate, impersonali e multilaterali si forma attraverso la presenza di una serie di istituti, senza i quali il castello di relazioni mercantili crolla e travolge quanti vi prendono parte. L’acquisto legittimo di un bene (con garanzia di evizione) è di complemento al diritto di proprietà e alla prelazione per rendere mobili i beni e svincolare le stesse terre da una serie di istituti che le rendevano intrasferibili7. Keynes espresse con molta chiarezza lo stesso concetto: Alla fine del secolo XVII il diritto divino dei monarchi cedeva il posto alla libertà naturale e al contratto, e al diritto divino della chiesa subentrava il principio della tolleranza e il concetto che una chiesa “è una società volontaria di uomini” i quali si riuniscono “in modo assolutamente libero e spontaneo”. Cinquant’anni dopo, l’origine divina e la voce assoluta del dovere cedevano il posto ai calcoli dell’utilità. Nelle mani di Locke e Hume queste dottrine originavano l’individualismo. Il contratto presupponeva diritti nell’individuo; la nuova etica, in sostanza nulla di più di uno studio scientifico delle conseguenze di un egoismo razionale, poneva al centro l’individuo. […] Lo scopo dell’elevamento dell’indivi- ue s t o E book Q 7 Si veda, tra l’altro, il senso che Brunner (1983) attribuisce alle terrae (Länder), distinte dai dominia (Herrschaften), che mantennero a lungo l’impronta tribale originaria e disegnavano i limiti giurisdizionali e territoriali di una comunità locale (Landesgemeinde, Landschaft) vista come comunità pacifica del regno germanico. Il dominus e la comunità erano soggetti a norme che facevano riferimento a un Recht trascendente esercitato dal signore con la propria comunità di soggetti. Cfr. anche Bloch (1979). ap Parte II - Moneta e debito 200 duo era di destituire il monarca e la chiesa; l’effetto – grazie al nuovo significato etico attribuito al contratto – fu di rafforzare la proprietà e la prescrizione (Keynes 1925, 109-10). ne p art ie o ka p sto Qu e Ebo on isim f ar of La regolazione dei pagamenti in moneta fornisce ulteriori certezze per la conclusione degli scambi. La creazione di luoghi adibiti alle contrattazioni, sul tipo di forum, piazze, fiere e borse, consente, a coloro che li frequentano per affari, di rendersi immediatamente conto della qualità dei beni. La standardizzazione dei medesimi evita valutazioni e saggi dispendiosi di tempo e di mezzi e, inoltre, evita eventuali frodi. Il passo successivo è la standardizzazione delle merci e il confronto simultaneo delle parti contraenti. Tra i frequentatori più assidui vi sono ovviamente coloro che si presentano o per vendere o per comprare, ma in mezzo ad essi stanno trader professionali, mercanti che intendono effettuare volumi d’affari molto più consistenti e che intervengono su entrambi i lati del mercato, disposti a spostarsi sulla sponda delle vendite o su quella degli acquisti a seconda che fiutino l’affare da un lato o dall’altro. In questo modo emergono con una certa trasparenza gli orientamenti che si stanno prefigurando per le future occasioni di fiera e di mercato, senza che nessuno, in linea di principio, abbia un vantaggio nel formarsi aspettative sull’andamento delle contrattazioni correnti e future. Insomma, si crea un teatro nel quale gli attori sono anche coloro che assistono alla rappresentazione. Il copione è stabilito come in una corsa di cavalli di razza. In borsa tutto questo si perfeziona al massimo grado attraverso una competizione multilaterale sulle compravendite presenti o future. Weber parla di «comunità di mercato» per intendere l’involucro sociale nel quale anche il mercato è necessariamente inglobato per costruzione collettiva autonoma e, al tempo stesso, eterodiretta. Dunque nemmeno il mercato può prescindere da una forma di organizzazione sociale e politica. I primi elementi di eterodirezione sono la legge e la moneta, entrambe difficilmente sostenibili senza qualche autorità e legame comunitario. Infatti, «l’utilizzo del denaro» permette un «agire comunitario […] solamente in riferimento all’agire potenziale degli altri» (Weber 1922, II, cap. VI). Lo scambio, per realizzarsi, ha bisogno 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 201 di un processo di socializzazione minimo, ma essenziale, per rendere confidenti coloro che vanno sul mercato, con la convinzione di trarne vantaggio attraverso metodo e razionalità. Le negoziazioni stesse, che preparano lo scambio, presuppongono un’attività sociale. A differenza di altre forme sociali, le quali sono il risultato di un patto, nel mercato il patto/contratto si definisce con un passaggio di moneta tra due soggetti. Gli altri, potenzialmente interessati al medesimo scambio, fanno parte, in qualità di concorrenti, di quella stessa «comunità di mercato», definita da Weber, come «il più impersonale dei rapporti» intersoggettivi, mediati da cose, dove non sussiste nessun altro vincolo se non quello del puro scambio di merci o di attività finanziarie. Come archetipo dell’agire razionale «il mercato – osserva ancora Weber – […] conosce unicamente riguardi per la cosa concreta, non per la persona, non conosce obblighi di fratellanza o di pietà». Solo quando le altre forme di socialità comunitarie sono abbandonate la razionalità può guidare l’azione umana. Nonostante l’antitesi del mercato rispetto alle altre forme comunitarie, e l’isolamento dei singoli soggetti, lo «scambio monetario, non si orienta isolatamente in base all’agire della controparte, bensì in base all’agire di tutti i potenziali interessati allo scambio – e in misura tanto maggiore quanto più diventa razionale e riflesso» (Weber 1922, 620 [II, cap. VI]). Weber ha qui presente l’archetipo della Borsa, nella quale gli interessi entrano in lotta tra loro, ma per interagire hanno bisogno di una lingua comune, seppure composta di soli segni, e di regole prestabilite. Anche questa «nuda comunità di mercato» – per Weber – è pur sempre una comunità, contrariamente alle tesi dei neoistituzionalisti (vedi anche la parte I, par. 5.6 e cap. 6) per i quali il mercato è essenzialmente una rete di scambi, la cui meccanica di auto-normatività e auto-organizzazione genera, di per sé, regole e istituzioni. Sul modo di intendere il mercato c’è un dualismo fondamentale tra quanti – come Weber e altri economisti del suo tempo – considerano il mercato un’istituzione, un prodotto comunitario, e i neoistituzionalisti di mainstream che si affannano a considerare il mercato un dispositivo astratto, cognitivo, descrittivo di relazioni di scambio. In questo secondo caso, la comunità di mercato porta a realizzazione un conflitto interper- st Que 202 Parte II - Moneta e debito sonale incruento, pacificato dallo scambio volontario ed equo, «per la salvezza dell’anima» di ognuno. Nel mercato, in mancanza di rapporti personali, persino di conoscenza della controparte, tutto è posto in relazione all’assoluto raggiungimento del medesimo fine di arricchimento. L’impersonalità dei rapporti è consentita dall’eliminazione di rapporti comunitari – tipo quelli di parentela e fratellanza – senza vincoli di norme etiche, ma non per questo il mercato può completamente prescindere da basi comunitarie minime: i) dal rispetto della legge contrattuale, e ii) dai segni che le parti sono in grado di intendere, in mancanza della medesima cultura e lingua, e per mezzo dei quali perfezionare la transazione in maniera pacifica. La tensione e il conflitto si svolgono tra comparse immaginarie e per delega alle cose da parte di persone. La «nuda comunità di mercato» dispiega interessi e cose – prima che persone. Gli interessi contrapposti per poter concorrere in modo razionale poggiano sulla legalità, ovvero sull’«incrollabilità di quanto promesso». La comunità di mercato è in fondo una comunità tenuta insieme da beni e da promesse, dove ogni promessa è un pegno, un giuramento solenne. In questo consiste l’etica della comunità di mercato. L’organizzazione della borsa controlla preventivamente coloro da ammettere nella schiera degli “eletti”, cioè di coloro che onoreranno le promesse. Weber aveva letto e, si può dire, “tradotto” il Nietzsche di Genealogia della morale, secondo il quale la civilizzazione era un processo di socializzazione per «[a]llevare un animale, cui sia consentito far delle promesse» (Nietzsche 1887, 45, [II, 1]). La promessa in senso commerciale è buona se va a “buon fine”, cioè si risolve per vera. Una digressione ci permette di comprendere il valore della promessa. Holte invita a prestare attenzione al concetto di άγαθόν, tradotta in latino con bonum. Nel linguaggio corrente della filosofia antica tale concetto era distinto dal bene morale, per il quale si usava καλόν, cioè honestum. Il termine άγαθόν era riferito a tutte le cose che meritavano di essere ricercate, sia in senso materiale che spirituale. Degne di ricerca erano perciò le cose “buone”. In cima a tutte le cose buone era posto il bene supremo, cioè il summum bonum, degno di essere ricercato in sé, come fine e non come mezzo, identificato col divino. Il concetto di summum Ques 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 203 bonum «diventa – osserva sempre Holte – interamente identico a quello di finis boni o bonorum» (Holte 1962, 20). Se si lasciano le vette eteree della filosofia e della teologia per concederci la profanazione del concetto di summum bonum in quel tempio del mercato che è la banca, notiamo che per essa il “buon fine” è diventato quello delle promesse adempiute. Il regolare adempimento di un’obbligazione trova espressione nella clausola condizionale del “salvo buon fine”, formula prudenziale con la quale un creditore o una banca si premunisce annullando un’operazione nel caso non si verifichino le premesse e le promesse in base alle quali era stata concessa. La degradazione del concetto aristotelico e agostiniano nel linguaggio commerciale non conduce però alla perdita del senso implicito del bene sommo, il solo che adempie le promesse di felicità totale, o beatitudine. Edouard Richard, in un’edizione critica del trattato di Savary sul Perfetto mercante, osserva che la «sintesi delle virtù necessarie all’esercizio del negozio in Savary è espresso molto bene nella sentenza seguente: “La prima cosa che si deve considerare nella personalità del mercante presso il quale si mandano i figli per l’apprendistato, sono i buoni costumi (les bonnes mœurs), che consistono nella pietà e nel timor di Dio, nella buona fede, nella giustizia e nell’equità di tutte le sue azioni» (Richard 2011, 45)8. La buona fede, commercialmente parlando, non è altro che la premessa, il presupposto, del buon fine: alfa e omega delle regole da seguire per il successo. Del resto Derrida osserva che «Tutto è atto di fede, fenomeno di credito o di prestito [créance], di credenza e di autorità convenzionale. […] L’autorità è costituita per l’accreditamento, […] nel senso della legittimazione come effetto di fiducia o di credulità» (Derrida 1991, 126). La buona fede è, in definitiva, il cardine della buona condotta e del buon Qu e 8 Savary (1622-1690) fece fortuna come mercante di mercerie a Parigi prima di essere nominato da Fouquet a capo dell’amministrazione del patrimonio della corona. La prima edizione della sua opera uscì nel 1675 ed ebbe subito un grosso successo, divenendo per circa due secoli un’autorità indiscussa in materia di diritto e giurisprudenza commerciale non solo in Francia ma anche nel resto d’Europa. Due suoi figli, Jacques Savary des Bruslons (1657-1716) e Philémon-Louis Savary (1654-1727), aggiornarono l’opera del padre e contribuirono a protrarne il successo con il loro altrettanto celebre Dictionnaire universel de commerce, d’histoire naturelle et d’arts et métiers (1720), tradotto in italiano nel 1771. sto E Parte II - Moneta e debito 204 funzionamento di ogni attività mercantile ed economica. La «dea degli affari, la fides» precisa Richard è la «chiave immateriale del successo» (Richard 2011, 51). La prima seria minaccia nei confronti della fides – che fu anche, paradossalmente, causa di una sua crescita d’importanza – si presentò con quella che Richard definisce «avanzata insidiosa dell’individualismo», a partire dalla fine del medioevo, con la fondazione delle prime società per azioni (fenomeno ignorato da Savary, sebbene si sia occupato delle compagnie privilegiate) (Richard 2011, 54). L’anonimato diventa la maschera dietro la quale si nascondono tutte le insidie, che oggi si direbbero conflitti d’interesse; anonimia presente nelle società in accomandita e, soprattutto, in quelle propriamente dette “anonime” con solo nome collettivo. Le insidie maggiori sono proprio quelle che mettono a repentaglio i legami comunitari della solidarietà tra soci, i quali sono amici prima di tutto, perché dalla loro amicizia, convivialità e buona intesa (amitié, déférence e bonne intelligence) dipende per Savary il «bene comune della loro società», e la cui reciproca fiducia è rinsaldata dall’amicizia e dal rispetto tra le rispettive famiglie, e, in primo luogo, tra le mogli, cosa notoriamente necessaria per evitare litigi (Savary 1720, II parte, libro I, cap. iv, p. 438 dell’originale e p. 700 dell’ed. critica di Richard 2011). Un’altra notazione da fare è relativa allo svincolo dell’agire umano da ogni altro valore etico, salvo la fede: il giusto si salva per fede. Celebre la definizione paolina della fede che «è garanzia delle cose sperate, prova per le realtà che non si vedono» (Eb 11, 1). Dante la rende più aderente al latino della Vulgata con «fede è sustanza di cose sperate | e argomento de le non parventi» (Paradiso, XXIV, 64-65). Sostanza e argomento, garanzia e prova, sono elementi che si ritrovano in ogni rapporto di credito commerciale in relazione a quel che è oggetto di pegno per una promessa solo apparente, fittizia, ma che pare realizzabile. Il valore della fede, nel senso qui indicato, teologico ed economico, è ancor più chiaro in un commento di Lutero alla quinta delle sette richieste presenti nel Pater noster, «e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12). Lutero sostiene che non possono ottenere questa indulgenza né coloro che dimenticano la propria colpa e ingrandiscono quella del prossimo, né soprattutto i fede-indegni, coloro che hanno uno «spirito più sottile» Questo E -book ap partiene a roffisim one.200 0@gmail . t Ques 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 205 dei precedenti, e si chiamano «nella nostra lingua calunniatori, in greco, diavoli, in latino diffamatori, in ebraico satanassi, in poche parole sono una banda maledetta che sospetta, disprezza, maledice ognuno, e tutto ciò sempre con l’apparenza di bontà» (Lutero 2009, 262). Il riconoscimento del debito, e della colpa, il farselo condonare dagli altri e rimetterlo agli altri, sono atti che nelle spiegazioni di Lutero implicano un’onestà di fede e di fiducia tra le due parti e chi non tiene fede e semina sfiducia non può attendersi remissione di debito, né di colpa. Ritornando alla schiera degli eletti, questa è composta da coloro che mantengono le promesse e sono perciò fededegni (cioè dicono il vero9). Il mercato è però «in totale antitesi rispetto a tutte le altre comunità» per aver tendenzialmente ridotto tutti i rapporti all’assoluta impersonalità (Weber 1922, cap. VI del t. 2). Ma così facendo, si è introdotta nel mercato anche una contraddizione insanabile, a causa del rinvio all’assoluto, che è la fede, come supporto e mezzo di verificazione per ogni tipo di vincolo contrattuale. Il paradosso appare evidente: l’immanenza di un sistema di organizzazione delle relazioni tra uomini e cose che però non può prescindere dall’alterità di una nozione che ha del trascendente. Dalla precedente proposizione di Weber discende anche che il mercato sgretola ogni altra dimensione comunitaria, avendo ripulito ogni rapporto sociale di principi etici e instaurato il cash nexus, ovvero ogni legame è liquidato con pagamento in contanti. Ma così facendo, anche il mercato diventa fragile, se si incrinano proprio i presupposti che lo sorreggono. I puritani avevano fondato ogni rapporto commerciale sano sull’appartenenza alla comunità dei “santi”, all’interno della quale la fede degli adepti era continuamente verificata. I loro discendenti dovevano, invece, confidare tutto nella costruzione di un meccanismo artificiale, il mercato “perfetto”, in cui le verifiche, di «sostanza» e «argomento», fossero continue, sebbene in esso – caratterizzato dalla anonimità, impersonalità e spontaneità – non vi fossero “santi” controllori, e, quindi, sorgesse, per definizione, il problema dell’assenza del verificatore. 9 Il tema meriterebbe di essere trattato anche per le implicazioni economiche, ma si rinvia più in generale agli ultimi due corsi di Michel Foucault: v. Foucault (2009) e (2011). 206 Parte II - Moneta e debito st ue Q Nel Capitale, Marx aveva trattato il dissolvimento dei vincoli comunitari sotto il profilo dei processi storici che portano al capitalismo e sotto quello della teoria dello scambio. In economie arcaiche, la divisione del lavoro interna alle comunità è fissata «secondo un piano», e, come nel caso delle norme corporative, la «corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile» (Marx 1867, 437-9 [12, 4]). La rottura dei legami comunitari causa l’indipendenza degli uni dagli altri e l’apparizione di scambi di beni fra estranei, anziché di dono reciproco fra appartenenti ad una comunità, familiare o di villaggio che fosse. «Lo scambio di merci comincia dove finiscono le comunità» e – continua Marx (1867, 107 [I, 2]) – lo scambio diventa scambio tra estranei, come quello ai margini delle comunità e deve trovare – come vedremo – dei dispositivi che rimpiazzino gli impegni originari, i debiti che legano tra loro i membri delle comunità. Il concetto weberiano di “comunità di mercato” rinvia alla necessità di riprodurre in economie capitalistiche avanzate un meccanismo di reciprocità obbligante, per superare gli inconvenienti di dover concludere tutti gli scambi con un semplice cash nexus, quando un ritorno ai mezzi più fluidi del debt nexus offrirebbe ben altre potenzialità per non restare invischiati nella continua ricerca di mezzi liquidi, o – peggio – nella rinuncia a compravendite10. Ma su questo ritorneremo. Lo sgretolamento dei rapporti comunitari da parte del mercato permetteva un’estensione delle attività di commercio oltre gli scambi originati ed effettuati dentro una comunità coesa, la quale per tali scambi non necessitava di ricorrere a prezzi e valutazioni di equità. Nelle comunità agricole tradizionali, dove i rapporti mercantili non erano strettamente necessari e sviluppati con regolarità, gli scambi si potevano effettuare in ricorrenze rituali come le feste, occasionali rispetto alla vita ordinaria. Solo in un commercio evoluto tra comunità di estranei si sviluppano forme di scambio con contratti “nudi”, ridotti ai minimi termini (ciò risulta evidente – come vedremo – dal confronto con i donativi, quali forme di scambio in- o 10 Sul guadagno di tempo nelle economie avanzate si veda il Gekaufte Zeit, cioè “comprare il tempo”, titolo originale del libro di Streeck, modificato nella traduzione italiana (2013). ok bo E- pa ap Que st 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 207 tracomunitarie), ma con abbondanza di merci esposte alla ricerca di acquirenti. Nel perfezionamento del rapporto di scambio tutto si articola, come detto, sulla garanzia di legalità, lealtà e fiducia, altrimenti si scivola su una china pericolosa di incertezza fino all’esito peggiore della violazione dei patti, di non mantenimento della parola data, in definitiva di una rottura dei rapporti che trasferisce lo scontro, se tutto procede civilmente, sull’altro teatro, quello dei tribunali fallimentari. L’impersonalità sostanziale della comunità di mercato ha un’implicazione rilevante sulla formazione dei prezzi, dato che un mercato ben organizzato non attua alcun tipo di discriminazione. La multilateralità, cioè la pluralità di interessi in gioco, garantisce in linea di principio una sorveglianza sulla correttezza dei rapporti e sull’assenza di trattamenti di favore, al pari di truffe o di frodi ai danni dei soggetti “deboli”. Truffe e frodi, se si formano, sono truffe e frodi “di massa” e non di singoli11. Il mercato è perciò quella comunità di mercato weberiana che, pur tenendosi fuori, in linea di principio, da appartenenze di corpo o di parti politiche, può creare un mercato ben organizzato. Questo grazie ad imprese specializzate, come mercanti grossisti, banchieri e altri operatori professionisti, che intervengono costantemente, incanalando ordini di acquisto e di vendita e che, grazie anche ai loro interventi, trovano sempre un prezzo di “equilibrio” al quale chiudere le posizioni rispettive. In questo senso specifico, il mercato è, tecnicamente, una costruzione sociale di imprese specializzate che operano sul mercato medesimo, e che lo tengono in piedi, senza esporre troppo le loro “mani”, perciò “quasi invisibili”. «I monopolisti corporatori [di ceto] – infatti – affermano il proprio potere opponendosi al mercato, delimitandolo, mentre il monopolista economico razionale domina mediante il mercato» (Weber 1922, 623)12. Forse, non si poteva esprimere in maniera più concisa l’opposizione al mercato, l’alterità dell’impresa rispetto al mercato (Coase 1937) e la posizione dell’impresa oligo-monopolista che sfrutta una posizione di mercato. Incisivo il piccolo volume di Galbraith (2004). Tra parentesi quadre è il termine ripreso dalla recente revisione del testo weberiano, v. Weber (2005, 180). 11 12 Parte II - Moneta e debito Un ulteriore aspetto riguarda l’ordine del mercato – Weber lo chiama la «pace del mercato» – posto sotto la tutela degli stessi operatori, che vigilano, come nelle sette puritane, sull’integrità dei partecipanti e, se necessario – come spesso è –, cercano un’autorità “forte” che imponga regole e le faccia rispettare. «Molto spesso la pace di mercato viene posta sotto la tutela del tempio, ma un po’ per volta, il capo politico o il principe suole fare di questa tutela della pace una fonte di tasse» (Weber 1922, 624 [I, VI]). L’anarchia assoluta degli scambi mercantili invoca, paradossalmente, la forza dello Stato “totale” (come vedremo nel paragrafo successivo). 8.3. Uno Stato “forte” per un mercato “forte” solo uno Stato forte è in grado di prendere le distanze da ciò che non è statale. (Schmitt 2019, 7) Per secoli il pensiero occidentale è stato dominato […] dalla dicotomia giusnaturalistica tra stato di natura e stato civile. (Bobbio 2007, 113) Ci sono norme che non possono scriversi o non è opportuno che si scrivano; ce ne sono altre, che non possono determinarsi se non quando si verifica l’evenienza cui debbono servire. (Romano 1990, vol. I, 364) Per Max Weber, come già accennato nel paragrafo precedente, il il mercato è il prodotto di una «comunità di mercato» e può operare in maniera efficiente solo se la comunità che lo ingloba segue regole che rendono ordinate le transazioni e mantengono la base fiduciaria. Questa base è la sola a tenere insieme individui che non hanno altro rapporto interpersonale al di là dello scambio. Dunque, nel mercato moderno, la fiducia non è più riposta in una sorta di affinità elettive tra persone che danno per certi, o quasi, i motivi sui quali, per esperienza, possono dirsi garantiti da violazione dei patti. Tutto riposa, in questo mercato, su meccanismi istituzionali esterni al rapporto fra individui, e anzi, il sistema di garanzie è solido nella misura in cui ciascun membro di tale comunità, che è sui generis, perché, appunto, priva di “affinità elettive”, si attiene al principio del self-interest, dell’“ognuno per sé, Questo E-book appartiene a roffisimone.2000@gmail. 208 a b E- k oo 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna to 209 s ue Q Dio per tutti”. È appunto il “Dio per tutti” che tiene uniti soggetti estranei per natura (i conflitti di interesse insorgono quando non sussistono garanzie di “terzietà” nella separazione di compiti e vesti istituzionali). Finché quel “Dio per tutti” era interpretato attraverso l’applicazione dell’etica calvinista, nelle versioni puritane, in cui vige la dittatura morale che reprime immediatamente le deviazioni, le comunità di mercanti nei primi stadi di formazione poterono avviarsi verso una qualche prosperità, operando senza darsi ulteriori garanzie o pegni, in quanto tutto poteva restare appeso alla parola data. La compattezza di comunità di quel genere era interna e fondata sulla chiusura verso gli appartenenti ad altre sette o individui con altra “stoffa” morale (Weber 1906)13. L’allargamento delle dimensioni “comunitarie” presupponeva – oltre al mantenimento della possibilità di uno stretto controllo reciproco e di validazione della moralità su basi personali (denunce di sospetti, espulsioni, messa al bando) – il rafforzamento di norme esterne, di tipo istituzionale, e interne, di interiorizzazione di una religione secolare che rinviava agli stessi valori morali e, fondamentalmente, a quel comune senso di colpa – richiamato da Benjamin – riferito a una colpa incancellabile. È questa colpa che spinge a un’instancabile ricerca di profitto, per convinzione intima di autorealizzazione o per i meccanismi indotti da punizioni, premi e ricompense, attraverso i quali migliorare gli ingranaggi della concorrenza. In quest’ultimo caso non c’è una via di redenzione, ma solo un dispositivo di colpevolizzazione di coloro che non si trovano tra i “premiati”. Come vedremo, il capitalismo, come religione fondata su quel senso di colpa individualizzato nella forma di un’inesauribile brama di prestazione e di arricchimento, è vulnerabile per corruzione interna (Quid non mortalia pectora cogis, | Auri sacra fames; A cosa spingi i cuori mortali, o miserabile fame dell’oro; Eneide 3, 56-57) e per le difficoltà – come sottolinea bene Schmitt, come vedremo tra poco – a tenere sepa- 13 Il saggio su Le sette e lo spirito del capitalismo si apre con l’osservazione che negli Stati Uniti vige da tempo la separazione tra Stato e Chiesa, applicata con severità al punto che, un secolo fa, non era tenuta alcuna statistica ufficiale delle confessioni religiose. Tuttavia gli uomini d’affari al loro primo approccio si domandavano a quale Chiesa ognuno di loro appartenesse (p. 61). Parte II - Moneta e debito 210 rato l’ambito della competizione economica dai vari livelli istituzionali, quando anche questi diventano terra di conquista14. Molti studiosi insistono, nello spiegare la formazione storica del mercato in senso moderno, sul processo di espansione di ambiti propriamente privati e della loro autonomizzazione dalla sfera politica, che avrebbe consentito di realizzare scambi economici equi e sorvegliati (Prodi 2009). Questa secolarizzazione – nel senso di una separazione dalle sfere della politica e della morale religiosa – che investe la sfera economica ha però poco a che vedere con l’impostazione della teologia economica. Quest’ultima sarebbe, in questo caso, intesa solo in un senso molto riduttivo di mantenimento di semplici formule lessicali, del tutto esteriori e, appunto, secolarizzate, che finiscono per significare qualcosa di profondamente diverso dal loro senso originario. Ma siamo sicuri che le formule, una volta secolarizzate, abbiano davvero perduto il loro antico senso originario? La fides tradotta in fiducia e l’onore inteso come solvibilità, sono davvero, nel mondo contemporaneo, parole del tutto staccate dal loro significato primigenio e dalle formule sacrali che rappresentavano?15 La questione di un’impronta teologica che permane e residua è propria di un meccanismo di unione e, nel contempo, separazione della sovranità e del governo (simile al meccanismo teologico trinitario dell’Uno e Trino)16, e tale separazione mantiene un’efficacia operativa proprio perché sussiste una tensione interna ai paradigmi di teologia politica e di teologia economica. Su ciò si veda anche Stiglitz (2001). Significative le seguenti considerazioni: «Sfortunatamente, il mito dell’economia auto-regolantesi, sia nella vecchia foggia del laissez-faire o nelle nuove vesti del Washington consensus, non rappresenta un bilanciamento di queste libertà» (p. xvi); e ancora: «Una cosiddetta economia di mercato auto-regolantesi evolve in un Mafia capitalism – e in un sistema politico mafioso – un fatto preoccupante che, sfortunatamente, sta diventando una realtà troppo evidente in diverse parti del mondo» (p. xv). 15 L’origine sacrale di tali termini è sottolineata in Benveniste (1976, I, 7680 e 85-90 per fede e fedeltà; e II, 316 e 322 per l’onore). 16 Agamben sottolinea la doppia struttura della “macchina governamentale”, che si articola fra Regno e Governo e «fra oikonomia e Gloria, fra il potere come governo e gestione efficace e il potere come regalità cerimoniale e liturgica, due aspetti che sono rimasti curiosamente trascurati tanto dai filosofi della politica che dai politologi» (Agamben 2007, 10). 14 Q ue st o E- bo ok ap pa rti en e a ro ffi sim on e 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 211 E sto Que Tutto questo appare più chiaro se si esamina un breve scritto di Carl Schmitt riguardante i rapporti tra Stato ed economia. In una conferenza del 1932, Schmitt si occupò del tema e, per quanto egli si riferisse principalmente alla crisi finale della repubblica di Weimar, inquadrò quei problemi in una prospettiva più ampia, ed è questa che merita riconsiderare. Schmitt condivide e commenta l’idea, emersa nella conferenza, che «solo uno Stato forte è in grado di prendere le distanze da ciò che non è statale»17. La proposizione non fa altro che esprimere il compito che uno Stato ha ‒ e che deve sempre perseguire ‒ di tenersi separato dal resto della società. La sovranità dello Stato può essere tale solo se non sottomessa alla sovranità del mercato (che, per inciso, è cosa molto diversa dalla “sovranità del consumatore”)18. Solo uno Stato forte può realizzare tale compito mediante quel che Schmitt intende per spoliticizzazione della società civile. Il concetto hegeliano di società civile separata dallo Stato non è richiamato espressamente da Schmitt in questo breve intervento, anche se sembra faccia riferimento ad esso quando contrappone lo Stato “totale” allo «Stato federale dei partiti». Occorre precisare a iene part k ap -boo one sim roffi 18 .200 Il testo a cui si fa riferimento è ora in italiano: Schmitt (2019, 7). Lo Stato “debole” è, perciò, uno Stato in cui gruppi privati organizzati, in partiti o associazioni, occupano posti chiave e svolgono funzioni come quelle di esperti economici e finanziari (v. Schmitt 2018, 126). Nella visione di ordoliberali, come Eucken, lo Stato “debole” è invece uno Stato economico che si è sostituito al meccanismo della concorrenza e interviene per guidare lo sviluppo economico; Bonefeld (2017, 45n.). Sul tema di Stato totale e Stato neutrale in Schmitt anche Rabault (2011, 715-8). La differenza tra Schmitt e l’ordoliberalismo è radicale in quanto per «l’ordoliberalismo […] non è assolutamente indifferente quale contenuto assuma la decisione globale politico-ordinamentale e quale procedimento venga seguito dal sovrano, dal momento che l’unica costituzione economica della tradizione occidentale che essi [ordoliberali] ritengono conforme ai principi dello Stato di diritto democratico è quella dell’economia di mercato», così Miccù (1996, 261). Mesini respinge l’assimilazione di Streeck (2013) tra la soluzione autoritaria di Schmitt e quella ordoliberale, evidenziandone, invece, le differenze proprio rispetto alla funzione che questi ultimi assegnano allo Stato come Stato economico e «per la costituzionalizzazione del mercato e della concorrenza» (Mesini 2019, 64), anche se Mesini non sembra cogliere il fondamento dell’implicita e sottile critica schmittiana al paradosso implicito nel “totalitarismo” economico degli ordoliberali, la cui costituzione economica finisce per rendere lo Stato “debole”, nel senso ben colto da Schmitt, in quanto sottomesso alla “sovranità del mercato”. 17 m il.co gma 0@ 212 Parte II - Moneta e debito che lo Stato “totale” per Schmitt non è lo Stato totalitario. Schmitt, infatti, usa il termine di “Stato totale” per indicare lo Stato del XX secolo, democratico, interventista, che elimina «tutte le neutralizzazioni e le spoliticizzazioni tipiche del XIX secolo liberale» (Schmitt 1932, 106). In particolare, introduce alcune differenze distinte per epoche storiche: «finché lo Stato ha il monopolio del “politico”» è uno Stato che «si contrappone […] ai gruppi e agli affari non statali e perciò anche “non politici”», è cioè lo Stato che «non riconosceva come controparte nessuna “società” (come nel XVIII secolo)». Mentre lo Stato del XIX secolo si pone come separato dalla società (Schmitt 1932, 105), nelle società democratiche del XX secolo «settori fino a quel momento “neutrali” – religione, cultura, educazione, economia – cessano di essere “neutrali” nel senso di non-statali e non-politici» e compare allora lo Stato totale, «identità fra Stato e società, mai disinteressato di fronte a nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti» (Schmitt 1932, 105 e v. 106-8). Schmitt precisa tuttavia che la «teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato […], per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre lo Stato ad un “compromesso”» (Schmitt 1932, 156). La tendenza verso lo Stato totale è di carattere amministrativo (Id. 1958, 215). Come preciserà anni dopo, il concetto di totalità è distinto da quello di totalitarismo, dove, nel primo caso, il popolo si impone come totalità (Schmitt 1969, 86-7), e aggiungerà: «La mia [dottrina della costituzione] è un sistema della costituzione di tipo liberal-democratico ottocentesco», che, però, è differente dall’impostazione anglo-americana, come sosterrà nel 1982 rinviando a un suo saggio del 1924 (v. l’intervista con Lanchester in Schmitt 1982, 172-3). La definizione di «Stato totale» data da Schmitt ne Il concetto di ‘politico’, la cui prima versione risale al 1932 (pp. 105-6), precisava che «l’equiparazione di ‘statale’ e ‘politico’ è scorretta ed erronea nella stessa misura in cui Stato e società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari fino allora statali diventano sociali e viceversa tutti gli affari fino allora “solo” sociali diventano statali, come accade necessariamente in una comunità organizzata in modo democratico. Allora tutti i settori fino a quel momento “neutrali” ‒ religione, cultura, educazione, economia ‒ cessano di essere Que sto E-b ook 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 213 Qu “neutrali” nel senso di non-statali e non-politici. Come concetto polemicamente contrapposto a tali neutralizzazioni e spoliticizzazioni di settori importanti della realtà, compare lo Stato totale proprio dell’identità fra Stato e società, mai disinteressato di fronte a nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti. Di conseguenza, in esso, tutto è politico, almeno virtualmente, e il riferimento allo Stato non basta più a fondare un carattere distintivo specifico del ‘politico’». Galli (1996, 639 e 641) precisa che lo “Stato totale” è il concetto che descrive la soluzione post liberale, di uno Stato di pluralità di soggetti che impediscono il raggiungimento di un compromesso ed esprimono le situazioni di stallo e di crisi nella repubblica di Weimar. Infatti, «lo “Stato totale” in quanto Stato dei partiti, non è altro che l’incontrollato proliferare di una politicità diffusa che non può essere più trattata attraverso gli strumenti e le ideologie della tradizione liberale-parlamentare e del formalismo positivistico» (Galli 1996, 644). La nozione di Stato totale in Schmitt risulta più chiara se accostata alla definizione data da Foucault del totalitarismo come Stato con «governamentalità di partito» (Foucault 2017b, 158)19. Ciò porta Foucault a fare un’osservazione sulla quale, forse, si potrebbe rinvenire una certa coincidenza con Schmitt, se quest’ultimo avesse sviluppato il proprio giudizio storico in maniera conseguente per una situazione politica che, quando scriveva, era solo imminente. Per Foucault il nazismo coincide con «il declino dello stato», non con una crescita indefinita del suo potere, anzi «nel nazismo lo stato risulta screditato» proprio per essere uno Stato inglobato nella macchina di partito (Foucault 2017b, 103); inoltre – e qui pare trasparire la stessa idea schmittiana di separazione tra la dimensione statale e quella economica – dal XIX secolo e anche prima, l’ambito dei fenomeni sociali non economici erano definiti «in opposizione all’economia, o in ogni caso in rapporto complementare all’economia» (Foucault 2017b, 195). Nella conferenza di Schmitt del 1932, lo Stato in mano ai partiti es to Foucault distingue lo Stato totalitario da quello dispotico o di polizia del XVIII secolo e lo considera come fenomeno del tutto nuovo del XX secolo. Non sappiamo se Foucault abbia in mente l’articolo qui discusso o altri scritti di Schmitt, ma le due definizioni ci sembrano particolarmente aderenti. 19 E- bo ok ap pa rtie ne ar 214 Parte II - Moneta e debito Qu è la degenerazione della repubblica di Weimar, occupata da una serie di poteri che si sono costituiti in organizzazioni sociali e politiche (in sindacati e partiti) per sottrarre di fatto sovranità allo Stato, con la conseguente commistione della sfera degli interessi economici con quella della politica. La sfera politica sublima gli interessi economici in una dimensione più alta, in cui il cittadino è universale, rispetto a quella particolare e privata del borghese o di altre figure sociali20. L’epoca dell’ancien régime, in particolare quella dei corpi intermedi, aveva portato, secondo la concezione schmittiana, allo svuotamento dell’autorità imperiale e, alla fine aveva portato alla rovina la stessa capacità dello Stato nazione, come archetipo uscito dalla pace di Vestfalia, di guidare quell’opera di centralizzazione faticosamente avviata in precedenza. Le considerazioni di Schmitt partono dai poteri delle corporazioni feudali, per evidenziarne le differenze con i poteri dei “corpi” moderni. In primo luogo, l’autonomia che le corporazioni cittadine godevano nei confronti dei poteri regi o signorili non tendeva a porsi come volontà statuale unitaria. Inoltre, l’espressione degli interessi interni a ciascun corpo non avveniva secondo le forme moderne di rappresentazione della volontà popolare e, soprattutto, senza che la volontà espressa da un singolo corpo venisse messa in minoranza da quella degli altri corpi professionali. E, in definitiva, non sussisteva alcuna pratica simile alle «nostre concezioni aritmetiche della maggioranza del 51 per cento, che mette l’altro 49 per cento con le spalle al muro»; un’unanimità d’intenti era raggiunta «senza stratagemmi procedurali, in una maniera incomprensibile per noi, gente corrotta»; così Schmitt21. to es ok bo E- e en rti pa ap a fis f ro 0@ 0 20 e. on im 20 Schmitt (2019, 9). Schmitt, in questo scritto, non pare tracci una precisa distinzione tra la nozione di “Stato totale”, che riprende, senza citarlo, da Jünger, e definisce in base alla qualità ed energia dell’azione, e la nozione di “Stato totalitario” fascista (v. p. 11) sulla quale aveva dedicato il saggio “Essenza e divenire dello Stato fascista (1929)”, in Schmitt (2007, 177-86). 21 Schmitt (2019, 19). L’argomento che – secondo Schmitt – inficia il principio di elezione a maggioranza è espresso in maniera ironica e graffiante nella frase: «Se ciascun ramo professionale ha una quota fissa e il suo peso in termini di voti è fissato una volta per tutte, il risultato si può calcolare in anticipo; in questi casi una decisione a maggioranza è in realtà priva di senso. Si avrebbero infatti decisioni a maggioranza in cui una coalizione di calzolai e fornai mette in minoranza 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 215 Questo E-book appartiene a roffisimone In epoca contemporanea, ma con germi presenti fin dal XVIII secolo, lo “Stato totale” è l’espressione moderna di uno Stato nel quale società e Stato «si compenetrano a vicenda» (Schmitt 1932, 105). Il vecchio ordine era venuto meno, non tanto per forze interne disgregatrici ma, principalmente, ad opera del liberalismo e dell’incapacità di «distinguere amico e nemico»22. Ciò comportava anche un’idea di spoliticizzazione intesa come svuotamento di ogni potere decisionale della sovranità politica per assegnarlo a un’autorità “non-politica” orientata, ovviamente, ad assumere soluzioni “tecniche”, o spacciate per tali (Schmitt 2019, 11). Lo «Stato di totale debolezza» – altro concetto schmittiano – è uno Stato la cui azione è stretta entro la presa a tenaglia dell’occupazione del potere da parte di partiti di massa e che è sottomesso all’autorità della tecnica, con una confusione estrema tra la sfera statale e la sfera dell’economia. In realtà, lo Stato liberal-democratico è considerato da Schmitt quello che, pur nella separazione dei poteri secondo i principi di Montesquieu, non tiene affatto separate le due sfere, ma le confonde e – come vedremo meglio in che modo – trasferisce i propri poteri su corpi e gruppi esterni che lo conquistano e lo aggiogano. Schmitt non fa riferimento, nel discorso del 1932, alle istituzioni scolastiche tra i compiti dello Stato moderno. Secondo la tradizione prussiana, egli assegna la funzione educativa ai valori guerrieri e alla leva obbligatoria per raddrizzare i legni storti delle personalità indipendenti mediante le regole ferree della disciplina militare (Schmitt 2019, 15 e 21). Si comprende che la sua preoccupazione di tenere distinta la sfera della sovranità dal resto, essenzialmente dall’ambito dell’economia, ha il compito di garantire una libertà incondizionata nelle scelte che riguardano il soddisfacimento dei bisogni. La società in quanto tale è inglobata dentro lo “Stato totale” non per sopprimerla né per soffocarla, ma per fornire uno spazio di libertà autonomo all’economia. Nel saggio dello stesso anno (1932), Schmitt precisa il senso della i battellieri, o – come pure è accaduto in passato – in cui un conflitto d’interesse tra ferro e carbone è deciso dai musicisti». 22 Ricordiamo che per Schmitt l’essenza del “politico” è proprio la distinzione “amico-nemico”. Parte II - Moneta e debito 216 totalità statale e dello spazio economico: «è lo Stato totale, che non conosce più nulla di assolutamente “non-politico”, che deve allontanare le spoliticizzazioni del XIX secolo e particolarmente deve por termine all’assioma dell’economia libera dallo Stato (non politica) e dello Stato che non si occupa dell’economia» (Schmitt 1932, 108). Per Schmitt, lo Stato interviene nell’economia per esercitare essenzialmente le proprie prerogative in materia di trasporti e comunicazioni. Tra la sfera statale e quella puramente privata del «libero imprenditore individuale» Schmitt introduce, in quella conferenza, una terza sfera, definita pubblica, ma non statale, e destinata all’autogestione economica in forme associative: camere dell’industria e del commercio, associazioni e monopoli (Schmitt 2019, 16-7). Come afferma Carlo Galli: «lo Stato totale non solo è “Stato dei partiti” ma è anche “Stato economico” (Wirtschaftsstaat); al pluralismo politico si affianca e si sovrappone quello degli interessi economici» (Galli 1996, 650). Una volta colmata la distanza tra Stato e società, anche lo spazio dell’individualismo liberale, classicamente inteso, viene meno e con esso la pretesa che gli interessi economici possano trovare una qualche ricomposizione attraverso la concorrenza e le forme della rappresentanza parlamentare (Galli 1996, 650). Schmitt contrappone il liberalismo alla democrazia, specialmente nel passo seguente, nel quale la politica liberale è vista o es t u Q ok o Eb come contrapposizione polemica a limitazioni della libertà individuale da parte dello Stato, della Chiesa o di altre entità, come nel caso della politica commerciale, della politica ecclesiastica o della scuola, della politica culturale, ma non vi è una politica liberale in sé, bensì solo sempre una critica liberale della politica. La teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato e produce una serie di metodi per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre lo Stato ad un “compromesso” e le istituzioni statali ad una “valvola di sicurezza” e inoltre per “bilanciare” la monarchia con la democrazia e quest’ultima con la monarchia (Schmitt 1932, 156). La proprietà privata nella concezione liberale sta collocata al centro tra le sfere dell’etica e dell’economia; il liberalismo la concepisce come autonoma dalla politica, percepita, anzi, come «violenza conquistatrice», e considera proprio uno Stato liberale ap 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 217 come estintore di quella violenza. Per la difesa della proprietà privata dalla politica e dallo Stato illiberale, secondo il liberalismo, occorreva affermare una piena autonomia dell’economia, che necessariamente seguiva proprie leggi del tutto indipendenti dall’etica, dalla religione e, appunto, dalla politica. Tutto ciò era, come osserva Schmitt, «uno dei pochi dogmi realmente indiscutibili e indubitabili dell’epoca liberale» (Schmitt 1932, 159). Per questo, la politica e l’ideologia liberale rappresentano essenzialmente una lotta contro la “violenza” dello Stato, la violenza della politica che interferisce nella sfera e nelle leggi dell’economia. Schmitt negli anni ’20 aveva espresso lodi verso la Russia sovietica e il fascismo italiano per la loro capacità di superare lo Stato liberale classico, anche se quei cambiamenti erano avvenuti per mezzo di un governo dell’economia verso il quale non mancava, invece, di avanzare riserve. Il corporativismo, o il collettivismo, erano perciò soluzioni della crisi dello Stato liberale realizzate con forme di intervento nell’economia: «il fascismo – conclude Carlo Galli – è “Stato totale”, nel senso di Schmitt, solo se e in quanto non ingloba tutto il sociale, ma lo spoliticizza e lo governa politicamente, senza essere passivamente attraversato da partiti e interessi» (Galli 1996, 680). Ora, a ben guardare, a parte il tentativo di definire quali siano i componenti appartenenti alla sfera intermedia dell’economia pubblica e quali siano le forme di governance che consentirebbero ad essa di essere espressione autonoma di interessi senza interferire sui “beni pubblici”23, Schmitt, sempre nel breve intervento del 1932, si riferisce a un’idea di economia nazionale (sebbene il termine non compaia) distinta dal concetto che hanno pensatori nazionalisti di quel periodo. Questi ultimi esaltano, generalmente, l’importanza della tecnica e dell’efficienza produttiva (Conti 2019); Schmitt pare invece del tutto in linea con il paradigma book EQuesto ene a apparti roffi Schmitt, quando parla della sfera “pubblica”, non entra nel merito con un’analisi più dettagliata, ma si limita a fornire alcune indicazioni di massima quali la sottolineatura della capacità del popolo tedesco di auto-organizzarsi come era successo durante la prima guerra mondiale con la mobilitazione o nelle condizioni economiche e sociali post-belliche. In termini economici si potrebbe dire che sta parlando appunto di “beni pubblici” o di beni collettivi. 23 @g 000 2 . e n o sim ok es to -bo E 218 Parte II - Moneta e debito Qu classico di oikonomia. In particolare, egli si differenzia anche in maniera significativa dall’ordoliberalismo della coeva scuola di Friburgo; essa rappresenta una versione teutonica di neoliberalismo, i cui esponenti prendono, almeno in alcuni casi, le distanze dal regime nazista, ma solo per concepire e fornire strumenti di coercizione e di disciplinamento dei comportamenti economici individuali in ogni sfera della vita privata e pubblica e per conseguire un’efficiente organizzazione imprenditoriale modellata su quella di una moderna macchina da guerra tecnologica e industriale. Secondo tale scuola, gli individui, solo se messi continuamente in una condizione di precarietà esistenziale, tirano fuori i propri talenti imprenditoriali. La palestra della concorrenza è essenziale per allevare imprenditori di razza e selezionare i migliori e per scartare la massa di tutti gli altri, da destinare ai lavori più umili e subordinati. Su neo e ordoliberalismo ritorneremo più avanti (III parte), quel che qui interessa sottolineare è la divaricazione tra le posizioni di Schmitt e quelle degli ordoliberali. Ciò è chiaro se si mette a confronto il testo di Schmitt con uno scritto, sempre del 1932, di Walter Eucken, intitolato Trasformazioni strutturali dello Stato e crisi del capitalismo24. Eucken, già all’epoca uno dei maggiori esponenti e teorici dell’ordoliberalismo, si preoccupa delle debolezze dell’economia capitalistica e di come superarle. Innanzitutto, le individua nella mancanza di vigore e di iniziativa imprenditoriale. Si domanda «se oggi esistano ancora, come un tempo, degli imprenditori che possiedono la volontà e le capacità di fungere da guide dello sviluppo» (Eucken 2019, 23). L’intento è retorico, ma gli serve per introdurre la risposta che consisterebbe nel far uso della “frusta della concorrenza” per smuovere gli spiriti animali addormentati e impigriti: «Qui, dove manca la frusta della concorrenza, si provoca effettivamente l’irrigidimento o la feudalizzazione dell’imprenditore» (Eucken 2019, 24). Non ci può essere imprenditore senza concorrenza, anche solo potenziale. Senza concorrenza si ricade in una società di corporazioni, che si ac- Entrambi sono presenti in traduzione italiana nello stesso numero della rivista Filosofia politica dell’aprile 2019. 24 8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna 219 cordano su produzioni e prezzi, oppure in presenza di uno Stato che soffoca la proprietà. Compito delle autorità pubbliche è perciò quello di creare un ambiente concorrenziale, che lo sviluppo del capitalismo moderno ha castigato e penalizzato, specialmente dopo la prima guerra mondiale, con l’espansione delle dimensioni della sfera pubblica, delle spese statali, della tassazione e del debito, che hanno contribuito a opprimere la libera impresa e lo spirito d’iniziativa. Lo Stato doveva così essere “leggero” per essere efficiente ed impugnare con decisione la frusta della concorrenza, ossia assegnare premi e incentivi, a basso regime di spesa, per disciplinare e dirigere l’economia verso lo sviluppo nazionale25. La frusta più efficace – come vedremo nella Parte III – è tirare la cinghia del risparmio, tenendo il lavoro “flessibile”, precario, incerto. Qu e s to Si veda l’importante ricostruzione delle radici e dei principi dell’ordoliberalismo in Tribe (1995). 25 b E- Q o st e u E- ok o b ne e rti a p ap o st ue Q Capitolo 9 E- CREDITO, PEGNO E MONETA (PEGNO ARCAICO DI FIDUCIA) ok bo e en rti pa ap 9.1. Due paradigmi conservatori, non liberali Non ci si copre con un velo quando non ci si vergogna della propria nudità: perché a quei tempi [nella Bibbia] si sarebbe dovuto arrossire nel nominare i genitali, se quando qualcuno faceva una promessa a qualcun’altro gli toccava, appunto, i genitali? (Voltaire 1981, 163) La differenza di approccio che emerge tra due conservatori, cioè tra il fondatore dell’ordoliberalismo, Eucken, e un giurista-filosofo, Schmitt, non sta solo nelle diverse sensibilità culturali. Si tratta di due modi diametralmente opposti di concepire l’ordine. A separarli è fondamentalmente la differenza fra il paradigma moderno dell’economia e quello classico di oikonomia, o in altri termini una visione produttivistica della società versus quella che concepisce la società nella quale siano almeno tutelati ambiti di “vita beata”. La preoccupazione principale di Eucken è che il vecchio liberalismo abbia perso mordente, l’economia di mercato di laissez faire ottocentesco sia fallita nella sua missione di armonizzare la società, e che, per ricreare ordine, occorra recuperare quella responsabilità di comportamenti che solo la proprietà privata infonde, poiché spinge chi la possiede a trarne vantaggi e a preservarla; perciò lo sprone della concorrenza tra imprenditori, e tra quelli che devono agire come se lo fossero (cioè lavoratori, consumatori e risparmiatori), è la sola forza che può trascinare tutti i componenti di una società a gravitare verso obiettivi comuni di produttività. La società moderna si identifica con un’economia industriale a elevato contenuto tecnologico. Essa impone un’integrazione dentro una a Esiste il liberale come esiste il collerico. È insomma una dualità del carattere, una forma antropologica. Io sono un uomo liberale; non ne conosco uno migliore anche nella mia tolleranza, è così … (Schmitt 1982, 172) Parte II - Moneta e debito 222 Quest o E-b ook concezione di sistema, almeno nazionale. L’Ordnung è il termine tedesco per designare un ordine creato attraverso la disciplina, una disciplina amministrativa e militare, che ha le sue regole e le segue per disporre e organizzare la vita sociale in funzione del sistema economico e produttivo. Nell’ordoliberalismo, la disciplina militare e della fabbrica integrata moderna creano l’olismo organizzato per incanalare le scelte individuali in una strategia unitaria, che lascia liberi, ma solo formalmente, i singoli, i quali, di fatto, sono resi responsabilmente ubbidienti dagli stimoli interni che la disciplina di proprietà-responsabilità loro impone o da quelli esterni surrogati dallo Stato. In particolare, è la crisi dello spirito imprenditoriale – spirito che, invece, dovrebbe essere sempre presente in ognuno – a far correre il rischio di una eclissi dell’economia di mercato, e a far approdare il sistema economico verso un’economia mista di corporativismo o di collettivizzazione1. Un liberalismo completamente nuovo deve evitare il disastro del gigantismo statale e far perno sull’organizzazione della tecnica e della produzione industriale da parte di imprese private, le sole legittimate e in grado di pianificare il complesso dell’economia nazionale con le loro scelte d’investimento2. A cittadini resi tutti imprenditori, o almeno imprenditori di se stessi, nel senso di responsabilizzati per le proprie azioni, spetta di agire economicamente, sotto l’indirizzo strategico e la sorveglianza dello Stato, nell’intento di scongiurare il conflitto sociale. Invece, la preoccupazione del conservatorismo radicale di Schmitt non è affatto la produzione, né l’economia nazionale; il suo conservatorismo è anti-neoliberale e anti-ordoliberale, e i suoi timori non riguardano certo la possibilità di una perdita di efficienza e di produttività, né la possibilità che non si realizzi un’organizzazione della società secondo principi dell’economia moderna. La sua idea di Stato totale e forte è quella mandata in rovina dal liberalismo moderno, quello della tecnica, che ha portato alla pericolosa commistione tra spazio pubblico e privato. im appart i e n e a roffis one.20 00@ g m a il.com Sulla “rovina” storica dell’ordine liberale e capitalistico è importante anche il pensiero di un altro ordoliberale come Wilhelm Röpke; cfr. Fèvre (2015, 153-4). 2 Laval parla, a questo proposito, del liberalismo di Eucken come un «liberalismo organizzatore», contrario al liberalismo «manchesteriano» (Laval 2007, 403-5). 1 9 - Credito, pegno e moneta 223 Dunque non si tratta tanto di rimettere in piedi uno Stato servitore dell’economia, bensì di riaffermare il primato della politica. Il concetto di Stato è quel che separa Eucken da Schmitt. Qui, Carl Schmitt eredita da Hobbes il pessimismo antropologico, ma con una differenza. In Hobbes lo Stato pone fine alla guerra di tutti contro tutti, consentendo così di uscire dallo stato di natura; in Schmitt la neutralizzazione della politica per mezzo della tecnica ha compromesso i fondamenti del mondo occidentale e messo fuori gioco il ruolo dello Stato. Come sottolinea Cristina Micieli, «[i]l sogno utopico del liberalismo è di trasformare i conflitti politici in controversie morali o in concorrenza economica», ma, per Schmitt, un mondo del genere sarebbe completamente inumano e sarebbe un mondo di «macchine senza emozioni»3. Anche Eucken e gli ordoliberali concepiscono il primato della politica, ma solo in funzione di ricostituire, attraverso il potere dello Stato, un ordine economico e industriale; l’Ordnung pensato dagli ordoliberali è un ordine comandato dal mercato che viene posto a base dello Stato medesimo, per rendere gli individui completamente soggetti alle esigenze e al comando delle macchine, delle ragioni e delle regole dell’economia modernamente intesa4. Le due visioni sono perciò del tutto antitetiche. L’economia in Schmitt non è il fine della politica, ma è, piuttosto, uno strumento come lo era per gli antichi. Questo E -book app 9.2. Le ambigue affinità del dono e dello scambio Per un animo nobile | i doni più ricchi perdono tutto il loro valore |se i donatori |non gli sono più amici (Shakespeare, Amleto, III, i, 100) Perciò rifornisci la borsa. Se proprio vuoi dannarti fallo in modo più delicato che annegandoti. Raccatta tutto il denaro che puoi. (Shakespeare, Otello, I, iii, 353) I passi sono una traduzione dal saggio di Micieli (2002, 117-8). Sulla questione e sugli sviluppi tecnologici più recenti si rinvia a Demichelis (2015) e alla Postfazione di Bazzicalupo alla stessa opera. Demichelis parla della globalizzazione neoliberale come processo di «totalizzazione mediante organizzazione» (p. 203) che rende gli individui appendici e ingranaggi di un sistema produttivo integrato su larga scala. 3 4 224 Parte II - Moneta e debito concedete che non sia mai così cretino, | da fidarmi dell’uomo e delle sue promesse (Shakespeare, Timone d’Atene, I, ii, 64) Benveniste, nella sua genealogia lessicale dello scambio e del dono, mostra le continue intersezioni tra i due termini e fornisce indicazioni sul concetto di compravendita, com’è intesa in epoca moderna e per come si precisa nel corso dei secoli quale trasformazione di uno scambio che era «un circuito di doni piuttosto che un’operazione commerciale» (Benveniste 1976, 47; ed. orig.: 1969, 66). La costante e comune radice linguistica, nell’insieme delle lingue di matrice indoeuropea, conferma le tesi di Mauss della dominanza del dono nelle economie precapitalistiche, quale forma primordiale di scambi prevalentemente non utilitaristici, senza precise equivalenze di valore né riferimenti a principi di ene a equità. Perciò i beni erano trasferiti senza misura -dibvalore népparti k o o E uestoche giustificasseQsegnali espressione di un prezzo, ossia senza ro la convenienza delle scelte pregresse e prefigurassero quelle da fare. La dominanza del dono, e delle relazioni fondate su di esso, riguarda economie arcaiche (ma in parte anche classiche5 e moderne6), per poi perdere d’importanza e di regolarità con l’affermarsi e l’estendersi dell’economia di mercato, con l’avvento del capitalismo moderno, che aggiunge, ai mercati dei prodotti, i mercati per la terra, per il capitale e per il lavoro. Gli scambi di mercato, da angusti e limitati, diventano progressivamente pervasivi nell’intera società, con tutto quello che ciò comporta, compresa l’affermazione di una visione molto diversa della vita e del mondo e dei comportamenti da tenere nei rapporti intersoggettivi, anche fuori dalla stessa sfera economica. 5 Osserva Veyne (1976, 16): nell’antichità greco-romana il «dono aveva un’importanza quantitativa considerevole: non si riduceva a un piccolo regalo o a un’elemosina, a una medicazione simbolica o a un gesto morale. Edifici caratteristici del genio dei Romani come gli anfiteatri sono ancora, ai giorni nostri, la traccia materiale dell’importanza del dono». 6 Godbout (1992) analizza le continuità tra il dono nelle società arcaiche e in quelle contemporanee per mostrare il radicamento anche in queste ultime di scambi di doni. Amartya Sen (1979) sostiene che la razionalità strumentale e utilitaristica riguarda solo una parte dei comportamenti umani e non tiene conto del fatto che si allacciano rapporti anche per simpatia e altruismo. Cfr. anche Godbout (2000). 9 - Credito, pegno e moneta 225 Qu Quel che ci interessa non è tanto esaminare tesi molto discusse in un’ampia letteratura antropologica e storica, quanto piuttosto sciogliere alcuni nodi del rapporto tra dono e debito – suggeriti in vari studi, ma non sufficientemente sottolineati nelle loro implicazioni logico-storiche – per favorire la comprensione di quel passaggio verso la modernità che ha comportato l’abbandono dell’etica della vita “beata”, buona e bella, per un’etica degli affari totalizzante, che non lascia altri spazi di vita. Vedremo meglio in cosa si contrappongono i due stili di vita e come uno di essi sia stato soffocato dall’altro con l’avanzare di quella che è definita modernità. Per ora basti intendere per “bella vita” quel far «fluire il tempo senza pensieri come nell’età dell’oro» («fleet the time carelessly as they did in the golden world»), come la qualifica Shakespeare, in Come vi piace (I, i, 110-1). Si tratta dunque di esaminare la questione da un altro punto di osservazione rispetto a quello considerato da Max Weber e da altri. Weber accosta il lusso all’ozio nel commento al noto detto di Benjamin Franklin «il tempo è denaro», il cui evidente significato è che ogni ora persa è perciò sottratta al lavoro e anche al servizio della gloria di Dio. Il passo evangelico a cui allude Franklin è il seguente: «Dobbiamo operare le opere di Colui che mi ha mandato finché è giorno. Viene la notte, quando nessuno può più operare» (Gv 9, 4) (Weber 1904-05, 217). I puritani ammettevano un certo godimento estetico o agonistico purché senza costo, tutto era perciò rivolto a ridurre i consumi di lusso, e comunque i consumi in generale. «Il pensiero – osserva ancora Weber – dell’obbligo dell’uomo nei confronti della proprietà affidatagli, a cui subordinarsi alla stregua di un servizievole amministratore o addirittura di una “macchina per guadagnare”, pone sulla vita il suo gelido peso» (Weber 1904-05, 229). Il tema del lusso fu oggetto di un vasto dibattito nel corso del XVII e XVIII secolo. Le vivaci polemiche sollevate su tale tema possono però essere viste da due angolature diverse. Da una parte, rientrano nella polemica contro un uso irrazionale della proprietà, che viene spogliata e avariata dagli sprechi e dal lusso, violando così l’obbligo religioso di amministrare giudiziosamente e far fruttare la proprietà, con lo scopo di affermare in tal modo uno stile di vita sobrio, non fastoso, sebbene confortevole. Dall’altra parte, est oE -bo ok ap pa rtie ne ar off isim on 226 Parte II - Moneta e debito Questo E- però la tematizzazione del lusso si può considerare come l’ultimo strappo nell’etica tradizionale, che porta a rovesciare completamente l’atteggiamento etico nei confronti della cupidigia e dell’ostentazione di ricchezza, che, da vizio e inclinazione morbosa quali erano considerate, iniziano a essere tollerate e accettate. Ciascuno è perciò legittimato a compiere responsabilmente scelte seguendo soltanto il proprio sistema di preferenze, di per sé non più censurabile e, dunque, ogni desiderio espresso secondo tale sistema è da accogliere alla stregua di un qualunque altro bisogno da soddisfare. Il bisogno non è più qualcosa di definibile in un modo valido per tutti, ma dipende dalle legittime inclinazioni di ciascuno. L’individualismo, come esaltazione delle autonomie di scelta del singolo, rende relativa la scala degli interessi e persino quella dei valori. I bisogni non riguardano più quei beni necessari alla sopravvivenza, o a una vita semplice, povera ma decorosa. Ognuno è libero di scegliere lo stile di vita che preferisce per soddisfare i propri “bisogni”, potenzialmente inappagabili, come lo sono gli eccessi del lusso e i piaceri, frenati solo dal vincolo delle personali disponibilità di spesa. L’assennatezza richiesta è quella di saper valutare il bilancio personale delle entrate e delle uscite. La virtù del borghese è la prudenza, intesa come equilibrio contabile e parsimonia, che previene i rovesci della vita. Il borghese sta agli antipodi di Sileno, vecchio dio rustico, vinificatore e amante del vino, dotato di saggezza straordinaria e di arti divinatorie, amico di re Mida, che da lui era stato iniziato ai riti orgiastici (Ovidio, Metamorfosi, XI, 89-99), così ricorda anche Nietzsche, con osservazioni che val la pena di riprendere. In La nascita della tragedia (1872, par. 3) Nietzsche fa appunto riferimento al mito di re Mida che insegue nella foresta Sileno. Una volta che Sileno è stato raggiunto, Mida gli domanda «quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto”» (Nietzsche 1872, 31-2). Contro la risposta nichilista di Sileno, il borghese erge ripari individuali effimeri ma basati sull’accumulazione di ricchezze e denaro. 9 - Credito, pegno e moneta 227 Con l’affermazione del paradigma dell’individualismo, il modello di consumo è svincolato da (pre)giudizi morali sul tipo di scelte e sul tipo di stile di vita. Non ci sono più ragioni per censurare chicchessia, avaro o prodigo. L’affermazione dell’autonomia individuale e della responsabilità di scelta comporta anche la sospensione del soccorso e la revisione della virtù della carità e dei principi delle opere di carità. L’indifferenza verso l’indigente si giustifica, prima di tutto, perché ognuno è responsabile delle proprie azioni e, dunque, nessuno può sentirsi in colpa o coinvolto emotivamente se un’altra persona si trova in tale condizione, dipendendo tutto ciò da comportamenti soggettivi insindacabili; inoltre, c’è l’ulteriore motivazione che cercare di alleviare le pene indurrebbe il beneficiato alla pigrizia, rendendolo ancor più infingardo e incapace a darsi una spinta per risollevarsi. Non resta perciò altro da fare; meglio è lasciare che ciascuno si lecchi le proprie piaghe che, quasi certamente, si è procurato da solo a causa della propria incoscienza. Lo scarso impegno e l’irresponsabilità sul lavoro condannano l’incapace o lo sciagurato alle pene che merita. Se però quelle pene coinvolgono un certo numero di persone e diventano, quindi, una questione sociale, allora si giustificano interventi per evitarne le deplorevoli conseguenze, con forme di punizione nei casi estremi e di educazione negli altri casi. Pene e rieducazione hanno lo scopo di inculcare comportamenti assennati di previdenza e di assicurazione dai rischi economici dipendenti da perdita di reddito, malattia e vecchiaia (vedremo ancora la questione sotto altri profili nella III parte). Gli interventi di questo tipo – che siano per infliggere una pena oppure per redimere ‒ sono entrambi costosi, ma socialmente giustificabili come forme collettive di assicurazione contro i rischi esterni provocati da soggetti devianti. L’organizzazione di forme di repressione o, anche, di formazione e rieducazione si intensificarono soprattutto dalla fine del XVIII secolo. Nel secondo caso, per esempio, in materia di comportamenti economici basilari, si agisce con l’educazione al risparmio attraverso istituti di credito per moralizzare il povero. Le saving banks furono le prime istituzioni del genere e, quasi un secolo dopo, gli interventi sociali si estesero con l’introduzione, prima nella Germania guglielmina poi altrove, delle prime forme Qu est oE -bo ok a E-bo o t s e Qu 228 Parte II - Moneta e debito di sicurezza sociale. L’individualismo utilitarista sembrava, quindi, accogliere forme di assistenza verso poveri e bisognosi, ma, più ancora, tale accoglienza corrispondeva al tornaconto borghese di estirpare i semi di rivolta e il pericolo di rivoluzione sociale. 9.3. Alle origini dello scambio: il dono, il contratto e la moneta in mezzo Inveisce proprio dove più si radunano i mercanti, contro di me, i miei affari, il mio ben meritato profitto, che lui chiama interesse. (Shakespeare, Il mercante di Venezia, I, iii, 45) le sue cambiali sono scadute e la fiducia che ho avuto nelle sue promesse non mantenute ha danneggiato il mio credito. (Shakespeare, Timone d’Atene, II, ii, 20) Oro? Giallo, splendente, prezioso oro? […] Questo giallo verme | unirà e sfalderà religioni, benedirà | i maledetti, farà adorare la lebbra | canuta, premierà i ladri con titoli, […] Vieni, pezzo di terra | dannata, tu puttana dell’umanità | che getti discordia tra la feccia delle nazioni. (Shakespeare, Timone d’Atene, IV, iii) Altro importante dispositivo di pace sociale e di coesione interna a una comunità, e ai rapporti di questa con stranieri e popoli vicini, è rappresentata dal dono. Nel Saggio sul dono (1923-24) Mauss analizza l’anatomia socio-antropologica del groviglio di relazioni che si annodano negli scambi di doni. Essi costituiscono uno dei principali fondamenti della vita nelle società tribali, alcune delle quali sopravvissute nel corso dei millenni, testimonianze residue di un mondo ancestrale, del quale si potevano osservare in maniera sistematica, ancora nella seconda metà del XIX secolo, i comportamenti sociali senza doverli dedurre attraverso resti archeologici. Attraverso un metodo storico e comparato, Mauss delinea come, per innesti successivi, risalenti ai primi passi del diritto romano e di quello germanico, si sprigioni il contratto inteso in senso moderno, finalmente sfrondato delle antiche forme rituali e magiche che originariamente caratterizzavano gli scambi (Platon 1902, 18-23; e Kano 2018, 51-68). A differenza degli economisti precedenti a Mauss e di quelli che, a partire da Carl Menger in poi, hanno stilizzato la storia monetaria come sequenza evolutiva degli scambi, dal baratto alla 9 - Credito, pegno e moneta 229 moneta e infine al credito, in altri termini un’evoluzione da economie primitive senza moneta a economie monetarie sempre più raffinate e complesse, per Mauss il baratto non è affatto la condizione originaria semplice e “naturale”, ma, sulla base di molti studi di etnologi e antropologi, egli può stabilire che si tratta solo di un termine comodo e riduttivo di definire transazioni “teoricamente” non monetarie. Dai primi anni ’60 del secolo scorso, gli studi di Robert Clower hanno dimostrato, anche sul piano strettamente logico, l’impossibilità del baratto “puro” e ridotto lo scambio di beni di valore equivalente (dunque espresso in un numerario monetario convenzionale) di fatto molto raro in società priQauun esfenomeno to Esolo mitive e, invece, frequente in finanziariamente molto -boosocietà k app per valori molto eleevolute. È proprio in esse che le transazioni a ien residuali, vati sono regolate non in moneta, se non perrtsomme e a ro ma, in gran parte ricorrendo a cessioni di attività finanziarie offdiisi mone 7 beni capitali . In un saggio del 1964, Clower aveva posto in esergo . la seguente frase di Knut Wicksell: «Noi economisti siamo essenzialmente solo dei dilettanti nel campo della ricerca storica, con tutti i difetti tipici del dilettantismo: conclusioni troppo avventate, insufficiente critica delle fonti, addobbo tendenzioso dei fatti, e anche, all’occasione, fabbricazione istintiva dei medesimi»8. Prima che Carl Menger scrivesse il suo influente saggio sulle origini della moneta9, riferimento imprescindibile per larghissima parte 7 Si vedano i saggi in Clower (1969) e in Id. (1984). In traduzione italiana la raccolta di saggi in Clower (1972). 8 La frase è tratta dal saggio Ends and Means in Economics, tradotto nel 1958 dall’articolo pubblicato nel 1904, e comparso nella raccolta a cura di Erik Lindahl in Wicksell (1904). Il saggio di Clower (1964) è una lunga recensione alla storia monetaria di Milton Friedman e Anna J. Schwartz del 1963. 9 Il riferimento è a Menger (1892), dove, peraltro, nella rivista il nome è erroneamente riportato con Karl, figlio di Carl (non ancora nato e che divenne un celebre matematico). La traduzione italiana più recente è in Menger (2013). Nel saggio introduttivo di Aguirre e Infantino (pp. 5-54) si avvalora la tesi mengeriana delle origini e della teoria quantitativa della moneta. Come molti filosofi, e sociologi, essi continuano a distinguere tra “denaro” e “moneta” per designare, con il primo termine, il concetto economico e, in senso stretto, la moneta convertibile o l’oro e, con il secondo, il mezzo di pagamento specifico e generico (moneta metallica, cartacea ecc.). In altri casi la distinzione terminologica è tra Parte II - Moneta e debito iene a Questo E-book appart 230 degli economisti e soprattutto base quasi esclusiva per introdurre comodamente le funzioni della moneta nei principali manuali di economia e di economia monetaria, Jevons aveva già dimostrato la quasi impossibilità del baratto per “doppia coincidenza dei bisogni” (Jevons 1972, 23-6). Infatti, numerosi sono gli ostacoli logici e pratici: i) per concludere uno scambio sotto forma di baratto occorre raccogliere informazioni (le inserzioni su giornali specializzati o in rubriche apposite si erano diffuse nel XIX secolo anche per offrire possibilità di baratto di oggetti usati, ma più spesso gli scambi erano da regolare con pagamenti in contanti); ii) il raffronto di equivalenza è estremamente laborioso, allunga le trattative, impone calcoli che senza numerario restano indeterminati; iii) un listino completo dei prezzi sarebbe eccessivamente lungo (su appena 100 articoli i rapporti di cambio sono non meno di 4950, ossia [n×(n-1)]/2); iv) infine, l’ulteriore ostacolo sta nella limitata divisibilità dei beni: i buoi di Omero non erano una moneta “comoda” in molte transazioni (De Bonis e Vangelisti 2019). L’“invenzione della moneta” quale “tecnologia di pagamento” è una sorta di mitologia economica moderna, utile e sbrigativa per afferrare immediatamente le funzioni della moneta, ma comple- un astratto e un concreto, ma su questo si rinvia al recente volume di Condello, Ferraris e Searle (2019; versione aggiornata di Searle e Ferraris 2018). Searle non entra nelle distinzioni terminologiche che ancora appassionano i filosofi italiani e “continentali” tra “moneta” e “denaro”, ormai abbandonate nel mondo anglosassone, dove denarius si riferisce solo all’antica moneta romana in argento (da cui deriva il corrispondente francese argent). In inglese vige solo il termine “money” (v. anche il titolo del saggio di Searle [2017] di cui [Searle 2018] è una versione accresciuta, con “denaro” nel titolo). Sulle ambiguità linguistiche richiama l’attenzione anche Menger (2013, 171-2 e 208-9). La duplicità terminologica in molta parte della letteratura economica fino a oltre la seconda metà del XIX secolo, e nelle altre scienze sociali anche dopo, può essere fatta risalire al fatto che la moneta fa sempre riferimento a un supporto (metallico o scritturale) mentre il denaro fa diretto riferimento all’istituzione sociale, politica, morale del supporto; su questo de Blic e Lazarus (2007, 5). Per Benveniste (1976, I, 146-7) il “denaro” (argent) indica «probabilmente la materia e non la moneta», la denominazione è fatta risalire molto indietro a termini che significano “bianco” e “brillante”. Non c’è, forse, cosa con più nomi con i quali si distingue più chi ne parla che non l’oggetto: i “soldi” designano il lessico corrente, popolare, gli economisti studiano la teoria monetaria e gli altri, chi la filosofia, chi la sociologia, del denaro (talora, anche “moneta”). 9 - Credito, pegno e moneta 231 ene parti k ap -boo sto E Que tamente distorta per quanto riguarda le origini e la natura della moneta medesima10. Clower fa l’ipotesi di un arcipelago abitato da Robinsoniani, ognuno dei quali risiede in un’isola e si specializza nella produzione di un bene, ma è costretto a sacrificare tempo di lavoro contro tempo di ricerca dell’occasione di scambio a lui favorevole. Il baratto è perciò teoricamente possibile come ipotesi, ma non risulta mai efficiente (Clower 1972, 12). Il baratto immaginato nella forma “pura” è un baratto isolato, e il baratto su basi comunitarie è, in realtà, d’impedimento alle transazioni che non possono svilupparsi finché non interviene la moneta, anche nella sola funzione di unità di misura. Contrariamente alla tesi di Menger, per Clower le caratteristiche merceologiche dei beni scelti come moneta hanno un’importanza economica minima per risolvere gli inconvenienti teorici del baratto. Da «un punto di vista logico, infatti, le caratteristiche fisiche dei beni-moneta non sono più rilevanti per l’istituzione della moneta, di quanto le diverse forme di corteggiamento siano rilevanti per l’istituzione del matrimonio» (Clower 1972, 13). Per Clower sono le istituzioni sociali a permettere agli individui di organizzare gli scambi attraverso regole condivise o imposte perché: «la moneta acquista i beni, i beni acquistano la moneta; ma i beni non acquistano beni» (Money buys goods, and goods buy money; but goods do not buy goods; Clower 1967, 183). Clower porta così a compimento la demolizione della tesi di un baratto originario nell’evoluzione storica verso un’economia monetaria. L’influenza di Menger anche presso gli storici era stata nel frattempo accreditata da un altro austriaco, il medievista Alfons Dopsch, con un’opera sul passaggio dall’economia “naturale” a quella monetaria (Dopsch 1949). Ma sul fronte degli economisti è la lezione di John Hicks a indebolire l’influenza di Menger con i suoi Critical Essays in Monetary Theory del 1967 (Hicks 1971), in cui fornisce, forse, uno dei contributi più significativi non solo per la teoria della moneta, ma anche per aver mostrato l’importanza della storia monetaria per ogni avanzamento teorico-economico. a rof Una discussione di questi temi in Giannini (2004). one. fisim 10 Parte II - Moneta e debito 232 Una delle cose principali che la teoria monetaria dovrebbe spiegare è l’evoluzione della moneta. Se riusciremo a ridurre le linee essenziali di quella evoluzione ad un modello logico, non solo avremo chiarito la storia, ma avremo anche approfondito la nostra comprensione della moneta stessa, anche della moneta in epoca moderna (Hicks 1971, 8). Quest o E-bo E in un altro passo ribadisce ulteriormente il concetto: Il cambiamento nello strumento moneta da moneta “sonante” a banconote ed assegni, non è che una parte di un più ampio sviluppo, lo sviluppo di un sistema finanziario. Ciò ha preso l’aspetto dello sviluppo degli istituti finanziari e non solo delle banche ma anche di “intermediari finanziari”: tutto ciò ha portato con sé un cambiamento fondamentale nelle attività finanziarie dei governi. Con l’evolversi di questi mutamenti, si è verificato un cambiamento nell’intero carattere del sistema monetario: in un mondo di banche e di compagnie assicurative, di mercati valutari e di scambi di merci, la moneta è diventata una cosa completamente diversa da quella che era prima che tutti questi istituti cominciassero ad esistere (Hicks 1967a, 128). Il cambiamento fondamentale per Hicks è dunque l’avvento della banca moderna; è quello il momento in cui i depositi presso le banche, depositi suscettibili di essere ritirati, diventano trasferibili: o mediante chèque, che è un ordine alla banca di effettuare il trasferimento di un deposito in essere, o con un biglietto, che in effetti è uno chèque pagabile al portatore, che è assistito dalla garanzia della banca, senza riferimento al depositante a fronte del deposito del quale esso fu originariamente emesso. Questo è essenziale; poiché è a questo punto che la banca diviene in grado di creare ciò che è in effetti moneta. Quando essa effettua un prestito, non è tenuta a consegnare la vecchia moneta “piena”; tutto quello che essa fa è di scambiare diritti di esigere. A fronte dell’obbligo del mutuatario, di rimborsare a una determinata scadenza, essa fornisce un proprio obbligo, che è trasferibile a domanda, e per questa ragione ha la qualità di moneta. La moneta che la banca presta è moneta che essa stessa crea (Hicks 1969, 95-6; e nella trad. it. a p. 110). Si deve osservare che Hicks compie un doppio superamento delle visioni tradizionali. Da un lato, sposta la propria argomentazione dal solco segnato dal contributo di Menger e dei suoi epigoni, nel senso che la moneta bancaria è posta fuori dal sentiero evolutivo dell’economia monetaria. Non è più nella pro- ok 9 - Credito, pegno e moneta 233 spettiva evoluzionistica mengeriana che può essere compreso il complesso percorso della storia monetaria11. Dall’altro, inquadra quest’ultima dentro un alveo completamente diverso che è quello del credito: la banca è in grado di creare moneta quando eroga un prestito, e non si mette più in condizione di rimborsare la “vecchia moneta” a pieno titolo metallico, ma si impegna a scambiare un’obbligazione con un’altra obbligazione («di scambiare diritti di esigere»)12. Quel che un banchiere compie con il credito – osserva anche Schumpeter – è dovuto al fatto che «non esiste alcun altro caso in cui il titolo che dà diritto a una cosa può, entro certi limiti, servire come la cosa stessa: non si può cavalcare il titolo che dà diritto a un cavallo, ma si può pagare con il titolo che dà diritto a una somma di denaro»13. La moneta è dunque un titolo che dà diritto, in ultima istanza, a liquidare una qualunque obbligazione. Hicks, tiene forse conto dell’osservazione di Schumpeter, ma compie un passo ulteriore sulla scia anche del Rapporto Radcliffe pubblicato nel 195914. Anche Clower (1977, 206) riconosce il merito dei contributi fondamentali di Hicks in materia di teoria monetaria. 12 In questo stesso senso si può leggere la frase lapidaria di Samuelson (1972, 299) sulle conclusioni del Rapporto Radcliffe: «la moneta, come tale, non ha importanza». 13 La versione originale è la seguente: «there is no other case in which a claim to a thing can, within limits to be sure, serve the same purpose as the thing itself: you cannot ride on a claim to a horse, but you can pay with a claim to money» (Schumpeter 1954, 305; per la trad. it.: 1990, 392 [parte II, cap. 6, par. 5.a]). Sul calco della frase di Schumpeter, Clower conia la sua, sopra ricordata, che una merce non acquista altre merci ecc. 14 Il Rapporto porta il nome del presidente del Committee on the Working of the Monetary System incaricato nel maggio del 1957, a seguito della crisi di Suez e delle difficoltà di stabilizzare le condizioni monetarie interne e nei confronti dell’estero, di indagare sulle politiche condotte dalla Banca d’Inghilterra negli anni precedenti e sulle quali erano state sollevate varie critiche. I membri del comitato, tra cui due economisti (i professori A. K. Cairncross e R. S. Sayers), due banchieri, due sindacalisti, e due uomini d’affari, giunsero a conclusioni unanimemente condivise e controcorrente, dato che mettevano in discussione il principio che una banca centrale dovesse limitarsi esclusivamente a un controllo dell’offerta di moneta. Sulle conclusioni influirono le audizioni, i numerosi memoranda e, in particolare, il contributo di Lord Kahn. Cfr. Katz (1960). 11 Qu pp ea n e i art sto e u Q E ka o o -b r im roff is ea rtien Capitolo 10 ok a ppa IL PROBLEMA DELLE ORIGINI DELLA MONETA E-b o 10.1. L’inizio della fine della mitologia monetaria Que sto Gli scienziati annunceranno che i ragazzi sono soggetti ad un ciclo di diarrea-stitichezza dovuto, essi aggiungeranno, al tempo oppure ad alternative di ottimismo e di pessimismo fra i membri della famiglia. […] i parenti si divideranno nel partito del bismuto e nel partito dell’olio di ricino, uno dei quali, impressionato dagli orrori della diarrea, rinuncerà all’olio di ricino e l’altro, commosso dalla depressione della stitichezza, abiurerà il bismuto. (Keynes 1930, cap. 31) Abita nella banca che ci vizia in qualche luogo l’oro,| in familiarità con le migliaia. Ma quel cieco, il mendico,| anche al soldo di rame è come un luogo perso,| come sotto l’armadio l’angolo polveroso (Rilke 1990, Sonetti a Orfeo, XIX) Per il capitale privato ottocentesco […] valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno […] in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel […] Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale. (Kurz 1997, 76-7) Il Rapporto Radcliffe rappresentò per molti versi il culmine dei dibattiti monetari e delle inchieste parlamentari condotte in Inghilterra dall’inizio del XIX secolo, durante e dopo le guerre contro la Francia, ai quali avevano preso parte i maggiori economisti e pensatori dell’epoca, dando vita a una lunga e continua controversia sulla natura della moneta e sui modi per governarla e, attraverso di essa, anche sulle relazioni della moneta con prezzi, tassi d’interesse, debito pubblico e debito privato; in altri termini, da quei dibattiti, la politica monetaria emerge come lo strumento per un controllo del credito e delle forme di finanziamento dell’e- Parte II - Moneta e debito 236 conomia (vedi anche il cap. 13). Il Rapporto indicava nei crediti bancari, piuttosto che nei depositi a vista, la variabile cruciale per poter influire sulle spese, e dunque sul livello della domanda aggregata. In altri termini, la domanda di moneta, comunque la si voglia definire, con o senza forme di depositi a vista e a termine, viene individuata come soltanto una componente della liquidità complessiva presente nel sistema, una liquidità dipendente dai flussi di finanziamento, secondo i molteplici canali istituzionali messi in opera in ogni economia avanzata. Inoltre, veniva osservato che la facilità di convertire un’attività finanziaria in un’altra, per effetto di una crescente permeabilità e integrazione tra i mercati del credito e dei capitali, rendeva sempre più problematico affidare al controllo della moneta l’intera trasmissione della politica monetaria su tutta la gamma dei finanziamenti verso l’economia e influire sulla massa complessiva di attività che avevano un legame diretto con la spesa aggregata. Inoltre il ruolo principale della politica monetaria era individuato nella possibilità di intervento sulla struttura dei tassi d’interesse, per esercitare effetti concreti sulla domanda di beni capitali modificando la disponibilità di risorse liquide delle istituzioni finanziarie e degli operatori privati. Molte delle tesi del Rapporto erano state concepite dalla prima scuola di economisti keynesiani. Un influente contributo era venuto, fin dai primi anni ’50, da Robert V. Roosa, un economista che ricoprì alte cariche nella Federal Reserve e quella di sottosegretario al Tesoro sotto l’amministrazione Kennedy1. Un altro influente economista era Richard Sayers, membro tra l’altro del Comitato Radcliffe2. Le idee di fondo erano uno sviluppo di quelle del Treatise di Keynes, dove si afferma, appunto, che «il regolatore di tutto il sistema è il tasso di sconto» (Keynes 1930, cap. 31.1; nella trad. it.: 1979, II, 415) e che il credito è regolato «dalle necessità degli affari Un suo contributo importante di politica monetaria è il saggio di Roosa (1951). All’epoca in cui lo scrisse e lo firmò il suo cognome era Rosa, la scelta di aggiungervi una “o” era motivata dall’assonanza col cognome del mitico presidente della Grande depressione, F.D. Roosevelt. 2 Cfr., tra l’altro, il saggio di Sayers (1949). Secondo Cairncross, Sayers fu colui che scrisse in gran parte il Rapporto (Cairncross 1996, 51). 1 Q 10 - Il problema delle origini della moneta 237 da una parte, ma anche dallo stato delle loro riserve [di liquidità] dall’altra» (Keynes 1930, cap. 31.2; 1979, II, 420). Hicks, più di trent’anni dopo la pubblicazione dell’opera, invitò a rimetterla in circolazione, precisando che uno studioso aveva bisogno di accostarsi ad essa come a un libro scritto in lingua straniera (Hicks 1967b, 150). Keynes, nel capitolo 31 dedicato al problema della politica monetaria, opta per una posizione intermedia tra le due estreme, una definita dei “banchieri”, l’altra degli “eretici” monetari. I primi sono i guardiani dell’ortodossia e delle tradizioni, ossia difendono la posizione di una banca centrale relativamente impotente che non può creare moneta dal nulla né, soprattutto, a propria discrezione. Anche in un sistema senza convertibilità aurea o metallica, i vincoli nella creazione di moneta sono posti dalle riserve valutarie, sensibili alle posizioni verso l’estero dell’intera economia e al saldo della bilancia dei pagamenti. Gli “eretici” invece sostengono la tesi opposta, quella di una sovranità piena, che i banchieri centrali possono esercitare a discrezione, creando deflazioni e depressioni economiche, ma anche incoraggiando il finanziamento degli investimenti attraverso la concessione di credito alle banche e la fissazione del tasso di sconto; inoltre, anche rtiene painterveapcioè k o attraverso politiche cosiddette di “mercato aperto”, o b E to s acquisti e vendite di titoli del Quecon nendo sul mercato monetario debito pubblico a breve scadenza per influire così sul loro corso e, di conseguenza, sul loro rendimento effettivo. Per Keynes, la sovranità monetaria della banca centrale e della nazione è dunque una conquista che deve essere continuamente difesa, e, anzi, rafforzata: infatti, «la forza effettiva di una banca centrale dipende interamente, in pratica, dall’eccedenza delle sue riserve» (Keynes 1930 [1979], I, 456). Il mondo a cui Keynes si riferisce è quello delle interrelazioni tra Stati e fra economie nazionali. L’ordine internazionale, politico o monetario, non è concepito a partire da una comunità globale, universale a priori, di cittadini del mondo, bensì quella che si forma a partire dagli Stati nazionali, ognuno dei quali esercita la propria sovranità sullo spazio composito di lingua, territorio, ovvero una cittadinanza di tradizioni culturali e religiose, un ordine che ricalca quello creato, alle soglie della modernità politica, da Vestfalia in poi, dissolto solo dal neoliberalismo contemporaneo e dalla globalizzazione (sulle posizioni di a roffi Keynes e sul neoliberalismo v. 14.3). Non è, forse, del tutto fuori luogo accostare la lucidità con cui sia Keynes che Carl Schmitt vivevano le contraddizioni della propria epoca dopo la fine della Grande guerra e la ripresa di un’altra e più disastrosa guerra. Entrambi avevano guardato alle conseguenze rovinose del trattato di Versailles e vissuto quegli anni come testimoni del tramonto di un’epoca e della dissoluzione di un ordine europeo, del quale erano, in forme diverse, entrambi strenui difensori, e per il quale entrambi tentavano di proporre rimedi. Tuttavia, se per Keynes era ancora realistico rifondare e rimettere in piedi il sistema sulle medesime basi, per Schmitt, non restava invece che ripiegare su una denuncia amara di profondo pessimismo vedendone ormai distrutte le fondamenta giuridiche3. Tornando al Rapporto Radcliffe, è interessante ricordare come furono accolte le sue conclusioni, non del tutto consone a una visione tradizionale della moneta. Su di esse, intervennero a caldo due economisti, Nicholas Kaldor e John G. Gurley. Kaldor sferrò un attacco alla teoria quantitativa della moneta che era generalmente condivisa dai banchieri centrali, come uno dei postulati sino ad allora ritenuti «sacrosanti», specialmente dai monetaristi. L’altra critica la rivolse nei riguardi della tesi che le “istituzioni finanziarie non-monetarie”, a differenza delle banche di deposito, non avessero voce in capitolo nella “creazione” di moneta, ritenendo invece importante il loro ruolo nella «creazione di liquidità»4. Il contributo di Gurley uscì a pochi mesi di distanza, ma, diversamente da Kaldor, giudicava le conclusioni del Rapporto deboli e confuse, spesso esagerate, per quanto riconoscesse un certo coraggio nell’avanzare una «visione macrocosmica che il Rapporto dà del mondo della finanza [con la quale] mette a disagio molti teorici monetari e policymakers nel loro autoimposto esilio in un angolo angusto» (Gurley, 1960, 699700). La presa di distanza dal Rapporto da parte di Gurley è per molti versi singolare, se si considera che nello stesso anno uscì anche il suo libro Money in a theory of finance, scritto insieme a Su Schmitt si veda l’inquadramento storico in Haggenmacher (2017, 3-13). Kaldor (1960, 18 e 19). Sul Rapporto, Kaldor ritornava in alcune lezioni poi pubblicate; v. la versione italiana in Kaldor (1984). 3 4 E-boo Quest o Parte II - Moneta e debito 238 10 - Il problema delle origini della moneta 239 Edward S. Shaw, e nel quale si tenevano insieme una teoria della moneta e una teoria delle istituzioni bancarie e finanziarie nel loro complesso, proprio per render conto delle nuove condizioni ridisegnate da un sistema di fiat money5, in cui anche il ruolo delle banche cambiava sensibilmente rispetto a prima (Gurley e Shaw 1960). Secondo Gurley (1960, 700), il Rapporto poteva essere tuttavia giudicato un honorable failure. Onorevole – così scrive – nello stesso senso usato da Zarathustra quando ricordava il funambolo morto per esser stato distratto da un grido, anche se non può esserci colpa in colui che chiamandolo lo ha, di fatto, messo in pericolo, per quanto sia proprio quel grido a lasciare amarezza per quello che ha involontariamente causato. Gurley stesso si dichiarava deluso dall’impotenza e da quella che stimava una perdita di sovranità monetaria. Ma il contributo più interessante fu, forse, quello di John Hicks che, nel 1962, pubblicò il saggio dal titolo significativo di Liquidity (Hicks 1962). Hicks condusse un’attenta analisi filologica del seguente passo del Treatise di Keynes (che riportiamo in originale per scioglierne il senso attraverso i commenti di Hicks): «Bills and call loans are more liquid than investments, i.e., more certainly realisable at short notice without loss, and investments are more liquid Per fiat money si intende la moneta fiduciaria, cartacea o in pezzi metallici. Si basa sul principio che la moneta sia governata da una banca centrale (per questo si dice anche managed money). Le banconote fiduciarie emesse in un sistema di convertibilità aurea circolavano su basi fiduciarie e la fiducia era conferita dalla garanzia delle riserve della banca emittente. Se dichiarate, per legge, moneta “legale” non potevano essere rifiutate in pagamento, ma restava la possibilità di poterle convertire in metallo presentandole alla banca emittente. In casi eccezionali, come nelle crisi finanziarie, nei panici bancari o in caso di dichiarazione di guerra, il governo poteva accordare alla banca di emissione il corso forzoso. In quel caso i biglietti circolavano senza possibilità di essere convertiti in oro. Il corso forzoso permetteva alla banca d’emissione di intervenire come prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche in difficoltà concedendo loro credito, oppure fornire anticipazioni al Tesoro impegnato in spese straordinarie come quelle di difesa nazionale. Le monete attuali, specialmente dopo l’annuncio di Nixon del 1971 dell’abbandono del sistema di Bretton Woods (v. anche il par. 14.1), hanno seguito l’esempio del dollaro e sono divenute monete inconvertibili, da legali che erano già. Oggi, si può dire, vige un sistema di fiat money. 5 Q to ues p E- ka boo Parte II - Moneta e debito 240 than advances»6. La sua analisi comincia da quel “senza perdita” (without loss) per suggerire, al di là dell’implicita comparazione con altre attività, che anche un breve preavviso (short notice) non ha alcun effetto sul prezzo a cui l’attività finanziaria può essere venduta. Quell’attività è perciò un «marketable asset», cioè ha un alto grado di “commerciabilità”, perché ha mercati ben organizzati sui quali può essere negoziata (Hicks 1962, 790). La tempestività con cui l’operazione normalmente può essere portata a termine senza rischi di perdite di valore è fondamentale per qualificare la nozione di liquidità. L’interpretazione di Hicks tiene conto della nozione di preferenza per la liquidità keynesiana non solo come scelta tra moneta e titoli, bensì come disponibilità a sacrificare qualcosa in termini di valore medio al fine di ridurre la variabilità del valore atteso sull’intero portafoglio di attività detenuto (Hicks 1962, 792). La liquidità si riferisce alla valutazione di una “certezza” posta in relativa contrapposizione ad un’“aspettativa” e traccia una linea di confine mobile tra una gamma di attività assimilabili alla moneta e altre sulle quali, invece, permangono rischi di significative fluttuazioni di valore. Diversi anni dopo, Anna Schwartz sferrò un duro attacco all’impianto teorico del Rapporto. Il Rapporto demoliva la teoria quantitativa della moneta come strumento utile per la politica monetaria, perché le variazioni della moneta della banca centrale non erano né il principale né il più efficace strumento per influire sulle variazioni del reddito. Schwartz cercò perciò una difesa dei principi dal monetarismo, riaffermando la centralità del ruolo della moneta e della politica monetaria, ribadendo che solo l’offerta di moneta emessa dalla banca centrale costituiva il perno più efficace per il controllo del credito e per la stabilità finanziaria in un sistema di libere scelte decentrate. In definitiva il Rapporto avrebbe messo in serio pericolo proprio la libertà d’impresa attraverso principi che prefiguravano una regolazione amministrativa Ques to E-b ook a ppart iene a roffisi mone 6 «Cambiali e crediti a vista sono più liquidi degli investimenti in titoli, cioè certamente più facilmente realizzabili con breve preavviso e senza perdite, e gli investimenti in titoli più liquidi delle anticipazioni» (il passo così tradotto riprende, con alcune modifiche, quello in Keynes 1930 cap. 25, ii [1979, II, 312). Cfr. anche Hicks (1962, 789). .200 0 20 0 . on e 10 - Il problema delle origini della moneta 241 im ffis e discrezionale dell’economia tramite una gamma di meccanismi monetari e finanziari. Lo Stato, per raggiungere obiettivi di politica economica, avrebbe non solo messo a rischio l’autonomia della banca centrale ma anche quella dei consigli d’amministrazione delle banche e delle istituzioni finanziarie7. In ogni caso, il Rapporto Radcliffe segnava un punto di svolta nella stagione postbellica per la consapevolezza teorica e politica della necessità di trovare nuovi metodi e strumenti, al fine di esercitare una politica monetaria efficace in termini di controllo sulle dinamiche del credito e delle altre attività finanziarie; necessità più stringente ora che la moneta era uscita dai cardini tradizionali e la moneta fiduciaria poteva trovarsi sempre più disancorata dalla principale valuta di riferimento internazionale e, per tramite di questa, dall’oro. Va infatti ricordato che le indagini del comitato Radcliffe avvennero anche in contemporanea di importanti cambiamenti nei rapporti finanziari internazionali che vedevano la fiat money, la moneta inconvertibile e creata per atto sovrano, in balia di soggetti privati che contendevano, di fatto e di diritto, alle autorità politiche il principio e il fondamento stesso della sovranità; ciò accadeva sia attraverso la stessa creazione dei depositi da parte delle banche private, sia con l’avvio, verso la fine degli anni ’50, dello sviluppo dei mercati internazionali dei capitali, sfruttando l’abbondanza di dollari in circolazione fuori dagli Stati Uniti e dal controllo della banca centrale americana. L’espansione dei mercati finanziari internazionali coincise, all’incirca, con l’avvio ufficiale del sistema di parità valutarie stabilito con gli accordi di Bretton Woods. Nel 1958 i principali paesi europei adottarono la piena convertibilità delle proprie monete per l’insieme delle transazioni internazionali. Questo e rti en a ro a k bo o to ap p E- ue s Q 7 Schwartz (1987, 167-82). A pagina 175 Schwartz chiarisce le proprie motivazioni critiche al Rapporto Radcliffe e la propria posizione di difesa di un doppio canale di trasmissione degli impulsi monetari e di quelli finanziari: «L’analisi monetaria alternativa che è stata rimpiazzata dal Rapporto Radcliffe è basata sull’evidenza che un cambiamento nella quantità di moneta è seguito da cambiamenti sia nei prezzi che nella produzione. I cambiamenti dei prezzi sono un canale di aggiustamento della quantità reale della moneta al cambiamento nella quantità nominale. Altri canali riguardano i cambiamenti del tasso di interesse e i cambiamenti nel prodotto reale». isim one .20 00@ gm ail. 242 Parte II - Moneta e debito Qu est oE -bo ok app arti ene a roff evento si intrecciò ad un altro, meno eclatante, che finì però per rendere più difficile garantire la convertibilità secondo i criteri del sistema di Bretton Woods, in base ai quali la stabilità delle parità da parte delle autorità monetarie nazionali dipendeva dalle possibilità che queste avevano nell’esercitare controlli efficaci sui movimenti di capitali a breve scadenza verso l’estero. L’evento in questione consisteva in alcune innovazioni finanziarie, riguardanti le grandi banche e i mercati internazionali dei capitali, promotrici di una lenta azione corrosiva sulle politiche monetarie in grado di controllare la liquidità monetaria nazionale e internazionale. Tutto dipese dal fatto che il sistema di Bretton Woods conferiva agli Stati Uniti la possibilità di emettere la sola valuta di riserva monetaria internazionale, col solo vincolo – reso molto teorico in periodo di “guerra fredda” – che i paesi nei quali erano affluiti i dollari avrebbero potuto richiedere alla Federal Reserve la loro conversione in oro. Le cose cambiarono soprattutto dopo l’invasione dell’Ungheria nel 1956, quando le autorità sovietiche, temendo un embargo e un congelamento dei propri fondi in dollari, decisero di spostarli su banche commerciali della City di Londra e su altre banche europee, francesi in particolare, attraverso una banca a tutti gli effetti inglese ma sotto il controllo diretto del principale paese comunista. In questo modo era aggirato ogni pericolo di confisca o congelamento: le autorità monetarie americane non potevano interferire su banche europee che detenevano dollari, da allora detti eurodollari, e tali banche potevano prestarli e riceverli in deposito a condizioni sulle quali nemmeno le banche centrali europee avevano dominio8. 8 Eichengreen (2008, 132). Fu l’Economist a dar conto del nuovo fenomeno finanziario nel luglio del 1959; il Rapporto Radcliffe ne fece menzione ma senza usare la parola di eurodollari per le banche londinesi, che per depositi di grosso taglio offrivano un tasso d’interesse tra il 3 e il 3,25% e concedevano prestiti al 4%, estremamente competitivi rispetto a quelli concessi dalle banche americane obbligate, in patria, a rispettare i limiti posti dai Banking Acts del 1933 e del 1935 sui tassi d’interesse che le banche potevano corrispondere sui depositi a vista e a tempo, nonché vincoli di riserva obbligatoria sui depositi; v. Higonnet (1985, 29-30); Swoboda (1968, 32). L’espansione del mercato degli eurodollari era tale che, a nemmeno di dieci anni di distanza, il volume di depositi così denominati e il loro giro d’affari erano stimati un multiplo dei mercati tradizionali sulla sola piazza londinese, Einzig (1971, 135). 10 - Il problema delle origini della moneta 243 gmail.com @ imone.2000 ene a roffis ook apparti Questo E-b Era il “piede di porco” per scardinare i mercati monetari nazionali e aprire un varco sempre più ampio per operazioni bancarie e finanziarie transnazionali. Quindi, le innovazioni finanziarie in questione furono, almeno in principio, la conseguenza della guerra fredda. Alcune banche internazionali promossero un’innovazione che negli anni seguenti fu la base del cosiddetto mercato degli eurodollari e, nei decenni successivi, degli odierni mercati internazionali dei capitali. Le sedi all’estero di grandi banche americane e le grandi istituzioni di credito europee, accettando depositi in dollari e concedendo prestiti nella stessa valuta, si tenevano fuori da ogni controllo sull’espansione delle loro attività da parte delle banche centrali, dato che nessuna di queste poteva esigere vincoli di riserva obbligatoria in eurodollari o in eurovalute. Le multinazionali erano le principali società a beneficiare di tali operazioni, con il plauso dei governi e di enti pubblici che vedevano un’opportunità in più per accedere a emissioni di titoli a condizioni inizialmente più vantaggiose rispetto alle emissioni sull’interno, derogando così ai vincoli di cambio e di riserve valutarie. Tuttavia, va però segnalato che, se il comportamento sovietico dettato dalla guerra fredda fu l’innesco, la spinta fondamentale allo sviluppo delle transazioni sui mercati delle eurovalute venne comunque dalle multinazionali e dalle grandi banche, che non tardarono a profittare delle opportunità che si aprivano. La conseguenza fu la crescita di una struttura finanziaria del tutto fuori da ogni controllo da parte di autorità monetarie e di politiche monetarie nazionali. L’offerta di moneta a livello mondiale cominciava ad essere indipendente dalle politiche nazionali e dallo stesso regime di cambi fissi di Bretton Woods, governato sulla base delle relative autonomie delle sovranità nazionali. Nel contempo anche le politiche monetarie nazionali perdevano il pieno controllo sull’offerta di moneta interna a causa della maggior libertà e flessibilità delle banche nazionali aperte verso l’estero (Arrighi 2010, 310). Andrew Walter ha visto nella crescita rapida ed esponenziale degli euromercati il seme originario della «rivoluzione finanziaria globale»: essa ricevette una spinta, dopo la fine di Bretton Woods, dalla volatilità dei cambi, dagli alti tassi reali d’interesse, dalle innovazioni finanziarie della securitization, dalla crescente liquidità sui mercati finanziari interna- 244 Parte II - Moneta e debito zionali generata anche dall’ampliarsi dei deficit delle bilance dei pagamenti e dall’innalzamento dei debiti pubblici, e, poi, furono le liberalizzazioni, dopo gli anni 1980, a decretare pienamente il successo di un nuovo ordine monetario e finanziario internazionale (Walter 1991, 200-8). Le trasformazioni del mondo monetario, divenute sempre più imponenti con la rilevanza acquisita dai movimenti internazionali dei capitali e dalle innovazioni finanziarie conseguenti ad essi, richiedevano una comprensione che andasse aldilà della visione tradizionale della moneta. Qu es t 10.2. L’antico problema della sovranità sullaomoneta E -bo ok Una delle cose principali che la teoria monetaria dovrebbe spiegare è l’evoluzione della moneta. (Hicks 1971, 8) ap pa rtie non esiste alcun altro caso in cui il titolo che dà diritto a una cosa può, entro certi limiti, servire come la cosa stessa: non si può cavalcare il titolo che dà diritto a un cavallo, ma si può pagare con il titolo che dà diritto a una somma di denaro. (Schumpeter 1954 [1990, 392]) il sovrano sta fuori dell’ordine giuridico normalmente valido e, tuttavia, appartiene ad esso, perché è responsabile per la decisione se la costituzione possa essere sospesa in toto. (Schmitt 1922, 13) Da più di due secoli a questa parte si era formato una sorta di prisma deformante attraverso il quale guardare la moneta, i fenomeni monetari e la loro stessa evoluzione; ne risultava una visione deformata rispetto a ciò che la moneta moderna era in realtà divenuta, e in più si generava l’illusoria supposizione che essa continuasse a rimanere per lungo tempo in quell’involucro particolare che la visione deformata non cessava erroneamente di mostrare. La moneta fiduciaria, che dopo la seconda guerra mondiale perdeva e dissolveva le ultime vestigia del suo precedente stile, dava la possibilità di riconsiderare la vera natura della moneta, ora che era passato quel periodo di tempo relativamente limitato in cui, in forza di regole e restrizioni, era circolata come moneta-merce, rappresentativa di quantità d’oro, sempre convertibile in metallo lucente e prezioso. L’abbandono della lente deformante non era, ne ar of 10 - Il problema delle origini della moneta 245 per i moderni, né facile né scontato perché, in quel caso, erano piuttosto loro che dovevano fare una rivoluzione copernicana alla rovescia, ristabilendo la vera natura originaria della moneta, con un nuovo cannocchiale capace di rimettere a fuoco una prospettiva per essi troppo lontana nel tempo. La moneta modernamente intesa trovava espressione compiuta specialmente dopo la Rivoluzione francese, quando culminò quel percorso di ricerca di una base oggettiva e scientifica attraverso un sistema unico di pesi e di misure, un sistema “razionale” nel quale includere la moneta stessa come conio in metallo prezioso9. Stabilire nuove misure era sì un principio di razionalizzazione, ma anche un modo per affermare e riconoscere il nuovo potere rivoluzionario, che forniva così la propria bilancia di giustizia per dirimere in partenza incomprensioni e controversie, secondo il principio di una misura invariante, non ingannevole. Era un tentativo di uscire, con i lumi della ragione, dalla babele di monete, che era fonte di disordini, inganni, approssimazioni per instaurare un sistema dei pagamenti equo ed efficiente. La moneta era parte integrante della riforma dei pesi e delle misure di cui i cahiers de doléances del 1789 invocavano l’unificazione, dopo gli insuccessi dei ministri delle finanze Turgot e Necker. Era il segno tangibile di tempi nuovi secondo il principio «un roi, une loi, un poids et une mesure», divenuto uno degli slogan della Rivoluzione10. La fiducia doveva però trovare un’arcaica certezza in un sistema monetario rifondato sulla concretezza splendente di un metallo solare e, al più, di uno lunare11. L’oro era come la luce della caverna platonica, che 9 Un primo decreto di un sistema uniforme di pesi e misure fu emanato dalla Convenzione Nazionale il 1 agosto 1793 a conclusione di lavori avviati nel 1790 dall’Assemblea costituente, per iniziativa di Talleyrand, e proposta di Condorcet, riprendendo il “metro” di Tito Livio Burattini del 1675 e di John Wilkins del 1668 (Moreau 1975, 21-2). 10 Witold Kula (1987, 17) sottolinea il fatto che le misure sono «attributo di potere» e che l’unificazione delle misure fu un processo lungo e complesso in cui, secondo l’avvocato parigino Jacquet, i sabotatori dei tentativi regi di procedere all’unificazione erano gli stessi mercanti per «malizia» e avidità (idem, 190). 11 Cfr. il bel libro di Bernstein (2004). Bernstein ricorda come l’oro fu per gli ebrei il mezzo della loro liberazione dall’Egitto, come, nella disperazione del deserto, fecero dell’oro il segno della loro temporanea divinità e, infine, come, una volta giunti nella Terra promessa, resero ancora l’oro oggetto di accumulazione Que sto E -boo k ap 246 Parte II - Moneta e debito rende intelligibili le ombre del mondo delle merci, le quali trovano così la loro giusta misura. Arnaud Manas ha spiegato come, per caratteristiche fisico-chimiche, le monete coniate in oro sono di difficile contraffazione per la loro facile riconoscibilità, appunto, come “oro sonante”12. La moneta degli Stati nazionali era stata voluta, e parzialmente realizzata, prima ancora che per la sua funzione di circolante, per la sua funzione di bene che realizzasse un ideale di numerario, di misura di valore quasi invariante, merce “superiore” ed estranea (“esterna” per gli economisti Gurley e Shaw) alle altre merci, come un dio mercuriale capace di intervenire per risolvere le difficili negoziazioni mercantili e, al tempo stesso, uscirne per mostrarsi arbitro indifferente ai piccoli attriti risolvibili contrattualmente. Per adempiere al compito così arduo di stare nel contempo “dentro” e “fuori” dal mondo delle merci, occorreva comunque agganciare la moneta in qualche modo a un metallo nobile, per tenerla con i piedi per terra, saldamente stabilizzata, senza perdersi nell’astrazione da cui proveniva. Un tale equilibrismo era stato avviato dopo la formazione degli Stati nazionali, i quali avevano reclamato la propria sovranità sulla moneta ancora prima che sul territorio. Ciò aveva, da una parte, dato sicurezza alle “monete” private, deboli perché da sempre fiduciarie. Infatti, in tal modo le cambiali, e tutta la rete di operazioni di credito e debito che intesseva gli scambi commerciali, trovavano un rifugio di valore a garanzia statale. Dall’altra parte, però, la prerogativa sovrana dello Stato sulla moneta era sì acclamata dal mondo mercantile e bancario ma ad una condizione: che si estendesse al dominio monetario lo stesso limite posto nel dominio politico alla monarchia con la costituzione, e cioè a condizione di defiscalizzare l’uso delle monete in conio che servivano per la massa di piccoli pagamenti. (p. 14); per gli egiziani Horus dorato era segno della luce di dio (p. 18); nella Lidia Cibele era la dea delle montagne e custode delle miniere e dei metalli (p. 33); per i greci l’oro rendeva degni di fede le cose inanimate, e Fidia rivestì di un mantello dorato la dea Atena (p. 46). V. anche Rossi (2018). 12 Manas (2015). Mentre invece è del tutto un’invenzione hollywoodiana, ripresa dall’Isola del tesoro nella sua trasposizione cinematografica, quella del riconoscimento dell’autenticità delle monete d’oro mediante il morso; v. Manas (2018). Ques to E- book appa rtie 10 - Il problema delle origini della moneta 247 Infatti, fino ad allora, esse erano sottoposte anche all’arbitrio dei principi, che potevano alterare le equivalenze in metalli preziosi in modo da indurre una doppia illusione, monetaria e fiscale, in chi le usava e deteneva, purché le alterazioni, messe in atto dai principi, fossero fatte con una certa astuzia, discernimento e tatto, per non suscitare allarme, turbare la confidenza e ritardare la presa di coscienza dell’avvenuta alterazione. Dunque il “patto” costitutivo della nuova sovranità monetaria doveva servire a dar certezza nel saldare, in ultima istanza, le pendenze finanziarie, per poterle liquidare senza necessariamente dover rinnovare le posizioni, oppure, peggio, entrare nelle strettoie rischiose, soprattutto per i creditori, di esecuzioni fallimentari nei confronti dei debitori. Evitare i pericoli insiti nel dominio monetario dello Stato era possibile, perché a gestire la moneta di Stato era una banca, una banca privata con privilegio di emettere, nel XVIII e XIX secolo e per quasi metà del XX, una moneta anch’essa privata, per quanto sotto l’egida di uno Stato nazionale. Le monete di Stato erano poi le specie in conio, in tagli esigui, per servire nei piccoli pagamenti, mentre la moneta della banca d’emissione privata – per nazionalizzarla occorrerà generalmente attendere la fine della seconda guerra mondiale – era fiduciaria, in tagli elevati, con obbligo di convertibilità in metallo, secondo una gestione a riserva frazionaria (cioè un limite massimo di emissione generalmente calcolato su un quoziente di riserva metallica). L’architettura che si veniva così ad erigere dava alla banca facoltà di concedere allo Stato crediti in forma di anticipazioni a tassi d’interesse di favore e crediti a operatori commerciali e bancari, più o meno alle stesse condizioni. La banca d’emissione imponeva, col tempo, il suo ruolo di vera banca centrale, a condizione di essere in grado di proporre alle altre banche servizi in qualche modo “assicurativi”, sia come prestatore di ultima istanza (cioè quando nessun altro operatore trovava conveniente fare credito), sia perché serviva da banca delle banche quando queste ultime trovarono conveniente depositarvi le proprie eccedenze di liquidità. In questo modo, un sistema così concepito dava alla banca centrale un doppio controllo potenziale, indiretto, sia sul debito dei privati che su quello dello Stato. Un potere enorme, quindi, per la banca centrale: quello sul credito-debito di una intera società, sia nella sfera privata e ne p ar ti k b o o to Q ue s E- ap a 2 ne . o ro f fi si m Parte II - Moneta e debito 248 che pubblica. Enorme, poiché sappiamo che il credito-debito è dai tempi arcaici il fondamento (sacro) della società medesima e della sua evoluzione economica. La moneta così riformata aveva di fatto un doppio livello di circolazione: quello delle monete divisionarie, in conio a pieno titolo metallico, e quello delle monete fiduciarie, convertibili in barre di metallo o in specie, se si considera che anche le banche avevano un obbligo di convertibilità dei loro depositi a vista, generalmente in carta (convertibile) della banca centrale. Le monete in conio conoscevano un’innovazione istituzionale importante con il marchio di valore impresso su una faccia, in modo da sigillare ogni surrettizia politica di alterazione monetaria, operata dai sovrani con intenti fiscali sia in epoca medievale che moderna. Il nuovo marchio che incideva sulla moneta il proprio nome e il proprio valore, corrispondente a quanto stabilito nella legge monetaria, diventava il sigillo più rilevante e innovativo: andava a sormontare i due tradizionali, che erano sul recto, o “testa”, l’effige del sovrano, e sul verso, o “croce”, in cui, di solito, cominciava a trovare spazio, tra i simboli delle armi materiali e spirituali, il marchio del valore facciale della moneta13. L’impronta col valore nominale forniva l’immediata informazione del corrispettivo importo di imposte e tasse che quella moneta poteva pagare e, inoltre, ora il nome della moneta era espresso appunto in unità di conto ufficiali, e non più in denominazioni del conio, ad es. ducati, fiorini, grossi, ecc. i cui conti si rapportavano, dopo la riforma carolingia in Europa, alla moneta ok Que st o E -bo Le molte mostre e rassegne di monete coniate nel corso del tempo sembrano sorvolare questo cambiamento silenziosamente rivoluzionario, che ha il punto di svolta più evidente, come sopra detto, nella riforma monetaria e dei pesi e delle misure attuata durante gli anni del Terrore della Rivoluzione francese, cambiamenti che non tarderanno a diffondersi nel resto d’Europa, sebbene anche con sporadici tentativi di ritorno all’antico regime delle monetazioni negli anni immediatamente successivi alla Restaurazione. Ciò è evidente scorrendo le immagini del catalogo della mostra sulle monete metalliche antiche e moderne organizzata dalla Banca d’Italia nel 2003 (in Balbi de Caro 2003, 169-82 per le monete coniate sotto Gioacchino Murat e con il ritorno dei Borbone). Per un altro esempio si veda il catalogo di una mostra del 1997 organizzata dal British Museum in Williams (1997). 13 10 - Il problema delle origini della moneta 249 ene a r offisim one.20 00@gm ail.com immaginaria “lira”, “livre”, “pound” e altra denominazione che la moneta di conto assumeva secondo le varie lingue nazionali14. Con la punzonatura del valore facciale sulle monete si compie la riunificazione delle monete in conio con gli altri strumenti monetari in circolazione, come i biglietti di banca o le cambiali, sui quali l’iscrizione di unità di moneta di conto era imprescindibile. Grierson afferma che «[o]ggi le monete, per dirla con le parole di un economista moderno, sono essenzialmente delle banconote stampate su metallo: il loro valore nominale è conferito dagli Stati ed è abbastanza scollegato da quello del loro contenuto metallico» (Grierson 1984, 62)15. Circa l’origine delle iscrizioni del valore nominale impresse sui conii, Grierson (1984, 118) nota che solo dall’epoca moderna, affinché «fossero intese da tutti», si diffonde in maniera lenta e irregolare l’uso di iscrizioni precise, ma quelle a cui fa espressamente riferimento, come i grossi pragenses e i burgensis fortis di Luigi IV di Francia, hanno impresso soltanto il Si ricordi quel che comportava inventariare una cassa di monete anche soltanto in termini di identificazione delle denominazioni. Una classica descrizione è ne L’isola del tesoro (cap. 34): «Era una curiosa collezione, simile a quella di Billy Bones, per la varietà dei conii, ma talmente più ricca e abbondante che io provai un immenso piacere ad assortirli. Monete inglesi, francesi, spagnole, portoghesi; giorgi e luigi, dobloni e doppie ghinee, moidori e zecchini con le effigie di tutti i re d’Europa degli ultimi cent’anni; bizzarri pezzi orientali impressi di segni che somigliavano a fili di cordicelle o brani di tele di ragno; pezzi rotondi e pezzi quadri e pezzi forati nel mezzo, quasi medaglie da portare al collo: tutte le varietà di monete del mondo figuravano, credo, in quella raccolta; e quanto al loro numero penso che uguagliassero le foglie dell’autunno». Altro classico è il conteggio finale di un altro tesoro in Lo scarabeo d’oro di E.A. Poe: «La cassa era stata riempita fino all’orlo e passammo tutta la giornata e gran parte della notte seguente a fare l’inventario del contenuto. Non vi era ordine né metodo, tutto di tutto vi era stato ammassato alla rinfusa. Dopo aver catalogato tutto con cura, ci trovammo in possesso di una fortuna che superava ogni ipotesi precedentemente fatta. Si trattava di 450.000 dollari in monete, secondo i valori monetari dell’epoca. Nessun pezzo d’argento: tutto era d’oro di vecchia data e di vario tipo: monete francesi, spagnole e tedesche, ghinee inglesi e monete di origine a noi sconosciuta. Vari pezzi erano grosse monete, molto pesanti, ma così consumate che ci fu impossibile decifrarne le iscrizioni. Nessuna moneta era americana». 15 Con alcune differenze nella traduzione, v. Grierson (1975, 37-8). Sull’importante figura di Grierson, come studioso di numismatica e di storia della moneta, v. Travaini (2006). Questo E-book apparti 14 Questo E-book appartiene a roffisimo 250 Parte II - Moneta e debito nome della moneta e non il valore nominale16. La questione, che qui interessa espressamente, dell’entrata in vigore, non solo in uso, dell’impressione del valore nominale non pare aver attirato molto l’attenzione degli storici numismatici. Nell’antichità, Agostino è attento alle iscrizioni sul valore reale o nominale delle monete, ma la sua attenzione è rivolta a una questione di legittimità di monete non emesse dall’autorità riconosciuta e da soggetti che abusavano del nome del sovrano legittimo (Radici Colace 2007, 21-2). In quel caso la probatio, cioè un esame puramente formale di conformità, dipendeva dall’aderenza della moneta in conio a quanto prescritto nella legge monetaria. In altri termini, la moneta circolava in nome di un’autorità. La probatio era, peraltro, un termine teologico col quale si indicava che il battesimo, quando somministrato da laici, profani e addirittura infedeli, purché avvenuto in nome dell’autorità – secondo il rito dell’infusione e della formula trinitaria – non necessitava di essere ripetuto (rebaptismum), dunque, per analogia, nel caso della moneta, indicava che essa non necessitava di riconio. Un caso, non isolato, questo di aderenza delle pratiche monetarie a concetti teologici e prassi liturgiche. Travaini (2007, 32, 36, 54) mette in rilievo l’importanza della bellezza del conio e della leggibilità su entrambe le facce delle legende, principalmente, per i segni dell’autorità. Erano queste le iscrizioni che dovevano essere ben leggibili e riconoscibili per l’autenticità dell’emittente e del conio. Il valore della moneta era accertabile tramite le prassi, le leggi, e vari altri segni oggettivi, come mostra gran parte della pittura e iconografia d’epoca moderna, olandese e nordeuropea. A tal proposito, nel celebre quadro di Quentin Metsys, Il banchiere (o il cambiavalute) e sua moglie del 1514, il banchiere ivi rappresentato identifica, conta e pesa monete di vari paesi, in vari metalli, di conii recenti o di molti anni addietro (Revel 1995, 35 e passim). Nell’incisione di Dürer, Melancholia I, dello stesso anno, – già commentata nella parte I par. 4.3 – l’angelo è disorientato in un caotico assortimento di oggetti regolari o meno, senza unità di L’altro riferimento che si trova in Grierson (1984) riguardo alle iscrizioni è a p. 139 dove si legge: «Per quanto riguarda le monete moderne è consuetudine dare priorità sugli anni ai [valori] nominali», senza che riscontri regolarità nelle serie delle emissioni, né, dunque, nei tempi. 16 251 misura universale e immerso in uno scorrimento di tempi disarmonici. Entrambi esprimono un’epoca di mancanza di punti fermi, assoluti. Fanno quasi parte di una stessa denuncia, non solo metafisica, ma anche molto concreta. Metsys inaugurò una raffigurazione di genere, di coppie intente alla stessa o analoga occupazione, nel chiuso della loro stanza, quasi in una loro intimità domestica, se non fosse per lo specchio convesso che riflette una terza persona che assiste e osserva la scena. Anche quella di Metsys è la denuncia da parte di un orgoglio borghese nei confronti del disordine monetario del tempo, attribuito ai principi che confondono, scompaginano le emissioni, imbrogliano pesi e misure, mettendo in circolazione specie monetarie difficili da identificare, con impronte non rispondenti spesso al vero. Ma qui il mercante propone la via da seguire. Egli non accetta le monete in base al loro valore legale stabilito dalle leggi dei principi, ma previa verifica del valore intrinseco, del peso effettivo della moneta. Si tratta di una misura “naturale”: l’inequivocabile segno di equità è la bilancina da orefice, ma anche il libro delle ore, evocazione di un mondo spirituale e cristiano, sfogliato dalla moglie mentre osserva i denari17. Il libro di devozione fa da giustificazione morale: la lealtà e correttezza nel mondo degli affari è premiata anche nel mondo dell’aldilà. L’immagine sacra, sulla pagina del libro aperto, porta la scritta: «statura justa et aequa sint pondere», dal passo: «abbiate una bilancia giusta, pesi giusti» (Lv 19, 36). Simbologie sacre rinviano alla sacralità dello scambio, che la triade di persone che stanno nel quadro confermerebbe, e soprattutto alla soluzione di avvalersi di valori di scambio che non fanno riferimento alle tariffe monetarie di principi e sovrani, bensì ai valori “naturali” contrattualmente, e pacificamente, stabiliti18. Il riferi- st e u o E- ok o b a a pp r ne it e a f ro fi m si o . ne 2 0 00 @ a m g c il. o 10 - Il problema delle origini della moneta Q 17 Una delle monete disposte sul tavolo, con l’aquila d’oro ad ali spiegate è un augustale di Federico II; sulla cui mistica cfr. Kantorowicz (1957, 507) e sulla moneta la voce di Lucia Travaini in Federico II. Enciclopedia fridericiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2005. 18 Col termine di “tariffa monetaria” si intende qui riprendere il lessico con cui le leggi monetarie stabilivano il prezzo (ufficiale, o nominale) delle monete d’oro e d’argento coniate nel regno e negli Stati esteri. I manuali di mercatura davano anche l’indicazione del peso in grani di fino secondo le indicazioni di zecca o dei saggi per le monete in circolazione. La “tariffa” è descritta da Beccaria (1770, Parte II - Moneta e debito 252 mento al peso e al valore del metallo monetato è la posizione che anche i trattatisti dei secoli successivi difendono nella polemica contro l’auctoritas delle tariffe. La legittimità delle medesime viene posta in dubbio. La legge che non dà più una protezione non merita obbedienza. I mercanti sono i primi, in materia monetaria, a disobbedire. E un banchiere del papa, Girolamo Belloni (1757), è solo uno degli ultimi a svelare la natura della moneta immaginaria, primo a chiamare con questo nome la moneta di conto nei rapporti con le relative monete metalliche19. La politica di rigore monetario che Salvioli (1889, 59-60) attribuisce al papato fin dal medioevo, con la stessa distribuzione di regalie a città e signori, pare giustificata dal fatto che la Chiesa era uno dei principali, se non il principale, centro di afflusso di specie monetarie metalliche di ogni genere attraverso l’obolo di San Pietro, quindi una delle ragioni, piuttosto venali, per difendere il principio di un diritto naturale contro gli arbitrii dei principi della terra. Riguardo alle vecchie monete a pieno titolo, il detentore poteva “convertirle” in moneta del proprio paese, cioè portarle alla zecca per fonderle e col metallo prezioso contenuto farsi coniare monete spendibili più facilmente in patria (con qualche spesa e diritto di zecca da pagare). La moneta cartacea aveva, come le cambiali, solo l’impegno, fino al 1914 e, in minor misura fino al 1931, di convertirsi a vista e al portatore nel corrispondente valore di metallo, secondo il prezzo fissato dalla legge monetaria che, giuridicamente, regolava tutto il sistema dei pagamenti fissando il valore dell’oro, e/o dell’argento, in moneta di conto. La banca centrale divenne, in qualche modo, una sorta di tempio di giurisdizione, garante dell’equità del valore stampato sulla carta che veniva, fiduciariamente o legalmente, messa in circolazione, con la clausola di convertibilità immediata in equivalenti monete in conio o in barre del metallo monetario, di cui la banconota si presentava come rappresentazione e comoda sostituzione. to Que s ka E-b oo 400 [parte I]) dove appare, in materia monetaria, un provvedimento analogo a quello delle “grida” in Manzoni. 19 Sulla questione si rinvia alla versione teorica di Einaudi (1936), discussa, in riferimento alla storiografia più recente, da Lane (1984). La tesi di Einaudi è ripresa recentemente in un interessante saggio di Kregel (2019). e ar ti p 10 - Il problema delle origini della moneta 253 k bo o Ora tutta questa imponente costruzione, quasi metafisica, aveva i suoi teologi negli economisti che promuovevano il credo (del tutto simile a quello del simbolo niceno costantinopolitano) in un’unica unità di valore onnipotente, creatrice di valore in coeli et terrae, che acquista ogni cosa tangibile e intangibile, da ora e per sempre. Come un credo religioso, quello monetario è stato così resistente che si è dissolto solo gradualmente con il disancoraggio della moneta dal metallo. Solo a quel punto sono emersi i dubbi. Alcuni tradizionalisti pensarono che occorresse fare come se nulla fosse successo, cioè che si potesse fare a meno dell’oro purché lo si sostituisse con un oro immaginario e si governasse la moneta in modo da continuare a renderla “neutra” e protetta da interferenze fiscali, vale a dire protetta contro la possibilità di creazione di moneta per finanziare il Tesoro pubblico e la dipendenza da una superiore sovranità statale. Il radicalismo anarco-liberista di Hayek giunse nel 1976 alla proposta estrema di privatizzare la moneta, ossia dare a ciascuno la possibilità di emettere la propria moneta; di fatto la moneta non era più moneta ma ritornava così a essere molto più simile alla vecchia lettera di cambio: la moneta dei mercanti del medioevo (v. Hayek 1976). Il futuro monetario, per Hayek, stava alle nostre spalle. La “denazionalizzazione” della moneta era una completa privatizzazione di un bene pubblico: la stabilità monetaria, come quella della certificazione dei pesi e misure, erano funzioni che potevano essere lasciate alle trattative private. Di fatto e di diritto, la moneta non era altro che un debito di privati che circolava tra privati, nulla di più, nulla di meno. Così la fiducia pura sarebbe stata restituita al “popolo” sovrano, ma di fatto si sarebbe ceduto la sovranità ai clan-imprese e clan-banche che facevano da capi tribali di quel popolo non protetto da altri diritti, se non quelli della nuda proprietà e della nuda libertà contrattuale senza freni. L’utopia metallista di avere una circolazione monetaria formata di sole monete d’oro o d’argento, o al più a convertibilità metallica, parzialmente realizzata fino alla Grande guerra, risaliva al patto postvestfaliano di fornire a quello Stato moderno, espressione di unità di popolo, territorio e religione, anche un’unità di e sovranità su una moneta solida e stabile. Ciò presupponeva la quadratura del cerchio perché, da un lato, non poteva essere sottratto allo Stato un to Q ue s E- ap 254 Parte II - Moneta e debito potere sovrano sulla moneta, ma, dall’altro, occorreva che lo Stato moderno non utilizzasse più la moneta a fini fiscali, con deprezzamenti di valore e inflazione dei prezzi, per finanziare guerre e spese straordinarie. Di quella quadratura si fecero principali promotori e artefici Locke e Newton, con l’intento di limitare il potere politico sulla creazione di moneta e di renderla un’effettiva misura di valore, una bilancia negli equilibri delle transazioni private e pubbliche, una garanzia fondamentale nei rapporti di credito e debito. Il mezzo utilizzato fu riformare la moneta e coniare buone monete a pieno titolo aureo (o argenteo). Di fatto la sovranità fu almeno parzialmente detronizzata nel suo potere di creazione monetaria, poiché la moneta nazionale in specie coniate o in carta convertibile doveva mantenere una parità permanente con un certo peso d’oro (e d’argento)20. La conseguenza era quella suddetta: la moneta splendente di riflessi aurei (e argentei), dopo l’epoca dei lumi creava un effetto ottico di distorsione che si riverberava sull’intera storia monetaria precedente (e di quella successiva, dopo la metà del XX secolo) e cioè introduceva una distorsione da trompe-l’oeil, nel senso che la “vera” moneta si reputava fosse quella con il più limitato grado di potere sovrano. L’operazione di Locke e Newton mirava a ridurre o abolire il potere di signoraggio del sovrano, cioè quello che essi consideravano un’usurpazione di potere, consistente nell’attribuire alle monete un valore legale superiore al valore effettivo corrispondente a quello del metallo in esse contenuto21. 20 Chissà che quando Isaac Newton, da maestro della Zecca, nel 1717 fissò il prezzo ufficiale dell’oro a 3.17.10 e ½ sterline, cioè a tre pound, 17 scellini e 10,5 penny, per 9 once troy di fino, egli non abbia dedotto quel valore da un complesso calcolo astrologico, più aggiornato di quelli che Laum, per il rapporto tra oro e argento nell’antichità (mantenutosi, secondo Laum, sorprendentemente stabile dall’antichità fino all’era moderna ad un rapporto 1:13,5), riteneva da riferirsi ai cicli astronomici tra sole e luna? Sul rapporto mistico della moneta con i cicli degli astri si rinvia a Brown (1986, 310); per le scelte tecniche di Newton alla Zecca reale a Belenkiy (2013). Il valore stabilito nel 1717 per l’oro rimase in vigore fino al 1931, quando la sterlina abbandonò definitivamente il gold standard (Kindleberger 1987, 83). 21 Locke aveva chiaro il concetto di cosa si debba intendere per moneta. Nella versione a cura di Francesco Pagnini e Angelo Tavanti dei trattati sull’interesse e sulla moneta si legge: «Il Coniare l’Argento, o far d’esso Moneta, non è altro che assicurare gli Uomini, che debbon riceverlo, della di lui Quantità, mediante un contrassegno pubblico, a fine di renderlo per un tal mezzo maggiormente comodo per 10 - Il problema delle origini della moneta 255 Sorgeva allora una visione mitizzata della natura della moneta, di una moneta-merce, che gli studi antropologici per primi hanno contribuito a demolire. Ma era soprattutto Marcel Mauss – come già accennato in precedenza – a rompere finalmente l’incantesimo in un saggio, che non riguardava direttamente la moneta e la sua origine, e ciò giustifica, almeno in parte, perché le sue riflessioni critiche non abbiano avuto molta risonanza, né la dovuta attenzione da parte degli studiosi di cose monetarie22. Questo E -book ap 10.3. Libera nos a debitis il debito lasciato alle spalle, e il pensiero spaventoso della colpa che non hanno la forza di sopportare, è allora che bisogna procurarsi un capro espiatorio e metterlo a morte! (Strindberg 1978, 113) Non prendere e non dare a prestito del denaro, perché spesso ci si perde e il prestito e l’amico. (Shakespeare, Amleto, I, iii, 75) Chi promette in debito si mette. (Selene 2004) il Commercio» (Locke 1751, II, 8), che più oltre precisa: «dunque l’Argento è l’unica cosa che si ricerca nelle Monete, e meglio servirebbe di misura del Commercio se fusse puro e senza mistura di più bassi Metalli» (idem, 10). La questione viene ribadita più avanti: «il fine, e l’uso della pubblica impronta si è d’accertare gli Uomini della Quantità d’Argento contenuta nella Moneta, che essi contrattano e che il grave torto, che per lo tosare riceve la pubblica Fede, aggrava talmente il furto, che lo fa divenire delitto di lesa Maestà» (idem, 15). Infine, l’identità della moneta con la merce è garanzia fondamentale per il commercio: «Mercanzie si chiamano tutte le cose mobili, e valutabili per mezzo della Moneta, come loro misura comune. Ma con tutto che l’Oro non sia moneta universale del Mondo, né la misura del Commercio, né sia a proposito per divenirla; pure affinché gl’Uomini possin esser sicuri e del suo peso e della sua finezza, ei può, ed anzi dee essere monetato. Ed egli è non meno suscettibile di un prezzo determinato, che di quell’Effigie, che gli viene impressa dall’Autorità Pubblica, pur che la valuta importagli non ecceda quella, che se gli assegna e dai Mercanti, e dalla Piazza: Perché i pezzi, che d’esso si formano con tal acquisto, divengono una Mercanzia tanto buona e tanto corrente, quanto lo sono i pezzi, o sia la Moneta d’Argento, poco variando di pregio tra loro» (idem, 44). 22 In Mauss (1947) c’è un breve paragrafo (cap. 6) dedicato alla moneta, nel quale Mauss si richiama essenzialmente, ma senza aggiungere molto, al saggio di Simiand (1934), e al dibattito che suscitò all’Institut français de sociologie (idem, 59-86). to E-b ook a ppart iene a roff Ques 256 Parte II - Moneta e debito Occorre ritornare all’analisi del dono compiuta da Mauss per comprendere meglio come quel tipo di scambio getti luce sulla stessa moneta e indichi un diverso modo di intendere le origini della moneta, che confuta l’illusione mengeriana di un darwinismo economico e monetario. Il dono è anzitutto un rapporto obbligatorio originario molto complesso, fuori dalla logica utilitaristica dello scambio di mercato e largamente diffuso in società con una presenza molto marginale e rarefatta di forme di proprietà privata (Mauss 1923-24, 191). Mauss chiama il dono un «fatto sociale totale», crocevia di rapporti non strettamente economici e fortemente carichi di significati sociali, religiosi e politici. In un’importante introduzione all’opera e al pensiero di Mauss, Claude Lévi-Strauss precisò il senso del concetto di «fatto sociale totale» che vede rivolto a identificare gli elementi costitutivi di una realtà sociale: «il sociale – osserva Lévi-Strauss – è reale solo se è integrato in un sistema» e se finisce per incarnarsi anche in «esperienza individuale»23. È in questa prospettiva che Lévi-Strauss vi vede una valenza tridimensionale composta da aspetti sincronici, diacronici e di relazione fisio-psicologica (Lévi-Strauss 2000, xxx e le precisazioni ulteriori alle pp. xxxi-xxxiii). La nozione della totalità di un fatto sociale come il dono rinvia a un sistema di relazioni nel quale si ricompongono fenomeni tra loro apparentemente distanti e con finalità distinte. Il dono arcaico non ha pertanto una sola dimensione. Come rapporto obbligatorio impegna un’intera collettività o, per essa, impegna il suo capo a dare, a ricevere e a ricambiare (Mauss 1923-24, 217). Proietta così quelle transazioni in una prospettiva di scambio intertemporale che tende a replicarsi indefinitamente (Mauss 192324, 210). Gli scambi di doni non hanno un saldo, non si estinguono, e presuppongono un ricominciare sempre da capo: il ciclo del dono implica una serie di sovrapposizioni di doni e contro-doni accavallati nel tempo. Mauss parla di «una serie di potlàc ricambiati all’infinito» (Mauss 1923-24, 209). È proprio questo carattere a contraddistinguere il medesimo fondamento su cui poggiano il 23 ralismo. Claude Lévi-Strauss (2000, xxix e xxx), opera fondatrice dello struttu- ook ap -b Questo E 10 - Il problema delle origini della moneta 257 dono e le relazioni di credito-debito. Il dono è una sorta di credito che obbliga il ricevente a essere in debito e perciò a ricambiarlo e a rimborsarlo, ma nel ricambiare si riaccende il credito-dono appena estinto; insomma, una prima forma arcaica di rollover credit, o di debt-rollover ricorsivo. Sini (2015, 62) chiarisce la natura del dono in termini lapidari: «un indebitamento reciproco generalizzato e perpetuo». Indebitamento reciproco, perché ha un carattere sacrale e di consacrazione di legami interpersonali; generalizzato in quanto l’indebitamento coinvolge un’intera comunità, o i rapporti tra comunità e popoli; perpetuo, perché la ricorrenza rituale evita la risoluzione, la fine del ciclo dono-contro-dono, che aprirebbe un conflitto insanabile. È perciò un rapporto simbolico tra persone, non un mero scambio di cose, e senza alcuna equivalenza e nessuna equità. È un segno di fedeltà e riconoscimento che si rinnova. La sacralità del dono e la sua ricorsività trova espressione precisa nella preghiera solenne che re Davide formula, mentre sta compiendo le offerte per il primo Tempio di Gerusalemme: «E chi sono io e chi è il mio popolo, per essere in grado di offrirti questi doni volontari? Tutto proviene da te e, dopo averlo ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo ridato» (1Cr 29, 14). Sini mette in luce la dinamica di doni in eccedenza, di un continuo sentirsi in debito, un debito perpetuo incancellabile (Sini 2015, 63). Questo giustifica la sequenza del dono e del contro-dono. L’altro aspetto importante sottolineato da Mauss, e ripreso da Sini nella sua sintesi genealogica del dono, è il rapporto che gli uomini instaurano attraverso il dono con la divinità. Il dono è un sacrificio di eccedenze, per la vita ricevuta, per la vita protetta dal superiore, o dal sovrano, o dai sacerdoti intercessori verso le divinità. La vita che continua e non si perde è un dono che esige ringraziamento. La storia di Abramo, che offre il primogenito Isacco in sacrificio, va letta, secondo Sini, nell’ottica di un contro-dono. Nello stesso senso va inteso il sacrificio di Ifigenia, anche lei primogenita e vergine, per propiziare la conquista di Troia; e dal mito discende il calco di azioni di sacrificio-dono, dimostrazione di magnificenza e di virtù, di sentirsi in debito, in perpetuo, senza possibilità di cancellazione. Sempre per Sini la «relazione di dono» va intesa come «l’evento costitutivo stesso della humanitas» la cui condizione è quella di Parte II - Moneta e debito 258 Q sto e u E pa p ka o -bo rt e ien a fis f o r i n mo e 0 .20 0@ gm .co l i a m «essere in debito, e dell’essere in colpa» (Sini 2015, 61). Debito e colpa – si ricordi l’identità lessicale nelle lingue germaniche (già sottolineata da Nietzsche; v. Stimilli 2011, 208-13; e 2015) – derivano da un’originaria perdita – e successiva assenza – della condizione divina: una perdita di eternità, una imposizione di una condizione di castigo, e una esposizione all’usura del tempo, che nelle culture arcaiche e nei culti religiosi originari è attribuita a una ribellione umana (la hybris dei greci), alla colpa del peccato originale con la conseguente cacciata dal paradiso terrestre (Sini 2015, 55-6, 61). Le tre Norne, fate della tradizione mitologica germanica, sono donne possenti, anziane e sagge. Le tre fate, che emergono dalla fonte nei pressi dell’albero cosmico Yggdrasil, filano i destini degli uomini. Sono le stesse richiamate nel ciclo wagneriano dell’Anello del Reno. Gimbutas (2005, 262) associa ai loro nomi di Urđ, Verđandi e Skuld i rispettivi significati del “mutare” e del “divenire” per le prime due, e per Skuld quelli di “dovere”, “obbligo”, “debito”, nel senso di morale, legge e destino. Ancora ai tempi del poeta islandese Snorri Sturluson, nel XIII secolo della nostra era e fino a tempi recenti, le credenze popolari attribuivano alle tre Norne il potere misterioso di avere in mano i destini di ciascuno. E ciascuno aveva un debito da saldare col proprio destino. Come vedremo, la questione del debito originario sta alla base dell’antropologia del dono, ma è anche uno snodo importante nella genealogia del credito e della moneta su cui ritorneremo più avanti. Agamben (2012, 120-1) attribuisce al teologo gesuita Francisco Suárez di aver sviluppato il tema della religio-virtù, soltanto sfiorato da Tommaso d’Aquino nella Summa. Nel trattato Opus de virtute, et statu religionis (1608) di Suárez, il concetto di debitum è posto al centro della definizione stessa di religione. Lo statuto della religione è rendere a Dio il culto che gli è dovuto. Per questo l’uomo è in debito. Il debito da rendere è il moto che spinge l’uomo a onorare Dio e la religione stabilisce e consacra il legame obbligatorio, in senso anche giuridico, che lo vincola alla divinità. L’uomo virtuoso è pertanto quello che riconosce il debito e lo riconosce rendendo l’onore dovuto. La giustizia è appunto rendere quanto dovuto. In questa ottica, il “rimetti a noi i nostri debiti” è l’invocazione per esser tolti da una condizione di perdita 10 - Il problema delle origini della moneta 259 rtiene a ook appa -b Questo E e di essere ammessi alla pienezza di un’esistenza finalmente libera. «Nell’idea di un essere che si risolve integralmente – afferma Agamben (2012, 122) – in un debito, in un aver da essere, diritto e religione coincidono necessariamente». Per Suárez il dovere religioso è un «debito infinito», distinto dalla giustizia umana nella quale il debito è estinguibile (Agamben 2012, 123). Se il debito è inestinguibile, la virtù è un ideale irraggiungibile, inappagabile, un dovere permanente e perpetuo che trova nell’imperativo categorico kantiano la più compiuta espressione filosofica. L’etica concepita secondo doveri e non virtù era stata espressa da Pufendorf, in De iure naturae et gentium (1672), «per dirigere e temperare la libertà delle azioni umane volontarie e conferire alla vita umana ordine e decoro» (cit. in Agamben 2012, 126). L’officium è perciò l’uniformazione dell’azione umana alle prescrizioni della legge e della virtù, e il debito, il sentirsi in debito, è il dispositivo per rendere operativa l’azione del rispetto delle obbligazioni e dei precetti sociali da osservare. In questo senso, va inteso il far promesse, il giurare: «il giuramento – come afferma Agamben (2012, 137) –, forse il più antico degli istituti giuridico-religiosi, implica un verbo all’imperativo». Altre indicazioni importanti, che emergendo dall’archeologia religiosa e dalla teologia della virtù permettono di comprendere meglio la genealogia del debito e quella della moneta e del valore, vengono da Yan Thomas (1943-2008), giurista francese e celebre storico del diritto romano e moderno. Di lui Agamben, nel saggio premessa a Il valore delle cose, sottolinea la profonda diffidenza «verso quella concezione moderna del diritto che tende ostinatamente a confondere il piano del diritto e quello della vita, la persona giuridica e l’individuo naturale» (Agamben 2015b, 10). La tradizione giuridica occidentale – osserva ancora Agamben – riposa sulla distinzione di fondo tra realtà giuridica e realtà naturale, la persona e la sua maschera giuridica. La dualità di anima e corpo è un’acquisizione dell’elaborazione della teologia cristiana del V secolo (Fortin 1959). La presenza nella persona umana di due sostanze distinte, corpo e anima, una parte materiale contenitore di un’essenza spirituale, si ripropone nella tradizione giuridica occidentale, nella quale il diritto si distingue dalla realtà naturale per dar consistenza e corpo a una realtà di sacro e @gma ne.2000 roffisimo Parte II - Moneta e debito 260 m il.c o profano, di pubblico e privato, in cui il valore e il prezzo – come precisa Yan Thomas – dipendono dalla convenzione che ha fissato le «cose» (Thomas 2015, 72), e affinché le cose siano «valutabili, appropriabili e disponibili» devono, paradossalmente, essere «escluse dall’area dell’appropriazione e dello scambio» per trovare destinazione in quella della tesaurizzazione, da cui possono essere sottratte (Thomas 2015, 23). Si ripropone un mondo duale nell’immagine e nella realtà processuale, come era stato colto anche da Marx per la sostanza della merce: «cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici» non appena si presenta come valore, «cosa sensibilmente sovrasensibile» (1867, 86-7 [1.4]). I capricci teologici sono, tra l’altro, quelli tra prezzo e valore, nel cui passaggio «la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale, trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale» che Marx chiama «transustanziazione» e spiega con l’esempio di quel che avviene, in un solo senso, tra «un’oncia d’oro, [che] è scambiabile immediatamente con ferro, ma, in nessun modo, per il fatto inverso che il ferro sia da parte sua scambiabile immediatamente con oro» (1867, 125 [3.1]; la stessa metafora la ripropone per il lavoro a p. 131 [3.2]). Marx aveva forse presente un passo di Hume nel quale il termine di transustanziazione ritorna – come esamineremo meglio più avanti – per le promesse. a gm @ 00 0 2 ne . o isi m ff ne a ro tie pa r p o k a o to Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone. (Godbout 1992, 30) la signora Dulcinea del Toboso vi manda a chiedere quei sei reali e il pegno è buono, evidentemente, non c’è che da darglieli, che certamente deve trovarsi in brutte acque. (Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, II parte, cap. 23) Q 20 braccia di stoffa hanno il valore di 3 soldi pisani e 42 rotoli di cotone valgono ugualmente 5 soldi pisani; si deve cercare quanti rotoli di cotone sarebbero dovuti per 50 bracci di stoffa. (Fibonacci 2003, 180) ue s Eb 10.4. L’antropologia del dono e le origini della moneta il.com a m 0@g 0 0 2 ne. 10 - Il problema delle origini della moneta 261 -bo E o t s Que ok rti appa ene imo s i f f a ro Il dono ha configurazioni tipiche nel potlàc praticato dalle tribù del Nordamerica occidentale studiate attraverso le ricerche condotte da Franz Boas e John Reed Swanton, e nel kula praticato nelle isole Trobriand e analizzato da Bronisław Malinowski, oltre che nelle forme di scambi rituali di altre popolazioni delle isole del Pacifico. Mauss si rende conto dell’inadeguatezza lessicale e delle difficoltà di ricondurre le pratiche di dono entro le categorie moderne dello scambio, specialmente entro quelle di un utilitarismo sommario e riduttivo24. Il potlàc è un cerimoniale di dono competitivo nel quale la dissipazione e distruzione di ricchezza hanno la funzione di far guadagnare prestigio al donatore attraverso la sovrabbondanza di cose riversate sul beneficiario in modo da farlo sentire indebitato25. Ma c’è di più. Il rapporto di dono e contro-dono obbligatorio è, al tempo stesso, liberale, nel senso che la controprestazione non è pattuita né sempre esercitata, si perfeziona senza alcun prezzo, né calcolo preciso di pesi e misure, non c’è contrattazione nelle forme commerciali consuete. Come scambio rituale, il dono coinvolge – come detto – una collettività tribale e la vincola in maniera irrevocabile (Mauss 1923-24, 261). L’obbligatorietà dipende direttamente dall’istanza religiosa e magica che si celebra nel dare, ricevere e ricambiare26, perché l’oggetto donato incorpora l’anima del donatore e chi lo riceve si sente anzitutto in obbligo verso gli dèi, ha maturato un vincolo che solo il sacrificio può sciogliere e liberare per allontanare gli spiriti (Mauss 1923-24, 178)27. Il dono Falcioni (2018) entra in tutte le ambiguità e le contraddizioni relazionali del dono partendo da un acuto commento del romanzo di J.M. Coetzee, Slow man. 25 Sull’aspetto competitivo del dono cfr. Seneca (in I benefici - De beneficiis, I, 4) rivolto a Ebuzio Liberale dice: «mostrami come gareggino l’animo di chi fa il beneficio e di chi lo riceve, sicché chi ha dato dimentichi e chi è in debito se ne ricordi sempre». 26 Michéa (2012, 44) annota come gli obblighi del dono («dare, ricevere e rendere») appaiono del tutto già invertiti al tempo delle corti dell’ancien régime, come emerge dalla definizione ironica che Beaumarchais (Le nozze di Figaro, atto II, scena III) dà della pratica dei cortigiani suoi contemporanei come sottoposta al triplice «obbligo» del «ricevere, prendere e chiedere». 27 Presso i Maori lo hau è lo spirito delle cose e veicola il mana, ossia la forza magica (Mauss 1923-24, 168-9). Una critica a Mauss su questo punto è proprio da parte di Lévi-Strauss laddove sostiene: «Mauss si ostina a ricostruire un 24 262 Parte II - Moneta e debito ha perciò un doppio carattere, da un lato, quello di legame sociale e, dall’altro, quello di rivalità. Lévi-Strauss ha documentato che in molte società primitive lo scambio delle donne era considerato il “dono supremo”, in particolare quello delle mogli era alla base di sistemi parentali e forme di rafforzamento dei rapporti comunitari28. La rivalità che si sviluppa con l’atto del dono ha un carattere magico, che va oltre il mero fenomeno giuridico, per dar significato a un rito religioso e sciamanico. Il dono è un rito ambivalente. Nel dono e contro-dono si stabiliscono tra le parti una reciprocità e un antagonismo. L’antagonismo non è tanto nell’accumulo di ricchezza e nell’ostentazione della medesima, quanto nel mostrare sia di averne così tanta che di poterne fare a meno. Le molle della rivalità e reciprocità sono quelle che conferiscono al dono la dimensione intertemporale, che è costitutiva delle relazioni comunitarie e intercomunitarie come quelle di “buon vicinato”29. Ma quello che qui maggiormente importa notare è che il ciclo del dono «dare, ricevere e rendere» implica una dimensione temporale, per la quale, negli intervalli fra il dare, il ricevere e il rendere, prendono forma simbolica i sentimenti dell’essere in colpa o in debito (che motivano i gesti del dono e della resa del contro-dono) oppure della temporanea remissione di quest’ultimo ovvero nell’essere momentaneamente in credito (sia dopo il dono che dopo la restituzione del contro-dono). Va inoltre annotato che il ciclo del dono e dei suoi sentimenti simbolici è in realtà sempre asimmetrico, nel senso che l’inizio del ciclo, il dono, non è un credito come, per analo- Qu est oE tutto con delle parti» e si domanda «Non ci troviamo qui davanti a uno di quei casi (che non sono rari) in cui l’etnologo si lascia mistificare dall’indigeno?», ma qualche pagina prima aveva anche detto che «i simboli sono più reali delle cose che rappresentano, il significante precede e determina il significato», riferendosi proprio al mana (Lévi-Strauss 2000, xlii e xxxvi, rispettivamente). Cfr. Appadurai (1986, 5), dove osserva che le cose «si animano» (enliven) attraverso la loro trasmissione, acquistano di significato quando muovendosi fanno luce sul contesto umano e sociale. 28 Il capo tribù dei Tupi-Kawahib nel Brasile gode del privilegio della poligamia e della possibilità di prestare le sue donne a compagni e stranieri; Lévi-Strauss (2008, 373 [VIII, cap. XXXIV]). Sugli scambi di donne Lévi-Strauss parla anche in La pensée sauvage, cap. IV (idem, 672-3). 29 Cfr. la raccolta di “classici” in Komter (1996) e v. Komter (2005). -bo ok a 10 - Il problema delle origini della moneta 263 Que sto E -boo k ap part iene a ro ffisim one .200 0@g mail .com gia, si potrebbe pensare, ma è solo un momento di remissione temporanea del debito originario (che è il motivo innescante del ciclo), che ritorna presto ad essere interamente presente e gravante al momento della ricezione del contro-dono e che allora richiede subito un nuovo alleggerimento attraverso la resa di un altro dono. Tuttavia questa considerazione non significa che sia sempre il debito che genera il credito, sebbene questa sia la sua originaria relazione. Possiamo vedere, per analogia, il ciclo del dono G-C-G’, cioè dono (gift) - contro-dono - dono per rendere il contro-dono, come il ciclo marxiano dello scambio tradizionale M-D-M’, che, a un certo punto della storia, il capitalista, trasforma in D-M-D’; in questo caso, l’analogia sta a significare che, a un certo punto della storia, qualcuno (un potere già formato come la casta sacerdotale o un “corpo” di usurai-banchieri) trasforma il dono iniziale, non in una propria remissione di colpa, ma in una intenzionale creazione di colpa per il ricevente che costituisce anche una creazione di potere sul medesimo. Quindi, il carattere intertemporale del dono si lega strettamente a quello di credito e debito. Nelle comunità arcaiche il dono, configurandosi anche come pegno, stabilisce un rapporto creditizio improprio, com’è improprio lo scambio che si realizza col dono. L’economia del pegno dipende, anche in origine, da quella del deposito, cioè del creare riserve di beni. Queste riserve avevano due scopi: i) prevenire i tempi difficili delle carestie; ii) utilizzare a fini strategici le disponibilità di merci per poter esercitare un controllo sul mercato o evitare di dipendere dalle eventuali sfavorevoli condizioni contingenti del medesimo. Dai tempi mitici di Giuseppe e di Faraone i magazzini rivestono un’importanza strategica per far fronte ai periodi di vacche magre. Per i mercanti le scorte svolgono la stessa funzione e, quando sono in molti a operare con scorte e disponibilità rilevanti di depositi merci o valori, i mercati traggono slancio nel senso di dar regolarità alle attività di scambio, profondità alle transazioni, rappresentatività ai prezzi. Con una presenza costante di operatori professionisti che intervengono non solo per vendere tutto quanto hanno nelle loro disponibilità di offerta, ma attendono occasioni migliori, mettono da parte, speculano, è raro che ci siano situazioni limite di domanda insoddisfatta o di un’offerta senza controparte: il mercato 264 Parte II - Moneta e debito mantiene una sua liquidità30. Paolo Napoli (2014, 114-22) ha, poi, individuato la genealogia del deposito nella pastorale paolina dei primi cristiani e nelle dottrine giuridiche, sia per la conservazione della fede che per il rafforzamento della fiducia31. La moneta, nei vari involucri fisici in cui si concretizza di volta in volta – sia in bestiame, collane, token, o metalli non coniati e coniati –, dà mobilità a un pegno che è ceduto a garanzia di un credito32. Nell’Inghilterra vittoriana anche le commodities devono possedere – ed essere anche immagine – di liquidità e mobilità (portability) tra un continente e la madrepatria e possedere un valore libero di trasferirsi su una piazza di mercato divenuta mondiale33. Anche quan- Questo E-book appartiene a r 30 In Conti (2011) si discute dei problemi di formazione di mercati ampi e robusti sulla scorta delle analisi di Hicks (1992). 31 All’inizio del I secolo d.C. Filone d’Alessandria affermò che «il deposito è il più sacro atto istituzionale della vita sociale […] perché riposa sulla buona fede del depositario». Commenta Napoli: «Non tradire la fiducia altrui è ovviamene un requisito fondamentale del buon ordine sociale. Tuttavia ciò non basta a giustificare i toni enfatici di Filone, che invece insistono su un altro aspetto: contrariamente agli altri crediti contrattuali, per es. il prestito, che sono documentati oppure confermati da testimoni, il deposito si svolge nella riservatezza delle parti, mentre l’unico testimone che sancisce l’accordo tra depositante e depositario è Dio» (Napoli 2014, 116). Nel diritto romano il depositum è uno degli atti produttivi di debito, attraverso l’affidamento di una res in custodia presso un depositario, obbligato a conservarla e a restituirla, e la datio pignoris è il trasferimento di una cosa a un creditore a titolo di pignus (Guarino 1981, 284). La questione del deposito così intesa è qui rilevante per i fondamenti del pegno senza i quali il credito, quando vengono meno i vincoli comunitari e fiduciari più stringenti, può essere scarso, richiedere condizioni esose, essere sottoposto a forti restrizioni per non incorrere in rischi crescenti. La questione del deposito può essere accostata a quella della “cosa pubblica” di cui si vedranno le implicazioni a partire dalle riflessioni di Mauss e Yan Thomas. 32 È interessante notare le pratiche nel pagamento dei salari nelle quali – secondo Isidoro di Siviglia – la moneta si pesa e non si conta: «Stipendio è, invece, vocabolo derivato dall’espressione stipem pendere, che significa pesare la moneta: gli antichi, infatti, erano soliti soppesare il denaro, piuttosto che contarlo. Il nome moneta deriva dal verbo monere, che significa ammonire, riferito alla proibizione di ingannare sul metallo o sul peso. Il nomisma è un solido d’oro, d’argento o di rame, così chiamato in quanto riporta il nome e l’effigie dei prìncipi» in Isidoro (2013, [libro XVI, XVIII, 9-10]). Emerge da qui il segno e il senso di moneta-pegno. 33 La dimensione culturale del trasferimento delle proprietà è descritta mirabilmente in Plotz (2008, 41-4). Pertinenti anche le osservazioni di Appadurai sulle dimensioni culturali della mercificazione dei beni. Egli parte dalla 10 - Il problema delle origini della moneta 265 do il segno monetario è ceduto per regolare una compravendita e tale cessione sembrerebbe, ad occhi moderni, chiudere il rapporto – infatti oggi il pagamento estingue immediatamente ogni altro tipo di obbligazione –, invece, ab origine resta e viene trasferito un pegno che ha la proprietà di serrare in sé lo spirito di chi lo ha ceduto e costui farà in modo di riprenderselo34. È un pegno che, secolarizzandosi, tutti sono disposti a prendersi nella fiducia che altri lo faranno in futuro, anche solo per abitudine. Mauss, quasi di passaggio, fa un’osservazione molto rilevante sulle origini della moneta. Egli considera la moneta una specie di pegno tenuto in garanzia da chi cede dei beni a credito: «Il carattere religioso delle cose scambiate è evidente, in particolare quello della moneta, del modo in cui essa rimunera i canti, le donne, l’amore, i servizi; come alle Trobriand, essa è una specie di pegno» (Mauss 192324, 204)35. L’intuizione non viene sviluppata, ma come nel caso Questo E-book «gabbia d’acciaio», ossia dall’etica del capitalismo contemporaneo, e osserva, infatti, che Max Weber «vede il mondo moderno svilupparsi come una gabbia d’acciaio, e ha previsto che lo sviluppo dell’immaginazione sarebbe stato arrestato dalle forze del consumismo [forces of commoditization], del capitalismo industriale e dalle forme di controllo generalizzato [generalized regimentation] e di secolarizzazione del mondo» (Appadurai 2007; ma dalla vers. orig. del 1996, p. 6, per le integrazioni nella citazione). 34 Un esempio della funzione di pegno è quello del wampum utilizzato anche dai coloni olandesi e poi inglesi come moneta fino al XVIII secolo e, per alcuni periodi, persino come moneta legale (Davies 2002, 41). Il wampum era una cintura di conchiglie che le tribù indigene della costa atlantica del nord America riservavano per fini cerimoniali e di socialità, come lo scambio di doni, i riti religiosi e per siglare accordi importanti. I coloni giunti dall’Europa non attribuivano, ovviamente, lo stesso valore magico, ma compresero presto che per gli scambi di pelli e di altri beni con le tribù indiane, quell’oggetto aveva il valore di un pegno e l’indiano che lo aveva ceduto, in cambio di beni forniti dai coloni, avrebbe fatto di tutto per riottenerlo in una successiva transazione. In mancanza di specie monetarie in circolazione, per le stesse proibizioni poste dall’Inghilterra a istituire una zecca nelle colonie, il wampum divenne un mezzo monetario anche per gli scambi interni alle comunità puritane. Ciò mostra bene come il valore magico-sacrale attribuito a un oggetto, di per sé di scarso valore, possa fungere da ottimo pegno e servire a regolare pagamenti anche tra coloro che lo considerano un semplice cimelio barbarico. Sulle funzioni magico-monetarie del wampum v. Mellor (2019, 39-41); Einzig (1966, 165-6); Gregory (1996, 200). Cfr. anche par. 12.3. 35 Mauss introduce inoltre il concetto di «moneta di rinomanza» per tutti quei beni fondamentali per un dignitoso potlàc (Mauss 1923-24, 233-9). apparti 00@ one.20 offisim ene a r Parte II - Moneta e debito p Questo E-book a 266 com one.2000@gmail. partiene a roffisim del dono anche il pegno ha insito una sorta di controprestazione. La moneta è il pegno che, invece di ritornare a chi ha donato, può cominciare a passare da una mano all’altra per la fiducia che difficilmente verrà disprezzata. Infatti, in economie pervase di elementi magico-religiosi «la moneta – sottolinea Mauss – ha ancora un potere magico ed è ancora legata al clan o all’individuo» (Mauss 1923-24, 278). Tutto avviene senza prezzo, ma secondo un’etichetta rituale scrupolosa, e non nelle forme prosaiche del mercato «dove, oggettivamente, si ha una cosa in cambio di un prezzo» (Mauss 1923-24, 261). Da Galiani a Beccaria si riscontrano definizioni analoghe di una moneta metallica che è pegno di valore. In Galiani la moneta «apprezza» le cose, per compiere «questo uffizio» non può che essere reale. Galiani porta a compimento il concetto di moneta metallica non alterabile per decreto sovrano, pena di pagarne tutte le conseguenze in termini di potere d’acquisto diminuito. Ma la definizione di moneta che egli postula resta ancora ambigua, nel senso che si richiama ancora alla moneta intesa sempre come pegno sovrano. La definizione seguente lascia pochi dubbi: «Moneta sono pezzi di metallo, per autorità pubblica fatto dividere in parti o eguali o proporzionali fra loro, i quali si danno e si prendono sicuramente da tutti come un pegno e una sicurezza perpetua di dover avere da altri, quandoché sia, un equivalente a quello che fu dato per aver questi pezzi di metallo». Ma, significativamente, con la frase seguente Galiani si preoccupa di ristabilire il senso della sua affermazione per ribadire il carattere “non sovrano”, impolitico, della moneta: «Abbastanza mi par chiara questa definizione, né credo che ad alcuno potrà nascere difficoltà, riguardando a quelle compre in cui vi è frode o inganno: perché bisogna pensare che i prezzi e i contratti si valutano in moneta ideale e si eseguiscono in reale; laonde gli errori cadono sempre nel misurar male una cosa sulla sua comune misura, che è la moneta ideale: non cadono sulla reale» (Galiani 1750, 60 [libro I, capo iv])36. AlSul Della moneta di Galiani la letteratura è ampia, ma si rinvia specialmente a Giocoli (1999, 70) che osserva come in Galiani: «La moneta è essa stessa una merce, essendo coniata in metalli che possiedono altri utilizzi» e «il valore dei metalli preziosi è regolato dai principi generali della teoria del valore». Cfr. anche 36 10 - Il problema delle origini della moneta ue st o Eb oo k ap pa rti en e a ro ffi sim 00 20 e. on tri pensatori italiani del periodo mantengono ancora il medesimo doppio registro: da una parte, par di capire, non c’è moneta senza impronta di sovranità, dall’altra, quell’impronta vale solo se c’è corrispondenza con l’intrinseco. Anche Pompeo Neri sviluppa il concetto in questi termini: «La Moneta non è pura misura, o rappresentazione del valore, il che può farsi anco della carta, ma è, e deve essere insieme pegno dello stesso valore» (Neri 1751, 38 [V, 5]). Neri sta quindi sottoscrivendo quasi alla lettera la seguente definizione di Nicolas Dutot: «La Moneta d’oro o d’argento è non solo una misura comune; è anche un baratto o un pegno, che ha un valore reale come le altre Merci». Dutot aggiunge il senso e il compito dei Lumi in materia monetaria: «Il Popolo poco illuminato ha bisogno di un tale pegno, per garantirlo contro l’autorità, almeno finché non veda che non ha più nulla da temere da quella parte» (Dutot 1738, I, 234-5 [ch. I, art. x]). Qualche anno dopo anche Beccaria ribadiva il concetto inquadrato nell’ambito delle obbligazioni commerciali. Nelle edizioni moderne di Dei delitti e delle pene, il capitolo 34, dedicato a “Dei debitori”, esordisce con la constatazione che il legislatore è costretto a intervenire per dar sicurezza alla «buona fede dei contratti». Lo fa distinguendo il fallimento in due fattispecie: semplice e fraudolento, per non confondere chi fallisce con onore e chi fa bancarotta per frode. Beccaria assimila quest’ultima fattispecie alla stessa falsificazione di monete «poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de’ Cittadini, non è maggior delitto, che il falsificare le obbligazioni stesse» (Beccaria 1764, 89). Anche Beccaria sottolinea nella moneta la proprietà di essere pegno di parola data. Alla moneta, in conio, egli attribuisce la funzione speciale di strumento di misura del valore, come la libbra e l’oncia per il peso, il piede e il braccio per la lunghezza. Con qualcosa «di più» perché «sono le monete come un pubblico pegno per chi le riceve di avere da altri l’equivalente di quel che ha dato; né sono puramente misure, come la libbra e il braccio, cioè nude e mere rappresentazioni, ma bensì sono misure inerenti ad una @ 267 Q il fasc. 3 di «History of Economic Ideas», 9, 2001, con saggi dedicati al pensiero monetario di Galiani e, inoltre, Cesarano (1976) e Costabile (2016). 268 Parte II - Moneta e debito mercanzia divenuta la base del commercio» (Beccaria 1770, 398, corsivo in originale [parte I]). Beccaria ritorna sull’equivalenza moneta-pegno in altre parti e scritti, per ribadire che la moneta, in quanto «pegno e sicurezza di ottenere una determinata quantità di cose necessarie o desiderate» (Beccaria 1822, 241 [parte iv]), debba mantener fede alla sua qualità di bene “pubblico”, senza il quale i privati difficilmente darebbero consistenza alla loro “buona fede”. La dicotomia privato/pubblico nelle questioni monetarie pare risolversi ad anello: il mondo privato esige dal pubblico che stabilisca la fiducia, e l’autorità pubblica è “costretta” (è il verbo usato da Beccaria) a servire, altrimenti il privato non potrebbe assolvere il compito gravoso di dar fede a se stesso. La fede e la fiducia si stabiliscono in una relazione e non hanno molto senso al di fuori di essa. La moneta è dunque pegno e misura di fiducia. Rispetto a quest’ultima definizione della moneta, non va trascurato quanto nella letteratura di archeologia monetaria si sia insistito, giustamente, sulla nozione della certificazione. A riguardo è essenziale rinviare al saggio di Grierson (2001) sulle origini della moneta37. Mauss insiste sulla attribuzione originaria di un potere magico – il mana dei melanesiani, equivalente al dzó degli indigeni del Togo – agli oggetti-moneta. La moneta anche nella sua evoluzione successiva si porta dietro il requisito sacro assegnato, nelle tribù dei Kwakiutl del nordovest americano, al logwa ossia al talismano, rappresentato dai beni parafernali dei clan, usato come moneta nei potlàc tra tribù diverse38. La moneta, anche in epoche molto più recenti, trattenne quei poteri magici che le conferivano lo statuto di garanzia speciale negli scambi di beni e negli scambi di doni, per divenire anche misura di valore, indipendentemente dal tipo di oggetti trasferibili e accettati da tutti, in cui si concretizzava l’essenza della moneta. Tutto deriva dal mana, che nelle popolazioni della Malesia, Melanesia e Poline- 37 Sulla questione anche Parise (2000) e il saggio, breve ma incisivo, di Ciocca e Travaini (2010). 38 Il saggio di Mauss (1914) uscì tra i Comptes-rendus des séances dell’Institut français d’anthropologie, in trad. it. Le origini della nozione di moneta, in Granet e Mauss (2001, 49-55; per i riferimenti nel testo a 51-2). Que sto E-b 10 - Il problema delle origini della moneta ook ap 269 paratti sia, «designa non soltanto il potere delle sostanze e degli ti magici, ma anche l’autorità degli uomini» (Mauss [in Granet eene Mauss 2001, 54]) e sono gli oggetti a cui è attribuito il mana ad avere un potere di comando su altri uomini e altri oggetti. Là dove il credito non garantito è meno sicuro del pegno, il pegno in moneta di metallo prezioso svolge un ruolo essenziale per portare comunque a compimento la transazione. «Gli uomini – osserva Mauss – hanno impegnato il loro onore e il loro nome molto prima di saper firmare» (Mauss 1923-24, 216). E l’oro e l’argento, per la convenzione delle loro qualità magiche e valoriali, hanno permesso di disimpegnare le parti da più complesse transazioni intertemporali. L’articolo di Mauss del 1914, molto breve e occasionale, sull’origine della nozione di moneta, avanza intuizioni che, altrettanto fuggevolmente ma in maniera incisiva, sono riprese e rielaborate nel saggio sul dono di circa dieci anni successivo, dove l’autore precisa ulteriormente le caratteristiche del vincolo dono-moneta. La moneta discende dal dono per il carattere di vincolo e di pegno, di simbolo che nella vita sociale tiene insieme gli individui dentro una comunità e li mantiene in pace con le comunità limitrofe, attraverso un rapporto rituale di dare e avere, un rapporto che non è mai unilaterale e prescrive sempre un ritorno in senso inverso. Il pegno monetario esprime questo ciclo di andata e ritorno e, quando dal dono si trasferisce nelle relazioni contrattuali, anche in queste la moneta mantiene la forza di pegno fiduciario col quale poter comprare tutto, prima ancora di concretizzarsi in metalli preziosi ricercati e di valore magico, come ci ricorda anche Bernstein (2008). Quando i traffici aumentano di intensità e distanze, i contatti tra popolazioni diverse diventano spesso più sporadici e, mancando le occasioni per rafforzare su un piano fiduciario i loro rapporti, il ruolo di intermediario ricoperto dal pegno risulta necessario, per quanto esso debba comunque condividere qualche segno comune di culture magiche peraltro diverse, al fine di poter adempiere pienamente alla regolazione immediata e definitiva dei rapporti reciproci di scambio. Lo scambio di un pegno-moneta diventa allora il nudo e crudo mezzo di transazione di beni conosciuto nella teoria economica moderna. a ro Parte II - Moneta e debito 270 In un altro passaggio, incluso in una lunga nota sulla “nozione di moneta”, la critica di Mauss è rivolta a Malinowski39, il quale, anche nei suoi Argonauts (1922), aveva ritenuto un abuso l’utilizzo del termine di moneta quando essa non serve da misura di valore ma solo da mezzo di scambio. A parte ciò, Mauss precisa che, in società senza coniazioni di monete, un equivalente di moneta è attribuito a oggetti essenziali per «scambi-obbligazioni», infatti: ci sono state altre cose, pietre, conchiglie, metalli preziosi in particolare, che sono stati usati e sono serviti da mezzo di scambio e di pagamento; presso società che ancora ci circondano, funziona di fatto questo sistema. Continua: È vero che tali oggetti preziosi differiscono da quelli che noi abbiamo l’abitudine di considerare mezzi liberatori […] essi hanno piuttosto un carattere magico e sono soprattutto dei talismani: life-givers […] hanno sì una circolazione vastissima all’interno di una società ed anche tra le società; ma sono ancora legati a persone o a clan (le prime monete romane erano coniate da gentes), all’individualità dei loro antichi proprietari e prosegue: Il loro valore è ancora soggettivo e personale. Per esempio, le monete di conchiglie infilate, in Melanesia, vengono ancora misurate col palmo del donatore. […] È vero altresì che questi valori sono instabili e che mancano del carattere proprio del campione, della misura: per esempio, il loro prezzo cresce e decresce secondo il numero e la grandezza delle transazioni in cui sono stati utilizzati. Malinowski paragona molto graziosamente i vaygu’a delle Trobriand [gli oggetti di scambio che per Mauss ook E-b o t s ue 39 Mauss (1923-24, 198n.) fa riferimento a un articolo: Primitive Currency, in «Economic Journal», del 1923, mai comparso in quella rivista con quel titolo. Egli si riferisce di certo all’articolo di due anni prima, col titolo di Primitive Economics, nel quale si parla anche di «primitive money» riguardo a segni (tokens) di ricchezza, con importanti considerazioni da parte di Malinowski (1921, 13) quando precisa che è «evidente che “moneta” nel nostro senso non può esistere presso i trobriandiani», e nemmeno la «parola [moneta] circolante (currency) – diversa da “moneta” per quello che è un oggetto d’uso così come mezzo di scambio – non ci aiuta molto in questo caso». Q ne a rtie appa 10 - Il problema delle origini della moneta 271 sono «una specie di moneta»], che acquistano prestigio nel corso dei loro spostamenti, con i gioielli della corona. Anche gli oggetti di rame con blasoni del Nord-ovest americano e le stuoie delle Samoa aumentano di valore ad ogni potlàk, ad ogni scambio» (Mauss 1923-24, 189n.)40. Con maggior precisione, Mauss aggiunge, appunto, che «il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito» conosciuta dalle società arcaiche (Mauss 1923-24, 211). Sebbene Mauss lasci sospeso il concetto, che legherebbe dono e credito, uno sviluppo sul tema lo si rintraccia in una nota dove afferma: «Secondo noi, l’umanità ha brancolato per lungo tempo. Innanzitutto, in una prima fase, ha scoperto che certe cose, quasi tutte magiche e preziose, non venivano distrutte dall’uso, e le ha dotate di potere d’acquisto» (Mauss 1923-24, 190n.). Un potere d’acquisto derivato da quel potere magico che le quasi-monete avevano nel potlàk quando erano pegno di dono e contro-dono, ed erano ancora cariche di un’eredità di virtù extra-materiali quando sono poi servite a far circolare le cose fuori dalla tribù, fino a che, in uno stadio successivo che Mauss fa risalire alle società semitiche, quelle quasi-monete si sono staccate del tutto dai gruppi e dalle persone originarie, perdendo il carattere animistico per diventare «strumenti permanenti di misura di valore» (Mauss 1923-24, 190n.). es to E-b oo ka pp art ien ea rof fisi mo Sulle monete primitive v. Dalton (1965). Qu ne .20 40 00 @ gm a Qu ffisim ne a r o partie Capitolo 11 ok ap IL DEBITO ORIGINARIO o E-bo 11.1. La moneta merce tra merci e la sua mitologia evolutiva Quest A prima vista una merce sembra una cosa triviale e ovvia. Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici. (Marx 1867, 86-7 [1.4]) la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale, trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale, benché questa transustanziazione le possa riuscire più “aspra” di quanto riesca al “concetto” hegeliano la transizione dalla necessità alla libertà. (Marx 1867, 125 [3.1]) La dea [Dike] mi accolse benevolmente […] Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via […], ma un divino comando e la giustizia. Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. (Parmenide, Sulla natura, I, corsivi nostri) Se si torna a leggere il breve saggio sulle origini della nozione di moneta scritto da Mauss nel 1914, ci si rende conto che, per quanto appena abbozzato in forma di conferenza, esso rappresenta una replica alla versione mengeriana delle origini della moneta1. Per Mauss la moneta «non è per nulla un fatto materiale e fisico, è essenzialmente un fatto sociale; il suo valore è quello della sua forza d’acquisto, ed è il metro della fiducia che in essa si ripone» (Mauss 1914 [in Granet e Mauss 2001, 49]). La diatriba sulle origini della moneta ha animato il dibattito di fine Ottocento e, a più riprese, quello dei decenni successi- Mauss non cita Menger, ma era a conoscenza del modello evolutivo – dal baratto alla moneta per finire al credito – affermatosi ormai da decenni tra i teorici dell’economia, anche attraverso molti altri contributi di economisti prima e dopo quello più sistematico di Carl Menger. 1 boo k ap p Parte II - Moneta e debito 274 Q ue sto E - vi2. Per la scuola neoclassica di Carl Menger, la moneta emerge dalle spontanee trattative commerciali per facilitare gli scambi e superare le difficoltà del baratto. La moneta, essendo una merce come tutte le altre, si impone come mezzo di scambio universale solo perché è una tecnologia di pagamento, un mezzo appunto, per ottimizzare la facilità di trasferire valore a compensazione di altri valori. In altre parole la moneta è quella merce selezionata per ridurre i costi di transazione. La sequenza logica-storica di Menger, che va dal baratto alla moneta e, poi, al credito, segue un percorso dal semplice al complesso. Soltanto che, di fatto e anche in teoria, il baratto non è affatto la forma più semplice di scambio, semmai è la più complessa e soprattutto la più difficile da realizzare senza una misura di valore, ossia una moneta. Quel che interessava a Menger era spoliticizzare la moneta, toglierla dalla disponibilità di interventi di autorità che potevano solo alterarne il valore. Lasciata invece alla spontaneità delle transazioni di mercato (l’«ordine spontaneo del mercato» di Hayek e della scuola austriaca di economia) la moneta, sub specie merceologica o metallica, esibiva un prezzo che rifletteva solo l’inverso del valore delle altre merci (ossia il potere di acquisto della moneta, o del metallo che la concretizzava), e un prezzo determinato dal confronto tra offerta e domanda, sia del metallo monetato che, per riflesso, del “paniere” di beni e servizi rappresentativo3. In questo modo la società non ha istituzioni sociali, ma «strumenti» e la moneta è uno strumento. Le «istituzioni organiche» di Menger non sono altro che strumenti tecnici per risolvere problemi, non vivono di vita propria e sussistono finché vige l’accordo che le ha rese possibili4. 2 Importante, e di segno opposto all’impostazione di Menger, l’opera del 1905 di Knapp (1924). 3 Questo è quanto emerge nel saggio dell’allievo di Menger, Ludwig von Mises (1923, t. 164, 2a parte). 4 Occorre precisare che quando Menger parla di istituzioni sociali intende le istituzioni «organiche», nate non per progetto ma spontaneamente; cfr. ad es. il passo seguente: «Il denaro non è una creazione della legge. Nella sua origine, è un’istituzione sociale e non statale. La sanzione da parte dell’autorità dello Stato è estranea a esso. E tuttavia, attraverso il riconoscimento e la regolazione da parte dello Stato, l’istituzione sociale del denaro è stata perfezionata e adattata ai molteplici e vari bisogni di un commercio in evoluzione, esattamente come il diritto Q 11 - Il debito originario 275 Hayek esprime chiaramente lo stesso concetto: «Gli strumenti base della civiltà – linguaggio, morale, diritto e moneta – sono tutti il risultato di uno sviluppo spontaneo e non di un progetto intenzionale; il potere organizzato si è impadronito degli ultimi due e li ha totalmente corrotti» (Hayek 1973-79, 542). Lo “sviluppo spontaneo” non è altro che l’«ordine spontaneo del mercato», di un mercato inteso non come un’istituzione, ma elemento primordiale e fondativo delle relazioni sociali, che non ha bisogno di essere spiegato, né in un senso logico né, tantomeno, in senso storico5. Il mercato non ha origine, perché lo scambio è – come in Smith – connaturato e istintivo nell’uomo, perciò si può dire solennemente “in principio era il mercato”. Poche pagine prima Hayek si contraddice6, quando spiega che la società “aperta” per affermarsi aveva bisogno di infrangere «alcune regole innate», cioè liberarsi da non meglio precisate «strutture innate» di regole, che per giustificare il senso della liberazione dovevano essere necessariamente regole di carattere autoritario (Hayek 1973-79, 538-9). Questo, Hayek non lo dice esplicitamente, ma è quanto lascia trasparire dal passo seguente in cui l’uomo «membro di quella piccola tribù a cui doveva aderire per sopravvivere, […] consuetudinario è stato perfezionato e adattato dalla legge emanata dal potere pubblico» in Menger (2013, 215). Quel che Menger chiama processo «organico» è l’evoluzione naturale della moneta selezionata attraverso scambi di merci e per scoperta progressiva, inintenzionale e senza progetto, né interventi di autorità, di quella merce che più di altre ha la caratteristica di essere «commerciabile» (marketable) (idem, 209). 5 Un critico del ricorso a metafore biologico-naturalistiche è Nietzsche. In Al di là del bene e del male (1886, § 22) Nietzsche afferma: «da vecchio filologo, non posso fare a meno di mettere il dito sulle cattive arti interpretative: ma quella “conformità a legge della natura”, di cui voi fisici parlate con tanta fierezza – quasi che sussistesse soltanto grazie alla vostra interpretazione e cattiva “filologia” – non è uno stato di fatto, non è un “testo”, ma solo un accomodamento ingenuamente umanitario e una distorsione di senso». 6 Sulle numerose contraddizioni logiche del neoliberalismo hayekiano e dell’intero impianto della sua teoria del diritto, e – possiamo aggiungere – anche della lingua e della moneta, è fondamentale il prezioso e puntuale libro di Pecora (2002). A p. 65 osserva: «A volerla mettere sotto forma di dilemma, potremmo dire così: quando la soluzione di Hayek è coerente è inefficace, e quando è efficace è incoerente» e a p. 66: «le contraddizioni di Hayek mettono a repentaglio le sorti di una società libera». . on e im ffi s Parte II - Moneta e debito a 276 ro era tutto tranne che libero»; la sua liberazione esce fuori dal nulla, spontaneamente l’uomo rompe il guscio sottile della condizione tribale e di servitù (Hayek 1973-79, 542)7. Infatti, la frase seguente ha il sapore e la sostanza di una petizione di principio: «La libertà fu resa possibile dall’evoluzione graduale della disciplina della civiltà che è allo stesso tempo la disciplina della libertà» (Hayek 1973-79, 543, il corsivo presente nell’originale è stato tolto). Le regole della libertà si impongono, paradossalmente, grazie alle regole dell’oppressione: «dobbiamo la nostra libertà alle limitazioni della libertà» (Hayek 1973-79, 543 e cfr. p. 120 per «la legge della libertà»). Insomma, le regole del mercato come quelle della libertà (intese spesso come sinonimi) sono, per Hayek, innate nel senso – se vogliamo interpretarlo in un modo che sia emendativo della sua contraddizione – che sono inscritte nella natura che si evolve, come prima lo erano le regole opprimenti. Nel racconto biblico della fuga dall’Egitto, la via della liberazione era più spinosa di quanto possa concepire Hayek, e la sua religione dell’«in origine era il mercato», come anti-Logos, è del tutto autosussistente come – appunto – una generazione spontanea. Due naturalisti italiani, Francesco Redi (1626-1697) e Lazzaro Spallanzani (1729-1799), sconfessarono, nella nascente biologia moderna, la credenza, fino ad allora molto diffusa, che la vita potesse sorgere spontaneamente da sostanze inanimate (Agnoli e Pennetta 2012, 21-2). Nelle scienze umane, e specialmente in economia, pare che, invece, – secondo Hayek – da una condizione di autorità tribale possano emergere operatori indipendenti, spiriti liberi e liberi pensatori, come nel retaggio del mito del “buon selvaggio” del XVIII secolo (Rangel 1980). In Hayek ritorna ancora l’idea di tale en e a r ti p k bo o o es t ap E- u Q Non si capisce, né Hayek sembra molto preoccuparsene, come società “chiuse” diventano “aperte”. L’ordine naturale è spesso considerato il mondo degli animali. Freud (1913 [1980, vol. 7], 145 [4, 2, b-c]) e, soprattutto, nel saggio sulla psicologia collettiva (1921, par. 2) paragona il meccanismo di selezione del capo negli animali che vivono in branchi, mediante sfide e dimostrazioni di forza e di capacità di leadership, alla vita e alle relazioni in comunità umane tribali, ma ciò non comporta, né in un caso né nell’altro, una “rivoluzione” e un sovvertimento dell’organizzazione della vita in branco negli animali e della vita in tribù negli umani. Acemoglu e Robinson (2006 e 2013). Cfr. le critiche di Jared Diamond (2012) e le repliche. 7 277 spontaneità, quando ammette che in un mondo di schiavi germogli il seme della libertà e che istituzioni, linguaggio, diritto e moneta siano da considerare, almeno in un originario stato di natura, prodotti di interazione non intenzionale tra individui “liberi”, senza protezioni e garanzie esterne; ma così pensando, Hayek non pare preoccuparsi troppo delle garanzie per la libertà lesa da coloro che se ne sono presa troppa, garanzie che sono la peculiarità dei cosiddetti Stati di diritto e del principio kantiano che la libertà di ciascuno finisce là dove comincia la libertà degli altri. Su questi aspetti della teoria del diritto – inteso come istituzione “spontanea” – che, in Hayek, fanno continuo riferimento alle altre due istituzioni “spontanee” della lingua e della moneta, Gaetano Pecora sottolinea aspetti importanti del fondamentale attacco di Hayek alla sovranità (Pecora 2002, 20-4). Secondo Hayek, in una società liberale, o meglio neoliberale, «non c’è posto per un organo sovrano» (Hayek 1973-79, 496). Quel che sottintende Hayek è che il mercato deve essere sovrano e permeare ogni anfratto della società e soprattutto del potere. Pecora, rinviando a Kelsen, precisa però quello che è il concetto di sovranità nel pensiero liberale classico: «i sistemi liberali, i quali in quanto sistemi conservano lo stigma della sovranità e in quanto liberali organizzano siffatta sovranità distribuendola tra organi diversi, magari gelosi gli uni degli altri e quindi tra loro tendenzialmente in conflitto; quel conflitto che, come nell’urto delle pietre dure, tiene viva la scintilla della libertà» (Pecora 2002, 29). Hayek ha sempre in mente la formazione dei prezzi e, cosa essenziale, pensa al meccanismo che li genera, la mutevolezza delle aspettative che ognuno formula riguardo alle aspettative che si presume abbiano le controparti in un teatro di mercato, dove le contrattazioni si svolgono nell’anonimato, come in una borsa valori o merci, ma, al contrario che nei mercati istituiti, senza notai né agenti di cambio (v. Hayek 1937; 1945). Hayek contrappone il proprio liberalismo (che Pecora, benevolmente, definisce «anomalo», ma con conseguenze tiranniche8) a quello di Kelsen ed è ancora Pecora che coglie la differenza abissale tra i due: Q u to s e E- o bo k ap p ti ar e 11 - Il debito originario 8 In conclusione del lavoro, Pecora (2002, 131) ribalta i continui attacchi hayekiani alla tradizione liberale classica per giudicare il (neo)liberalismo di Hayek un liberalismo che «organizza la tirannide». Parte II - Moneta e debito 278 Per Hayek, al contrario [di Kelsen], tra il diritto “esterno” [le norme morali stabilite “a maggioranza” di suffragi d’opinione] e il diritto interno non corrono differenze di sorta; diritto è l’uno e diritto è l’altro; giuridiche sono le norme create dal legislatore e giuridiche sono le norme trovate nella società; le une hanno la stessa natura delle altre (Pecora 2002, 36 e v. il commento di p. 44). Q ue st o Per Hayek l’autorità sovrana non ha altra fonte che quella dell’«opinione prevalente» (Hayek 1973-79, 118), quel che per i greci era la doxa, che non offre nessuna garanzia di validità e che Platone pone in mezzo tra ignoranza e conoscenza9. È questa della doxa una questione cruciale della filosofia e della teologia, perché marca uno dei due lati di un dualismo antico, l’altro essendo la giustizia e la verità: Platone verso Aristotele, Parmenide verso i sofisti, con Socrate a fare da intermediario, Hegel verso Hume. Per Platone, c’è opposizione tra l’opinione e la verità come tra l’uomo che ama le cose belle (opinione) e colui che ama la bellezza (aletheia, la verità); le ombre che gli uomini imprigionati nella caverna credono vere, non sono altro che opinioni. Non a caso Parmenide, nel suo Poema sulla natura, dove sostiene la realtà dell’Essere, dell’Uno in opposizione all’illusorietà del molteplice e del divenire, viaggia fino alla casa di Dike (dea della Giustizia), la cui porta ruotante sui bronzei assi, di cui essa tiene le chiavi, divide i sentieri della Notte e del Giorno. Alla Giustizia è affidata, da un lato, la guida del filosofo verso la Verità che conduce alla sapienza e all’Essere e, dall’altro, la messa in guardia verso l’opinione che conduce all’apparenza e all’inganno. Non si tratta però solo dell’opposizione, già presente nella filosofia antica, fra una conoscenza incerta, rappresentata dalla doxa, e la conoscenza scientifica, rappresentata dall’epistème, ma si tratta anche di un’opposizione nella visione antropologica ed etica. Per il sofista e, poi, per lo scettico fino a Hume e ai sensisti, l’unica verità è l’opinione che l’individuo, con i suoi sensi, si forma, individuo che ritiene se stesso unico criterio di valutazione etica rispetto a E- bo ok ap pa rti en e a ro ffi si m on e. 20 00 @ Platone afferma che l’opinione non è «né l’ignoranza, né la conoscenza» ma «è un intermedio tra queste due realtà», in Repubblica (2009, 629 [libro V, 478 C-D]). 9 gm ai l.c om 11 - Il debito originario 279 sto E-book ap partiene a ro Que ciò che è giusto o ingiusto; nulla vi può essere di “essenziale”, di “universale”, di “vero”, tutto è appunto “opinabile”. Socrate aggiunge ordine a questo individualismo relativista perorato dai sofisti in tutti i campi, in cui il criterio di verità è l’uomo, introducendo il dialogo come non-violenta ricerca di un accordo fra opinioni che evolvono sempre. Dal momento però che la natura viene considerata manifestazione immanente del divino, il mondo sensibile viene rivalutato e così anche l’opinione: il pensiero cristiano, in generale e, poi, soprattutto, nelle sue forme rinascimentali, rivaluta l’opinione. Non desta, quindi, sorpresa l’idiosincrasia neo-ordo-liberale per il termine giustizia, più o meno intesa come giustizia sociale. Perché dove c’è opinione, non può esservi giustizia, come spiega Dike a Parmenide. Come non destano sorpresa né la dura opposizione del filosofo della società ‘aperta’, Popper, a Platone, né la giustificazione dello Stato liberale e il rimedio alla sua crisi che appare nelle odierne riprese socratiche del dialogo e dell’azione comunicativa dei filosofi liberali contemporanei (Gadamer, Habermas, ecc.). Tutti costoro rappresentano, per dirla ovviamente in modo semplificato, il medesimo lato (quello dell’opinione-inganno) dell’antica dicotomia (giustizia-verità versus opinione-inganno). Il perno dell’opinione è sovrano sul mercato e anche in questioni di giustizia sociale. È contro quest’ultima che si muove l’intera critica di Hayek. Come osserva Pecora «Volete il mercato? Sembra dire Hayek; e allora non dovete lasciarvi commuovere dalle istanze della giustizia sociale. Volete la giustizia sociale? E allora vi sarà destino abbandonare il mercato» (Pecora 2002, 97)10. L’ordine di mercato, come lo intende Hayek, liberato da ogni forma di controllo e regolazione, «non produce una stretta corrispondenza fra i meriti soggettivi o i bisogni individuali e le remunerazioni», il mercato opera in base a «un gioco combinato di abilità e caso», per cui i risultati ottenuti da ogni individuo sono assolutamente fuori controllo rispetto a ogni principio di giusti- ffisimone. Ciò assomiglia molto al paradosso della globalizzazione di Dani Rodrik (2011), secondo cui non è possibile perseguire i tre obiettivi della globalizzazione, della democrazia e della sovranità monetaria; almeno uno di essi va abbandonato se si vogliono salvare gli altri due. 10 Parte II - Moneta e debito 280 zia, né il mercato rende giustizia al merito (Hayek 1973-79, 314)11. Il mercato pacifica, il merito introduce crepe insanabili all’interno della società. Se ciascuno fosse remunerato secondo i propri meriti si aprirebbero controversie e scontri sociali fino a una guerra civile, perché nessuno riterrebbe di meritare meno di un altro, e l’ordine sociale finirebbe per saltare12. Come sottolinea Pecora: Solo in un caso sarebbero scongiurati i rischi della dissoluzione sociale; solo se gli uomini abdicassero alla loro autonomia di giudizio per consegnarla alla insondabile discrezionalità di un intelletto superiore. Il quale intelletto, dall’alto della sua insindacabile saggezza, provvederebbe a dislocare gli uomini e i gruppi lungo la scala dei ruoli sociali, e a ciascun ruolo farebbe corrispondere una remunerazione così e così determinata (Pecora 2002, 99 e cfr. p. 129). Per Hayek non ha perciò alcun senso valutare l’allocazione delle risorse effettuata dal mercato né, soprattutto, misurare col metro della giustizia i modi con cui il mercato distribuisce i redditi tra le persone. Il mercato è un sovrano assoluto e assolutamente inappellabile. La distribuzione secondo meriti può, in Hayek, V. i commenti di Pecora (2002, 97-8). Va notato però che, qui, il concetto di merito va precisato. Infatti, la società borghese finge di basarsi sul riconoscimento del “merito” come valore etico – ipocrisia ideologica peraltro spietatamente smentita, come abbiamo visto, da Hayek proprio quando parla del mercato che è la cifra della società borghese – e fa della “meritocrazia” l’alternativa ideale sia all’ancien régime coi suoi privilegi castali, sia alla democrazia con le sue scelte politiche potenzialmente diverse da quelle del mercato. La scienza economica neoclassica costruisce una teoria della distribuzione del reddito fra lavoratori e capitalisti esattamente opposta a quella basata sulla teoria dello sfruttamento di Marx. La teoria neoclassica racconta che i lavoratori non sono sfruttati, ma sono remunerati esattamente per quanto meritano, ovvero per quanto è la loro produttività. Ma è in quest’ultima affermazione che si svela il significato del “merito” per la società borghese: si “merita” per quanto si “produce”. Il “merito” non è un “valore” ideale ma la misura di una produttività. Ma, oltretutto, questo merito-produttività non si valuta in condizioni astratte e paritarie di lavoro (il che potrebbe essere allora un criterio di merito magari condivisibile secondo un qualche criterio etico produttivistico, tipo stakanovismo), bensì sotto le regole del mercato capitalistico, per definizione non eque perché imposte dai rapporti di forza economici e proprietari. Sotto questo aspetto, Hayek sta quindi parlando, in modo quasi cinico, del mercato che non riconosce il merito inteso come valore etico (e non come indice di produttività). 11 12 Q ue st o E- bo ok ap pa rti en e a r 11 - Il debito originario 281 Q u es corrispondere a quell’«insindacabile saggezza», di cui parla Pecora, solo dentro l’organizzazione gerarchica delle imprese che, piccole o giganti che siano, sono virgulti spuntati sul terreno del mercato, indipendentemente dal fatto che poi si trasformino, col crescere, in piante infestanti che sottraggono nutrimento ai potenziali concorrenti e stravolgano profondamente la fisionomia del mercato stesso. to 11.2. Prima il dono-debito e poi l’“invenzione” della moneta E bo ien e t pa r p o k a con tale fiducia ti dirò che il desiderio che mi tormenta, caro Lotario, è di sapere se Camilla, mia moglie, è così buona e così perfetta come io penso; e non posso esser certo di questa verità se non sperimentandola in modo tale che il saggio indichi i carati della sua virtù, così come il fuoco indica quelli dell’oro. (Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, I parte, cap. 33) il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito. (Mauss 1923-24, 211) a ff ro isi m e . 20 0 on Questo modo di “fare economia” ha le sue origini nella speculazione filosofica dove il concetto, da Platone a Hegel, è definito come “l’universale che è nella cosa”. Al concetto della speculazione filosofica corrisponde, in economia, la “forma-denaro” che, staccata da ogni traccia di lavoro e da ogni rapporto con la merce, consente la “speculazione finanziaria”. (Galimberti 1998, 182) La spontaneità coltivata nella serra del mercato è improntata in Hayek dallo stesso darwinismo economico (volgare) anticipato da Menger. In entrambi, la formazione di un sistema istituzionale è il risultato lento e progressivo di una costruzione che, passo dopo passo, si sviluppa tramite gli effetti non intenzionali dell’azione “egoista” di agenti ignoranti (cioè secondo un medesimo «ordine spontaneo») e, come avviene per la moneta, essa è frutto dell’interazione tra gli interessi. La moneta è strappata via da ogni marchio e vizio di potere, dalle ascendenze magico religiose delle società arcaiche o dal machiavellismo, o dal realismo giuridico-statalista di un Georg Friedrich Knapp, per il quale la moneta «è una creatura della legge», e una «teoria della moneta deve perciò occuparsi di storia del diritto» (1924, 1). 282 Parte II - Moneta e debito Per David Hume, il potere del denaro (money) sta nel fatto che «consente di procurarsi tutti i piaceri e le comodità della vita» (Hume 1739, 627 [lib. II, p. I, sez. x]). L’avaro che lo mette da parte, tuttavia, «immagina» che sia così mentre si priva di verificare; la sua è una «illusione della fantasia», e l’essenza di quel potere «consiste nella probabilità del suo esercizio» (idem). Il denaro – specifica ulteriormente – «implica una specie di rappresentazione» (Hume 1739, 713 [lib. II, p. II, sez. v]). Il concetto è, forse, ancor meglio chiarito nella sez. v su L’obbligo delle promesse, dove la promessa, come potere di mantenere un impegno, è considerata una convenzione umana e non un prodotto di natura: Questo E-book appartiene a rof Che la regola della morale, che prescrive di mantenere le promesse, non sia naturale, risulterà sufficientemente evidente da queste due proposizioni, che sto per provare: una promessa non è intelligibile, se non viene stabilita dalle convenzioni umane; e anche se fosse intelligibile, non sarebbe accompagnata da alcun obbligo morale. (Hume 1739, 1021 [lib. III, p. II, sez. v], corsivo nell’originale) Hume aggiunge anche una considerazione simile a quella che abbiamo già incontrato in Marx riguardo ai capricci teologici della merce e del valore. Per Hume, l’atto di promettere è una pronuncia di obbligazione che sorge dalla volontà, cioè «si tratta – ammette – di una delle operazioni più misteriose e incomprensibili che si possano immaginare, paragonabile alla transustanziazione o agli ordini sacri, in cui una certa forma verbale, unita a una certa intenzione, cambia del tutto la natura di un oggetto esterno, e anche di una creatura umana» (Hume 1739, 1037 [lib. III, p. II, sez. v] i corsivi nell’originale). Quel che qui interessa sottolineare è il carattere fiduciario connaturato in un potere d’acquisto, come in una promessa, da cui discende lo slittamento su quel termine teologico di transustanziazione per esprimere un mistero («una delle operazioni più misteriose e incomprensibili che si possano immaginare»), un mistero che sposta l’analisi della promessa e, aggiungiamo, della moneta, sul terreno del sacro, al limine col profano. La moneta è mero segno, come il diritto, è una costruzione di potere, dipende da rapporti di potere e di forza; per essa non può valere nessuna pretesa di neutralità, di naturalità, non può essere un arbitro nei giochi del mercato. Insomma, l’illusione di 11 - Il debito originario 283 una mitologia monetaria “neutralista” – tipo quella costruita della scuola austriaca – risulta creata ad immagine della costruzione monetaria messa in piedi dopo Vestfalia, per porre finalmente la moneta nel suo preteso stato naturale e ridotta a mezzo tecnico neutrale per poterla consegnare alle tre funzioni a cui è deputata: misura, intermediario, riserva, al riparo da ogni dominio di autorità politiche. Il progetto era utopico e investiva non solo la moneta, ma tutto l’assetto istituzionale di una società uscita dall’epoca dei Lumi con vestigia ritenute ancora di stampo medievale. Lo Stato di diritto moderno era una di queste istituzioni e, nel pensiero neoliberale (come vedremo meglio nella III parte), la riforma doveva estendersi anche ad esso. In questo modo, come il tema della moneta, che aveva (al contrario delle tasse o delle imposte) un suo mercato, anche il tema delle istituzioni poteva essere affrontato con la stessa meccanica dell’utilitarismo e dell’ottimizzazione economica (quello che nell’Ottocento veniva chiamato “economicismo”13). In tal modo, la moneta è demistificata, sconsacrata, privata dell’alone magico nel quale si voleva avvolta nei secoli senza Lumi. Ma, dopo i Lumi, occorreva portare alle estreme conseguenze l’operazione già avviata per ridurre la moneta da istituzione a merce, o, al più, a tecnologia di pagamento, per riconquistare così uno dei cardini dell’economia, riportando la moneta dentro al paradigma che voleva intendere l’economia come una scienza. Qualsiasi istituzione sociale poteva così essere spiegata senza avvalersi di concetti politici, anzi la stessa azione politica era, ed è, ridotta ad azione economica giocata su altro “mercato”: quello delle ambizioni di potere. L’imperialismo della “scienza economica” è divenuto poi il cavallo di battaglia della scuola di Chicago, e l’invasione di tale “scienza” nei campi delle istituzioni sociali e politiche avviene, principalmente, con la scuola della “public choice” che, con James Buchanan, avvia una sistematica distruzione dei fondamenti teorici del ruolo dello Stato nell’economia, per cui ogni scelta da politica di- 13 Cfr. Polanyi (1983, 27-41); e Caillé e Laville (2008, 45-69). Essi considerano la lettura dell’economia fatta da Polanyi nel solco dell’eredità di Marx e di Weber e in antitesi alle posizioni della scuola austriaca di economia. Que Parte II - Moneta e debito 284 o n e . 200 fisim n e a rof tie k a p par sto E boo Que venta scelta mercantile14. Il successo della storia della moneta mitizzata (e secolarizzata) da Menger, tributato particolarmente in ambito economico, dipese, come in molti altri casi, da semplicità e immediatezza di spiegazione e di narrazione, e per avversione allo Stato quando entrava in faccende economiche e monetarie; inoltre, trovò larga accoglienza in altri ambienti, seminò dubbi tra gli scienziati sociali solitamente più inclini alla verifica attraverso evidenze empiriche, e finì per costituire un solido giacimento ideologico difficile da scalfire15. Fugit irreparabile tempus: disperde le tracce delle promesse e lascia i depositi di gettoni in metalli preziosi o meno; e questo contribuisce non poco a produrre una “distorsione documentale” (v. in 12.4) che il metodo genealogico deve sottoporre a critica (Graeber 2012, 28-32 e 290-2). Menger, come altri economisti neoclassici, sono partiti dal loro mondo contemporaneo e dal loro habitus mentale e concettuale per trasferirlo indietro nel tempo alla ricerca di origini. Come spesso capita in questo tipo di ricerche di origini, essi cercavano però solo quel che avevano già in mente di voler trovare. Si erano posti su false piste con metodi difettosi. Erano incappati in errori di anacronismo per un’attrazione fatale verso il capitalismo e un’idealizzazione della stessa economia di mercato. Un qualche confronto tra i concetti loro più familiari e quelli che invece erano familiari tra i contemporanei dei tempi andati, è un esercizio al quale gli storici e gli antropologi storici non si sottraggono. Il senso della ricerca genealogica implica questo confronto continuo tra passato e presente. Con un taglio giuridico, ma attento alle implicazioni delle proposte di rimozione di una “dicotomia”, non solo di diritto ma anche di società, v. Pupolizio (2013b; e 2013a); e, infine, Somma (2018). 15 L’antropologo Maurice Godelier (2008) vede nella meccanica del dono-contro-dono la stessa del debito ma non sembra cogliere le intuizioni di Mauss sul debito-moneta (pp. 68-9, o 97-8 ed. francese). A p. 102n. osserva: «la moneta è, in qualche modo, un sostituto sia di oggetti sacri che preziosi che, originariamente, sono essi stessi sostituti degli dei, i primi, e degli uomini, i secondi»; in tutto ciò «c’è l’idea di un capitale di vita e di benessere verso il quale l’individuo è in debito, fin dalla nascita, nei confronti di una tesoreria, una sorta di banca con due conti, uno celeste, l’altro infernale, e che gestisce i rapporti degli umani con gli spiriti e gli dei». Sul caso del sale come moneta, Godelier ritorna poi a p. 194, ma per accostarlo a forme di baratto. In particolare si veda, poi, il commento di Godelier alla tesi di Mauss sulla moneta “immaginaria” (p. 232 e le pp. 287-9). 0@ 14 m gma il.co 11 - Il debito originario 285 Mauss, prima di altri, predispose un bagaglio di conoscenze e di pensiero critico per avviare la demolizione della mitizzazione mengeriana delle origini della moneta. Nel Saggio sul dono, Mauss coglieva molto lucidamente un aspetto rilevante della genealogia del dono-credito-moneta, rovesciando l’intera sequenza evolutiva mengeriana: il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito. L’evoluzione non ha fatto passare il diritto dall’economia del baratto alla vendita, e la vendita da quella in contanti a quella a termine. È da un sistema di doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti, invece, da una parte, il baratto, per semplice avvicinamento di tempi separati, e dall’altra, l’acquisto e la vendita, quest’ultima a termine ed in contanti, ed anche il prestito (Mauss 1923-24, 211). In società arcaiche, la nozione di credito si congiunge a quella di onore per «la natura peculiare del dono [che] è quella di obbligare nel tempo» (Mauss 1923-24, 210). Ciò è presente, in modo precipuo, nelle società senza sistemi di scrittura per dare sicurezza a una transazione di credito o di potlàk. Gli uomini arcaici non hanno, infatti, altro segno trasmissibile oltre quello del proprio onore e su quello devono farsi garanti (Mauss 1923-24, 216)16. L’onore è l’altro aspetto che rende cogente un rapporto. Riferendosi alle popolazioni tribali della Polinesia e della Melanesia, Mauss sottolinea che l’onore, come considerazione personale codificata socialmente, è nozione diffusa al pari della magia e lo stesso mana polinesiano è la forza magica che uno possiede e, nel contempo, anche il suo onore, inteso dunque come autorità e ricchezza (Mauss 1923-24, 215). L’obbligo di ricambiare il potlàc è impera- Per dare sicurezza alla transazione, nel potlàc di alcune tribù di indiani canadesi tutto si svolge pubblicamente alla luce del sole. Su ciò Mauss fa un lungo riferimento a uno scritto di Boas, dicendo che sul «potlàc, Boas non ha scritto niente di meglio della pagina seguente» nella quale descrive il sistema di transazioni senza scritturazioni e in cui viene data la seguente definizione: «Contrarre debiti da una parte, pagare debiti dall’altra, questo è il potlàc» e prosegue: «Coloro i quali ricevono regali in questa festa, li ricevono come prestiti da utilizzare nelle loro attuali iniziative e da restituire, dopo un intervallo di qualche anno, insieme con gli interessi, al donatore o al suo erede». Per Boas il potlàc si riduce a una forma di erogazione di credito con tanto di interessi (Boas 1898, 54-5). 16 Qu es to E- bo ok ap Q Parte II - Moneta e debito 286 tivo, pena perdita dell’onore e della dignità fino alla sanzione, almeno presso alcune popolazioni, della riduzione in schiavitù per debiti (Mauss 1923-24, 225). La pratica è assimilata all’istituto del nexum nel diritto romano, codificato nelle Leggi delle XII tavole17, come obbligazione che vincola il debitore con la garanzia di sottomettersi come schiavo in caso di insolvenza. Il nexum era un contratto per aes et libram in cui il debitore, alla presenza di testimoni, si rendeva obbligato al suo creditore in base, appunto, a un peso di metallo, inizialmente effettivo, in seguito solo fittizio, come avveniva per lo stesso atto della mancipatio nell’acquisto, per aes et libram, di una determinata proprietà18. Il nexus metteva il creditore in condizione di esercitare un potere di esecuzione direttamente sulla persona senza passare per alcun giudizio19. Shylock, ne Il mercante di Venezia, chiede ad Antonio una medesima garanzia corporale e avrebbe dato esecuzione al patto, se la causa non si fosse risolta in altro modo per un’astuzia giuridica di Porzia, nelle mentite vesti d’avvocato. Il linguista Benveniste suggerisce che, per meglio tradurre letteralmente fidĕs, occorre sostituire “credito” a “fiducia”, cioè per i latini la fidĕs stabilisce una relazione inversa tra le parti rispetto alla nozione odierna di “fiducia” (confidence)20. Questa più antica accezione si sviluppa in una nozione più soggettiva, «non più la fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in qualcuno» e la fidĕs si lega a diciŏ, cioè alla «facoltà di disporre di qualcuno» (Benveniste 1976, I, 88). L’originario senso progredisce Le leggi delle XII tavole rappresentano una tra le prime codificazioni scritte del diritto romano (pubblico e privato), compilato nel 451-450 a.C., sotto la spinta, secondo gli antichi storici romani, dei plebei che chiedevano, fra l’altro, un’attenuazione delle leggi contro i debitori insolventi, e che diventeranno un punto di riferimento quasi sacrale per gli sviluppi successivi del diritto romano. 18 La mancipatio era uno dei sistemi più diffusi per alienare beni dotali. L’operazione avveniva alla presenza di un libripens (portatore di bilancia) che pesava l’aes rude (cioè il bronzo non coniato) per dar luogo alla transazione (v. Guarino 1981, 130). 19 Sulla questione si rinvia a Manfredini (2013) e a Girard (1911, 198, 246 e n., 287-8, 417-8, 432-6). Per un’accurata sintesi storica v. Bernard (2016). 20 Infatti, precisa Benveniste (1976, I, 87): la «traduzione letterale di fides mihi est apud aliquem diventa “ho credito presso qualcuno”; che è proprio l’equivalente di “gli ispiro fiducia” o “ha fiducia in me”». 17 11 - Il debito originario 287 cioè verso una disparità tra i contraenti. «Colui che detiene la fidĕs messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere. Ecco perché fidĕs diventa quasi sinonimo di potestăs e diciŏ» (Benveniste 1976, I, 88 con una ns. variante nella traduzione). Le forme più antiche esprimevano relazioni di reciprocità e «mettere la propria fidĕs in qualcuno procurava in cambio la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle condizioni. È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio e nella misura della sua sottomissione. Questa relazione implica potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra» (Benveniste 1976, I, 88). Nell’erogazione di un credito il debitore si sottomette, nel senso che si impegna a obbedire all’obbligo che gli viene imposto con l’erogazione del credito: di adempiere al servizio e al rimborso del debito, nel senso di assolvere la promessa resa (absolvĕre), con la quale si libera e scioglie il rapporto. Agamben commenta che la «fidĕs è, dunque, un atto verbale, accompagnato di regola da un giuramento, col quale ci si abbandona totalmente alla “fiducia” di un altro e si ottiene, in cambio, la sua protezione. L’oggetto della fidĕs è, in ogni caso, come nel giuramento, la conformità fra le parole e le azioni delle parti» (Agamben 2008a, 34). La parola vale se c’è confidence. In mancanza di confidence, deve allora subentrare un collaterale. Ricorda sempre Benveniste che «affidare qualche cosa (uno degli usi di crĕdo), vuol dire dare a un altro, senza considerazione di rischio, qualche cosa che ci appartiene, che non si offre in regalo, […] con la certezza di ritrovare la cosa affidata. È lo stesso meccanismo che entra in azione sia per una fede propriamente religiosa sia per la fiducia in un uomo, che l’impegno sia di parole, di promesse, o di denaro» (Benveniste 1976, I, 134). In questo sta «il fondamento della nozione laicizzata di credito, fiducia, qualunque sia la cosa affidata o data in pegno» (Benveniste 1976, I, 134). In tutto ciò si esprime una rivalità primitiva, di potere e di competizione tra clan, come avveniva nel dono. Anche il dare in cambio, reso con il termine latino di mŭnus, è accostato da Benveniste ad altri termini che esprimono nozioni di carattere sociale, come pignus, pegno, e altre. Nella Roma antica il pignus è fatto risalire in origine all’istituto del pignoris capio, del sequestro extragiudiziario. Il mŭnus è però anche il dono Qu es to E-b oo ka pp art ien ea rof fisi mo Parte II - Moneta e debito 288 che obbliga a uno scambio e alla restituzione, e immŭnis è colui che non restituisce e che non tiene fede all’obbligo del dono21. Il commento ulteriore di Benveniste è il seguente: «commŭnis non significa ‘chi condivide le cariche’, ma propriamente ‘chi ha in comune dei mŭnia’. Ora, quando questo sistema di compensazione gioca all’interno di una stessa cerchia determina una ‘comunità’, un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità» (Benveniste 1976, I, 71)22. L’estinzione del debito e del beneficio ricevuto strappa dal pegno-moneta la natura ciclica e ripetitiva della relazione, che nel dono presuppone il contro-dono e nel credito il riconoscimento, da parte di chi l’ottiene, dell’essere in debito. Se questo riconoscimento non c’è, il pegno può considerarsi perduto da parte di chi lo ha ceduto23. Ciò è evidente nel dono-contro-dono, specialmente quando il ricevente si sente in condizione, per senso di estraneità, palese o sopraggiunta, di rompere il patto implicito. La mancanza di reciprocità, che era attesa e che invece non è stata concessa, costituisce una potenziale dichiarazione di ostilità che può diventare insanabile. In una fase in cui i rapporti tra creditori e debitori hanno perso molte delle ritualità e sacralità presenti nel dono, anche il codice del pegno vede esaurirsi la rappresentativi- o m si fi ne a f ro e p ti r a ap Interessante la critica rivolta da Salvioli (2014, 203) ai sostenitori di un «“umanesimo dell’indipendenza” che si rovescia inevitabilmente in una società dell’im-munitas, ossia della non-donazione, che riflette il desiderio di tutelarsi dal potenziale lesivo della relazione interpersonale attraverso quella forma di relazione – lo scambio di equivalenti – che paradossalmente si afferma negandosi». 22 Sul termine si vedano anche le considerazioni di Esposito (2006); alcune sono esaminate nel successivo par. 11.3. 23 Per il Devoto-Oli l’etimo di pegno è da pignus -ŏris, derivazione di pingĕre ossia “dipingere” per segnare e per ricordare un impegno preso. Il pegno è una “segnatura”, nel senso di Agamben (2008b, 37-40 e, sull’obbligo della parola, p. 76), e – come diremo più oltre – la moneta è pegno e dunque segnatura. Agamben (2008a) risale alle legislazioni arcaiche e alle fonti antiche per mostrare come il «sacramento del linguaggio», cioè la capacità e volontà di impegnarsi con la parola, mettendo in gioco l’esistenza, è costitutivo del sacramento del potere. Su quest’ultimo si veda il volume di Prodi (1992). Nella tradizione pagana e poi cristiana «[l]’uomo spergiuro – osserva Prodi – è un cadavere ambulante, un’anima morta» e, aggiunge, il «problema quindi diventa politico anche nel senso che colui che possiede il potere di provocare questa “magna necessitas”, di esigere il giuramento o provocarlo corre lo stesso rischio di chi spergiura» (Prodi 1992, 55). 21 b k o o o t es u Q E- gm @ 0 00 2 . e n co l. ai 11 - Il debito originario 289 ene k app arti oo Qu e s t o E-b tà di segno che impegna ad atti di pura reciprocità (seppure nelle forme competitive e antagonistiche che rendono ambivalente il dono e il contro-dono). Rispetto ai rapporti originari, nei nuovi rapporti tra debitori e creditori subentrano sentimenti e ragioni di una certa sfiducia; allora, per questo motivo, il pegno deve possedere un valore estrinseco per il creditore e per il debitore, in modo che quest’ultimo senta una necessità impellente di ritornarne in possesso24. Si rifletta, a tal proposito, alle ragioni che portano comunità mercantili a stabilire rapporti reciproci di credito e debito mediante scritture private, nelle quali il beneficiario, per esempio, di una lettera di credito ha, di fatto, in mano solo un pezzo di carta sul quale sta scritto il nome del traente, quello del beneficiario e la firma del trattario-debitore. Se questo valeva in comunità di mercanti legati da codici d’onore (caso del prestito sulla fiducia), l’onore non aveva più alcun ruolo nel caso di un creditore che concedeva un credito per la metà del valore di un pegno sottratto dalle disponibilità del debitore (caso del prestito garantito)25. Lo stesso modello relazionale era presente nel mutuo ipotecario. L’ipoteca o mort-gage, si assimilava a un pegno – nel senso letterale di “pegno morto” – relativo a un immobile sulla quale era iscritta per un valore solitamente doppio, o comunque superiore, del credito concesso. Il termine era in uso nell’antico diritto francese e nel resto del diritto comune europeo per indicare i frutti del pegno che il creditore non poteva appropriarsi. Perciò, per convenzione, gli interessi non si imputavano sul debito, ma appartenevano al creditore ed erano detti mort-gage, ammessi ar o f f i s imo com n e . 2 000@ g m ail. 24 Dodd (2014) parla di monetary networks nei quali la circolazione di strumenti monetari e creditizi si affida ai circuiti di informazioni, per esempio quelli dei sistemi sociali di controllo sull’onore e sulla lealtà; quando però tali circuiti si interrompono o le informazioni diventano costose e i controlli deboli, allora le transazioni ricorrono alla regolazione in moneta. La moneta non ha bisogno di fiducia, è sostenuta da una fiducia generalizzata, è «fiducia nel sistema» e come tale più vulnerabile (Luhmann 2002, 77-8). Non è forse per questo che Keynes insiste sul ruolo significativo dello «state of confidence», sull’importanza di garantire la fiducia? 25 Muldrew (1998) mette in evidenza che verso la fine del XVI secolo uno scrittore aveva espresso l’importanza della ricchezza e del patrimonio in questi termini: «di solito nessun uomo è considerato degno di molto onore, o meritevole di grande fiducia e credito, a meno che non sia ricco» (idem, 153). 290 Parte II - Moneta e debito con qualche riserva per il carattere usurario che tentavano di celare. All’opposto del mort-gage, talora si faceva uso del termine di vif-gage per il pegno ordinario. La garanzia dipende dunque dal tipo di rapporto fiduciario che si instaura: più la fiducia è sostenuta da codici di onore e di sacralità e più simbolico è il “pegno” che obbliga il debitore (che si è così “in-pegnato”). Nel saggio “Il valore delle cose”, uscito nelle Annales nel 2002, Yan Thomas introduce importanti considerazioni che non riguardano solo la tradizione giuridica. La formula romanistica res in commercio comprende tutti i beni valutati che rientrano in quella categoria di carattere patrimoniale «per contrasto al regime di indisponibilità da cui esse sono eccezionalmente colpite [forgiate] tanto nel diritto sacro quanto nel diritto pubblico» (Thomas 2015, 22-3). La natura giuridica delle cose valutabili, appropriabili e disponibili dipende dal fatto di essere state sottratte ed escluse dal novero di quelle «destinate agli dèi o alla città» (Thomas 2015, 23). Nel mondo antico, il modo comune di investire e tesaurizzare era perciò quello di assegnare beni al patrimonio collettivo, che nella giurisprudenza d’epoca imperiale trovava la sua concettualizzazione nella formula «paradossale» di res nullius in bonis, cioè di «cose appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno» (idem). Anche in epoca molto più antica, almeno dal III secolo a.C., le cose sono designate col termine di pecunia, e il debito stesso con pecunia constituta, che, oltre ad essere una somma di denaro, era anche qualunque altra cosa oggetto di una promessa o di un contratto (Thomas 2015, 59). Lo stesso concetto di prezzo (pretium) poteva indicare tanto il valore delle cose, quanto la res che, attraverso il processo civile, era sottoposta a stima pecuniaria per dar valore a garanzie che erano alla base di operazioni creditizie (Thomas 2015, 60-3). Il prezzo, determinato attraverso un procedimento giudiziario per stabilire gli effetti di un danno e valutare un indennizzo, richiama alla nozione di pegno, che è stata già chiarita da Mauss. Yan Thomas individua gli oggetti di pegno negli oggetti di voto, che legano a un’obbligazione o a un giuramento, e che da cose consacrate possono essere trasformate in cose sciolte dalle disponibilità del santuario ed essere quindi rese appropriabili e -b Qu e E sto 11 - Il debito originario 291 vendibili26 (Thomas 2015, 46-7). Nell’excursus genealogico di Sini (2015, 76-7, 84-5) riguardo al debito, i templi sono all’origine delle prime dinamiche di indebitamento attraverso la custodia e l’immagazzinamento – da loro predisposte – dei surplus di produzione, che avrebbero dovuto così essere resi disponibili nelle annate cattive. Yan Thomas riporta un parere del giureconsulto Paolo, recepito nel Digesto, per mostrare l’importanza del circuito dal sacro al profano – e viceversa – nei rapporti commerciali e, specialmente – aggiungiamo – in quelli creditizi per i valori in pegno. Il testo di Paolo è il seguente: Mi faccio vanamente promettere una cosa sacra, benché essa possa essere resa profana; poiché, allorquando una persona ha promesso una cosa profana, questa è liberata dalla sua promessa nello stesso momento in cui, senza che ciò dipenda da lei, la cosa è divenuta sacra; e il promettente non è richiamato all’obbligazione che aveva contratto se, in seguito a una legge qualsiasi, questa stessa cosa è restituita al suo stato profano anteriore (cit. in Thomas 2015, 51, corsivi suoi]. Il commento di Thomas che qui interessa è il seguente: «Il sacro, dal momento che apparteneva agli dèi, aveva per contropartita il religioso, ciò che era interdetto agli uomini»; la stessa circolarità è fatta propria anche dal diritto pontificale, per il quale togliere una cosa dall’interdetto permetteva di comprarla e di venderla (Thomas 2015, 52)27. La “santuarizzazione” esclude le cose dal commercio. La moneta entra ed esce da tale condizione, sta dentro e fuori dagli ambiti del sacro e del profano; essa è cosa che serve da pegno proprio perché ha un’essenza di bene pubblico, di cosa sacra e che è desacralizzata per consentire di essere oggetto intermediario e di misura di valore nei traffici commercia- Q 26 Il processo di uscita di una cosa dall’ambito sacro prende il nome di profanare e l’uscita di essa per entrare nell’ambito umano quello di profanazione, come ci ricorda Agamben: «E se consacrare (sacrare) era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini. “Profano”, poteva scrivere così il grande giurista Trebazio, “si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso che era, viene restituito all’uso e alla proprietà degli uomini”» (Agamben 2006, 27). 27 Sulla sacralità e sul sacrificio all’origine della moneta v. anche i saggi in Parise (1997). ue st o E- bo ok ap pa rti en e a ro 292 e.2 Parte II - Moneta e debito iene t r a p a imon s i f f ro li28. In definitiva, il «valore delle cose» dipende strettamente da cose che sono, di per se stesse, sottratte ai giudizi di valore. Mentre le cose prive di valore commerciale, non valutate e non valutabili, sono quelle che non sono appropriabili, sono i «beni di nessuno», quelli incamerati nelle casse del sovrano. Si tratta della nozione stessa di fiscus e dell’analogia insolita che, in età medievale, confronta Cristo con il fisco, per designare beni patrimoniali che non devono essere alienati perché nessuno ne ha proprietà (su questo Kantorowicz 2005, 178-9, 181 e 183). Non solo, Thomas ricorda anche che i depositi monetari presso i templi facevano di questi ultimi una sorta di banche, di depositerie e di magazzini, che potevano prestare moneta o beni perché solo i templi erano depositari della fede (Thomas 2015, 44-5). La moneta stessa ha quelle caratteristiche di “cose” depositate, rese sacre perché «sottratte in quanto tali alla proprietà individuale» (idem, 45), in grado di conferire fiducia e di trasmetterla nei rapporti tra creditori e debitori. La moneta ha pertanto la valenza di un bene pubblico; per meglio dire, ricordando il dualismo che oppone le res publicae alle res privatae, la moneta svolge una funzione di bene soglia tra le une e le altre: la moneta “esce” dall’appartenenza alle prime per costituirsi come pegno e consentire così agli scambi privati di “chiudersi”, di liquidare debiti e obbligazioni, regolare pagamenti in via definitiva. Nel suo carattere astratto la moneta è una sorta di quelle res nullius che nel diritto divino – come ricorda ancora Kantorowicz (2005, 184-5) – non appartengono a nessuno, una res quasi sacra per il simulacro di idolatria che si trascina dietro. Sini (2015, 69-71, 118, 120-1) aggiunge a tutto questo un’osservazione fondamentale per il credito e per il suo sviluppo, che è quella dell’importanza decisiva della scrittura, della contabilizzazione, come documen- sto Que ok o b E ap 28 Si tenga presente anche quanto osserva Salvioli, secondo cui il principio in età moderna era che il principe conferisse valore e prezzo alla moneta e, di conseguenza, alle cose venali: «la moneta dovrà servire soltanto a formare il prezzo delle cose, essere pretium et mensura e non merx né mensuratum»; per questo «i giuristi non si piegarono alle dimostrazioni degli economisti, e tennero all’antico concetto della impositio valoris, che dominava assoluto nella pratica monetaria di tutti gli Stati» in età moderna, oltre che antica (Salvioli 1889, 73 e 74). 11 - Il debito originario Q ue st o E- ap ok bo tazione della memoria e delle promesse che sono state fatte e che devono essere mantenute. Paolo Prodi (2007) ha mostrato il processo di desacralizzazione che ha interessato il forum, quale luogo d’incontro, mercato su cui si determina il valore delle cose, e che, nell’Europa dei primi secoli dopo il 1000, perde, ma non del tutto, quel carattere di essere anche sede del potere politico e giudiziario, non solo luogo mercantile. Paolo Grossi (1992, 15) ha parlato di una «nuova antropologia» che rovescia l’antico rapporto degli uomini con le cose e introduce il concetto moderno di proprietà, di distinzione tra privato e pubblico. In particolare, dalla seconda metà del XIV secolo, i teologi elaborano un diritto dei contratti e delle obbligazioni fondato su principi naturali, che richiamano i cristiani all’onestà e alla responsabilità morale come prescrizioni di comportamento corretto e giusto, e su principi da cui far dipendere la giusta determinazione dei prezzi sul mercato (Prodi 2007, 168-9). La modernità della moneta, superato il rapporto originario del dono, ma anche quello della rotazione dei crediti-debiti reciproci, sta appunto nella sua capacità di essere momento e strumento di estinzione dell’obbligazione contratta. Essa è il pegno nobilitato di valore intrinseco, quando ha perso il segno estrinseco dell’onore e della sacralità dell’onore, cioè di integrità e onestà, costume soggettivo ma di valore socialmente oggettivo. Il legame sociale connaturato alle relazioni sia del dono che del debito è espresso bene da Seneca: «Al malvagio getterò il beneficio, al buono lo restituirò: a quest’ultimo perché sono in debito con lui, al primo per non essere più in debito con lui» (Seneca 2000, 481 [VII, 17, 2]). Il crescente individualismo nelle società moderne e mercantili comporta un aumento degli scambi e, in un ambiente spietatamente competitivo, con crescenti volumi di transazioni a credito, allora la moneta rende dei servizi che l’onore non può più concedere (Wolfhal 2000)29. p 293 29 Si rifletta a tal proposito sulle considerazioni di Thomas Hobbes nel Leviatano riguardo all’onore, al quale assegna valore se inserito in un rapporto di potere, in un esercizio di volontà sovrana: onorare «è segno che pensiamo che [un altro] abbia potere di aiutarci», perciò obbedire «è onorare, perché nessuno obbedisce a chi ritiene che non abbia il potere di aiutarlo o di fargli del male» (2001, 145 [I, X, 19-20]). 11.3. Il nexum Una volta abolite la pena di morte e la schiavitù, non restò altra punizione per il debitore che l’arresto per insolvenza; e dio solo sa se, da allora – dai creditori di quei tempi lontani sino a quelli di oggi – i suddetti signori hanno fatto ampio uso della legge di Giulio Cesare. (Balzac 1827, 66) Freud, equiparando il denaro alle feci, ha individuato in chi accumula denaro i tratti di una tipologia anale. Chi non vuol riconoscersi in questo contesto un po’ maleodorante può rifarsi a Marx e apprendere che, accumulando denaro, accumula qualcosa di molto simile ai valori dello spirito. (Galimberti 1998, 183) Il nome di una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, io non so nulla dell’uomo. Così nei nomi di denaro, lira sterlina, tallero, franco, ducato ecc. scompare ogni traccia del rapporto di valore. La confusione riguardo al significato arcano di questi segni cabalistici è tanto più grande, per il fatto che i nomi di denaro esprimono insieme il valore delle merci e anche parti aliquote d’un peso di metallo” (Marx 1867, 123 I, 3.1]) In una digressione (“passaggio”) Roberto Esposito insiste sui fondamenti di teologia economica rintracciabili nella pratica dell’imprigionamento e messa in schiavitù del debitore insolvente, previsto nel diritto arcaico del nexum romano e del wadium germanico, quest’ultimo, secondo Huvelin (1905-06, 28-9), un pegno più simbolico che di valore, se non affettivo. L’arresto personale era previsto nel codice civile napoleonico e nel 1865 recepito anche nell’analogo del Regno d’Italia (Esposito 2013, 149). Il corpo del debitore era, per tradizione, entrato nelle leggi quale pegno per il creditore e difesa ultima della proprietà privata, di quella proprietà che il credito rappresentava30. La libertà stessa del debitore è soppressa nel caso in cui manchi la sua remissione del debito. L’antica legge delle XII tavole dava al debitore, sottoposto a giudizio di una corte, un certo tempo per rimediare al suo debito, dopodiché veniva esposto al pubblico ludibrio sulla piazza di mercato, infine messo a disposizione del creditore e, se i creditori fossero stati più di uno, Per una storia giuridica generale dei rapporti tra creditori e debitori cfr. Manfredini (2013). 30 Ques to Parte II - Moneta e debito 294 11 - Il debito originario 295 il suo corpo poteva persino essere fatto a pezzi per accontentare in parte tutti, come ne Il mercante di Venezia (Esposito 2013, 151). Già da prima dell’introduzione delle XII tabulae, attorno al 450 a.C., nel sistema dello ius Quiritium – secondo Guarino (1981, 141) – il credito non aveva particolari riconoscimenti giuridici e le prestazioni si basavano sulla fides. L’introduzione dell’espediente del nexum servì perciò a rafforzare i rapporti di credito. Il debitore si sottoponeva all’alienazione della propria persona fino al giorno in cui era in grado di riscattare l’impegno preso e liberarsi dal debito, altrimenti era ridotto in schiavitù. Mauss esamina la sopravvivenza dei principi del dono arcaico nel diritto e nell’economia antica. Da tali principi fa discendere la distinzione, netta nel diritto moderno, tra persone e cose (diritti reali e diritti personali). Sulla scorta degli studi di Huvelin31, Mauss considera la «sanzione magica» conseguenza del carattere spirituale della cosa data in pegno; i pegni sono, «più che pegni di vita», trasferimenti di un potere magico. I «pegni di vita» alludono al nexum, all’alienazione del proprio corpo per essere garanzia di un debito. o u e st Q La cosa data in pegno – aggiunge – è ordinariamente senza valore: per esempio i bastoni scambiati, la stips nella stipulazione del diritto romano e la festuca notata nella stipulazione germanica; anche le arre, di origine semitica, sono più che degli anticipi. Sono cose, animate esse stesse. Soprattutto, sono residui degli antichi doni obbligatori, reciprocamente dovuti e da cui i contraenti sono vincolati (Mauss 1923-24, 242)32. Eb oo k a pp a r tie ne 31 V. specialmente Huvelin (1905-06; e 1900, 77-83). Mauss dichiara di concordare pienamente con le analisi di Huvelin, ma aggiunge un’osservazione complementare riguardante la teoria del nexum e la clausola dell’ingiuria teorizzata dal medesimo. Huvelin (1903, 57-9) considera l’ingiuria verbale un rituale magico-religioso, talora messo a disposizione dei creditori per ottenere soddisfacimento da debitori recalcitranti (v. anche Guarino 1981, 144). Tale clausola per Mauss non ha solo un carattere magico ma deriva, è un «avanzo», dei diritti antichi del potlàc, che attribuivano una superiorità al creditore ponendolo in grado di insultare l’obbligato nel caso di una controversia; v. Mauss (1923-24, 241n.). 32 Nella tradizione germanica la festuca, così come nel diritto romano, è un fuscello o un bastoncino col quale toccare gli oggetti trasmessi in una compravendita per significare l’equità e il raggiunto accordo, la perfezione di un contratto. Le arre sono oggetti simbolici che svolgono le medesime funzioni. a im r o ffi s . on e @ 2 0 00 gm Parte II - Moneta e debito 296 Qu Con stips si intende una moneta piccola, un obolo e, forse, Mauss – da Huvelin – si riferisce al gr. ὀβελóς, spiedo, da cui ὀβολóς, bastoncino in metallo usato come moneta per fare elemosina nell’etimologia di Isidoro di Siviglia33. Anche nel diritto romano, nella stipulazione di contratti la festuca, un fuscello di paglia, era il mezzo per affermare la proprietà e ritualizzare la conclusione di una negoziazione (Mantello 2012, 115). Rispetto al sistema analogo delle arre, Huvelin ne aveva mostrato il carattere obbligatorio e vincolante34. Nell’aes flatum, prima ancora della comparsa di conii monetali antichi, verghe pesate o pezzi di rame modellati, le raffigurazioni di bestiame erano la testimonianza che la compravendita vincolava le parti a una cessione di bestiame (Mauss 1923-24, 243n.). Il nexum, già nel diritto romano più antico, è un contratto che ha perso i caratteri di impegni collettivi come quelli dei meccanismi rituali dei doni. Il distacco dal dono è spiegato da Mauss con la distinzione tra diritti personali e diritti reali. In tal modo si va a separare la compravendita dal dono, i riti dai diritti e dagli interessi che: e sto E -b oo k a rt pp a ien e a ro f f isim con una autentica, grande e rispettabile rivoluzione hanno superato tutta questa morale invecchiata e l’economia del dono troppo arrischiata, troppo dispendiosa e troppo suntuaria, ingombra di considerazioni riguardanti le persone, incompatibile con uno sviluppo del mercato, del commercio e della produzione e, in fondo, all’epoca, antieconomica. (Mauss 1923-24, 251) 33 Cfr. Isidoro di Siviglia (2013, Libro XVI, XXV, 10); Huvelin (1906). Nel saggio su «Magie et droit individuel», Huvelin (1905-06, 33-4) mostra come la stipulazione presso i popoli germanici si rende obbligatoria attraverso rune iscritte su un’arma o su un bastoncino segnato (la festuca notata) e formulando giuramenti solenni nei quali il debitore tiene in mano il bastoncino e lo getta poi al creditore in segno di esecrazione all’obbligo a cui si sottomette, o lo consegna semplicemente al creditore come pegno. Su questo ritorna Mauss (192324, 266). 34 Attraverso la donazione di arre – secondo Huvelin (1905-06, 32-3n.) – si stipula un contratto reale degenerato, ossia le arre servono da pegno, una sorta di moneta sacrificata alla divinità a garanzia di un giuramento, mezzo di prova, e di accettazione della sottomissione a una maledizione in caso di ripudio. 11 - Il debito originario 297 La ricchezza non è più fatta per essere elargita. In alcuni testi del brahmanesimo i riti della carità e dell’ospitalità hanno il potere di conferire saggezza, sapienza, merito in chi li osserva e cibo, proprietà, bestiame non sono distrutti ma rigenerati nuovamente. «L’avarizia interrompe il circolo del diritto, dei meriti, degli alimenti che rinascono gli uni dagli altri» osserva Mauss (1923-24, 257). La prodigalità e lo spreco erano invece la «molla dell’interesse» che in quelle civiltà precapitalistiche funziona diversamene che da noi. Si tesaurizza, ma allo scopo di spendere, di “obbligare”, di disporre di “uomini ligi”. Si effettuano scambi, ma di oggetti di lusso, di ornamenti, di vestiario, o di cose che vengono immediatamente consumate, di banchetti. Si ricambia ad usura, ma per umiliare colui che ha donato o scambiato per primo, non soltanto per ricompensarlo della perdita che gli procura un “consumo differito”. Esiste un interesse, ma questo interesse è solo analogo a quello che, a quanto si dice, ci guida. (Mauss 1923-24, 282-3) Ques to E- book appa rtien ear offisi mon e.20 11.4. L’accumulazione del denaro come metamorfosi del sacro capire l’economia e il denaro moderni significa comprenderne il rapporto con l’economia e il denaro arcaici. Ma tale atteggiamento storico, e quindi anche filosofico, nei confronti del denaro, è proprio ciò che manca alla teoria economica moderna in tutte le sue manifestazioni. (Brown, 1986, 274). Le proprietà magiche che la casta sacerdotale egiziana ha infuso nell’antichità al metallo giallo non sono mai scomparse del tutto. (Keynes 1930, II, 467-8 [cap. 35.i]). Nell’uomo moderno, la colpa è aumentata al punto che non è più possibile espiarla con le annuali cerimonie di rigenerazione […] la categoria della colpa cumulativa rende possibile l’economia dell’interesse composto. (Brown 1986, 312). Se il racconto della formazione della società, dell’economia e della moneta narrato dagli economisti liberali classici e neoliberali moderni si sviluppa pianamente lungo linee evolutive “naturali”, tuttavia, una più profonda analisi genealogica e interdisciplinare di tali formazioni rivela fondamenti e processi inattesi, che risul- 00@ g r pa p a ok o E-b 298 Parte II - Moneta e debito e Qu sto terebbero invisibili e, forse, persino incomprensibili, usando solo la lente degli storici e degli economisti tradizionali. Secondo Norman Brown (1986), va del tutto invertita la descrizione storica e antropologica dell’origine degli scambi, del mercato e del capitalismo, portata avanti pressoché unanimemente dai classici della teoria economica. Infatti, il loro ragionamento si basa su un assioma dal quale poi parte tutta la deduzione della nascita e crescita della società e dell’economia. L’assioma recita che l’attività economica è intrinsecamente razionale, cioè sempre governata dal calcolo economico, quindi lo è da sempre, fin dalla preistoria. Allora, secondo questo assioma, l’economia avrebbe addirittura rappresentato, fin dall’inizio dei tempi, un seme di luce razionale immerso in un oscuro contesto irrazionale (religioso, superstizioso, cognitivamente primitivo). Da questa luce razionale sarebbero derivati storicamente i processi evolutivi sociali e le istituzioni sociali: la divisione del lavoro con la corrispondente istituzione del mercato, l’istituzione della proprietà, e soprattutto l’istituzione del denaro che, in connessione col mercato, fornisce sia il mezzo di scambio che la misura del valore. Invece, sostiene Brown, le conoscenze dell’antropologia smentiscono del tutto l’assioma dell’economia come seme di luce razionale oggi liberatasi dall’involucro dell’irrazionale arcaico: all’origine, l’economia arcaica non ha nulla a che vedere con la razionalità del calcolo economico, anzi è del tutto elemento cruciale, se non fondante, di una visione del mondo e della società antitetica a quella moderna. E questo non è altro che ciò che sostiene anche Karl Polanyi, quando sottolinea che se c’è una cosa che mette d’accordo tutti gli etnografi è proprio il fatto che l’economia arcaica non ha nulla a che vedere col calcolo economico e con l’homo oeconomicus: È su questo solo punto negativo che i moderni etnografi sono d’accordo: l’assenza del motivo del guadagno; l’assenza del principio di lavorare per un compenso; l’assenza del principio del minimo sforzo; e soprattutto l’assenza di qualsiasi istituzione separata e distinta basata su motivi economici (Polanyi, 1944, 47). Quale ruolo svolge il denaro nell’economia arcaica? Questo ruolo è diverso da quello svolto nell’economia moderna? Può 11 - Il debito originario 299 questo ruolo arcaico indicarci qualcosa di importante su come interpretare più profondamente anche il ruolo moderno? Se è vero che nell’economia arcaica, data la pochezza degli scambi, al denaro non possono essere attribuite, al contrario che nell’economia moderna, le importanti funzioni di mezzo di scambio e di misura del valore delle merci, tuttavia al denaro – o alla tipologia di oggetti che lo rappresentano – deve essere attribuita l’importante funzione di mezzo per raccogliere e accumulare ricchezza. Questa specifica funzione del denaro arcaico è anche una indicazione per rivalutare la medesima funzione del denaro moderno, per rispondere alle questioni che la moneta implica nella moderna scienza economica: Se lo studio dell’economia arcaica mostra che, almeno in senso storico, la funzione primaria del denaro consiste nella raccolta e nella accumulazione della ricchezza, esso spinge la moderna teoria economica a rivedere l’importanza attribuita tradizionalmente alla funzione del denaro in quanto mezzo di scambio. La teoria economica moderna, con i suoi problemi insoluti a proposito della teoria del denaro e dell’interesse, potrebbe trar giovamento da questa indicazione (Brown 1986, 276). Verrebbe subito da domandarsi, con la moderna mentalità economica, come sia possibile che pietre, conchiglie, piume, denti, ovvero la moneta arcaica, oggetti senza valore d’uso, possano essere tesaurizzati e accumulati come ricchezza. Gli antropologi hanno rilevato come questo denaro arcaico ha il ruolo di conferire prestigio35 sociale a chi lo possiede. Ma, sia il valore dell’inutile pietra che il prestigio da essa conferito, sono palesemente di origine magico-religiosa, quindi appartenenti all’ambito del sacro36. Questo E L’etimologia del termine prestigio riporta al significato di illusione, inganno e persino a quello di “restare attoniti e abbagliati”, insomma qualcosa che ha a che fare con la presenza del magico o del numinoso. 36 È ovvio osservare che in tale ambito il significato del valore non può avere nulla a che vedere con il risultato di una massimizzazione vincolata di una funzione di utilità, costruita sulla base di assunzioni estremamente restrittive e scarsamente plausibili, che costituisce il fondamento del valore delle cose secondo la scienza economica odierna. Sembrano, quindi, quello arcaico in cui si dà valore a una pietra e quello odierno in cui si dà valore al calcolo ingegneristico di una immaginaria 35 ne a ppartie -book a Parte II - Moneta e debito 300 Questo Per Brown la comparsa del privilegio e del potere non si ha nel passaggio da una società arcaica collettivista (per lui, il comunismo primitivo è una lettura errata dell’economia arcaica) alla proprietà privata, ma in quello davvero iniziale del passaggio da scimmia a uomo. Per esempio Brown ricorda che è stato dimostrato i) che il noto fatto secondo cui in Omero il bestiame serve da moneta deriva non tanto dal bestiame in quanto bene di consumo, quanto dal significato sacro del bestiame nel sacrificio e nel pasto cerimoniale, ii) che i primi mercati erano mercati sacri, che le prime banche erano i templi, e che i primi a battere moneta furono sacerdoti o re-sacerdoti. Sarebbe quindi una “deformazione” degli economisti moderni ritenere la moneta, il mercato o la banca, istituzioni economiche “razionali”, originariamente sorte per caso, o meglio per evoluzione spontanea, in un contesto religioso, e non, invece, istituzioni intrinsecamente sacre e quindi non razionali. Ma sarebbe altrettanto un errore spiegare le moderne istituzioni economiche come il risultato di un fenomeno di “laicizzazione” di istituzioni anticamente religiose, quando invece si tratta ancora del sacro metamorfizzato: «In origine il potere era sacro, ed esso rimane tale nel mondo moderno. Ancora una volta non dobbiamo lasciarci trarre in inganno, e non dobbiamo considerare “laicizzazione” ciò che è solamente una metamorfosi del sacro» (Brown 1986, 284). Pertanto, una prima correzione e demistificazione va condotta, secondo Brown, anche rispetto a chi, come Keynes, riconosce senza alcun dubbio l’origine sacra del denaro, postulando però la visione moderna del denaro come una “laicizzazione” tout court del medesimo, che semplicemente lo spoglia, in un mondo moderno razionale, dei pregiudizi religiosi che paludavano la sua origine, rendendolo così “razionale”. Quali sono i simboli del denaro, sia antico che moderno, che ne evidenziano con pochi dubbi la “irrazionale” marchiatura del sacro? Brown ce ne elenca almeno tre: i) la copertura aurea; ii) E-book massaia, due ambiti irrelati e incommensurabili, di cui, peraltro, sarebbe difficile dire quale abbia maggior senso. Tuttavia, nel caso della moneta, come anche dell’interesse o del lavoro o di altre istituzioni centrali nella scienza economica, lo sguardo dell’“archeologo” può rivelare relazioni sorprendenti fra i due ambiti. appar 11 - Il debito originario 301 l’interesse sul denaro; iii) il valore “immaginario” attribuito all’oro e all’argento, valore, peraltro, che, se misurato in termini di utilità, non supera quello delle conchiglie o delle pietre dei tempi premoderni. Brown fa rilevare come il problema del denaro sia stato affrontato già con un piede paradossalmente sbagliato. Per confermare questo, basta osservare come esso venga correntemente considerato: il denaro è visto come cosa sommamente razionale. Anzi, di più, come cosa che consente alla razionalità di esplicarsi nel mondo sociale ed economico. Ancora di più, come cosa necessaria alla esplicazione di quella razionalità. Quest’ultimo punto appare evidente nella affermazione di von Mises, secondo la quale in una società socialista priva di denaro verrebbero necessariamente meno le condizioni per il calcolo razionale dell’economia37, e quest’ultima sarebbe semplicemente irrazionale38: Anche Frank Knight, che pure sarà co-fondatore con von Mises della Mont Pèlerin society (vedi parte III), liquida in modo piuttosto netto la “scoperta” di von Mises, riconoscendo che una società pianificata potrebbe raggiungere tutti i risultati che volesse, incluso i medesimi risultati di quella americana, l’unica obiezione essendo magari la spietata dittatura, secondo lui, necessaria gemella della pianificazione: «la “scoperta”, del professor Ludwig von Mises, che un’economia collettivistica in pace non è in grado di organizzare e calcolare l’organizzazione della produzione. È vero che il professor Mises ha sostenuto questa “impossibilità”, ma la posizione è indifendibile. Il fatto essenziale è che il governo di uno stato collettivista farebbe qualsiasi cosa gli piacesse, entro i limiti della possibilità fisica e umana, cioè politica, e delle proprie competenze. Potrebbe “teoricamente” gestire la società economica sostanzialmente nel modo in cui, diciamo, gli Stati Uniti d’America sono gestiti oggi, per quanto riguarda le attività degli uomini e i loro risultati, collettivi e individuali. […] Le autorità di uno stato collettivista dovrebbero avere potere illimitato e sicurezza di possesso e dovrebbero esercitare il loro potere spietatamente per mantenere in funzione le macchine di produzione e distribuzione organizzate. Dovrebbero far rispettare gli ordini senza pietà e sopprimere ogni disputa e argomento sulle politiche; e, come condizione per la minima efficienza, dovrebbero anche fare tutto il possibile per rimuovere i motivi della differenza di opinione, dando alla gente le “informazioni” appropriate e il condizionamento degli atteggiamenti, cioè “propaganda”» (Knight 1938, 867-8). Una critica analoga anche in Schumpeter (1942, 179 [cap. XVI]). 38 Brown rileva come, a suo avviso tristemente, la risposta “socialista” di Dobb (1955) invece di costruire un nuovo modello di razionalità che possa liquidare l’homo oeconomicus in quanto semplicemente irrazionale, abbia piuttosto cercato di dimostrare che il socialismo non è incompatibile con il «calcolo economico-ra37 sto Qu e p ka p o E-b o n art ie 302 Parte II - Moneta e debito Proprio perché nessuna merce diventerà oggetto di scambio, sarà impossibile determinarne il valore monetario […] In uno Stato socialista il denaro non potrebbe mai svolgere la funzione che esso svolge in una società capitalistica per la determinazione del valore delle merci. Saranno impossibili i calcoli in termini di denaro […] Non ci sarebbero mezzi per determinare cosa è razionale, ed è quindi ovvio che la produzione non potrebbe mai essere diretta da considerazioni economiche (Mises cit. in Brown 1986, 270). est Qu zionale» e col principio dell’economicità, magari mitigato da una sottomissione del calcolo economico alla considerazione del «benessere sociale». Si osservi che le tesi di Mises, sul calcolo economico nelle economie pianificate, non convinsero neppure il suo suo protégé Friedrich Hayek che, – come sostengono Mirowski e Nik-Khah (2017, 62) – abbandonò «la curiosa insistenza di Mises che qualsiasi “calcolo” sarebbe impossibile in un’economia socialista, per rimpiazzare quella proposizione con un’altra apparentemente più credibile che sarebbe impossibile collazionare e dispiegare tutta la conoscenza necessaria per coordinare l’economia con lo stesso successo che può realizzare il mercato». o Anche sociologi come Pareto e Durkheim, sebbene abbiano istituito l’antitesi fra sacro e profano per arrivare ad affermare che la società deve sempre essere considerata una sovrastruttura profana su una base sacra, hanno mantenuto il denaro nell’ambito del profano e quindi, data la comune posizione razionalista che equipara il razionale a tutto ciò che non è sacro (inteso come non religioso), nell’ambito della razionalità. Invece, per Brown e per la sua visione psicoanalitica (freudiana) della storia, il denaro ha la struttura fondamentale della religione o, se si vuole, della negazione della religione, cioè il demoniaco, e al problema del denaro si devono invece attribuire i paradossi della irrazionalità e della sacralità, ribaltandone così la visione “razionalista” ed “economicista” del tutto dominante da sempre; paradossi di cui già il Marx dei Manoscritti economico-filosofici aveva avuto intuizione, descrivendo come due forme di alienazione umana il complesso del denaro paragonato al complesso religioso, e mostrando anche di aver intuito come dietro al lavoro alienato obbligatorio vi fosse alle origini (quando la produzione principale era quella dei templi) il servizio agli dei (che, come dice Brown, significherebbe ammettere, in termini psicoanalitici, che il lavoro alienato non è che una necessità psicologica interiore dell’uomo, ma questo Marx 0@gmail.com Questo E-book appartiene a roffis imone.200 11 - Il debito originario 303 non lo riconosce per attribuire invece a una forza, la proprietà del capitale, l’alienazione ed espropriazione del lavoro umano). Questa osservazione introduce a una più profonda dicotomia nell’analisi dei rapporti sociali: è la forza esterna che istituisce il potere dell’uomo sull’uomo, o è una manifestazione psicologica interna che incatena l’uomo al lavoro alienato ed espropriato?39 già Lutero aveva visto nel denaro l’essenza del profano e quindi del demoniaco. Il complesso del denaro è il demoniaco, e il demoniaco è la simia Dei; il complesso del denaro è quindi l’erede del complesso religioso, un tentativo di trovare Dio nelle cose […] il denaro è, nelle parole di Shakespeare, “il Dio visibile”; nelle parole di Lutero, “il Dio di questo mondo” (Brown 1986, 272). Sebbene Marx studi il capitalismo all’interno del paradigma del calcolo economico ed erediti la cornice categoriale dell’economia politica classica, per cui il denaro nasce nel mercato come mezzo di scambio e misura del valore delle merci, egli scopre subito che nelle metamorfosi della merce ‒ da bene in vendita a bene in acquisto ‒ durante la circolazione (M-D-M’) esiste il momento in cui la moneta, da semplice lubrificante dello scambio come avrebbe detto Mill, diventa denaro, da liquido che si dilegua diventa immobile tesoro. È un richiamo primigenio che spinge a vendere il più possibile per acquistare il meno possibile, in modo che il denaro si accumuli: «Col primo svilupparsi della stessa circolazione delle merci si sviluppa la necessità e la passione di fissare il prodotto della prima metamorfosi, la figura trasformata della merce, ossia la sua crisalide d’oro» (Marx 1867, 158 [cap. 3.a)]). Alcuni grandi studiosi del ‘900 hanno in generale dimostrato che l’economia arcaica non obbedisce al calcolo economico. Po«Se la causa del male fosse la forza, basterebbe “espropriare gli espropriatori”. Ma se non è stata la forza a instaurare il dominio del padrone, forse allora lo schiavo è in qualche modo innamorato delle proprie catene. […] Ammesso che ci sia una classe che non ha niente da perdere se non le sue catene, le catene che la costringono sono autoimposte, sono obblighi sacri che appaiono come fatti oggettivi con tutta la forza di un delirio nevrotico. La scoperta che la lotta di classe si fonda su dei miti sta alla base delle classiche Riflessioni sulla violenza di Sorel» (Brown 1986, 274, 284). 39 Q ue st o Eb oo k ap pa rti en e a ro ffi sim on e. 20 00 @ gm ai l.c lanyi ha sostenuto che in generale i principi essenziali della società arcaica sono basati su reciprocità, ridistribuzione e autarchia familiare40, mentre Malinowski (1921) – in un articolo sull’Economic Journal – scopre come l’incentivo al lavoro e la divisione del lavoro siano sostenuti da un complicato sistema obbligatorio di scambi di doni, e Mauss sistematizza la teoria antropologica facendo di quel sistema del dono il paradigma interpretativo dell’intera economia arcaica. Ma, secondo Brown, sarebbe riduttivo ed alla fine errato credere, con Mauss, che lo scambio dei doni corrisponda ad una forma arcaica di solidarietà sociale (come ricordato, anche per Mauss il meccanismo dono e ritorno di contro-dono è più complesso e non esauribile nel solo vincolo solidale, che è sempre parte di una tensione di conflitto-pacificazione; in questo senso, Brown pare aver accentuato la propria vis polemica proponendo un’osservazione che pare del tutto in linea con l’analisi di Mauss). La proprietà magica dello scambio di doni di cui parla Mauss, sarebbe, vista in questa ottica, il potere di spartire il senso di colpa. All’opposto dell’uomo egoista e utilitarista, l’uomo arcaico «dona perché vuole perdere; la sua non è una psicologia egoistica ma di autosacrificio; donde l’intrinseco nesso con il sacro. Gli dèi esistono per ricevere doni, cioè sacrifici; gli dèi esistono per dare una struttura al bisogno umano di autosacrificio» (Brown 1986, 298). L’uomo arcaico rinuncia al godimento e si rende prono al lavoro coatto per creare quel surplus economico necessario, in quel contesto, per poter avere beni da donare. Quindi, qui, si va aldilà del riconoscere alla base del comportamento umano il principio del piacere o della felicità, come postulato da Durkheim e Freud, per introdurne uno dettato dalla colpa e dal debito primigenio. Non entriamo qui nelle ipotesi sull’origine di tale colpa, fossero i fatti, supposti reali da Freud, om Parte II - Moneta e debito 304 «L’economia dell’uomo è di regola immersa nelle sue relazioni sociali. Egli non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale con il possesso di beni materiali; egli agisce in modo da salvaguardare la sua condizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli apprezza i beni materiali solo nella misura in cui servono a questo scopo […] Il sistema economico sarà mosso da motivazioni non economiche» (Polanyi 1944, 46). 40 Qu -b E to s e 11 - Il debito originario 305 del parricidio compiuto dall’orda primitiva, o quello “religiosamente” rivelato della caduta nel peccato di Adamo, né sulla ipotesi, avanzata da Brown, che abbandonando il principio comportamentale del piacere, la psicologia dell’economia si collochi in un altro ambito, più oscuro e più incombente, quello dell’istinto di morte41, ma evidenziamo soltanto che l’intera economia si basa su una logica tutta interna al senso della colpa ‒ come mirabilmente mostrato da Nietzsche con i nessi semantici di “colpa” e “debito” nel termine tedesco Schuld, e dall’economia classica con la teoria del valore-lavoro ‒ e che l’accumulazione del denaro sia una accumulazione di colpa. L’evoluzione della coscienza umana fino alla cruciale riforma protestante è responsabile della trasformazione dall’economia arcaica, immersa nell’aspetto sacro-religioso, all’economia moderna completamente laica, dove in quest’ultima si sostituisce la passione ‘acquisitiva’ dell’homo oeconomicus a quella del dono dell’uomo arcaico. Ma, come dicevamo, sarebbe un errore vedere nell’economia moderna il risultato della “laicizzazione” e “razionalizzazione” di quella arcaica. Quindi, non sarebbero né Pacioli né l’illuminismo deista e ateo i vettori dell’economia moderna. Piuttosto va sottolineato il fatto che, mentre nell’ economia arcaica c’è ancora la speranza della mitigazione, della spartizione, della remissione del debito e della colpa in un ambiente pervaso dal sacro e popolato da dei, nell’economia moderna, il peso della colpa non è più estinguibile, dal momento che le opere non salvano più, come dice Lutero, e la fede in Cristo salvatore – che avrebbe realmente rimesso i debiti per tutti – svanisce con la diffusione del “laicismo”. Rimane solo il lavoro come autopunizione, la rinuncia al godimento e l’accu- «In Al di là del principio di piacere Freud ha affermato l’esistenza, nell’apparato psichico, di una funzione indipendente dal principio di piacere, più primitiva di esso, che sembra porre all’organismo umano “un altro compito, che deve essere risolto prima che possa instaurarsi il dominio del principio di piacere” […]. Il suo studio scoprì molti elementi: l’angoscia, la coazione a ripetere, il sadismo e il masochismo, la colpa, l’istinto di morte. Secondo Freud tutti questi aspetti erano in relazione tra loro, e in ultima analisi li si doveva considerare tutti come manifestazioni della pulsione di morte. Noi avanziamo l’ipotesi che la psicologia dell’economia si trovi in questo ambito, l’ambito dell’istinto di morte» (Brown 1986, 298-9). 41 Parte II - Moneta e debito 306 mulazione della colpa ovvero del denaro. Marx si avvicina a questa interpretazione, quando tratta, nel Libro primo del Capitale, del fenomeno della tesaurizzazione: Per tener fermo l’oro come denaro […] gli si deve impedire di circolare, ossia di risolversi come mezzo di acquisto in mezzi di consumo. Quindi il tesaurizzatore sacrifica i suoi piaceri carnali al feticcio oro. Egli prende sul serio il vangelo della rinuncia. […] Quindi le sue virtù cardinali sono: laboriosità, parsimonia e avarizia, poiché la somma della sua economia politica è: vender molto, comprar poco. (Marx 1867, 161 [cap. 3.3 a)]) All’economia moderna basata sull’accumulazione costante di denaro ha contribuito anche l’irruzione del tempo lineare giudaico-cristiano, venuto a rimpiazzare quello ciclico arcaico. Col tempo lineare, l’espiazione ciclica della colpa è preclusa; la colpa può solo essere accumulata e la storia non può che essere la storia dell’accumulazione di denaro42, e, inoltre, come osserva acutamente Brown, l’accumulazione della colpa permette e trova il suo corrispettivo nella forma dell’interesse composto. Qui ritorna visibile un possibile senso di motti come “il tempo è denaro” oppure di teorie come “l’interesse dipende dal tempo”: nel tempo lineare, l’accumularsi del tempo è l’accumularsi della colpa, e l’accumularsi della colpa è l’accumularsi del denaro: Que sto E -boo k ap part iene a ro ffisim Nell’uomo moderno, la colpa è aumentata al punto che non è più possibile espiarla con le annuali cerimonie di rigenerazione. La colpa è dunque cumulativa, e quindi il tempo è cumulativo. L’espiazione annuale della colpa, come mostra Eliade, comprova che la società arcaica non aveva storia. La colpa cumulativa impone un destino storico alle società moderne; i peccati dei padri sono puniti nei figli fino alla terza e alla quarta generazione. E la categoria della colpa cumulativa rende possibile l’economia dell’interesse composto. Il tempo faustiano e il denaro faustiano, per usare la metafora di Spengler, sono il tempo e il denaro di chi è irredimibilmente dannato (Brown 1986, 312). Ci viene in mente, qui, la teoria di Braudel (1981) che il capitalismo e l’accumulazione di capitale siano esistiti, seppur sotto forme cangianti e proteiformi, da sempre, siano quindi l’invariante della storia, e non il frutto moderno di una certa evoluzione dei rapporti economici e politici, come vogliono le maggiori interpretazioni storiche e sociologiche, da Marx alla storiografia liberale e a Weber. 42 on 11 - Il debito originario 307 ne Anche rispetto al tema della moderna metamorfosi del sacro espressasi in accumulazione infinita della colpa e del denaro, Marx sembra presagire tale metamorfosi; definendo l’illimitatezza come la proprietà qualitativa del denaro, contrapposta alla limitatezza del potere d’acquisto di una quantità concreta di denaro, Marx caratterizza la brama verso la “crisalide aurea” della merce, che emerge già nella elementare circolazione delle merci, come il mito di Sisifo, una condanna ad un accumulo infinito senza possibilità di uscita: «Questa contraddizione fra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell’accumulazione» (Marx 1867, 161 [cap. 3.3 a)]). In conclusione, una volta ammessa, da vari indizi e connessioni genealogiche, la plausibilità dell’accumulazione del denaro nel capitalismo come una metamorfosi del sacro, potremmo concordare con Brown, che, da questo punto di vista, la storia della moneta è ancora tutta da scrivere e, anche, che le indicazioni che potrebbe fornire alla moderna teoria economica potrebbero essere rilevanti. la rupia […] è praticamente un biglietto di banca stampato su un pezzo d’argento. (Keynes 1913a, 26 [ch. III]) ffisi a ro I coni erano sempre emessi al valore nominale eccedente il loro valore intrinseco e l’ammontare dell’eccedenza era costantemente variabile. (Mitchell Innes 1913) mo 11.5. Sulle origini della moneta dal debito arti ene una moneta unità di conto nasce con i debiti, che sono contratti di pagamento differito. (Keynes 1930, I, 3) Qu est oE -bo ok app Nel va e vieni dei rapporti tra donatore e beneficiario, come in quelli tra creditore e debitore, c’è l’impegno di mantenere salda la reciprocità tra contraenti, un impegno sulla finzione di non confondere né le cose, né le anime, per farle ritornare indietro a colui che le aveva cedute, insieme ad altre cose e, soprattutto, per consolidare il rapporto e confermare le promesse. Nel passo sopra citato di Mauss sui “bastoni scambiati”, o sulla stips, il riferimento è ai token studiati da Alfred Mitchell Innes (1864-1950), un diplo- Parte II - Moneta e debito 308 matico britannico, con una formazione giuridica, appassionato di storia dell’economia. Il suo contributo è stato recentemente ripreso dall’antropologo Graeber (2012, 44-5), ma soprattutto rivalorizzato da Randall Wray43. Tra il 1913 e il 1914, Mitchell Innes scrisse due saggi, che andavano a scavare nella storia antica e moderna della moneta e delle forme creditizie nel mondo occidentale. Il primo, su “cos’è la moneta?”, non sfuggì a Keynes, che lo recensì sull’Economic Journal a seguire di un’altra recensione dell’opera di von Mises sulla moneta (Keynes 1914a e b). Fin dalle prime righe, Keynes (1914a) espresse seri dubbi su quella che riteneva una «fallacy» teorica del saggio e cioè il suo fondamento su una teoria sviluppata da Henry Dunning Macleod (1889-91), che implicava la filiazione della moneta dal credito. Sebbene Keynes non insistesse più di tanto sul punto specifico, quei dubbi finirono per riflettersi in una prudente valutazione della intera ricerca storica di Mitchell Innes. Il discredito di Keynes rispetto alla teoria di Macleod può essere spiegato attraverso Schumpeter. Schumpeter, che per molti versi poteva essere sensibile alle idee di Macleod, lo ritenne un economista «dai molti meriti», senza la fortuna «di esser preso sul serio» per la «sua incapacità di esprimere molto buone idee in una forma professionalmente accettabile» (Schumpeter 1954, 1115n. [parte IV, ch. 8, 7]). La critica di Keynes gettava un’ombra sul lavoro storico di Mitchell Innes, a causa dell’accenno ai deboli fondamenti teorici del suo approccio44, sebbene in Indian Currency del 1913 avesse espresso il medesimo concetto di Innes riguardo alla rupia indiana, cioè di non essere altro che «un biglietto di banca stampato su un pezzo d’argento» (Keynes 1913a, 26 [ch. III])45. Keynes resta comunque colpito dall’idea che la moneta premoderna fosse una moneta «inconvertibile» e, pertanto, non solo in India, ma anche nella storia europea, antica e moderna, la moneta ne art ie p ka p o to ue s E-b o Q 43 Mitchell Innes nel 1913 e 1914 pubblicò due importanti saggi nella rivista The Banking Law Journal, senza molta risonanza e influenza sugli studi successivi. Graeber (2012) riprende le conclusioni di Mitchell Innes nei capitoli iniziali. 44 Si vedano anche i commenti di Wray e Bell (2004, 1-2) alla recensione di Keynes. 45 L’originale è «the rupee, being a token coin, is virtually a note printed on silver». Il “token coin” è, letteralmente, un buono, o contrassegno, coniato. fi ar of 11 - Il debito originario 309 mostrasse un’intrinseca natura fiduciaria e di prodotto poco “neutrale”, quindi non un espediente tecnico, ma, invece, un dispositivo storicamente determinato da decisioni politiche e istituzionali. La frase di Mitchell Innes, che Keynes riporta e commenta, è significativa: «non c’è mai stato, fino a un’epoca a noi molto recente, un rapporto fisso tra un’unità monetaria e un qualsiasi metallo, cioè, di fatto, non c’è mai stato un qualcosa come uno standard di valore metallico». Inoltre, le monete di conto erano fissate o per convenzione o dalle autorità, e quelle coniate altro non erano che gettoni metallici in leghe con metalli preziosi senza corrispondenza stretta e fissa tra valore facciale e valore intrinseco. Mitchell Innes era molto chiaro su questo punto: I coni erano sempre emessi al valore nominale eccedente il loro valore intrinseco e l’ammontare dell’eccedenza era costantemente variabile. Il valore nominale delle monete d’oro non recava alcun rapporto fisso con le monete d’argento, così gli storici che hanno cercato di calcolare il ratio vigente tra oro e argento sono giunti a risultati sorprendenti. […] Il fatto è che i valori ufficiali erano puramente arbitrari e non avevano nulla a che fare con il valore intrinseco delle monete. Infatti quando i re desideravano ridurre le loro monete al valore nominale più basso possibile emettevano editti che sarebbero state accettate solo al loro valore metallico. A volte c’erano molti editti in vigore che si riferivano a cambiamenti di valore delle monete che nemmeno un esperto poteva dire quali fossero i valori delle varie monete di diverso conio finendo per diventare beni altamente speculativi (Mitchell Innes 1913, 14-49, al § 3). Qu es to E- bo ok ap pa rtie Queste conclusioni erano suffragate da una serie di evidenze sia su epoche antiche che moderne, dalle quali emergeva nettamente che l’uso del credito era più antico di quello della moneta e la moneta non era altro che un mezzo per rappresentarlo, come avveniva con i token, cioè un buono di credito e segno di valore. Nella recensione, Keynes riporta lunghe frasi dal saggio per giungere, in coerenza con l’attacco iniziale, a una sospensione di giudizio: «è difficile accertare tali affermazioni [le tesi del saggio] o esser certi che esse non contengano qualche elemento di esagerazione» (così a p. 421), ma, alla fine spezza comunque una lancia in favore di Mitchell Innes, ritenendo che molti «scrittori siano stati eccessivamente influenzati dai dogmi del XIX secolo sulla “sana moneta circolante” (sound currency)». ne ar to Ebo ok ap pa rti Parte II - Moneta e debito 310 Qu es A fronte di un giudizio così misurato e prudente sul saggio di Mitchell Innes, Keynes non si mostrava altrettanto benevolo nella recensione su un’opera destinata a diventare o a creare il mainstream della visione neoclassica sulla moneta, ovvero il libro di von Mises del 1912. Su tale libro il giudizio di Keynes è pungente e severo. Il lavoro – osserva – «è critico più che costruttivo, dialettico e non originale […]. Uno chiude il libro, quindi, con un senso di disappunto che un autore così intelligente, così candido, e, dopo tutto, così facile da leggere, sia così poco di aiuto a chiarire e a fornire una comprensione costruttiva sui fondamenti del suo oggetto di studio» (Keynes 1914b, 417), dunque sia inutile rispetto ai fondamenti teorici della moneta e dei mezzi di pagamento. Keynes, negli anni successivi, approfondì le proprie conoscenze sui sistemi monetari antichi attraverso la letteratura antropologica e storica (Keynes 1982, per il cap 2: “Keynes and Ancient Currencies”, pp. 223-94). Quindici anni dopo la recensione sopra discussa, le sue posizioni erano diventate quelle di Mitchell Innes. Nel 1930 Keynes ha un’idea molto chiara sull’origine e sulla natura della moneta e l’esprime fin dal secondo capoverso del suo Trattato sulla moneta: una moneta unità di conto [money of account] nasce con i debiti, che sono contratti di pagamento differito, e con i listini dei prezzi, che sono offerte di contratti per la vendita o l’acquisto. Debiti e listini prezzi, che siano registrati per ordine verbale o per iscritto su piastrelle di terracotta o in documenti cartacei, possono essere espressi solo in termini di una moneta di conto» (Keynes 1930, I, 3)46. E prosegue: La moneta stessa, vale a dire quella che con la sua consegna estingue contratti di debito e commesse a prezzo predeterminato, e quella che è detenuta come riserva di potere d’acquisto, deriva il suo carattere dal rapporto con la moneta di conto, poiché debiti e prezzi devono prima di tutto essere espressi in tale unità. Talvolta può essere accostata alla moneta [circolante] per i pagamenti in contanti [on the spot] quando è semplicemente usata come un comodo tramite di scambio nella misura 46 La versione proposta differisce dalla trad. it. (Keynes 1930 [1979], I, 17). 11 - Il debito originario 311 La natura creditizia (debitoria) della moneta si riscontra anche in Galiani, ma sembra più intesa quale residuo di dottrine giuridico filosofiche, per dare un’immediata «certezza del debito», al fine anche di far dipendere la moneta da un valore intrinseco, fuori da ogni controllo statale, secondo il principio che anche tale autorità deve rispettare e soggiacere al valore del metallo, alla sua “legge di natura”: ap p n tr ie a e a ro s ffi im e n o . in cui può rappresentare un mezzo di riserva di generale potere d’acquisto (Keynes 1930, I, 3). Q s ue to oo b E- k Le rappresentazioni della moneta altro non sono che manifestazioni d’un debito. Dalla difficile imitazione nasce la loro sicurezza; dalla fede e virtù del debitore la loro accettazione. È perciò il loro valore composto dalla certezza del debito, dalla puntualità del debitore, e dalla veracità del segno che si ha in mano. Quando tutti i tre sopraddetti requisiti sono al sommo grado sicuri, la rappresentazione eguaglia il valore della cosa rappresentata; giacché gli uomini tanto stimano il presente, quanto il futuro, che certamente ad ogni atto di volontà divenga presente. Perciò tali rappresentazioni, trovando agevolmente chi le prenda, diventano monete, che si potriano dire in tutto eguali alle vere, se non fosse ch’elle divengono cattive e false subito che perdono alcuno de’ sopraddetti attributi, i quali non essendo intrinsechi alla natura loro, non vi stanno così fermi addosso come la bellezza e lo splendore a’ metalli componenti la vera moneta. (Galiani 1750, 266 [libro IV, capo iv]) L’imitazione funziona alla perfezione se il segno autentico possiede la triplice qualità di certezza, esatta solvibilità e veridicità, in sostanza, se quasi non c’è, paradossalmente, esigenza di quel dover dar fiducia che, dall’età dei Lumi, si crede possibile e abbia consistenza materiale in quei metalli sui quali stanno «fermi addosso […] la bellezza e lo splendore». Q to ue s b E- oo k a Capitolo 12 LA DESOVRANIZZAZIONE DELLA MONETA 12.1. Debito, colpa, morale e regolazione della vita sociale Q u e sto E Alla fine, che cos’è un debito? Un debito è solo la perversione di una promessa. È una promessa corrotta dalla matematica e dalla violenza. (Graeber 2012, 379) credi per capire. Prima viene la fede, segue l’intelligenza, (Agostino, Discorso 118, 1) -boo ka Maledetta quella rete mortale di debiti che non può fare a meno dei libri mastri. Sarei libero come l’aria, e invece sono segnato nei libri di tutto il mondo. (Melville 1976, 394 [cap. 108]) one . 2 0 00@ rtien ea r o ffisim ppa Per Keynes la moneta, che è anzitutto mezzo per far funzionare un sistema di contabilità sociale1, affonda dunque le sue radici nel debito. L’origine della moneta è posta sotto un’altra luce, se considerata attraverso le note pagine di Nietzsche sull’antropologia in Genealogia della morale. L’incipit della seconda dissertazione (par. 1) è significativo: «Allevare un animale, cui sia consentito fare delle promesse – non è forse esattamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? non è questo il vero e proprio problema dell’uomo?» (Nietzsche 1887, 45 [II dissertazione, 1], i corsivi sono nel testo)2. L’“animale” in questione è solitamente «oblioso» perché la forza del dimenticare è «una forma di vigorosa salute», ma, nonostante ciò, l’uomo ha plasmato la facoltà antitetica della memoria, come sospensione dell’oblio, per mettersi in condizione «di om gma il.c 1 Alle stesse conclusioni giunse, con un altro percorso intellettuale, e all’incirca negli stessi anni, Schumpeter (1990 e 1996). La non pubblicazione e incompletezza del trattato schumpeteriano è giustificata dall’uscita del Treatise keynesiano che spinse Schumpeter a lasciare nel cassetto il proprio lavoro. 2 Cfr. anche Scapolo (2015, 103-24) e Stimilli (2011 e 2015). 314 Parte II - Moneta e debito fare una promessa» (Nietzsche 1887, 46 [II, 1]). Nella Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith, il legame sociale fondamentale è lo scambio, che avviene per istinto naturale, per quella «particolare inclinazione della natura umana […] a trafficare, a barattare e a scambiare una cosa con l’altra» (Smith, 1776, libro I, ii). Lo scambio è dunque solido cemento di socialità, di pacificazione delle passioni, perché con esso avviene il riconoscimento dell’interdipendenza degli interessi di ciascuno. Nietzsche rovescia la questione per affermare un altro fondamento teorico, che collima con le evidenze empiriche e logiche di larga parte dell’antropologia. La memoria è la facoltà che emerge da un apprendimento «per disporre anticipatamente del futuro» in modo tale da ipotecare la parola (è il verbo preciso usato da Nietzsche) e dar consistenza alla «memoria della volontà». Per far ciò l’uomo deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso – quando, a questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione, per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di uno che fa promessa! (Nietzsche 1887, 46 [II, 1]) Sedgwick (2007, 61) sottolinea che la promessa sul futuro e la responsabilizzazione da carico debitorio conferiscono il sentimento di osservanza della tradizione. La promessa guarda in avanti, ma è credibile se dietro di essa si conferma l’identificazione con una tradizione. Senza tradizione la promessa cadrebbe nel vuoto. E le promesse mantenute danno, implicitamente, un riconoscimento delle tradizioni. Le promesse guardano perciò al futuro, ma cercano validazione nel passato. Rendere l’uomo calcolabile, conforme a norma e conseguente «è la lunga storia dell’origine della responsabilità» (Nietzsche 1887, 46 [II, 2]), della possibilità di fare promesse. Fa parte di un processo di civilizzazione, di creazione di costumi, di morale, di creazione d’identità. L’uomo giunge così a esercitare una «signoria sovra di sé» e «sulle circostanze, sulla natura e su tutte le creature di volontà più labile e insicura»; l’uomo con una durevole volontà di promettere è «sovrano», gode di potenza e li- Questo E-b o 12 - La desovranizzazione della moneta 315 bertà (Nietzsche 1887, 47 [II, 2]). La possibilità di farsi garanti di se stessi realizza le condizioni per la fiducia, dà all’uomo la «superba cognizione dello straordinario privilegio della responsabilità», cioè di quella che Nietzsche ribadisce essere una potenza sovrana che oltrepassa chi la esprime e dà coscienza di poter «farsi mallevadori di se stessi» (Nietzsche 1887, 48 [II, 2 e 3])3. Fare promesse presuppone «fabbricare una memoria», è far uso di una «mnemotecnica» (Nietzsche 1887, rispettivamente 52 e 49 [II, 5 e 3])4 che si sviluppa sull’amministrazione della contabilità delle pene. Le leggi penali riconoscono le colpe e stabiliscono le compensazioni in termini di sanzioni, castighi e forme di espiazione. La contabilità sociale inizia perciò dalla misura dei delitti e delle pene. È la bilancia della giustizia che tenta di riequilibrare i rapporti sociali, riportarli su un piano di pacificazione, per placare le liti, ristabilire concordia e fiducia. I due piatti della bilancia della giustizia dovranno attendere il frate matematico Luca Pacioli per portare a perfezione pratiche mercantili di corretta e razionale tenuta dei conti (la Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proportionalità è del 1494). Il calcolo del debito è un calcolo antico di dare e avere, di memoria e di registrazione, di controllo e verifica dei rapporti sociali che si annodano e si sciolgono. Le Goff, quando propone una “storia dei valori”, cioè di idee che sono anche principi morali e di azione per una società, precisa un’importante questione di metodo nell’indagine dei comportamenti individuali e collettivi, con lo scopo di identificarne le motivazioni attraverso una filologia dell’epoca a cui lo storico o l’antropologo si riferiscono. E se la parola – il concetto – non esprime alcuna sensibilità valoriale, allora devono sorgere dubbi sull’esistenza stessa della cosa, dato che non si trova adeguata rappresentazione nelle immagini verbali o figurative, metaforiche e non, della medesima. Insomma, se La nozione di sovranità è richiamata più volte: «individuo sovrano», «istinto dominante», «uomo sovrano» e altre espressioni di potere. Il “principio della responsabilità”, ricorda Sini (2015, 94-5), sta nella dialettica del riconoscimento tra i poli di dovere e potere. 4 Cfr. anche il commento di questi passi di Nietzsche in Deleuze e Guattari (1975, 160-1 e 207-9 e sull’antropologia nietzschiana 213-4). 3 Qu e appa book to E- La precisazione di metodo è ripresa da Le Goff (1996, XVI), ma è comune agli storici delle Annales che, fin dagli esordi della rivista, hanno insistito per non cadere nella trappola di usare solo criteri di giudizio del tutto esterni a epoche precedenti. Le Goff sottoscrive perciò l’idea di Clavero (1996) che, siccome nel medioevo la nozione di “economia” non circolava nemmeno, quel che si intende oggi con quel concetto non può essere trasferito all’indietro sic et simpliciter. 6 Si ricordi anche che per Nietzsche (1882, 124 [libro III, § 116]) «La moralità è l’istinto del gregge nel singolo». 5 Ques non esiste la parola per denotarla, non esiste neanche la cosa5. La genealogia nietzschiana della morale introduce e segue lo stesso principio di metodo quando afferma: «Il sentimento di colpa […] ha avuto la sua origine nel più antico e originario rapporto tra persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore» (Nietzsche 1887, 58 [II, 8]). La misurazione stessa delle transazioni di compravendita è misura di crediti e debiti, che hanno origine da quei rapporti e che li compensano, rimettendo al futuro memoria e possibilità di replica di quanto avvenuto in precedenza. Quelle transazioni originarie possono usare lo stesso metro che misura le colpe e mette in debito il colpevole, come l’acquirente che ha solo una promessa da dare in cambio. La seguente precisazione, sempre di Nietzsche, mette in evidenza il legame comunitario di colpa-debito: «Sempre misurata sul metro dei primordi […] anche la comunità sta coi suoi membri in quell’importante, fondamentale rapporto che è proprio del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si godono i vantaggi di una comunità […], si abita protetti, ben trattati, in pace e fiducia, tranquilli relativamente a certi danneggiamenti e ostilità ai quali l’uomo al di fuori, il “proscritto”, è esposto» (Nietzsche 1887, 59-60 [II, 19]). La comunità è una societas di creditori e debitori, dove «il delinquente è soprattutto un “violatore”, uno che ha trasgredito al contratto alla parola nei confronti del tutto, per quanto riguarda tutti i beni e le comodità della vita comunitaria, di cui fino a quel momento ha partecipato. Il delinquente è un debitore che non soltanto non rifonde le utilità e gli anticipi a lui corrisposti, ma addirittura mette le mani addosso al suo creditore» e la «collera del creditore danneggiato, della comunità, lo restituisce allo stato selvaggio ed eslege da cui fino a quel momento era stato preservato» (Nietzsche 1887, 60 [II, 9])6. rtien Parte II - Moneta e debito 316 Recentemente, in riferimento alle odierne politiche neo-ordoliberali della Germania, si è insistito molto sul doppio significato di debito e colpa nella parola Schuld, sulle cui implicazioni si intrattiene anche Nietzsche, laddove dove afferma che «quel basilare concetto morale di “colpa” [Schuld] ha preso origine dal concetto molto materiale di “debiti” [Schulden]» (Nietzsche 1887, 51 [II, 4]; abbiamo corretto il singolare col plurale dell’originale) e che c’è una sorta di accumulazione di colpa all’interno di una determinata tribù o comunità, originata sempre da quel «rapporto di diritto privato tra il debitore e il suo creditore» trasferito e trasmesso nel rapporto «intercorrente tra i contemporanei e i loro progenitori». Qui il debito sussiste nei confronti dei sacrifici e delle opere degli antenati che «devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito [Schuld] che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza» (Nietzsche 1887, 78-9 [II, 19]). Debito e senso di colpa e necessità di riconoscenza non sono astrazioni lontane dalla materialità dei rapporti di credito-debito, ma sono le forze che disciplinano gli stessi rapporti sociali. Riemerge in questo modo la questione del sacrificio e del pegno, richiamati precedentemente quali dispositivi che reggono la rete di rapporti creditizi, in quanto rapporti sociali, prima ancora che emerga una nozione di moneta come mezzo di scambio. Non è affatto singolare che gli economisti del XIX secolo abbiano salutato la moneta come un cash nexus liberatorio, che finalmente ripulisce i rapporti reciproci da ogni coinvolgimento personale o comunitario, libera perciò l’individuo e lo lascia padrone delle proprie scelte, senza più obblighi residui che, come nel dono e contro-dono, potevano trascinarsi a lungo7. Il concetto è presente in Jevons (1972, 23-6). Ma si tenga poi conto delle riflessioni del giovane Marx: «E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società» (Marx 1973, 154 [Terzo manoscritto Denaro, XLII]). Ancora più chiaramente il concetto libertà-moneta è espresso da Georg Simmel (1900, parte Analitica, cap. I, III, 7 - 317 Ques to E 12 - La desovranizzazione della moneta Parte II - Moneta e debito 318 Il pegno, come sottolinea anche Mauss, è lo strumento tecnico-giuridico che risolve i deficit di fiducia, intersoggettiva e sociale, per conferire certezza di prova e di valore alla tessitura di rapporti creditizi; questo già prima ancora che una forma molto particolare di pegno diventasse un pegno universale, cioè nascesse la moneta come mezzo di scambio, per poter liquidare i pagamenti e liberare il debitore, redimerlo dal senso di colpa. 12.2. La genealogia della moneta (e la questione della sovranità) A partire dalla fine del XIV secolo, gli archivi di Francesco di Marco Datini, mercante di Prato, registrano un andirivieni di cambiali tra le città italiane ed i punti caldi del capitalismo europeo: Barcellona, Montpellier, Avignone, Parigi, Londra, Bruges […] Ma si tratta di giochi altrettanto estranei alla vita dei comuni mortali, quanto lo sono oggi le decisioni ultra segrete della Banque des règlements internationaux, a Basilea. (Braudel 1977, 61) ene o k a p parti -bo Quest oE ne. a r o f f i simo Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro. (Marx 1867, 187 [4.1]) Sembra dunque che si arrivi in un vicolo cieco: o si dà per assunto il valore, facendo così sparire la moneta, oppure si presuppone la moneta stessa, e allora non si può capire come essa sia causa di crisi e di intensi cambiamenti storici […] Una soluzione esiste: consiste nel mettere come punto di partenza della società mercantile la violenza. (Aglietta e Orléan 1982, 17) La capacità di promettere è sia una fonte di sovranità, cioè del diritto di poter disporre di cose, che di comando, cioè il potere di entrarne effettivamente in possesso, e tutto ciò è possibile se gli 6 “Analisi dell’essenza del denaro”) in questi termini: «Il denaro, non potendo mai venire direttamente goduto […] si sottrae pertanto ad ogni rapporto soggettivo; ciò che sta al di là del soggetto e che è rappresentato dalle transazioni economiche, è oggettivato nel denaro, il quale ha quindi sviluppato in sé gli usi più concreti, più logici, le norme puramente matematiche, l’assoluta libertà di fronte a tutto ciò che vi è di personale». 12 - La desovranizzazione della moneta 319 parti k ap -boo sto E Que uomini si creano e si mantengono un ambiente stabile di misure per calcolare, prevedere e gettare un ponte sul futuro, attraverso attese ragionevolmente verificabili e conformi. In questo senso la moneta è quell’«anello (link) fra il presente e il futuro», quel «sottile espediente (subtle device) per legare il presente al futuro» (Keynes 1936, 485 e 486 [cap. 21, I]). Questa definizione di Keynes della moneta come anello e come dispositivo, si richiama a quella della moneta come strumento avente origine dal credito data nel Treatise, a causa della sua dimensione intertemporale. La genealogia della moneta è in definitiva la genealogia del credito, di un’azione per metter su un castello di promesse e cercare di non farlo cadere e, proprio per questo, il dispositivo monetario acquista ruolo e importanza8. La genealogia monetaria e creditizia non è solo l’esercizio di rintracciare segni in un passato arcaico e lontano per dar ragione di eredità successive. Riguarda anche epoche più recenti, nelle quali le pratiche monetarie continuano a svolgersi secondo i caratteri della matrice originaria o, invece, iniziano a deviare da essa. È, dunque, un procedimento di scavo in profondità, per individuare diversi strati di sedimentazione di pratiche, rappresentazioni e idee, allo scopo di poter valutare meglio gli slittamenti e i movimenti, lenti oppure improvvisi e rapidi, che danno luogo alle successive formazioni sedimentarie. Riportare a coerenza l’insieme è propriamente un compito storico-archeologico. Nella storia della moneta, che è poi anche la storia dell’idea di moneta, così com’è stata consacrata almeno dal XIX secolo in poi, si richiedono non poche precisazioni, tutte nel rispetto di un metodo genealogico che ristabilisca un ordine, che rintracci un percorso, che sgombri il campo da mitologie e ideologie. La genealogia sul credito e sulla moneta si contrappone anche metodologicamente alla versione mengeriana della storia monetaria convenzionale, che è ivi rappresentata come una storia evolutiva che dal baratto procede verso la finanza moderna per successivi ene 2000 one. fisim a rof Augusto Graziani (1996, 21-4 in particolare), che evita le spinose questioni genealogiche sulla moneta, risolve la questione contrapponendo l’economia monetaria all’economia di credito, sulla linea di Wicksell e Keynes. Cfr. Realfonzo (1996). 8 a roff isimo ne.20 00@ g 320 affinamenti tecnologici. La costruzione mengeriana, ricordiamolo, ha le seguenti aporie principali: 1) la moneta non è definita in sé, ma per le tre funzioni essenziali, di unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore, 2) la sequenza logica è di tipo retrospettivo: la moneta delle economie avanzate è l’evoluzione naturale di una specie che doveva giungere a maturazione e perfezionarsi in quel modo, e, infine, 3) nel concetto di moneta si passa così, senza soluzioni di continuità, dall’elementare e semplice cellula dello scambio e del baratto al sistema finanziario complesso, nel quale la moneta resta sempre quel congegno essenziale per adempiere pienamente alle tre funzioni che la caratterizzano. I punti essenziali, che pregiudicano l’intera costruzione della storia convenzionale della moneta e ne svelano l’impronta mitologica, e ideologica, riguardano difetti di evidenza empirica e di costruzione logica, essenzialmente riconducibili a tre problemi: a) l’impossibilità del baratto, b) i primordiali scambi di beni senza moneta (né, ovviamente, baratto), c) l’ancestralità del credito, e la sequenza genealogica del cash nexus che, in realtà, segue un percorso inverso rispetto a quello finora ritenuto convenzionale. L’opera di revisione critica ha i suoi principali esecutori, talora indiretti (nel senso che non si sono occupati specificatamente né di moneta né di finanza), in Nietzsche, la cui genealogia della morale è anche una genealogia di memoria e di credito e debito, in Mauss, per l’analisi del meccanismo di scambio dono-contro-dono, in Mitchell Innes, per l’insistenza sul persistente iato tra valore facciale, ufficiale, e valore intrinseco delle monete coniate e, soprattutto, in Keynes, per lo sviluppo di un’idea di una moneta creditizia, originata da rapporti di credito-debito e fiducia. Questa è la costellazione di pensiero che può essere considerata essenziale per i problemi di credito e moneta in una prospettiva storico-genealogica e per stabilire così un perimetro ideale di concetti guida, dentro i quali si collocano anche altri contributi che hanno seguito linee di sviluppo originali o costruito sopra tali basi. Nietzsche, come visto, stabilisce un nesso tra debito-colpa originario, sacrificio, morale e fiducia nella costruzione dei rapporti sociali. Mauss indaga sul fondamento dei rapporti sociali a partire dal meccanismo di relazioni del dono, del sacrificio e del pegno. Infine, Keynes individua l’importanza della fiducia, del credito e dell’intendere la moneta soprattutto come contabilità sociale e come fon- appa rtiene book to E- Ques Parte II - Moneta e debito 12 - La desovranizzazione della moneta 321 do e riserva di valore, come quel ponte tra presente e futuro, prima ancora che come mezzo di scambio sul quale il pensiero economico neoclassico ha tanto insistito. Non occorre dire che tali autori sono, per molti versi, assai distanti tra loro e due di essi non possono nemmeno essere qualificati come studiosi di moneta. Uno solo di loro è un autentico teorico della moneta e del credito. Nondimeno, gli snodi tematici che essi rappresentano sono qui considerati essenziali per rintracciare una genealogia alternativa al darwinismo economico della moneta, cioè alla mitologia convenzionale sulla moneta, che ha inteso stendere un velo sulla natura della stessa, per delle ragioni che riprenderemo anche più avanti. La moneta è una costruzione sociale poliedrica – spettrale in senso ottico-fisico – di «pietra angolare di opposti», secondo l’immagine di Angela Condello (2019, 61); opposti come astratto e concreto; privato e pubblico; neutrale e attivo; ingranaggio del credito e liquidazione, estinzione del debito; agente di razionalizzazione e immagine mistica del valore; e si potrebbe continuare. Si potrebbe ricordare qui la mitologia di re Mida, già incontrato all’inseguimento di Sileno. Ora si comprende meglio il mito stesso di re Mida, re della Frigia, noto per le straordinarie ricchezze, e desideroso di continuare ad accumularne toccando tutto ciò che gli veniva a portata di mano, amico di Sileno, del quale però non ascolta i saggi insegnamenti. La mitologia del contrasto Mida-Sileno esprime l’insieme delle opposizioni e delle contraddizioni che si possono riscontrare nella dicotomia brama di ricchezza/ brama di saggezza. Gli stessi processi storici della moneta e del credito sono contraddistinti da tali opposizioni. Un economista come Karl Marx, le cui posizioni in materia di teoria monetaria sono spesso, dagli interpreti, fatte oscillare tra quelle della scuola bancaria (banking school) e quelle della scuola monetaria (currency school)9, scuole tra loro contrapposte to ue s Q Le controversie monetarie inglesi ebbero due occasioni: iniziarono a causa delle conseguenze monetarie delle guerre contro la Francia all’inizio del XIX secolo e si riaccesero, in forma diversa, in occasione del cosiddetto Peel Act del 1844, anche detto Bank Charter Act, con il quale si riformava lo statuto e l’operatività della Banca d’Inghilterra. In tale controversia, si contrapposero due scuole di pensiero politico. Una “monetaria” riteneva che l’eccessiva circolazione 9 E- ne e i t ar p ap 322 Parte II - Moneta e debito Qu ok o -b E to es negli anni in cui scriveva, esprime un concetto molto chiaro, e mediano tra le due anime della teoria monetaria classica, quando osserva che la «funzione del denaro come mezzo di pagamento implica una contraddizione immediata» e, infatti, «[f]inché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, il denaro non si presenta come mezzo di circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo a far da mediatore e a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta» (Marx 1867, 166 [sez. I, cap. 3, 3b]). I pagamenti rinviati a scadenze future definite possono avvenire senza interventi di mezzi effettivi di pagamento, senza “pagamenti reali”, e per compensazione. Il «processo a catena continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione» Marx (1867, 166-7 [sez. I, cap. 3, 3b]) lo concepisce solo per le economie molto evolute, nelle quali funziona un sistema di stanze di compensazione con chiusure di conti, saldo tra monetaria fosse la causa degli aumenti dei prezzi e per questo occorresse regolare l’emissione di carta moneta sulla base di un’equivalente riserva d’oro, ritenendo che in questo modo anche il credito delle banche private sarebbe stato regolato. I sostenitori di tali posizioni avevano come predecessori i “bullionisti” di alcuni decenni prima che attribuivano l’inflazione e il deprezzamento della sterlina durante le guerre napoleoniche all’emissione di banconote da parte della Banca d’Inghilterra. Per i sostenitori della scuola opposta, invece, il sistema creditizio funzionava secondo il banking principle. In sostanza il credito bancario non avrebbe potuto eccedere i bisogni del commercio e la domanda di sconto delle cambiali “reali” (secondo la dottrina del real bill of exchange) regolava l’offerta di biglietti delle banche di emissione. Marx fu un critico della legge Peel e condivise le ragioni di Tooke contro il provvedimento che impediva alla Banca d’Inghilterra di intervenire durante le crisi per sostenere la domanda di credito. Ma per quel che riguarda la moneta, la sua posizione era molto vicina a quella di Ricardo, cioè di una moneta-merce per la quale valeva (o doveva valere) la teoria del valore-lavoro. La teoria monetaria e creditizia di Marx rimase incompiuta e l’ambivalenza tra Ricardo e Tooke, che essa sembra mostrare, è stata oggetto di continui dibattiti. Sulla questione della teoria monetaria di Marx si rinvia a Moseley (2005, 1-18); Nelson (2005, 65-77); e de Brunhoff (2005, 209-21). Una discussione aggiornata, nella prospettiva di una teoria monetaria della produzione, in Veronese Passarella (2015, 67-78). V. anche il successivo par. 13.1. dove la questione è ripresa e sviluppata più ampiamente. Questo 12 - La desovranizzazione della moneta 323 posizioni creditorie e debitorie e riaperture delle medesime, con transazioni solo dal passato al futuro che nel presente lasciano solo tracce in scritture contabili, che si rinnovano di continuo. Per molti versi, ciò era quanto succedeva nelle isole di Yap, le cui enormi monete di pietra, a forma di grandi ruote intrasportabili, costituivano un sistema di contabilità sociale, e di scritturazione senza alfabeti, che Milton Friedman ha giudicato più moderno del sistema monetario internazionale a base aurea, compreso il sistema di Bretton Woods nel quale l’oro monetario, per quanto non circolasse più per i pagamenti tra privati, continuava a essere tenuto in riserva dalle banche centrali. A Yap, anche quando una grossa ruota monetaria fu dispersa nell’oceano (secondo la memoria storica degli isolani), la ricchezza incorporata in quella moneta di pietra non andò perduta10 e con quella moneta si continuarono le transazioni tra gli indigeni (Friedman 1992, 15-8)11. L’uso di monete così ingombranti può sembrare una stravaganza di primitivi. In realtà rispondeva a un’esigenza estremamente logica, quella cioè di i) regolare i pagamenti solo tra gli isolani, ii) impedire l’esportazione di capitali da un’isola all’altra, iii) riconoscere sempre che il trasferimento di diritti fosse riconoscibile dentro la comunità, iv) avere un controllo, indiretto, sui pagamenti col resto del mondo12. Il «denaro contante», riprende Marx, interviene quando il meccanismo delle compensazioni e del credito «a catena» si interrompe per l’insorgere di una crisi finanziaria. Allora la «figura solo ideale della moneta di conto» ha bisogno di ritrovare la concretezza del «denaro contante». Le «merci profane» non trovano 10 Come nota Brown, può essere tracciata una immaginifica similitudine fra l’oro oggi sepolto nei sotterranei di Fort Knox e quelle grandi ruote di pietra dell’isola di Yap nei tempi arcaici sepolte nel fondo del mare, che, come ci dicono gli antropologi, anche da laggiù continuavano a essere simboli di valore. 11 Il breve articolo di Friedman fa solo riferimento a William Henry Furness III, che nel 1910 aveva descritto il sistema monetario isolano. Si era occupato del caso anche Keynes, che aveva pubblicato in modo anonimo un intervento con lo stesso titolo (in Keynes 1915). 12 L’idea è suggerita da Searle, il quale ricorda che a Sparta la moneta era in grosse barre di ferro perché le autorità non volevano che uscisse dal circuito dei pagamenti cittadini (Searle 2018, 25). 324 Parte II - Moneta e debito Qu più un corrispettivo nella moneta astratta, immaginaria, gli operatori economici avvertono una “carestia” monetaria, epifenomeno della rarefazione del credito. «Nella crisi, l’opposizione fra la merce e la sua figura di valore, il denaro, viene fatta salire fino alla contraddizione assoluta. […] La carestia di denaro rimane la stessa, sia che i pagamenti debbano esser fatti in oro o moneta di credito, per es. banconote» (Marx 1867, 167 [libro I, sez. I, cap. 3, 3b]. Il linguaggio della dialettica hegeliana che Marx utilizza, specialmente quando parla di moneta (alias denaro), si contorce in continue immagini teologiche e concetti che sono immersi in un labirinto di specchi, dove l’astratto e il concreto continuano a confondersi, come avviene nella realtà attraverso lo scambio di cause con effetti e viceversa. In fondo, è il lessico della teologia stessa che fornisce rappresentazione ideale e sostanza reale alle cose del mondo dell’economia, ma, in quel lessico, coloro che lo praticano vi si perdono e ne restano impigliati, senza capacità di riuscire a comprendere più il senso di quel che succede nel gioco di specchi tra la parola e la cosa. Un esempio di ciò è proprio richiamato nel passo appena citato, nel quale Marx si prende gioco della «presunzione illuministica» degli uomini d’affari per i quali «il denaro è vuota illusione» e «[s]olo la merce è denaro», in tempi normali; ma non appena le cose si mettono male «sul mercato mondiale rintrona il grido: “Solo il denaro è merce!” Come il cervo mugghia in cerca d’acqua corrente, così la sua anima [del borghese] invoca denaro, l’unica ricchezza» (Marx 1867, 167 [libro I, sez. I, cap. 3, 3b]). Un altro passo chiarisce ulteriormente la sottile differenza tra credito e moneta: es E to -bo ok ap p Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio essenzialmente protestante. The Scotch hate gold. Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. È la fede che rende beati. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non riesce a emanciparsi dai principî del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario (Marx 1894, 810 [cap. 35, II]). 12 - La desovranizzazione della moneta 325 Possiamo tentare di sciogliere queste metafore teologiche nel modo seguente13. La moneta ha un’esistenza (quasi) indipendente dalla fiducia, ha le sue autorità terrene che ne impongono il catechismo, ne interpretano i segni e li mettono in circolazione. Il credito è del tutto indipendente da principi di autorità, si fonda sulla volontà dei singoli e circola in perfetta liberalità, lasciando a ciascuno l’interpretazione della solvibilità, ma è proprio su questo punto che l’emancipazione da una solida autorità diventa più difficile14. Come sopra accennato, la fragilità del sistema richiede ancore di salvezza e punti fermi, che possono venire solo dall’esterno. In altri termini, la fiat money che i privati possono crearsi da sé, per loro volontà e comando, può sprofondare o, altrettanto improvvisamente, espandersi, senza un equivalente che mantenga un potere d’acquisto relativamente costante col mondo delle merci, per soddisfare un bisogno di certezza15. Marx aveva posto l’attenzione sulla trama dinamica del credito che, dal medioevo, si era sviluppata nella forma di credito commerciale per lettera di cambio, prima ancora di sostenersi su una vera e propria base monetaria, solida come quella che venne creata con la costituzione delle banche di emissione, cioè dopo che, nel 1694, la Banca d’Inghilterra (v. par. 12.4) divenne istituzione e simbolo di moneta sana e di un sistema finanziario robusto. Quando Marx afferma che le «cambiali circolano […] come mezzo di pagamento; ed esse costituiscono il vero e proprio denaro del commercio», e «[i]n quanto si annullano, compensando definitivamente debito e credito, esse funzionano integralmente ok to Que s E-b o tien app ar 13 Cfr. Dussel (2018, 86-8, 110-2), che a p. 87n. osserva: «dove appare il denaro come garanzia dell’individuo di fronte alla specie» si genera il rovesciamento, il feticismo del denaro, chiarito con la citazione da Moses Hess, filosofo e amico di Marx: «Ciò che è Dio per la vita teorica, lo è il Denaro per la vita pratica del mondo rovesciato». Su Hess si vedano: Bravo (1971); Vaccaro (1981); e Delmaire (1989). 14 La frase di Marx citata riprende, forse, per analogia quella di Smith (v. oltre il par. 13.1) sulla diversità delle strade rappresentate dalla moneta e dal credito, l’una, quella delle monete d’oro e d’argento, considerata «strada maestra», sulla quale far circolare i beni, e l’altra, quella del credito bancario, una «specie di strada carreggiabile attraverso l’aria», in grado di aumentare notevolmente gli scambi e le produzioni (Smith 1776, 316 [libro II, ii]). 15 «La moneta […] è un bene che soddisfa il bisogno di certezza»: osserva Federici (1941, 20). Parte II - Moneta e debito 326 oo k b oE - t ue s Q come denaro» (Marx 1894, 551 [libro III, cap. 25]), non fa altro che tirare le conseguenze di una storia europea, che, a partire dal medioevo, aveva conosciuto una rivoluzione finanziaria con la riscoperta di uno strumento creditizio – la cambiale – che permetteva di effettuare pagamenti anche su lunghe distanze. E, specialmente con la regolarizzazione degli scambi in fiera, la cambiale aveva risolto i problemi di compensazioni multilaterali e di riavvio della catena di crediti, evitando dannose interruzioni, permettendo il superamento di vari ostacoli quali una mancanza cronica di metalli preziosi, il disordine delle monete in circolazione e i divieti sull’usura. Mercanti e banchieri crearono la loro moneta come moneta fiduciaria molto prima che la cartamoneta in biglietti di banca divenisse moneta corrente. Infatti, aggiunge ancora Marx, «questi anticipi reciproci dei produttori e dei commercianti costituiscono la base reale del credito, così il loro strumento di circolazione, la cambiale, costituisce la base della effettiva moneta di credito, delle banconote, ecc. Queste non si fondano sulla circolazione monetaria, sia essa moneta metallica o moneta cartacea statale, ma sulla circolazione delle cambiali» (Marx 1894, 552 [libro III, cap. 25]). Credito, e cambiali come suo strumento, danno ragione della stessa circolazione monetaria. La spiegazione logica ed economica la fornisce Hicks: pp a a La moneta metallica – osserva – è un modo costoso con cui realizzare una funzione semplice; perché sprecare risorse e estrarre oro dalle miniere quando i pezzi di carta o semplici voci contabili possono servire altrettanto bene? Questa è la causa della crescita del sistema creditizio: fornisce un mezzo di scambio ad un costo di molto inferiore. Ma dall’altra parte vi è il costo rappresentato dalla instabilità del sistema creditizio. Questo sistema è basato sulla fiducia e se la fiducia viene meno, avvizzisce. Ed è pure instabile nell’altra direzione: quando vi è troppa “fiducia” o ottimismo, può esplodere in scoppi di speculazione. Quindi, affinché un sistema creditizio operi con regolarità, occorre un sistema istituzionale che per un verso lo contenga e per l’altro lo sostenga (Hicks 1967a, 128). rt ien e a is rof f Riassumiamo i concetti qui espressi: 1) un sistema creditizio è meno costoso e più facile da mettere in piedi di un sistema dei pagamenti fondato su una moneta non di credito, 2) il costo per tenere fluida una rete di debiti consiste nel creare dei dispositivi 12 - La desovranizzazione della moneta 327 ok -bo oE est Qu istituzionali al fine di evitare instabilità per eccesso di credito o al fine di incoraggiare il credito quando langue. Il problema finanziario principale dei traffici commerciali era quello di evitare che la trama di crediti e debiti non si allentasse. Fallimenti e improvvise riduzioni dei flussi di merci rendevano fragile l’intera architettura finanziaria e i grandi mercanti avevano solo le ricchezze accumulate negli anni per fronteggiare le cattive annate e resistere ai crediti incagliati, in attesa di tempi migliori. I rischi principali, a parte quelli di trasporto, erano rappresentati da impreviste fluttuazioni dei prezzi. Sebbene sia noto che, in via di principio, le inflazioni favoriscono i debitori a scapito dei creditori, soprattutto le deflazioni erano, paradossalmente, temibili per i creditori. Se violente e prolungate, esse avrebbero sicuramente mandato in rovina i debitori e, nonostante le vie giudiziarie intraprese dai creditori, un effetto domino avrebbe fatto cadere anche questi ultimi, o almeno quelli più deboli, a causa della perdita di valore delle garanzie e dell’impossibilità di rivenderle a prezzi ragionevoli per ricoprire l’ammontare dei prestiti. A catena, anche i creditori più solidi, in qualche modo legati alla stessa trama e ragnatela di crediti e debiti, avrebbero finito per pagarne le conseguenze. Allora, nelle deflazioni accade un fatto che potrebbe apparire paradossale, dato il conflitto intrinseco fra chi ha dato e chi ha ricevuto un prestito: quel che nelle situazioni ordinarie contrappone debitori e creditori, nelle situazioni di crisi, per quanto i loro rapporti diventino ancora più conflittuali, il salvataggio dei debitori è un vantaggio per i creditori. Le loro posizioni sono paradossalmente accomunate. Per fronteggiare i rischi di mercato, mercanti e banchieri disponevano solo del proprio patrimonio, che consentiva loro di tirare più a lungo, in una fase di cattivo andamento degli affari e di debitori in mora. In definitiva, alla mappa geografica dei traffici commerciali per mare e per terra, se ne sovrapponeva un’altra costituita dai rapporti di credito e debito, i quali, purché tutto fosse fluito regolarmente, si sarebbero rinnovati con la consegna e vendita delle merci e la ripresa dei viaggi e degli acquisti. Per compiere tutte queste complesse operazioni era necessario un’unità di conto. La lira introdotta da Carlo Magno era il supporto contabile essenziale. La lira, come ha mostrato Einaudi, era solo ene arti app ffis a ro ne. imo com ail. gm 0@ 200 Parte II - Moneta e debito 328 un’unità «di conto od immaginaria o numeraria o ideale» (Einaudi 1936, 7)16. La contabilità e i rapporti creditizi erano perciò tenuti in lire, e solo per piccoli pagamenti, per saldi di conti, chiusura di posizioni e compensazioni varie, intervenivano monete effettive, reali, coniate in oro, argento, o in varie leghe con intrinseco privo di valore. L’Europa medievale e moderna nel suo complesso soffriva cronicamente di scarsi mezzi di circolazione, per cui, anche per questa ragione, crediti e debiti permettevano vendite e acquisti. 12.3. “Come, non si fanno pegni? È questa la prima volta?” Q ue Il Pagamento in Contanti è diventato il solo nexus tra uomo e uomo […] ma ci sono molte cose che il contante non pagherà mai! Il contante è un grande miracolo; anche se non ha tutto il potere in Cielo, e nemmeno in Terra. (Carlyle 2015 [Chartism]) st o E- bo ok E se tu forse credi ch’io t’inganni, | fatti ver lei, e fatti far credenza | con le tue mani al lembo de’ tuoi panni. (Dante, Purgatorio, canto XXVII, 28-30) ap pa rti en chiedendogli, fra l’altro, se non avesse con sé qualche prova documentaria o qualche pezzo di carta che dimostrasse come la sua non fosse una finzione. (Melville 1998, 17 [cap. 3]) e a ro ffi s im Con lo sviluppo del capitalismo mercantile cominciarono a sorgere le prime frizioni tra una sfera privata e una sfera pubblica che,on e. Il termine di moneta immaginaria era stato introdotto da Girolamo Belloni in un suo volume del 1757. Belloni era un ricco mercante e banchiere, ben introdotto nei palazzi della curia romana; la sua dissertazione sulla moneta immaginaria suscitò interessi anche fuori d’Italia e pare attrasse l’attenzione di D’Argenson. La tesi di Belloni è poi quella divenuta canonica: «il Commercio, che riguarda, e valuta solamente l’intrinseco [della moneta], nulla curando il numerario [il valore ufficiale, legale], e camminando sempre sulla traccia della Moneta Reale, riduce, e ragguaglia mediante l’uso della Moneta Immaginaria, ogni sorta di Moneta al calibro della Reale medesima, con esiger quel tanto di più, che venga a compensare il valore di quella: procurando ciascuno di vendere in modo le sue merci, che quel di meno, che riceve nel peso, venga compensato col numero maggiore de’ pezzi leggieri; stante le denominazioni delle Monete essendo arbitrarie, non influiscono in parte alcuna sulla valuta delle medesime, né le voci, ed i suoni aggiungono peso all’Oro, ed Argento» (Belloni 1757, 141). 16 20 00 @ 12 - La desovranizzazione della moneta 329 fino ad allora, erano relativamente indipendenti. L’allargamento e l’integrazione dei mercati seguì uno schema fiducia-credito-pegno, ma accanto a tale sistema creditizio privatistico si integrò e si incastrò un sistema monetario e finanziario che faceva capo alle finanze degli Stati moderni in via di formazione all’incirca dal XVII-XVIII secolo e, con maggior vigore, dopo la Rivoluzione francese. Abbiamo già ampiamente mostrato che la fiducia, come affinità elettiva, cementa relazioni di credito-debito su basi comunitarie, in forme talora complesse di risoluzione delle tensioni e dei conflitti che il debito può generare. Quando però le dimensioni e le relazioni di scambio travalicano gli ambiti comunitari, i mercanti devono preoccuparsi che siano rese possibili tali intermediazioni fiduciarie per organizzare i traffici commerciali e per stabilire le relazioni di credito inter-comunitarie necessarie a saldare i deficit di partite correnti attraverso crediti. L’esclamazione «Come, non si fanno pegni?» è l’indignata meraviglia rivolta al creditore usuraio Pantalone da Sandra, che – nella commedia goldoniana Il geloso avaro del 1753 (atto III, i)17 – non capisce le ragioni che inducono il suo aguzzino a non concedere credito. Per il credito internazionale occorrono garanzie e forme di coercizioni supplementari rispetto ai rapporti infra-comunitari, che generalmente si stabiliscono tramite le forze fiduciarie che legano i soggetti attraverso vincoli parentali, identitari, di lingua, religione, cultura e norme di supporto. Nelle relazioni intercomunitarie e internazionali, la stessa semplice lingua costituisce una barriera che i mercanti devono superare18. La barriera identitaria, che disegna i confini tra comunità diverse, indebolisce i rapporti fiduciari che, tra “stranieri”, sono superabili attraverso il pe- Sulla formazione di giurista e la pratica attività forense di Carlo Goldoni cfr. Santarelli (2009). 18 Un tentativo di uno studio dell’evoluzione storica dei rapporti creditizi e finanziari, a partire dalla dimensione internazionale che tiene conto della priorità e originarietà del credito piuttosto che della moneta, sta in Conti e Schisani (2017, 1-80 e 281-356). Ciò è motivato dall’esigenza di superare la narrazione convenzionale, storicamente troppo “debole”, di vedere come originari gli Stati (simil nazionali) con le loro monete (già ben evolute) che stabiliscono “naturalmente” rapporti commerciali regolati secondo il cambio tra una moneta e un’altra. Tale visione molto schematica tradisce l’importanza del credito nei rapporti interni e in quelli internazionali. 17 Qu com . l i ma g @ 00 Parte II - Moneta e debito o o E-b o p ka p ien art e isim f f o ar e on .20 gno. Il pegno interviene per estendere il credito verso coloro che hanno poco merito per riceverlo, dato che il creditore ha poche informazioni e poche possibilità per indurre il debitore a mantener fede alla promessa. Perciò il creditore chiede una garanzia per compensare rapporti commerciali squilibrati. A quel punto il credito, non più personale e strettamente fiduciario, ma garantito, ha comunque una consistenza, anche solo documentale, che il creditore può usare, sia se non ha altri mezzi coercitivi sia se può far affidamento sugli strumenti giuridico-coercitivi che le istituzioni gli garantiscono, altrimenti ricorre a un pegno materiale. Nell’antichità, persino la schiavitù del debitore o di sua moglie costituivano materia di garanzia. Le istituzioni che intervengono nelle questioni dei crediti non riscossi possono dipendere dalle autorità del paese di provenienza del creditore o da quelle locali, per l’interesse “pubblico” a continuare i rapporti di scambio fino ad allora intessuti. Le autorità hanno interesse a intervenire perché, come mostra Manfredini (2013), disordini, tumulti e rivolte hanno origine nelle tensioni tra creditori e debitori. C’è anche un’altra considerazione da fare. Le istituzioni “pubbliche” possono essere latitanti o deboli, e in tali casi i mercanti devono risolvere da soli le proprie faccende. Il pegno deve “parlare la stessa lingua” dei contraenti, meglio è se è una lingua muta come quella di oggetti a cui debitore e creditori attribuiscono un certo valore, che può essere anche, e non necessariamente, un valore di mercato. Nelle colonie americane del XVII e XVIII secolo (come visto anche nel par. 10.4) i wampum, cinture di conchiglie di valore religioso e rituale per le comunità indigene, servirono a regolare gli scambi con i coloni a cui la madrepatria aveva impedito di coniare ed emettere monete proprie per superare la carenza di monete inglesi. In quel caso venne eletto a moneta un qualcosa che per i coloni inglesi rappresentava un semplice cimelio, per quanto artistico, ma sapevano che per le tribù indiane rappresentava un pegno sacrale, di valore religioso e rituale, e che, per questo motivo, esse erano disposte a riprendersi indietro i wampum contro pellicce a cui i coloni erano interessati. In oggetti-moneta del genere, finché non si crea con i medesimi un vero e proprio mercato, regolare e organizzato con scambi densi e con prezzi relativamente stabili, coesistono i caratteri di «documentalità» sottolineati da est u Q 330 12 - La desovranizzazione della moneta 331 Searle (2010) e, specialmente, da Ferraris (2009), ma anche di sacralità, di un «sacramento di linguaggio» per il quale si rinvia alle considerazioni di Agamben (2008a). Il caso del wampum mostra come anche tra comunità con fedi religiose molto diverse, persino nel caso che anche solo per una di esse l’oggetto-moneta fosse considerato sacro, quest’ultimo poteva diventare pegno nei rapporti creditizi e nelle semplici regolazioni degli scambi; quindi, il pegno sotto forma di oggetto-moneta valeva anche per gli appartenenti a una collettività di persone completamente miscredenti rispetto a quell’oggetto. Ciò spiega molto bene le evidenze riportate da Mitchell Innes riguardo a monete senza, o con scarso, valore intrinseco che, di fatto, avevano natura e origine di pegno. Lo stesso dispositivo di pegno, che i privati mettono in opera per consentire l’estensione fuori dai “confini” fiduciari e per protrarre le relazioni creditizie fra di loro, si replica quando c’è la necessità di colmare un altro deficit fiduciario, molto più profondo, quello dei rapporti finanziari dei privati con le autorità e i poteri statali. Gli Stati moderni, che si impongono attraverso un crescente accentramento del potere e per disgregazione delle forze del particolarismo medievale, manifestano, fin dagli albori, bisogni finanziari crescenti per i costi della guerra (con eserciti permanenti e armi da fuoco) e per un’amministrazione burocratica in continua espansione. Per soddisfarli, i sistemi di tassazione tradizionali risultano inadeguati e insufficienti. I creditori, ricchi mercanti e banchieri, hanno interesse a trattare con le amministrazioni pubbliche, ma il rapporto non è ovviamente di parità. Gli Stati d’ancien régime risolvevano i loro problemi di solvibilità con frequenti ripudi parziali o totali dei debiti19. Gli Stati debitori pagavano interessi elevati e garantivano buoni affari e, nonostante gli alti rischi di default, i grossi finanziatori, essendo anche fornitori d’opera, non si tiravano indietro. L’accentramento e l’assolutismo dei Que sto E-b ook app Da un’ottica di mainstream finanziario Reinhart e Rogoff (2010a) (vedi anche par. 13.4) considerano che solo i debitori che non pagano (specialmente se sono Stati) hanno sempre torto; non considerano che anche i creditori (le banche) che hanno concesso loro credito, quando non lo meritavano, qualche sbaglio di prudenza lo hanno fatto e che, dopo tutto, negli affari il privato che sbaglia, anche se è una banca, secondo lo stesso principio neoliberale, dovrebbe essere punito col fallimento. 19 artie n 332 Parte II - Moneta e debito monarchi non erano le sole spinte importanti per la formazione degli Stati moderni. Le stesse forze sociali, che vivevano di relazioni commerciali e di scambi mercantili, sollecitavano strutture autoritarie per dar forza e forma ai loro documenti contabili e alle loro promesse di pagamento. Tribunali e corti di giustizia sono istituzioni che gli stessi mercanti e produttori sollecitano per amministrare norme certe, superare il particolarismo giuridico e altre forme di governo decentrate, che sono fonti di improvvisazione e di prevaricazioni. Gli uomini d’affari sono sovversivi in materia di tasse, ma ultraconservatori in materia di legge e ordine, invocano il decentramento per farsi spazio negli apparati, ma esigono governi “forti” quando le forze loro vengono meno. 12.4. La rivoluzione finanziaria e lo Stato fiscale moderno Senza il bisogno finanziario sarebbe mancata la causa diretta della creazione dello Stato moderno […] Ma in termini monetari l’economia nazionale non è diventata più povera. Com’è possibile? Semplicemente perché nelle economie private alle scorte di beni sono subentrati crediti verso lo Stato e segni monetari. (Schumpeter 1918, 141 e 155) così anche il principe gira intorno a ciò che è più terreno di tutto: e questo è l’oro dei mercanti. | Il dio degli eserciti non è un dio dei lingotti d’oro; il principe propone, ma il mercante dispone! (Nietzsche 1883-1885, 547) L’esperienza ha fatto conoscere a’ sovrani ch’era bene lasciarlo correre a peso, e non sull’autorità del conio; […] siccome il peso è lasciato al libero esame di ciascuno, così si avrebbe a lasciare anche il valore, e l’impronta riserbarla solo ad autorizzare la bontà della lega. (Galiani 1750, 121) Questo La “rivoluzione finanziaria” fu il passo ulteriore per uscire dalle impasses che impedivano la crescita del debito pubblico. Esse erano principalmente dovute all’incertezza sul rimborso, alla dipendenza da un numero ristretto di creditori, alle condizioni difficili nella trasferibilità del credito, nonché all’estrema variabilità dei tassi d’interesse che dipendevano dalle modalità di negoziazione e da altre contingenze molto aleatorie. Dopo la pace di Vestfalia, lo Stato, definendo la sua sovranità su territorio e popolo, definiva anche ambito e dimensioni potenziali del debito. Sull’altro E 12 - La desovranizzazione della moneta 333 Questo E-book appartiene a roffis imone.2000@gmail.com fronte, i finanziatori, banchieri d’alto rango in primo luogo, erano disposti ad accettare di mettersi in gioco purché fossero rese solenni le condizioni del debito e fosse creato un mercato secondario relativamente ampio per consentire acquisti e vendite di titoli. Lo Stato abbandonava il sistema di indebitarsi di volta in volta con singoli banchieri alle condizioni del momento, a scadenze diverse e con rapporti di privilegio con alcuni di essi. Con l’emissione di un titolo perpetuo, lo Stato consolidava i debiti pregressi e rendeva quasi permanente la sua posizione di debitore con un titolo standardizzato, unico, suddiviso in tagli “popolari”, con cedole di interessi pagate a scadenze regolari. In questo modo allargava il mercato secondario con uno strumento cartolare, relativamente sicuro, reso in tal modo facilmente negoziabile. L’ampliamento del mercato del debito pubblico attraeva i risparmiatori e, soprattutto, abbassava i tassi d’interesse rispetto alle condizioni capestro che i singoli banchieri privati riuscivano solitamente a strappare. Il Tesoro usciva dal marasma di un’amministrazione disordinata, in particolare, rispetto alla programmazione dei flussi, ed estremamente costosa sul servizio del debito. Il debito dello Stato moderno era, inizialmente, un debito perpetuo (consolidato, termine più anodino), rimborsabile, con pagamenti di interessi sul debito a scadenze regolari che consentivano all’amministrazione statale di rendere più prevedibili i propri impegni, calibrare le nuove emissioni ed eventualmente intervenire per governare i tassi d’interesse del mercato – cosa questa che, almeno quando le finanze erano gestite bene, sottraeva, finalmente, all’arbitrio dei grandi finanziatori del debito pubblico la decisione su quando e quanto prestare. I creditori videro che, sul lungo andare, la standardizzazione dei titoli li rendeva facilmente trasferibili a un prezzo determinato, dando così impulso a un mercato permanente di titoli, relativamente ampio e spesso. Il corso di un titolo irredimibile e senza pericolo di ripudio (il consol era tra l’altro “perpetuo”) esprimeva un investimento meno rischioso, o, come in seguito fu battezzato in puro stile pubblicitario, “a rischio zero”, ovviamente rispetto ad altri titoli per i quali i rischi erano evidenti e alti. Perciò liquidare i titoli “rischiosi” e riversare il ricavato sul titolo pubblico offriva garanzie di sicurezza e di stabilità, anche per il resto di quelli che flottavano sulla superficie 0 .20 e on m i ffis 334 Parte II - Moneta e debito Qu -b E o est k oo ap rtie a p a ne ro dei rischi elevati (e di prezzi turbolenti). L’operazione di diffusione del debito pubblico non fu portata a compimento con un colpo solo. L’Inghilterra ebbe vari vantaggi sul tempo, rispetto ad altri Stati nazionali, grazie all’introduzione di una Banca d’Inghilterra (1694), che era sia banca privata, e in mano a banchieri privati, sia banca di Stato, finalizzata alla concessione di anticipazioni al Tesoro contro emissione di cartamoneta, per sottoscrivere titoli del debito pubblico, in forma di Consols (dal 1752). Ovviamente, anche altri Stati nazionali non tardarono a capire i vantaggi di avere un debito perpetuo cartolarizzato e redimibile a discrezione dell’emittente, e cercarono una propria via per unificare il debito pubblico, cioè convertire i debiti esistenti in un solo titolo, superando il caos delle differenze per scadenza, tassi d’interesse e garanzie, e, poter razionalizzare i flussi di pagamento per il servizio del debito e governare le emissioni successive. Il primo vantaggio inglese risaliva alla rivoluzione che aveva trasformato lo Stato assoluto in Stato costituzionale, conferendo al parlamento l’ultima parola in termini di dichiarazione di guerra e di imposizione di nuove imposte. Si veniva a formare, passo dopo passo, quello da cui Schumpeter ha fatto risalire la nascita dello Stato moderno, cioè da bisogni finanziari crescenti. Ciò esigeva un’organizzazione burocratica delle spese e delle entrate in grado di governare le esigenze di finanza straordinaria mediante una profonda razionalizzazione di quella ordinaria. Osserva Schumpeter: L’imposta non ha solo contribuito a creare lo Stato, ha anche contribuito a formarlo. Il sistema fiscale fu l’organo il cui sviluppo comportò anche quello degli altri organi. L’arma della tassazione permise allo Stato di penetrare nelle economie private, e di acquistare un predominio sempre più forte su di esse. E l’imposta introduce l’economia monetaria e lo spirito calcolatore in angoli dove prima erano assenti, e così retroagisce sulla formazione di quell’organismo che l’ha sviluppata. Del modo e del livello delle imposte decide la struttura sociale; ma una volta che esistono, esse assumono la funzione di una leva che le forze sociali possono manovrare per cambiare questa stessa struttura (Schumpeter 1918, 142). Lo Stato fiscale moderno, nel senso di Schumpeter, rispetto a quello assolutistico d’ancien régime, diventa il terreno di lotta sociale ed economica per stabilire l’entità e la ripartizione delle imposte e scegliere i sistemi e le modalità con cui coprire le spe- 12 - La desovranizzazione della moneta 335 se in deficit. In questo, la sociologia dello Stato di Schumpeter si scosta in maniera significativa dalla visione liberale classica, per la quale lo Stato è, e deve essere, quasi un corpo estraneo e altro dalla società civile, per assolvere la funzione di arbitro nelle stesse lotte sociali e in conflitti tra interessi contrapposti20. L’agglomerazione di trattative frequenti sul mercato di titoli pubblici, quale mercato quasi perfetto per eccellenza, anche rispetto a quello dei beni di sussistenza spesso in balia di eventi naturali, contribuì a radicare la presenza di istituzioni finanziarie specializzate, in forma di banche d’investimento e altre, pronte a intervenire per acquisti e vendite entro e fuori delle ore di apertura della borsa, a fornire informazioni e servizi relativi anche per titoli diversi e più rischiosi21. Attraverso la speculazione, l’aristocrazia finanziaria avviò dapprima la grande proprietà terriera a prendere confidenza con i circuiti d’affari moderni, attirando sul mercato capitali in cerca di impiego vantaggioso, a rendimenti più elevati nel breve periodo di quelli tradizionalmente considerati sicuri. Con l’ulteriore vantaggio che il capitale così investito non si immobilizzava in un’attività produttiva specifica, ma poteva essere liquidato in ogni momento, per cercare soluzioni alternative. La Banca d’Inghilterra, come le banche di emissione fondate negli altri paesi, fornì un mezzo di pagamento universalmente accettato (in ambito nazionale) perché, con la sua fondazione, lo Stato (implicitamente) siglò con i banchieri che governavano la banca un patto di non interferenza sugli strumenti monetari. La zecca, sotto la direzione di Isaac Newton, avviò una seria persecuzione dei contraffattori di monete divisionali per radicare la fede che il valore facciale delle monete d’oro doveva aderire al loro valore intrinseco, e inaugurò, di fatto, un nuovo sistema monetario calcolabile e preciso come quello celeste perché impediva, finalmente, la “contraffazione” legalizzata delle mutazioni ad opera dei sovrani. La Banca d’Inghilterra, dal canto suo, era tenuta a rispettare una «A rigore non si dovrebbe mai dire: lo Stato fa questo o quello. L’importante è sempre riconoscere chi o l’interesse di chi mette in moto la macchina dello Stato, e parla in suo nome» (Schumpeter 1918, 178n.). 21 Il mercato dei titoli pubblici fece da battistrada a quello dei titoli privati; cfr. Baskin e Miranti (2000). 20 e Qu 336 Parte II - Moneta e debito riserva di metallo per i biglietti in circolazione, convertibili in ogni momento in moneta metallica o in lingotti. Il Tesoro e il parlamento si riservavano la sorveglianza affinché la Banca d’Inghilterra assolvesse correttamente i compiti oggetto del privilegio che le era stato conferito (della responsabilità limitata e, poi, di un monopolio sull’emissione e sui prestiti verso il Tesoro). Il timore del governo era che i banchieri approfittassero del privilegio dell’emissione per espandere oltremodo gli affari, che un overlending (un eccesso del credito facile) si trasformasse in overtrading (surriscaldamento delle attività commerciali), e il tutto in tendenze all’aumento dei prezzi e in fughe di capitali all’estero. L’obbligo della convertibilità dei biglietti di banca era la clausola per indurre alla prudenza la banca d’emissione nella concessione del credito. Anche da un punto di vista legale, la moneta era uno strumento a metà strada tra il pubblico e il privato. Una banca d’emissione, con le caratteristiche di quella d’Inghilterra, accrescendo la fiducia presso il pubblico, alleviava le pressioni al rialzo sui tassi d’interesse del debito statale, dando la possibilità al Tesoro di calibrare le emissioni, valutando se accedere alle anticipazioni bancarie piuttosto che avviare nuove emissioni. I titoli pubblici, con solvibilità a prova di ogni dubbio, divennero una delle garanzie più apprezzate dalle banche per la concessione di prestiti a privati e per lanciarsi in nuove speculazioni. Il mercato finanziario nel suo insieme progrediva per diventare il mercato meglio organizzato di ogni altro, grazie a istituzioni finanziarie che potevano gestire il proprio portafoglio, e disporre di un’attività redditizia con un alto grado di liquidità. L’Inghilterra mostrò agli altri paesi un ulteriore risultato: lo Stato poteva collocare il proprio debito a tassi d’interesse molto più bassi rispetto a quelli di altre piazze finanziarie europee già nel corso del XVIII secolo22. Ciò aveva un’altra conseguenza: i rendimenti dei titoli pubblici formavano lo strato più basso della struttura nazionale dei tassi d’interesse, attirando su quel livello i tassi d’interesse per obbligazioni private e per debiti contratti con le banche nazionali. Questo E-book ap 22 La discussione sulla questione era stata avviata da Ashley (1961) e più di recente ripresa da Weiller e Mirowski (1990); per la Francia Velde e Weir (1992); e ancora Buchinsky e Polak (1993) e Chamley (2011). 12 - La desovranizzazione della moneta 337 Assicurare la moneta all’oro, con l’idea che anche tutto il resto avesse così un’ancora di stabilità almeno nel lungo periodo, non fu un’operazione semplice né costruita in tutti i particolari, sebbene in Locke e nei primi economisti fosse molto chiaro su come impostare alcuni dispositivi, affinché fossero neutralizzati in generale ogni pretesa e ogni potere sovrano sulla moneta e, al tempo stesso, però la sovranità potesse esercitare quel potere solo in stato d’eccezione, come durante le guerre e le sommosse popolari sconfinanti in guerre civili. La realtà finanziaria dello Stato moderno è quella di un nuovo soggetto con un deficit finanziario permanente, e di un potere sovrano, la cui potenza è misurata dalla capacità di sopportare un debito pubblico pesante senza recare un crescente aggravio in termini di servizio del debito23. L’Inghilterra, o gli Stati Uniti come anche altri paesi, trasformarono tutta la loro organizzazione finanziaria sull’archetipo dello Stato fiscale moderno potente, in grado di sostenere un debito crescente a tassi d’interesse relativamente bassi, o perfino decrescenti, e stabili. Per compiere un tal miracolo finanziario, la moneta nazionale diventò lo strumento sovrano per eccellenza. La moneta è perciò un atto sovrano, nel senso della sovranità come potere che esercita la sua forza in uno stato di eccezione, secondo la definizione di Schmitt. La conquista non è né semplice, né facile, ed è il risultato di due forze apparentemente contrapposte: da un lato, lo Stato che preme per rafforzare le proprie prerogative sul credito, dall’altro, gli stessi privati, alta finanza e borghesia, che, detestando la fiscalità statale, trovano che la via del debito sia, per molte ragioni, un compromesso vantaggioso per i propri affari purché dentro un sentiero di stabilità del sistema creditizio. La moneta del sovrano ha perciò due facce. Una è quella del “dare”, che accredita un conto quando il sovrano in questione dichiara lo stato di eccezione, e impone ai sudditi un’estrazione di redditi o anche un trasferimento di valori patrimoniali. Vista in quest’ottica, la moneta è un’attività finanziaria che – a meno che Qu es to E- bo ok ap pa rti en e Per una discussione sul debito pubblico sulla base della sociologia economica dello Stato fiscale moderno di Schumpeter, v. Conti (2008). 23 a ro ffis im Parte II - Moneta e debito 338 non sia convertibile a pieno titolo in oro e argento, merce come altre merci, ovvero non abbia un valore eccedente rispetto ai metalli in cui è convertibile – è contropartita di una passività finanziaria che lo Stato contrae con l’intera nazione, senza promessa di rimborso; è cioè una passività fittizia, che il sovrano impone sull’intera società e che ognuno, quasi paradossalmente, accetta e contabilizza tra le proprie attività. In questo, la moneta mantiene quel marchio originario di riparatrice dei torti. I privati si trovano in mano una sorta di “pegno”, a cui attribuire una particolare documentabilità per i loro scambi e per la regolazione del saldo delle rispettive posizioni di credito e debito. L’altra faccia è quella dell’“avere”, in cui lo Stato emittente addebita il proprio conto (presso la banca centrale), perché impone ai sudditi di ricevere, in contropartita per i beni e servizi forniti, una cosa a cui il sovrano attribuisce il potere di estinguere ogni imposta e ogni obbligazione. Il compromesso sulla moneta fra poteri privati e poteri pubblici era basato sul riconoscimento di una sovranità limitata soltanto a stati d’eccezione (le costituzioni liberali cercano di prevedere e circoscrivere situazioni del genere), per rendere del tutto “neutrale” la moneta, cioè ininfluente anche sul livello generale dei prezzi (v. par. 13.3-13.4). Ciò non toglieva nulla alla possibilità di accrescere (o diminuire) l’offerta di moneta fiduciaria, attraverso il credito che il settore privato creava (o estingueva) al proprio interno e, eventualmente, attraverso un surplus (o un deficit) di pagamenti con l’estero. Con il compromesso che prese corpo a partire dal XVIII secolo con la costituzione di banche di emissione statali e nazionali, istituzioni anfibie in termini della dimensione privato-pubblico, il credito privato interno otteneva vantaggi non immediati, ma rilevanti nel lungo periodo, quando le banche di emissione iniziarono a svolgere funzioni di prestatrici di ultima istanza e a regolare le emissioni monetarie anche in funzione dei bisogni dell’economia. La moneta, con il suo pesante e opaco velo metallico, si fondava sull’apparente convertibilità in lucente metallo – effettiva per i coni a pieno titolo, e solo fiduciaria per le banconote convertibili – ma di fatto dissimulava, sotto una neutralità fittizia, la natura creditizia che ne stava alla base. La scelta di uno standard in metalli preziosi (p.e. in oro o argento) non dipendeva da una miglior tecnologia di pagamento, ma da ragioni essenzialmente economiche. I prezzi Questo E -book app artiene a rof 12 - La desovranizzazione della moneta 339 dell’oro e dell’argento, per quanto fluttuanti come quelli di ogni altra merce, erano molto stabili nel lungo periodo (quelli dell’argento fino alla seconda metà del XIX secolo), e dovevano la loro stabilità al fatto di essere determinati da una domanda quasi infinitamente elastica in confronto a un’offerta determinata da uno stock esistente, a cui scoperte di nuove miniere e nuove produzioni aggiungevano molto poco in termini di quantità. Non appena il prezzo di uno dei due metalli rincarava o si deprezzava, erano in molti a vendere o comprare. La moneta interamente fiduciaria, non più convertibile, resta nuda presenza di credito, quel credito originario a cui si era tentato invano di pulire il peccato originale per dargli la fulgida trasparenza di immagine riflessa dell’oro. Il passo tra la fiducia e il tradimento è così breve che la moneta porta impresso il marchio beffardo del demonio perché, secondo l’apostolo, è la radice di tutti i mali (I Tim 6, 10)24. Gli aspetti fantastici e demoniaci della moneta e dell’oro sono uno degli elementi che turbano il secolo dei lumi, nel quale, nel sonno o nella veglia, la ragione monetaria rischiava comunque di generare mostri. Quando l’imperatore del Faust di Goethe chiede meravigliato al cancelliere come sia stato possibile aver pagato i soldati e avere ancora le casse piene d’oro, il cancelliere spiega l’arcano: il giorno prima è stato sufficiente un tratto di penna su un pezzo di carta e disporre di artisti che si sono messi all’opera per replicarlo, per aumentare per il benessere del popolo: ogni suddito è beato con quella carta che vale oro zecchino. Così Mefistofele spiega l’arcano delle proprie astuzie, ovvero della cartamoneta e delle alchimie delle banche. Solo il pazzo comprende bene cosa fare: offrire presto quella carta per comprare campo, bestiame e casa e ritirarsi dal mondo25. Goethe non fa altro che descrivere allegoricamente due eventi sconvolgenti della sua epoca: prima, il crollo del sistema di Law e, dopo, l’emissione degli assegnati nella Francia rivoluzionaria. In quelle due occasioni, la Francia anticipa e accelera quanto in Inghilterra stava avvenendo molto più lentamente. L’insuccesso delle due esperienze francesi -b Questo E 24 25 (1980). Cfr. inoltre Le Goff (2012). Si tratta del Faust di Goethe (II parte, atto I). Un commento in Shell Parte II - Moneta e debito 340 si può spiegare semplicemente con la frantumazione del patto tra pubblico e privato, che non permise di portare a compimento la riforma dello Stato nel senso di Stato fiscale e nazionale. Il primoQ caso si colloca in quella linea d’ombra rappresentata u sto nel quale i privati continuano a utidal periodo dopoeVestfalia, E-b o lizzare in larga parte strumentiocome per svolgere con k alepcambiali pailrproblema comodità i traffici su larga scala. In Francia, tiene più acuto a roff di non pare fosse la circolazione monetaria come nell’Inghilterra isi fine XVII secolo; il problema era la situazione disastrosa delle fi- mone. 20 nanze statali alla morte di Luigi XIV, il Re Sole. Alterare, con i vecchi sistemi delle mutazioni, il valore facciale o il contenuto metallico delle monete, non risolveva i grossi problemi finanziari dello Stato, causati da un debito ingente e, soprattutto, da un servizio del debito che poteva essere pagato solo contraendo nuovi debiti. La moneta in circolazione, per quanto consistente, non apporta fondi. L’oro e l’argento possono essere esportati o tesoreggiati. Il credito complessivo in quelle condizioni non prospera. La questione della moneta e della sua parità metallica è stata sopravvalutata dagli storici col risultato di mettere in ombra l’importanza del credito. Ha giocato, in questa sopravvalutazione, il trompe-l’œil del reperto. Infatti, non esistono sistemi di contabilità finanziaria affidabili per le economie di epoche preindustriali26, principalmente per le difficoltà a censire i volumi di credito commerciale, che avevano una rotazione normale di tre-sei e più mesi e che in capo all’anno consentivano di trasferire merci dai quattro angoli del mondo; persino nei rapporti interni ai vari Stati, i volumi di negoziazioni a credito costituivano un multiplo elevato rispetto ai pagamenti in contanti. L’insistenza degli storici nell’attribuire un valore speciale, ma a volte quasi esclusivo, alla moneta dipende dalla distorsione derivante dai segni e dalle tracce lasciate da essa. Al contrario, una cambiale giunta a scadenza, una volta onorata, è stracciata, estinta, resa nulla: con la perdita di ogni traccia materiale, non resta più segno della sua esistenza. Quel che si dimentica è che, all’epoca, gli Stati esercitano una sovranità mo- Si veda il pionieristico lavoro di Goldsmith (1990) e la bella presentazione di Marcello de Cecco. 26 12 - La desovranizzazione della moneta 341 netaria debole, nel senso che le zecche reali possono coniare oro e argento nelle quantità che i privati portano alla zecca in materiali, puri o in leghe, e in monete estere. La zecca rilascia pezzi monetari “nazionali”, certificati secondo il valore stabilito nella legge monetaria, dopo aver saggiato l’oro e l’argento ricevuti, trattenuto un diritto o un “signoraggio” quando il sovrano riusciva a imporre – cosa non sempre facile – l’estrazione di un “di più” dall’operazione di monetazione27. I pezzi monetati erano nella quantità e nel valore intrinseco stabilito sempre per legge (dipendente da tipo, peso, titolo e corrispondenza con il valore in moneta immaginaria, cioè in lire). Con quei pezzi metallici i privati regolavano i loro pagamenti correnti ma, soprattutto, pagavano le imposte. Sovrani e principi potevano comunque effettuare, e spesso lo facevano, mutazioni monetarie come forme improprie e surrettizie di tassazione (Bloch 1981). Ritornando sulla metodologia storica, il fenomeno qui descritto come un trompe-l’oeil monetario-creditizio è conosciuto nelle scienze come survivorship bias, in storia si potrebbe tradurre con “distorsione documentale”. Nei comportamenti delle imprese, o nelle battaglie, si commettono di frequente errori di valutazione, per il semplice motivo che si attribuisce un valore emblematico alle strategie vincenti, che hanno, ovviamente, maggior risonanza, senza cercare di trarre insegnamento dagli errori di quelle perdenti. I perdenti raramente danno ragione di quel che è loro successo, o hanno consapevolezza di quale sia stata la causa del tracollo, mentre molte sono le memorie e le testimonianze di coloro che hanno condotto a termine con successo il proprio progetto. Governanti o condottieri militari che escono di scena da perdenti molto raramente scrivono memorie. Dal punto di vista degli statistici, il problema è quello dei “dati mancanti”. In un lavoro pionieristico Abraham Wald, un matematico e statistico d’origine ungherese, si occupò di come rafforzare l’acciaio delle carlinghe degli aerei durante la guerra, quando per farlo poteva osservare come erano state perforate dai proiettili nemici solo quelle degli aerei che ritornavano alla base, ma nulla sapeva to s ue Q La questione del signoraggio ha dato luogo a intensi dibattiti e a una messe di studi. Una rassegna in Reich (2017). 27 p a ok o b E- tie r pa 342 Parte II - Moneta e debito sto E Que di quella parte, ben più importante, di aerei abbattuti e, ovviamente, non ritornati (Mangel e Samaniego 1984; Elton, Gruber e Blake 1996; e anche Shermer 2014). Lo stesso è successo agli studiosi di scienze sociali che si sono occupati di moneta trascurando il credito , perchè poco documentato. Nella Francia dei primi del ’700, John Law non fu certo affetto da una “distorsione documentale”, egli individuò con lucidità quel che occorreva fare. La sua intelligenza stette nel capire che il problema non era tanto quello di mettere ordine nella circolazione monetaria, quanto di sostituirla con qualcosa d’altro, di innovativo, come la carta fiduciaria, la cui convertibilità doveva essere promessa e sempre procrastinata. E il problema era di trovare un modo per consolidare il potere di uno Stato nazionale popoloso come la Francia attraverso una sovranità monetaria e finanziaria. Come leggere l’esperimento di Law, se non come un tentativo di conferire allo Stato un potere assoluto in termini monetari e finanziari? La moneta che propose era di carta, una semplice promessa. Ma più che otteneva credito, emissione dopo emissione, più si riduceva la probabilità di poter convertire in oro l’intera massa di carta in circolazione, vanificando, quindi, la promessa iniziale. La cartamoneta era messa in circolazione a fronte di prestiti che andavano principalmente ad alimentare una bolla speculativa rappresentata da acquisti di titoli di una compagnia commerciale, controllata dalla stessa banca, entrambe sotto il controllo di Law, e di titoli di Stato. Tutti gli ingranaggi finanziari erano lubrificati abbondantemente dai biglietti di banca e da continui battages pubblicitari per incoraggiare risparmiatori e speculatori, attraendo gli uni e gli altri attraverso gli alti dividendi distribuiti dalle società di Law e il rialzo continuo del valore dei titoli della banca, della compagnia, e dello Stato. Per evitare cedimenti e rafforzare la fiducia verso il proprio sistema, John Law ottenne la trasformazione della propria banca in Banque Royale, acquisì l’appalto della emissione di moneta, e giunse finalmente a ricoprire l’alta carica di ministro delle Finanze, sempre allo scopo di gestire l’emissione di cartamoneta per alimentare la speculazione sulle azioni della banca e iniziative commerciali fantasma, attraverso le quali procedere all’acquisto e alla conversione di un ingente debito statale, in modo da renderlo sia ne a ie part k ap -boo simo roffi n 12 - La desovranizzazione della moneta 343 sto e Qu meno oneroso sia un investimento attraente per risparmiatori e speculatori. Da banchiere e finanziere era, infine, giunto all’apice della gloria quando, in qualità di ministro, ebbe in mano tutte le leve del potere. Il sistema era ingegnoso, perché la carta emessa acquistava debito e concedeva prestiti ai privati che acquistavano azioni e titoli della banca emittente e di società collegate, titoli che promettevano dividendi e guadagni favolosi in conto capitale. Tutto andò bene finché il meccanismo complessivo funzionò e la bolla speculativa resse, diffondendo l’illusione che potesse continuare a funzionare sempre in quel modo. L’olio negli ingranaggi della macchina messa in azione da Law era sempre la cartamoneta della banca che, continuando a prestare e comprare titoli di Stato e propri, rendeva, di fatto, sempre più evanescente la promessa originaria di una convertibilità a vista e al portatore del biglietto. Law capì, come il Mefistofele di Goethe, la meccanica dell’illusione di una moneta emessa da una banca di Stato con la promessa di convertirla in metallo prezioso che diceva di tenere in riserva. La moneta fiduciaria era un passo che l’altra banca di Stato dell’epoca, la Banca d’Inghilterra, fece in maniera meno irruenta e con una conquista lenta e progressiva di fiducia durata decenni. L’esperimento del sistema Law si rivelò un fallimento, quando la bolla speculativa scoppiò cinque anni dopo l’avvio del progetto. Nello stesso anno 1720 anche in Inghilterra scoppiò una bolla speculativa, denominata “South Sea Bubble” dal nome della compagnia dei Mari del Sud (la South Sea Company), al centro dello scandalo e dei movimenti di capitali, che, in quegli anni, avevano interessato insieme a Parigi anche le piazze finanziarie di Amsterdam e, ovviamente, di Londra. Nonostante l’ondata di fallimenti che seguì, la Banca d’Inghilterra restò relativamente immune, e non coinvolta nel panico, né negli scandali che sconvolsero la borsa di Londra negli stessi mesi in cui il “flagello finanziario” colpiva28. Nei decenni successivi, la Banca d’Inghilterra poté così rafforzarsi e ottenere fiducia presso il pubblico, anche se la diffusione dei suoi biglietti conquistò gli inglesi solo dopo le guerre contro l’impero napoleonico. ok bo E- e a ffis ro Cfr. Carswell (1960); Dale (2004); Paul (2010); e Neal (2012). en rti pa ap 28 344 Parte II - Moneta e debito ffisim e a ro artien pp ook a to E-b Ques Un breve cenno adesso anche alla seconda esperienza di fallimento dell’emissione di carta fiduciaria. Nella Francia di fine XVIII secolo, la Rivoluzione fu salvata grazie all’emissione di assegnati emessi dal governo con garanzia dei beni nazionali espropriati al clero. La proposta di un’emissione di un titolo di credito (di un papier national) era stata avanzata da Jacques Necker nel maggio 1789 per salvare le finanze statali. Solo dopo la Rivoluzione, nel novembre successivo, fu ripresa da Mirabeau, sempre per evitare la bancarotta, ma anche per non ripetere la via che era stata quella di Law. Mirabeau non esitò a dichiarare che occorreva sbarazzarsi dell’idea che la carta comportasse inflazione ed esportazione di capitali (Levasseur 1894, 183-4). Un’emissione di una gran quantità di assegnati, in piccoli tagli, non doveva creare timori che potesse essere eccessiva: gli assegnati avevano come garanzia le terre demaniali; ogni assegnato dava diritto all’acquisto delle terre incamerate nel demanio, cioè della terra fonte di ogni produzione. Come strumenti cartacei, gli assegnati fornirono fondi a uno Stato sull’orlo del collasso. Grazie a ciò la Rivoluzione fu salva. Nel 1791 fu revocato ogni versamento di interessi sugli assegnati, e da titolo nominativo fu trasformato in titolo al portatore. Dal 1793 fu decretata la circolazione degli assegnati a corso forzoso, ma è negli anni dopo il Termidoro che gli assegnati divennero a tutti gli effetti moneta, e soprattutto moneta inflazionata che perdeva rapidamente il proprio potere d’acquisto. Mirabeau aveva chiaramente intuito che gli assegnati fossero il solo mezzo finanziario per salvare la Rivoluzione, tuttavia, aveva, forse volutamente, sottaciuto che non c’era nulla che impedisse di emettere carte per un valore nettamente superiore a quello delle garanzie. L’efficacia del sistema durò, anche allora, per circa 4-5 anni, mentre i prezzi dei beni aumentavano e il valore della carta si sviliva sempre più, fino al 1794-95 (Orain 2018). Un caso, invece, di successo di emissione di moneta fiduciaria è ricordato, tra gli altri, da Simmel. Alcuni secoli prima, Malta si era salvata dall’assedio dei turchi perché gli Ospedalieri avevano rafforzato le difese di La Valletta con la coniazione di monete in metallo vile, con impressa una divisa di significato espli- one.2 000@ Questo E-book appartiene a roffis imone.2000 12 - La desovranizzazione della moneta 345 cito: non aes sed fides29. La moneta mentiva perché era davvero di rame, ma fu comunque la fede la vera salvezza per i maltesi che poterono spendere per approntare le opportune difese (Simmel 1900, 263-4). Come abbiamo già ricordato (nel par. 12.2), per Marx il «sistema monetario è essenzialmente cattolico» mentre «il sistema creditizio essenzialmente protestante». A Malta nel 1565 la Riforma non era una minaccia, e in quel caso gli Ospedalieri avrebbero trattato i predicatori protestanti né più né meno che come i turchi. La questione è che, in un’isola, un gettone in rame è comunque un pegno e perciò può facilmente adempiere alla funzione di mezzo di scambio e fornire un supporto alle relazioni creditizie interne. La moneta maltese, come altre prima e dopo, era un’autentica moneta fiduciaria, la promessa di un’autorità che, in caso di emergenza, affermava la propria sovranità dichiarando tale pezzo metallico attività finanziaria per chi la deteneva, ma con la caratteristica, paradossale, di non essere passività finanziaria per l’emittente. Per Marx (come sarà per molti versi per Weber) lo spirito protestante incarna la piena libertà degli affari con una salda fiducia nel successo imprenditoriale, così come il successo spirituale della salvezza dipende solo dalla propria fede, senza far affidamento sulla mediazione di un’autorità pastorale superiore. Sempre per analogia, potremmo suggerire che, in campo monetario e creditizio, lo spirito protestante – che si basa sulla fiducia personale così come si basa sulla personale interpretazione delle scritture – tende a dare quindi fiducia al credito mercantile; mentre lo spirito cattolico – che ha bisogno di un intermediario superiore che attesti e garantisca l’autentica interpretazione delle scritture – tende quindi a dare fiducia alla moneta sovrana e alle garanzie “reali”. Continuando con la medesima analogia nei confronti della teologia protestante, potremmo paragonare la spontaneità di interpretare le verità di fede con la capacità di leggere e interpretare le scritture contabili. Invece, il senso della ragione autoritaria è cattolico, in ragione della sua universalità, della veridicità di dottrina (dogma) e della devozione richiesta al fedele 29 Cfr. Simmel (1900, 263-4 [parte Analitica, cap. 2, III, 4]). Parte II - Moneta e debito 346 al quale spetta obbedienza e osservanza delle pratiche rituali. Nel suo essere membro dello stesso corpo, ogni fedele si riferisce al pastore che protegge il gregge e soccorre le pecore smarrite30. Il banchiere, qui come intermediario, legge, per gli affidati e per gli altri clienti, il merito di credito e le relative scritturazioni. Nel commercio internazionale la cambiale, fin dal medioevo, era stata eletta moneta fiduciaria per eccellenza. Le cambiali avevano tuttavia necessità di leggi e di giurisdizioni per dirimere le controversie tra mercanti; quindi, la moneta dei principi, delle repubbliche, o meglio ancora quella degli Stati nazionali, diventava strumento essenziale per riparare il torto. Il trasferimento di una somma di denaro, in forma solenne, davanti a una corte di giustizia sovrana o riconosciuta, costituiva un modo per sostituire alla logica della vendetta quella del sacrificio limitato a uno scambio riparatorio. Negli affari, era un processo di riscoperta e sviluppo quello di domare gli istinti e incanalarli in un’organizzazione che circoscrivesse il conflitto e avviasse la risoluzione di potenziali stati di violenza verso modi “civili”, come quelli del secolare affinamento di una società delle buone maniere (Elias 1982, 356-7). In quel caso, il denaro è propriamente il dispositivo il cui «marchio distintivo e il suo valore permanente consistono, nelle diverse reincarnazioni [avatars], a poter essere scambiato contro ogni cosa e ogni servizio»; per questo – aggiunge Levinas – della moneta non si può dimenticare l’oggetto che «rianima» la «prossimità interumana» (Levinas 1988, 416 e v. 420-1). La moneta sostituisce un torto subito, consegnando all’offeso il segno di un’obbligazione sociale, una passività in capo all’intera società (e da essa riconosciuta). Lo sviluppo dei grandi Stati nazionali, sollecitato anche dal basso, fu, d’altro canto, un potente elemento che finì per inserirsi nelle reti finanziarie mercantili e per scompaginare i loro reticoli, ene arti p p a k boo Eo t s e u Q L’immagine di un solo corpo e molte membra è in S. Paolo (1Cor 12, 12), ma è ripresa anche nel Leviatano di Hobbes dove una «moltitudine di uomini diventa una persona quando viene rappresentata da un uomo o da una persona e ciò avviene con il particolare consenso di ogni singolo componente di tale moltitudine. Infatti, è l’unità del rappresentante e non l’unità del rappresentato che fa una la persona» (2001, 271, [I, xvi.13]). Il frontespizio del 1651 dell’opera hobbesiana si ispirava allo stesso concetto, v. anche la descrizione accurata che ne fa Agamben (2015a, 33-77). 30 200 ne. o m i fis a rof 12 - La desovranizzazione della moneta 347 animati, fino ad allora, da molte “nazioni”, ognuna delle quali, nel gergo e nel fatto, formata da genti accomunate da lingue e costumi diversi da quelli locali, “nazioni” per luogo di nascita, non per sovranità. Il rafforzamento delle sovranità, la dimensione di popolo e l’espansione delle spese burocratiche, di corte o di guerra, contribuirono ad accrescere il ruolo e l’influenza degli uomini d’affari, delle aristocrazie e borghesie nazionali, parassitarie o produttive. In questo senso il debito pubblico e quella serie di riforme che vanno sotto il termine di rivoluzione finanziaria, affiancata alla costituzione dello Stato fiscale, ebbero un peso determinante nello sviluppo della banca e del credito nel capitalismo pre e post rivoluzione industriale31. L’oscillazione tra autorità e reti fiduciarie indipendenti, tra la cattolicità della moneta solida e il protestantesimo del credito accorto, creò una tensione e, allo stesso tempo, una complicità tra due estremi per ritrovare un equilibrio di coesistenza ecumenica e di rafforzamento reciproco. Dal XVII-XVIII secolo tutto ciò avvenne sotto l’egida dello Stato fiscale moderno, elemento esso stesso tanto di mediazione quanto di conflitto. Il miglior esempio di tale tensione è l’esperienza storica delle banche d’emissione, a partire dalla fondazione della Banca d’Inghilterra per arrivare fino a dopo la crisi degli anni ’30. L’unicità o la pluralità degli emittenti costituì il dilemma che animò una lunga diatriba politico-dottrinale, risolta, prima o dopo a seconda dei paesi, a favore dell’unicità sia dell’istituzione che della corrispondente banconota, specialmente quando ormai la pluralità di fede era sconveniente32. Sorte come banche private, le banche di emissione erano in realtà bifronti, perché erano anche banche di Stato almeno per due motivi: per il doppio privilegio dell’emissione, appunto, e dello statuto societario (finché non divenne di diritto comune dopo la metà del XIX secolo), e per il Il concetto di rivoluzione finanziaria è introdotto e sviluppato da Dickson (1967) e ripreso, tra gli altri, da Sylla (2002). 32 Fedele al pluralismo dell’emissione ancora nel XX secolo è Vera C. Smith (1936), testo di riferimento in materia. La Smith si era formata alla London School of Economics, in seguito fu conosciuta col cognome del marito, Friedrich Lutz, considerato il «pupillo» di Eucken (cfr. Pühringer 2020, 291). 31 Qu es to Parte II - Moneta e debito 348 e Lo Stato (parlamento o governo a seconda degli ordinamenti e delle leggi istitutive) fino alla metà del XX secolo sottoponeva la banca d’emissione al rinnovo periodico dello statuto e dei privilegi concessi come forma di accomodamento della banca alle politiche governative. Un caso eclatante è quello dell’opposizione del presidente americano Jackson al rinnovo dello statuto della Second Bank of America. Per una nuova e unica banca d’emissione si dovette attendere nel 1913 l’istituzione della Federal Reserve (Giannini 2004; Bordo e Wynne 2016), la cui piuttosto “singolare” nascita è raccontata nel par. 13.5. 33 Qu ricorso esclusivo del Tesoro ad esse come unica banca per le anticipazioni a breve scadenza33. Dall’altro lato, le banche d’emissione erano “banche delle banche”, nel senso che erano governate da banchieri che ben presto riconobbero l’importanza di avere un “pastore” che governasse il loro credito, con discrezione e misura. In casi di emergenza finanziaria (come durante le guerre contro la Francia, prima, rivoluzionaria e, poi, imperiale), lo Stato inglese si riprendeva in mano lo scettro della sovranità monetaria, dichiarando il corso forzoso dei biglietti emessi a fronte di un ingente ammontare di anticipazioni ottenute o di emissioni di titoli del debito. Tuttavia, divenne sempre più frequente che il corso forzoso fosse dichiarato per salvare il credito delle banche e del commercio e per scongiurare effetti domino sul resto dell’economia. La funzione di prestatore di ultima istanza non era tra quelle che avevano messo a battesimo le banche di emissione, ma divenne la principale quando esse cominciarono, per questo, ad essere chiamate banche centrali. Con le banche di emissione e l’avvento delle moderne banche di deposito, verso la metà del XIX secolo, i sistemi finanziari presero, al di là di minori differenze nazionali, la fisionomia attuale, con le banche d’emissione che si specializzarono in vere banche centrali, attorno alle quali le banche ordinarie facevano affari e gestivano la propria liquidità, sfruttando le opportunità loro offerte da un mercato monetario sul quale il dominio della banca centrale diventava sempre più assoluto. Formalmente, per la banca centrale e per le banche di deposito vigevano le stesse regole. La circolazione dei biglietti era in un ammontare superiore alle disponibilità di metallo nelle casse della banca centrale, secondo il sistema a “riserva frazionaria”, cioè la banca concedeva crediti a banche e (generalmente fino alla seconda Questo E-bo 12 - La desovranizzazione della moneta 349 guerra mondiale) a privati. Le comuni banche di deposito, a loro volta, non avevano in riserva che una frazione dei crediti erogati (e dei depositi in contropartita). Il sistema creditizio acquistò in tal modo, specialmente dal XIX secolo in poi, una maggior flessibilità nell’offerta di moneta e di credito in funzione dei crescenti bisogni di finanziamento dell’industria e del Tesoro. Il vecchio sistema delle cambiali e degli altri strumenti di credito commerciale otteneva così una potente leva finanziaria attraverso il risconto di cambiali presso la banca di emissione. In tal modo, a differenza di Archimede, le banche avevano trovato il loro punto d’appoggio, su cui far leva per sollevare la potenza del credito e sostenere i processi di industrializzazione. Il credito interno a un sistema economico chiuso trovava così un modo efficace per espandersi, e banche e banca centrale potevano finalmente garantire, con il loro sviluppo e rafforzamento tecnico, una gestione del credito più ordinata in modo che non subisse crolli improvvisi. Tuttavia, non poterono impedire gravi crisi bancarie e finanziarie, imputate a bolle speculative di varia origine e natura. La concorrenza tra banche induceva ad assumere rischi di credito crescenti e l’escalation del credito comportava un’instabilità finanziaria sistematica. A questa caratteristica della concorrenza tra banche di essere una causa – insieme a quella delle singole banche che concedono prestiti con leggerezza – di deterioramento della qualità del credito, Goodhart (1991) attribuisce la giustificazione fondamentale dell’esistenza e della necessità della banca centrale nei sistemi finanziari moderni. Per quanto Law e gli assegnati fossero diventati ottimi spauracchi, con lo sviluppo ulteriore del capitalismo, le crisi bancarie e finanziarie divennero molto frequenti e sempre più minacciose, soprattutto in economie di mercato relativamente “aperte”. Il “mantra” per le banche centrali divenne la stabilità monetaria, intesa principalmente in termini di politiche volte a proteggere il sistema dall’inflazione. Ovviamente, l’ossessiva attenzione verso la stabilità monetaria ha distratto le banche centrali dalla loro funzione di controllo sulla stabilità finanziaria (v. par. 13.3 e 13.4). L’epoca delle banche d’emissione bifronti, privato-pubblico, continuò fino alla seconda guerra mondiale, quando gli Stati ri- Parte II - Moneta e debito 350 presero in mano la situazione (con nazionalizzazioni ed estromissione dei banchieri privati dal controllo sulla banca centrale) per riabbandonarlo progressivamente nell’epoca della seconda globalizzazione di fine XX secolo. Ma le banche centrali furono soprattutto l’intermediario tra il sistema bancario nazionale e i mercati creditizi e finanziari internazionali. La garanzia della convertibilità in metallo dei biglietti emessi era garanzia di stabilità del cambio con gli altri paesi che adottavano lo stesso sistema monetario aureo o bimetallico e, al tempo stesso, regola fiscale. Difatti, economisti e primi pensatori liberali, che in genere si confondevano gli uni con gli altri, intuirono il pericolo dell’inconvertibilità tendenziale se il Tesoro avesse fatto leva sulla banca d’emissione per allentare il proprio vincolo di bilancio, cioè tenere in pareggio le entrate con le uscite ricorrendo alle anticipazioni. La mercificazione della moneta altro non era che il tentativo di desovranizzare la moneta, cioè di rendere l’intero sistema monetario e finanziario una macchina simile alla macchina celeste newtoniana, il cui funzionamento poteva essere solo danneggiato da un preteso demiurgo terrestre34. Le questioni politiche andavano completamente estromesse e rese marginali, al più ammesse per i casi di stato di eccezione, ma senza interferire su congegni “naturalmente” perfetti. Il meccanismo di equilibrio dei prezzi attraverso i flussi di specie metalliche (price-specie flow mechanism) di Hume (in Of the Balance of Trade, del 1752) era un congegno fondamentale per comprendere come, in un regime di gold standard nel quale la moneta-merce è “neutrale”, cioè svolge soltanto le funzioni di mezzo di pagamento, l’arte di governo consistesse nell’evitare artifici politici e nel sorvegliare soltanto Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne 34 La concezione di un universo-macchina investiva ogni ambito dell’ordine del mondo e la conoscenza era condizione preliminare per poterne seguire le leggi allo scopo di mantenere armonia ed equilibrio; cfr. Clericuzio (2005, 1724, 247, 253-6) rispetto all’economia della natura in Newton e alle obiezioni di Leibniz al continuo intervento di Dio nel mondo, ritenuto implicito nel concetto di gravitazione (ibidem, 286 e 289). Anche l’arte del governo del mondo doveva perciò seguire i principi naturali, le cose artificiali non possono differire da quelle naturali. Su ciò il classico Rossi (2009, specialmente 146-51). Cfr. anche Brubaker (2006, 185 e 257). ar off isi 12 - La desovranizzazione della moneta 351 che la bilancia dell’economia e degli scambi fosse equa come quella della giustizia: nec citra nec ultra (né di qua né di là)35. In quel contesto di moneta neutralizzata, il settore privato dell’economia, prima mercantile e poi industriale, restò padrone dei meccanismi che governavano l’offerta di credito e formavano sistemi nazionali fiduciariamente solidi. Ciò forniva un vantaggio comparato rilevante in termini di livello del tasso d’interesse. Riuscire a tenere relativamente bassi, e prevedibilmente stabili, i tassi d’interesse aveva un primo importante effetto nel rendere sostenibili i debiti per varie classi di debitori con un differente merito di credito e, inoltre, incoraggiare gli investimenti. Ma è soprattutto la prima caratteristica (la solvibilità dei debiti interni) a dare un consistente vantaggio competitivo agli operatori nazionali, mentre la seconda (i maggiori investimenti) offre ai medesimi l’altro vantaggio di detenere titoli rappresentativi di obbligazioni e di proprietà (come azioni) che acquistano valore grazie ai bassi tassi d’interesse36. Anche altri patrimoni, come le terre, acquistano di valore se i tassi d’interesse sono mantenuti bassi per la maggior facilità di accesso al credito e, per questa via, si ampliano le possibilità di accesso alla proprietà. Il motivo del basso tasso d’interesse non è molto riconosciuto tra i meriti teorici di Locke, che lo sottolineò con chiarezza; comunque il basso tasso d’interesse rimase un obiettivo importante che spinse altri paesi a imitare le strutture bancarie e finanziarie inglesi. Nel 1873, Walter Bagehot giunse finalmente a riconoscere le basi nazionali di un’architettura finanziaria ben organizzata, i cui vantaggi, in termini di costo del denaro e di organizzazione Q book uesto Eea appa rtien 35 Nello scritto “On the balance of trade” (1752), Hume descrisse un sistema internazionale di scambi di merci nel quale la regolazione di saldi commerciali eccessivi avviene mediante afflussi e deflussi di metallo monetario, grazie ai quali i prezzi aumentano nel paese creditore in corrispondenza alla diminuzione nel paese debitore. Purché l’intera struttura dei prezzi interni ai due paesi sia flessibile (verso l’alto e verso il basso) e non ci siano interventi di autorità, si ristabilisce sia l’equilibrio nelle bilance commerciali sia la parità di cambio tra le monete dei due paesi. Le virtù autoregolatrici del sistema monetario erano dimostrate con uno schema di leggi di natura. Cfr. McGee (1989); Eichengreen (1985). 36 Sulla questione si rinvia a Borio e Parker (2004). Parte II - Moneta e debito 352 Que sto E -boo k ap part iene a ro ffisim one. 2000 @gm a il.co m dei rischi attraverso la mobilità degli investimenti e la liquidità dell’intero sistema, offrivano una leva concorrenziale ai creditori e debitori interni rispetto a quelli di ogni altro paese (Bagehot 1873; e Giffen 1890, 37-88). Lo spazio nazionale sovrano, eredità di Vestfalia, rappresentò la dimensione indispensabile per la formazione dei sistemi finanziari domestici. Essi si costituirono attorno ai due pilastri fondamentali della nuova costruzione della sovranità moderna: il debito pubblico, nelle nuove forme cartolarizzate con le promesse solenni di non inadempienza, e la banca d’emissione, nelle sue funzioni originarie di banca di Stato e di polmone di liquidità per il mercato degli stessi titoli pubblici. Le varie configurazioni nazionali, repliche di questo modello istituzionale stilizzato, si integravano finanziariamente, per via degli scambi commerciali, con il paese – l’Inghilterra – che aveva il primato nell’industria moderna e nell’esportazione di capitali. Bagehot (1873) descrive la funzione apicale della City di Londra nel funzionamento di un ordine monetario interno e internazionale, nel quale le varie banche di emissione, svolgevano un ruolo analogo a quello che la Banca d’Inghilterra svolgeva in grande stile e su larga scala nello smorzare gli squilibri interni e esterni, reagendo ai drenaggi di riserve metalliche, ai movimenti del cambio, alle tensioni sui tassi d’interesse e, nel caso, intervenendo come prestatore di ultima istanza verso le altre istituzioni bancarie. Nei confronti di queste ultime, la banca d’emissione occupava progressivamente un posto e una funzione “centrale”, cioè disciplinava indirettamente la loro acquisizione di rischi, si imponeva con tutto il proprio peso finanziario sul mercato della moneta come la banca più liquida e più in grado di fornire liquidità, una liquidità necessaria per tenere in piedi un sistema di finanziamenti sempre più complesso e possente. La buona moneta era, quindi, ritenuta requisito di buona finanza e perciò di buona economia. A livello internazionale si formò, specialmente nel corso del XIX secolo, un’architettura di spazi nazionali satellitari rispetto ai principali centri finanziari mondiali, di cui Londra era il vertice indiscusso. Le dinamiche, qui presentate in modo molto stilizzato, che si succedettero dall’inizio del XIX secolo in poi, riguardarono due livelli tra loro interdipendenti: quello delle relazioni interne e 12 - La desovranizzazione della moneta 353 quello dei rapporti internazionali. La forza sovrana di una moneta nazionale dipendeva dalla posizione che riusciva a guadagnare in uno scenario più ampio di relazioni finanziarie con le altre principali economie. Il grado di ortodossia monetaria, cioè il rispetto delle regole di moneta-merce e dell’adesione allo standard metallico, dipendeva da rapporti di forza interni e internazionali. L’Inghilterra divenne il baluardo dell’ordine monetario internazionale fondato sull’ortodossia della moneta-merce e, di fatto, lo impose al resto del mondo. Eichengreen ha spiegato molto bene come in un semplice commercio internazionale di caffè, dall’imbarco delle balle da parte di un esportatore brasiliano fino al loro arrivo all’importatore newyorkese, sia per la banca brasiliana che per quella americana fosse necessario l’avallo delle lettere di cambio da parte di una banca londinese. E questo fu uno dei motivi principali che spinsero gli Stati Uniti a dotarsi di una propria banca centrale (Eichengreen 2011, 15-7). La City di Londra si impose così al centro di una vera e propria costellazione finanziaria internazionale per intermediazione di fondi e per offerta di servizi finanziari di ogni genere. Attorno alla City, le varie economie, con sistemi finanziari meno sviluppati, si disposero come pianeti la cui forza gravitazionale era in funzione della “distanza” finanziaria, misurata dal grado di rischio, altezza del saggio d’interesse, grado di liquidità, e dalla capacità di fornire servizi in supporto o in supplenza della piazza principe, infine, dalla facilità di movimento dei capitali da una zona all’altra. Si formarono anche altri sotto-sistemi con satelliti minori. A metà XIX secolo, la Francia, infatti, tentò con l’Unione latina di aggregare attorno al franco e al bimetallismo un’area monetaria mediterranea alternativa a quella inglese e germanica. Tuttavia, sempre la Francia svolse un ruolo di primo piano nel contribuire alla stabilità del sistema di gold standard. La Banca di Francia era disposta a concedere prestiti e a trasferire metalli preziosi oltre Manica nei momenti critici, dovuti a squilibri “fondamentali”, come quello dei saldi commerciali, o per rimediare a trasferimenti di fondi per speculazioni di banche d’affari residenti a Parigi e di merchant bank londinesi, tra loro imparentate al pari delle grandi case reali europee e come esse in continua disputa ne p art ie o ka p sto Qu e Ebo on ar of f isim Parte II - Moneta e debito con i rami collaterali che aspiravano alla successione al trono37. Nella teoria del gold standard, i trasferimenti correnti di fondi da una piazza all’altra erano esclusivamente a compensazione di pagamenti di transazioni commerciali. Le ipotesi di fondo della teoria erano che i fattori produttivi, terra, capitale e lavoro, non si muovessero da un paese all’altro; e tali ipotesi rispondevano effettivamente alle condizioni storiche dell’epoca. Anche Smith (1776) raccomandava ai proprietari di terre di sorvegliare e mandare avanti le proprietà e i lavori agricoli, mentre avvertiva tutti gli altri capitalisti che i rischi erano crescenti per chi muoveva capitali per mare e per terra; il lavoro non aveva nemmeno bisogno di tali consigli, si muoveva solo in caso di persecuzioni. Gli ugonotti spostarono capitali dalla Francia nei paesi limitrofi per trovare anzitutto protezione di fede. Fino a buona parte del XIX secolo, quelle condizioni non cambiarono sostanzialmente. I movimenti migratori potevano considerarsi molto marginali e quelli dei capitali del tutto trascurabili, rispetto ai volumi e valori delle merci che transitavano nel commercio internazionale. I capitali effettivamente mobili erano poi costituiti essi stessi da merce, cioè oro e argento, monetati o in barre, ma fino all’avvento delle ferrovie e dei grossi investimenti diretti all’estero, quelli eccedenti le compensazioni per pagamenti di merci e servizi non erano tali da alterare le predizioni della teoria del commercio internazionale fondata su quella di Hume e portata a perfezione da Ricardo. Fino a quella fase di capitalismo prevalentemente mercantile, il fondamento dell’ortodossia bancaria poteva basarsi sulla teoria delle cambiali “reali” (real bills doctrine). Nulla però impediva che le cambiali fossero di “comodo” e comodamente scontate presso banchieri e banche per coprire operazioni esclusivamente finanziarie che, rispetto a quelle commerciali, mancavano di una sottostante transazione di beni che, in teoria, doveva garantire il buon fine di tutta l’operazione creditizia. Tali operazioni, considerate più rischiose, dovevano essere disciplinate e ricondotte nell’alveo della condotta più prudente. Con l’industria moderna anche E-b Questo oo tiene a k appar roffisim gmail.c @ 0 0 0 one.2 354 37 Sulle successioni ai vertici della finanza internazionale, degli intrecci affaristici di relazioni politico-diplomatiche, di cui i Rothschild furono tra i maggiori rappresentanti, simbolo di un’epopea non del tutto scomparsa, v. Cassis (2007). on 355 a of fi r la natura delle cambiali cominciò ad alterarsi, perché proprio le industrie, in molti casi, ricorsero alla sottoscrizione di cambiali di comodo per finanziare investimenti fissi; questo finiva per invischiare le banche in immobilizzazioni e le costringeva a numerosi rinnovi a scadenza per l’impossibilità di liquidare le posizioni. Le banche centrali cominciarono a controllare la “bontà” delle cambiali da scontare per non doversi trovare a fornire liquidità nei momenti critici e per finire travolte dalla piena di una speculazione rovinosa. Con l’affermazione del gold standard a livello internazionale, nell’ultimo decennio del XIX secolo, si stabilì un sistema di cambi fissi ancorati su un’unica moneta di riserva rappresentata dall’oro in cui tutte le valute erano convertibili. Ma quella moneta nazionale che sembrava rappresentare al meglio la moneta assoluta, ovvero l’oro, diventava la vera “sovrana” rispetto a tutte le altre; e, forse, in questo senso, non è neppure un caso che il pound inglese, prendesse il nome di sovereign (da 20 scellini). Di fatto la sterlina esercitava un “comando” sulle altre divise nazionali per la forza del commercio e dell’industria inglese, ma soprattutto della finanza della City. Keynes ha usato – in riferimento al ruolo della sterlina e della Banca d’Inghilterra – la metafora del direttore d’orchestra che, con semplici gesti, accorda l’armonia di un complesso strumentale secondo un piano musicale, del quale regola tempi e intensità. La Banca d’Inghilterra nel XIX secolo era il «direttore dell’orchestra internazionale», in quanto disposta a variare le proprie riserve auree, mentre le altre banche centrali erano riluttanti a farlo, e a variare il proprio saggio di sconto per attrarre capitali dall’estero o incoraggiare investimenti all’estero (Keynes 1930 [1979], II 480-2 [cap. 36, 2]). In tal modo, l’ordine era ristabilito attraverso una gestione accorta delle riserve metalliche e della variazione del saggio di sconto, e da altri interventi che successivamente riguarderanno anche operazioni di acquisto e vendita di titoli del debito pubblico sul mercato monetario, in funzione di restringere o allentare la pressione sulla liquidità a disposizione del sistema bancario. In altri termini, il processo mediante il quale le banche d’emissione approdarono al ruolo di autentiche banche centrali fu un lento apprendimento nell’esercizio di un potere politico sulla moneta. Questo potere consisteva nel guidare la moneta, anzitutto secondo ne rti e a b o o k o es t u Q E- im s 12 - La desovranizzazione della moneta ap p Parte II - Moneta e debito 356 Q u o es t la convenienza della banca centrale, che finiva per identificarsi progressivamente con l’interesse generale della nazione, in base alla prudente gestione delle proprie riserve metalliche, al controllo sul livello del proprio saggio di sconto e dell’intera struttura dei tassi d’interesse interni e, ovviamente, alla salvaguardia della stabilità di cambio. Da tutto ciò – occorre ricordare – dipendeva il livello delle spese interne, della produzione e dell’occupazione. Ma già durante il gold standard classico, prima del 1914, la contesa di sovranità si era svolta, in realtà, con un solo sovrano incontrastato, che smentiva l’idea di un sistema autoregolantesi secondo un principio simile a quello naturale dei vasi comunicanti della meccanica humiana dei flussi di metallo in entrata e in uscita38. La realtà era, però, ben diversa da quell’idea, prima di tutto perché in nessuna grande economia c’erano interessi, specialmente industriali e agrari, che vedessero di buon occhio il “ballo” dei prezzi interni a seconda della congiuntura internazionale. Inoltre, il buon funzionamento del meccanismo tendente al riequilibrio del sistema humiano dei flussi di fondi dipendeva dalla piena flessibilità dell’intera struttura dei prezzi, compreso il salario. Nei paesi più avanzati e, specialmente in quelli industriali, la rete di rapporti di debito e credito era estesa in lungo e in largo nella compagine sociale e ogni variazione dei prezzi oltre un certo limite era intollerabile e minacciava anzitutto la stabilità sociale. Gran parte dei debiti era stipulata in termini nominali, a tassi fissi e, una parte rilevante, a scadenze medio-lunghe. Inoltre, con l’avvenuta industrializzazione, le variazioni dei prezzi, specialmente le deflazioni, avevano effetti disastrosi sui profitti e sugli investimenti. Con la crescita dei movimenti operai e delle forze sindacali, il salario, prezzo chiave nell’intera struttura dei prezzi e per la competitività internazionale, divenne sempre più rigido verso il basso, interferendo sulle capacità del sistema economico di raggiungere un equilibrio stabile anche in termini di pace sociale. Ciò poneva un’ulteriore ostacolo al rispetto del postulato filosofico-politico della neutralità monetaria, pilastro fondamentale del liberalismo, per cui ogni banca centrale cominciò a tentare di go- k Eb oo a ap p ne rti e a ro im ffi s on 0 e. 2 0 0 @ gm ai l. c om 38 Ricordiamo (v. par. 13.1), che secondo la meccanica di Hume, tali flussi spingerebbero in alto e in basso i prezzi e porterebbero a riequilibrare gli scambi tra le varie economie e i cambi tra le monete nazionali. Que 12 - La desovranizzazione della moneta 357 sto vernare la propria moneta nazionale per non lasciarla in balia delle scelte delle nazioni più forti, in grado di condizionarla attraendo capitali e influendo sulle forze competitive del paese. Attraverso la moneta, si poteva tentare di difendere la posizione economica e finanziaria del paese nel contesto internazionale, smorzando gli effetti destabilizzanti, provenienti, in gran parte, dai conflitti sociali interni che riguardavano specialmente le classi imprenditoriali e le masse operaie. De Cecco (2017) ha dimostrato che le banche centrali, nell’epoca del gold standard internazionale, intervenivano sistematicamente per evitare squilibri interni sui prezzi e ripercussioni sull’economia reale, attraverso un accumulo di attività sull’estero e variazioni del loro saggio di sconto, in genere per frenare i deflussi di metallo verso l’estero. In particolare la City, grazie al domino imperiale inglese, poteva far fronte ai forti squilibri generati dalle perdite di competitività della propria economia e dall’antagonismo ciclico di un’economia come quella americana, che era in forte espansione negli ultimi decenni dell’800 ed era caratterizzata dall’assenza di una banca centrale e da un sistema bancario fragile, sollecitato da violente fluttuazioni causate dai bisogni di liquidità e di finanziamenti da parte dei distretti agricoli. Questi ultimi erano indebitati presso le banche di provincia, specialmente nell’imminenza di semine e prima dei raccolti; inoltre, le piccole banche dei distretti agricoli, a loro volta, chiedevano prestiti alle grandi banche di New York, che, a catena, ottenevano finanziamenti dalle banche della City di Londra, fin quando, con l’esportazione di derrate agricole verso l’Europa, il circuito si chiudeva e i capitali rifluivano in senso inverso. La City e la Banca d’Inghilterra riuscivano a fronteggiare l’onda d’urto ciclica grazie all’Impero britannico, per mezzo della gestione delle eccedenze commerciali dell’India, imponendo che i fondi ottenuti dal resto del mondo fossero investiti in consols emessi dal governo britannico, evitando così che i deficit strutturali del commercio inglese andassero a sconvolgere gli equilibri dell’intero sistema finanziario. L’amministrazione imperiale impediva all’India di riformare la propria moneta, perché il silver standard indiano era l’elemento indispensabile per consolidare il gold standard internazionale incentrato su Londra. In questa complessa circolazione ne a artie app ook E-b gma 0@ .200 one sim roffi il.co m Parte II - Moneta e debito 358 di capitali, la Banca d’Inghilterra poteva continuare a mantenere la propria posizione e a rafforzarla senza subire emorragie auree verso l’estero e tali comunque da non far saltare l’intero sistema. Il processo, qui appena rappresentato nelle linee essenziali, scorre dentro un campo di tensioni continue: una parte di un settore privato, essenzialmente banche e banchieri, tentava di sottrarre allo Stato ogni pretesa di potere sovrano sulla moneta per preservare così un dominio sul credito fuori da un controllo pubblico; tuttavia, altre componenti sociali, principalmente le classi produttive e, all’occasione di crisi finanziarie, gli stessi banchieri, invocavano che la mano pubblica intervenisse per non perdere posizioni di dominio finanziario a livello internazionale. In conclusione, ricordiamo i passaggi e le dialettiche, talvolta conflittuali e talvolta convergenti, fra privati e poteri pubblici sulla sovranità monetaria che hanno portato all’insediamento della moneta fiduciaria. I principi di una riforma monetaria per rendere la moneta una merce furono realizzati prima in Inghilterra e, poi, nei diversi paesi, dopo la Rivoluzione francese, con l’intento di schermare il sistema del credito da pretese di sovranità. Un conio a pieno titolo aureo, o argenteo, e l’impronta del valore facciale tra le iscrizioni sul conio toglievano definitivamente di mezzo l’arbitrio delle mutazioni monetarie. In tal modo l’asse del credito era agganciato all’andamento del libero commercio. Con le guerre (napoleoniche e, specialmente, coloniali), anche il “protezionismo monetario” (cioè l’adozione di politiche volte ad accumulare riserve valutarie e a stabilizzare l’economia nazionale proteggendola dalle forti oscillazioni del ciclo internazionale) divenne un’opzione auspicata per consentire l’apertura dei mercati allo scambio di merci e di capitali senza perdere i vantaggi goduti sotto l’egida della sovranità sulla moneta; quest’ultima, infatti, assicurava, attraverso le misure che le banche d’emissione e centrali adottavano per governare l’andamento dei cambi e influenzare il livello e la stabilità dei tassi d’interesse interni, la stabilità monetaria. Il protezionismo monetario rappresenta una forma blanda di politiche monetarie e di controllo del credito , che si sono sviluppate in forme sempre più affinate nel corso dei primi decenni del XX secolo. Lo Stato giunge così a mettere in circolazione un pegno che non si ne ka rtie ppa sto Que oo E-b ffi a ro 000 e.2 mon 12 - La desovranizzazione della moneta 359 rimborserà, cioè a totale, o quasi totale, circolazione forzosa, e che contabilmente non iscrive tra i propri debiti ma tra quelli della banca centrale. Quella è vera moneta creata ex nihilo e la fiat money non ha bisogno di essere redenta, è strumento di redenzione di ogni altro rapporto contrattuale39. Acquista merci, ma nessuno può chiederne il rimborso, l’estinzione. Questo E -book app artiene a In linea con il concetto di redemptio e di redimĕre, riscattare, anche un pegno si riscatta. In questa prospettiva la moneta delle banche moderne, il deposito, è una promessa di redenzione e, per restare in un linguaggio teologico, come in ogni redenzione da un peccato originale, la purificazione dal peccato-debito può avvenire solo per intervento della moneta che non ha nessun peccato originale, cioè dalla moneta del principe che promette senza dare. 39 to es Qu ne tie ka pp ar oo Eb a im ro ffis Capitolo 13 one.2000@gmail.com LE SOLUZIONI INFINITE PER RENDERE “NEUTRALE” E “SANA” LA MONETA 13.1. Il dibattito sulla natura (neutrale o influente, esogena o endogena) della moneta In un dibattito parlamentare sulle leggi bancarie di Sir Robert Peel del 1844 e del 1845, Gladstone osservava che nemmeno l’amore aveva fatto impazzire tanti uomini quanti ne erano impazziti scervellandosi sulla natura del denaro. (Marx 1859, 1002, cap. II). im Questo E-book appartiene a roffis Ma per fuggire il lume ch’abbarbaglia, | e gli altri incanti di colui far sciocchi, | ti mostrerò un rimedio, una via presta; | né altra in tutto ’l mondo è se non questa. (Ariosto 1996, canto III, 68) È verosimile che il principale credito che si dà ai miracoli, alle visioni, agli incantesimi e a simili fatti straordinari derivi dalla potenza dell’immaginazione che agisce principalmente sugli animi del popolo, più malleabili. (Montaigne 2012, cap. XXI) La moneta, come ricorda Marx attraverso le parole di Gladstone, disorienta e sconcerta anche le menti più acute. Gli effetti del disorientamento sono stati numerosi nel corso degli ultimi secoli. Le ricette in materia di buona moneta sono molte e un numero cospicuo di economisti, invece di accettare la moneta come prodotto politico di interazione tra uno Stato sovrano e la società, hanno cercato di sterilizzare nella moneta ogni impronta politica, purificarla per renderla un semplice strumento asettico che non influisse sull’andamento degli scambi. Le dicotomie sulla moneta e sulle politiche monetarie sono in parte conseguenza di confusione e smarrimento teorico. Può essere interessante presentare, in una carrellata di dicotomie, le controversie quasi mai del tutto risolte in materia monetaria. Accenniamo qui, preliminarmente, alle definizioni di concetti quali la dicotomia classica, la neutralità della moneta e il monetarismo, che appariranno in seguito. Parte II - Moneta e debito 362 La possibilità della separazione tra variabili reali – quelle misurate in unità fisiche, quali le quantità e i prezzi relativi (PIL, salario reale, stock di capitale ecc.) – e variabili nominali – quelle misurate in unità monetarie quali tasso d’inflazione, livello generale dei prezzi, salario nominale ecc. – viene sostenuta già dalla macroeconomia classica: se variabili reali e nominali sono separate, allora variazioni dell’offerta di moneta non influenzano le variabili reali. Così abbiamo la cosiddetta “dicotomia classica”. Essa, di fatto, definisce anche il concetto di “neutralità” della moneta (p.e. Patinkin, 1987): una variazione della quantità di moneta ha effetti solamente sul valore nominale delle variabili come il prezzo, il salario e il tasso di cambio, ma nessun effetto sulle variabili reali come il PIL, l’occupazione, l’investimento e il consumo. Il significato politico è evidente: stampare banconote significa solo aumentare prezzi e salari. La banca centrale non può fare nulla per sostenere il reddito e la crescita economica; se stampa moneta ottiene solo il risultato immediato di danneggiare i finanzieri che hanno prestato a tasso fisso e di beneficiare i lavoratori salariati, che possono richiedere aumenti di salario maggiori degli aumenti dei prezzi, col risultato finale di un aumento del tasso di inflazione. Per monetarismo, soprattutto riferito principalmente al pensiero di Milton Friedman, intendiamo una teoria – basata su quella quantitativa della moneta – per cui la quantità di moneta ha un’influenza di lungo periodo solo sul livello generale dei prezzi – che sono assunti perfettamente flessibili – senza determinare variazioni reali nell’economia. Se ancora, per Friedman, era ammesso che nel breve periodo una manovra di politica monetaria del tutto inattesa potesse anche influenzare il reddito reale e l’occupazione (perché, per esempio, i prezzi, specialmente i salari nominali, sono “vischiosi”, e non si possono aggiustare immediatamente a seguito di un cambiamento inaspettato nell’offerta di moneta), con la successiva “nuova macroeconomia classica” di Robert Lucas, la moneta, con le aspettative razionali, perde ogni effetto reale anche nel breve periodo. Pertanto la politica economica monetaria basata sull’espansione della massa monetaria non aumenta reddito e occupazione, ma aumenta solo l’inflazione. Tuttavia il concetto di neutralità della moneta è stato sottoposto a critiche dirompenti. Qu es to E-b oo ka pp art ien ea rof fisi mo ne .20 00 @ gm ail. co 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 363 Secondo Hayek, la paternità del concetto di “neutralità della moneta” appartiene a Wicksell (anche se quest’ultimo la intende come “neutralità del tasso di interesse”). Schumpeter ammette che fu Wicksell a vedere chiaramente e a coniare il concetto di moneta neutrale, e aggiunge un’importante considerazione: «questo concetto non esprime altro che la radicata credenza nella possibilità della pura analisi “reale” [… ma] suggerisce anche il riconoscimento del fatto che la moneta non è necessariamente neutrale» (1954, 1334 [IV, cap. 8.3 (a)]). Il testo di Wicksell in oggetto è il seguente: Q t ue s Quel tasso d’interesse sul prestito che si mantiene del tutto neutrale rispetto ai prezzi dei beni e non imprime nessuna tendenza al loro rialzo o al loro ribasso, non può essere pertanto nessun altro che quello che verrebbe determinato dalla domanda e dall’offerta nel caso che non ci si servisse di nessuna transazione monetaria, ma che i capitali reali venissero invece prestati in natura – oppure ciò che fa lo stesso, del livello corrispondente all’interesse naturale del capitale (Wicksell 1898, 237 [cap. VIII]). In altre parole, il tasso monetario di interesse sarebbe neutrale se fosse uguale al tasso di interesse “naturale”: cioè come se si fosse in una economia di baratto. Appare una evidente circolarità argomentativa: la moneta è neutrale solo se si riproducono le condizioni di una economia senza moneta. Come rileva Samuelson (1968, 1-8)1, la formulazione wickselliana non tiene, perché un’economia monetaria è strutturalmente diversa e incomparabile con una economia di baratto: basta immaginarsi che in assenza di moneta la divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioCome dice Samuelson, agli economisti classici e neoclassici, lui compreso, era «piaciuta l’immagine di John Stuart Mill secondo cui il denaro è il lubrificante dell’industria e del commercio. Come anche le donne conducenti sanno, la lubrificazione è importante. Ma M [la moneta] è quantitativamente un lubrificante speciale: una goccia farà altrettanto che una piscina. Quindi un’immagine ancora migliore è stata quella post-Mill: il denaro è come un catalizzatore in una reazione chimica, che rende la reazione più rapida e migliore, ma che, come l’olio nella padella della vedova, non viene mai utilizzato […]. Ciò che ho appena detto chiarisce in modo inequivocabile che un teorico monetario classico sarebbe andato sul rogo per difendere la convinzione che l’insieme reale di equazioni A sia indipendente da M, dipendendo essenzialmente solo dai rapporti dei prezzi come nel baratto» (Samuelson, 1968, 3). 1 Parte II - Moneta e debito 364 ni non potrebbero esistere e la società retrocederebbe a un livello del tutto diverso2. Eppure, a parte Keynes che focalizza sulla domanda aggregata piuttosto che sui prezzi relativi, gran parte della letteratura di più generazioni, da Hayek a Gurley e Shaw e a Patinkin, ricerca le condizioni della neutralità della moneta e sempre facendo ricorso al benchmark dell’economia di baratto. Si tratta, nelle parole di Ascheim (1973), di una ricerca di una teoria inconsistente, internamente contraddittoria, frutto di un pensiero “a ruota libera” e non rigoroso: Ma il tema della neutralità della moneta, che è una spina dorsale del vasto corpo delle dicotomie in tema monetario, era già presente nel XVIII secolo, riferito però al contesto internazionale e interno tipico di quel secolo e al livello ancora iniziale dell’economia politica. Prima di allora, gli stessi banchieri e mercanti internazionali, prima di altri, erano interessati a risolvere problemi di disordine monetario, a limitare, o neutralizzare completamente, ogni influenza statale sulla moneta, a ricercare buone monete che, al pari dell’oro e dell’argento, fossero anche un bene rifugio, una riserva di valore. Erano gli stessi che con le lettere di cambio si erano creati una propria sfera, in cui la propria moneta, la cambiale, era ad offerta flessibile in base alle potenzialità del credito ne partie ok ap o E-bo Quest essendo basato sulla nozione di economia, tanto il concetto quanto le condizioni per una ‘moneta neutrale’ sono una contraddizione in termini […] portata alle sue logiche conclusioni, il concetto di “moneta neutrale” è una “reductio ad absurdum” […] a causa della natura della sua inconsistenza interna, la ‘neutralità della moneta’ non è sostenibile né come costrutto concettuale né come regola di “policy” […] in essenza, la “neutralità della moneta” costituisce un tentativo di proiettare su un’economia monetaria il paradigma dei prezzi relativi di un sistema di baratto […] un tentativo che in senso figurato è di indulgere in modo intermittente al piacere di pensare in modo vago e generico (Ascheim 1973, 82). a roffi simon il.c a 0@gm e.200 Ascheim (1973) sostiene che, privandolo del tutto della moneta, il sistema economico potrebbe assomigliare al livello e composizione delle attività economiche che risulterebbero come conseguenza di una tempesta di iperinflazione, cioè come successe nella Germania dei primi anni ’20 e nell’immediato secondo dopoguerra, quando la moneta era scomparsa di circolazione e al suo posto, per i piccoli pagamenti, si usavano ogni sorta di beni, come sigarette e altro. 2 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 365 tra mercanti e banchieri, ma che volevano anche che la moneta dello Stato fosse rigidamente vincolata. Senza risalire al mercantilismo e prima, riassumiamo brevemente le idee e le posizioni che emergono a partire dalla fine del ’700 sulla natura della moneta in termini delle modalità della formazione della sua offerta e dei suoi effetti nell’economia. Hume screditò la posizione mercantilista, volta all’accumulo di metalli preziosi, e per primo fornì una teoria dell’equilibrio delle bilance dei pagamenti, in cui proprio il flusso dei metalli preziosi da e per l’estero era il meccanismo che assicurava l’equilibrio tra diverse economie aperte. Hume propose un funzionamento monetario prezzo-flusso (price-specie flow mechanism), secondo il quale una bilancia dei pagamenti in surplus implica un aumento dello stock di metallo prezioso in entrata che genera un aumento dei prezzi interni, che, quindi, a sua volta, riduce la competitività delle esportazioni facendone diminuire il surplus in futuro. Quindi, questo funzionamento, da un lato, stabilizzava in modo autoregolato le bilance dei pagamenti e, al contempo, assicurava un’adeguata offerta di moneta, cioè assicurava che l’offerta di moneta, strutturalmente variabile, agendo attraverso la flessibilità dei prezzi interni, tendesse a riportare la bilancia commerciale in pareggio e il tasso di cambio sulla parità senza che ci fosse bisogno di alcun intervento correttivo da parte della politica governativa. In un sistema internazionale di scambi commerciali, se dotato di valute rispettivamente ancorate a una parità metallica (oro), i paesi aderenti avevano fissato reciprocamente parità ufficiali di cambio che non sarebbero state alterate da squilibri momentanei nelle reciproche bilance commerciali, perché le variazioni di quantità di moneta all’interno di ciascun paese e dei prezzi (in senso inverso nei paesi in surplus commerciale rispetto a quelli in deficit) avrebbe riportato tutto verso l’ordine “naturale”. La metafora (dei vasi comunicanti) con la quale Hume liquidava – è proprio il caso di dirlo – il mercantilismo era calzante: «L’acqua, dovunque sia comunicante, rimane sempre tutta allo stesso livello. […] è impossibile accumulare moneta, più di qualunque fluido, al di là del suo giusto livello» (Hume 1971, 719 e 720). Il messaggio politico era chiaro: il sistema monetario internazionale – in regime di gold standard – funziona perfettamente in -bo Questo E ne.200 ok appar t ie n e a r o ffisimo Parte II - Moneta e debito 366 una situazione di laissez faire e quindi gli Stati non devono intervenire in quanto il sistema è in grado di equilibrarsi autonomamente e ogni politica economica sarebbe non solo inutile ma dannosa (governi e banche di emissione non devono, perciò, opporre resistenza ai movimenti dei prezzi interni, cioè non tentare di frenare le inflazioni, né di bloccare le deflazioni; le banche di emissione, in particolare, devono aumentare il credito o diminuirlo quando le loro riserve aumentano o si riducono). Questa teoria verrà a costituire […] una delle basi del liberalismo ricardiano. […] Una simile analisi si proponeva evidentemente di dare il colpo di grazia al mercantilismo, dimostrando che non c’era alcuna ragione, né alcuna necessità, di ricorrere all’intervento dello Stato […] Hume contribuisce semplicemente a dare origine e alimento all’ottimismo liberale (Denis 1968, I, 187). Smith assume posizioni sfumate, e, talvolta ritenute contraddittorie, sulla moneta e sulla politica monetaria. Da un lato, sembra approvare la “dottrina delle cambiali commerciali” (real bill doctrine), per cui banche private o banca centrale possono liberamente attuare uno sconto illimitato di cambiali commerciali purché ovviamente il più possibile prive di rischio, e disapprovare il monopolio nell’emissione di cartamoneta, mantenendo fede alla sua immagine liberale, quindi favorevole a quello che chiamiamo free banking (vedi oltre). Dall’altro lato però, egli sostiene l’istituzione della Banca d’Inghilterra, che, sebbene fosse di proprietà di privati cittadini e il Parlamento non le avesse conferito il privilegio esclusivo nell’emissione delle banconote, sembrava per la sua reputazione, e per il suo statuto di società a responsabilità limitata (statuto sottoposto a rinnovo ventennale), avere un vantaggio concorrenziale sulle altre banche3. Questo E-book appartiene a roffis imone.200 «La stabilità della Banca d’Inghilterra è uguale a quella del governo britannico. Tutto ciò che essa ha anticipato al pubblico deve andare perduto prima che i suoi creditori possano subire alcuna perdita. Nessun altra compagnia bancaria può essere istituita in Inghilterra con un atto del parlamento, o può essere composta di più di 6 membri. Essa agisce non solo come una banca ordinaria, ma come una grande macchina dello Stato. Riceve e paga la maggior parte delle 3 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 367 Smith è contrario all’emissione di biglietti di piccolo taglio, perché in regime di free-banking, anche persone di pochi soldi e dubbio credito possono diventare banchieri, e sul mercato devono operare solo persone sufficientemente dotate di capitale, che, quindi, secondo una equazione tipica di Hume e anche di Smith, sono anche rispettabili e affidabili: Quando l’emissione di banconote di così piccolo taglio è permessa e viene comunemente praticata, molte persone modeste sono messe in grado e anche incoraggiate a divenire banchieri. Una persona, il cui pagherò bancario di 5 sterline, o anche di 20 scellini, sarebbe rifiutato da tutti, otterrà che esso sia accettato senza difficoltà quando viene emesso per una piccola somma, come sei pence. Ma i frequenti fallimenti ai quali tali miserevoli banchieri sono soggetti possono produrre inconvenienti molto gravi e talvolta sono una vera calamità per molta povera gente che ha ricevuto in pagamento i loro biglietti. Sarebbe meglio, forse che in nessuna parte del regno si emettessero banconote di valore inferiore a 5 sterline (Smith 1776, 298). La proposta di impedire l’emissione di piccoli tagli è l’occasione per Smith per fare emergere alcune considerazioni sulla relazione fra regole e libertà di mercato nell’ambito monetario. Infatti, sebbene venga ribadita la fede nella libertà di azione nei mercati come diritto naturale – la libertà naturale – viene tuttavia anche stabilito il primato della sicurezza dell’intera società rispetto all’agire dannoso di singoli, per cui se, da un lato, la legge deve proteggere la libertà naturale, dall’altro, deve regolamentare quando si debbano evitare danni sociali, ed evidentemente Smith ritiene che il caso del mercato della moneta rientri fra questi, per una sua intrinseca pericolosità sociale. Infatti, Smith paragona la regolamentazione in tale settore all’imposizione per legge di costruire muri divisori contro il propagarsi degli incendi: Questo E -book ap partiene a roffisim annualità che sono dovute ai creditori dello Stato, fa circolare i buoni del Tesoro e anticipa al governo l’ammontare annuo della tassa sulla terra e di quella sul malto, le quali spesso sono pagate solo dopo alcuni anni. In queste diverse operazioni, i suoi obblighi verso il pubblico possono talvolta averla costretta, senza alcuna colpa dei suoi direttori, a sovraccaricare la circolazione di cartamoneta» (Smith 1776, 295-6). one.20 E-b sto Parte II - Moneta e debito Que 368 Si potrebbe dire, peraltro, che proibire ai privati di ricevere in pagamento i pagherò di un banchiere per una somma grande o piccola, quando essi siano disposti ad accettarli, oppure impedire a un banchiere di emettere tali biglietti, quando tutti i suoi clienti sono disposti ad accettarli, è una manifesta violazione di quella libertà naturale che è specifico compito della legge proteggere e non impedire. Senza dubbio, tali regolamentazioni possono essere considerate, sotto un certo aspetto, come una violazione della Libertà naturale, ma un esercizio delle libertà naturali di pochi individui che potrebbe danneggiare la sicurezza dell’intera società è, e deve essere, limitato da tutti i governi, dai più liberi come dai più dispotici. L’obbligo di costruire muri divisori per impedire il propagarsi degli incendi è una violazione della libertà naturale, esattamente dello stesso genere delle regolamentazioni dell’attività bancaria che sono qui in discussione (Smith 1776, 299). Smith, inoltre, prende una precisa posizione nel dibattito allora corrente sugli effetti, spesso ritenuti dannosi, di una doppia circolazione monetaria, la carta e la moneta metallica, sostenendone l’equivalenza: Una carta moneta consistente in biglietti di banca emessi da persone di credito indiscusso, pagabili a vista senza alcuna condizione, se è pagata sempre in effetti all’atto della presentazione, è, sotto ogni aspetto, uguale in valore alla moneta d’oro e d’argento, dato che l’oro e l’argento in monete possono essere in ogni momento ottenuti in cambio di tali biglietti. Qualunque cosa sia comprata o venduta con questa cartamoneta sarà necessariamente comprata o venduta allo stesso prezzo al quale potrebbe essere comprata o venduta in oro e in argento (Smith, 1776, 299). Smith prende anche posizione sulla questione del presunto potere inflattivo della cartamoneta, sostenendo che, purché la quantità di circolazione monetaria sia costante, non importa se la sua composizione sia in carta o in metallo rispetto all’inflazione: Si è detto che l’aumento della cartamoneta, aumentando la quantità e diminuendo, di conseguenza, il valore dell’intero circolante, aumenta necessariamente il prezzo monetario dei beni. Ma se la quantità di oro e argento che viene sottratta alla circolazione è sempre uguale alla quantità di cartamoneta che vi è aggiunta, la cartamoneta non aumenta necessariamente la quantità dell’intero circolante (Smith 1776, 299). 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 369 Smith invece concorda con l’abrogazione di una clausola, la clausola opzionale (option clause), che era attiva presso molte banche d’emissione scozzesi e che consisteva nella facoltà delle banche di non redimere subito su richiesta del portatore la propria carta emessa, ma di farlo solo parzialmente o con proroghe anche di sei mesi, causando così, per l’incertezza sull’utilizzo della clausola, un disallineamento del valore fra carta moneta e moneta metallica a sfavore della prima: Alcuni anni fa, le diverse compagnie bancarie scozzesi usavano inserire nei loro biglietti di banca quella che essi chiamavano una clausola opzionale, con la quale promettevano al portatore di pagarlo non appena il biglietto fosse presentato, o, su opzione del direttore, dopo sei mesi dalla presentazione, con l’interesse legale per questi sei mesi. I direttori di alcune di quelle banche si avvalsero a volte di questa clausola, e talvolta minacciarono di avvalersene contro coloro che volevano cambiare in oro e in argento un considerevole numero di tali banconote, a meno che non si contentassero di una parte di ciò che richiedevano. I pagherò di queste compagnie costituivano allora in Scozia la maggior parte del circolante che per questa incertezza nel pagamento venne necessariamente svalutato al di sotto del valore della moneta d’oro e d’argento (Smith 1776, 300). Smith fornisce probabilmente, pur avendo anche sostenuto – come sopra documentato – la validità della creazione della Banca d’Inghilterra e della regolamentazione dell’industria bancaria, la migliore argomentazione – migliore anche rispetto a quelle presentate dai suoi dichiarati epigoni contemporanei, come Hayek (v. par. 15.1) e Rothbard – per la difesa del free-banking: Se si impedisce ai banchieri di emettere biglietti di banca circolanti, ovvero biglietti al portatore, al di sotto di una certa somma, e se essi sono sottoposti all’obbligo di un immediato e incondizionato pagamento di tali biglietti di banca all’atto stesso della loro presentazione, l’attività di costoro può, senza rischi per il pubblico, essere lasciata completamente libera sotto tutti gli altri aspetti. La recente moltiplicazione delle compagnie bancarie in entrambe le parti del Regno Unito, avvenimento che ha allarmato molte persone, aumenta la sicurezza del pubblico anziché diminuirla. Essa obbliga tutti i banchieri a tenere una condotta più prudente e a non estendere il volume dei loro biglietti al di là del giusto rapporto col contante, evitando così quelle corse agli sportelli che la rivalità di tanti concorrenti è sempre pronta a provocare a loro danno. Questo moltiplicarsi di compagnie limita la circolazione di ognuna di esse a un Qu est o 370 Parte II - Moneta e debito giro più ristretto e riduce i loro biglietti circolanti a un numero più piccolo. Siccome l’intera circolazione viene così divisa in un numero maggiore di parti, il fallimento di una società, incidente che nel corso degli avvenimenti può sempre prodursi, ha conseguenze meno gravi per il pubblico. Inoltre, questa libera concorrenza, obbliga tutti i banchieri a essere più liberali nel trattare con i loro clienti, nel timore che loro concorrenti glieli portino via. In generale, se un qualsiasi ramo d’affari o una qualsiasi divisione del lavoro è vantaggioso per il pubblico, tanto più lo sarà quanto più libera e generale è la concorrenza (Smith 1776, 303). o ok bo E- Non è aumentando il capitale del paese, ma rendendo attiva e produttiva una parte maggiore di quel capitale, che le più avvedute operazioni bancarie possono incrementare l’attività produttiva del paese. Quella parte del capitale che un commerciante è costretto a mantenere immobilizzata presso di sé in moneta contante, per far fronte all’eventuali richiesta di pagamento, è un fondo assolutamente morto […] le oculate operazioni bancarie lo mettono in grado di convertire questo fondo morto in un fondo attivo e produttivo […] in un fondo che produce qualcosa sia per sé che per il paese. La moneta d’oro e d’argento che circola in un paese è un fondo completamente morto […] le oculate operazioni bancarie, sostituendo con biglietti gran parte di questo oro e argento, mettono il paese in grado di convertire gran parte di questo fondo morto in un fondo attivo e produttivo […] la moneta d’oro e d’argento che circola in un paese si può a buon diritto paragonare a una strada maestra, che, pur essendo il mezzo per far circolare e trasportare al mercato tutti i foraggi e il grano del paese, non produce di per sé stessa né un filo d’erba né un chicco di grano. Le oculate operazioni bancarie, offrendo, se mi viene permessa questa forte metafora, una specie di strada carreggiabile attraverso l’aria, mettono in grado il paese di convertire una gran parte delle sue strade maestre in buoni pascoli e in campi di grano, e quindi di aumentare considerevolmente il prodotto annuo della sua terra e del suo lavoro (Smith 1776, 296). st ue Q Sul tema del credito, per Smith il potenziale creditizio offerto dal sistema bancario è fonte di crescita economica altrimenti impensabile. La moneta detenuta in contanti, dice Smith, è un fondo “morto”, ma le operazioni bancarie, in cui può essere impiegata la moneta contante, le ridanno vita, permettendole di fecondare il capitale reale produttivo, ovvero di investire in macchine e fabbriche; metaforicamente, se la moneta è solo una strada utile per i trasporti del prodotto, l’operazione bancaria è una strada che percorre l’aria nei cieli: Questo E-book appartiene a roffis 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 371 E le operazioni bancarie, come tutte le cose che viaggiano per aria, rischiano però di cadere rovinosamente a terra quando le ali di cera si sciolgono per imprudenti manovre, con esiti catastrofici che invece non potrebbero mai capitare alla moneta contante che calca le solide strade metallifere terrene. Qui Smith pare consapevole della intrinseca instabilità della economia monetaria: Tuttavia si deve riconoscere che il commercio e l’attività produttiva del paese, sebbene possano essere in qualche modo aumentati, non possono essere altrettanto sicuri quando sono, per così dire, sospese sulle ali di Dedalo della moneta cartacea, di quando camminano sul solido terreno dell’oro e dell’argento. Oltre che agli incidenti quali essi sono esposti dall’imperizia dei piloti di questa moneta cartacea, essi sono soggetti anche a parecchi altri incidenti, dai quali non c’è prudenza o abilità di piloti che possa salvaguardarli (Smith 1776, 296-7). imone.2000@gmail.com Peraltro, Smith si domanda anche se il governo o lo Stato dovessero intraprendere attività commerciali, ovvero, detto in termini moderni, possedere imprese pubbliche e nazionalizzare settori produttivi. Smith risponde che ciò probabilmente dipende dal tipo di Stato, quello che andava bene per Venezia e Amsterdam non andrebbe bene per l’Inghilterra, tranne il servizio postale che invece va bene che sia pubblico ovunque4: l’esperienza dimostra che l’amministrazione regolata, vigilante e parsimoniosa di aristocrazie come quelle di Venezia e Amsterdam, è estremamente adatta per condurre un progetto commerciale di questo genere. Ma deve essere perlomeno assai più dubbio che l’amministrazione di tale impresa possa essere tranquillamente affidata a un governo come quello dell’Inghilterra, che, quali che possono essere le sue virtù, non è mai stato famoso per la buona economia […] il servizio postale è in senso proprio un progetto commerciale […] È forse questo l’unico progetto commerciale amministrato con successo credo da ogni tipo di governo (Smith 1776, 666). Nel complesso, Smith, sebbene perori la causa del laissez faire anche in ambito bancario, sembra però particolarmente atten4 Smith non avrebbe forse sospettato che il neo-liberalismo moderno nel suo furore “privatizzatore” avrebbe “liberalizzato” (termine appropriato) anche i servizi postali di molti Stati occidentali. Parte II - Moneta e debito 372 Qu to ai rischi di crisi finanziaria presenti in un sistema monetario fiduciario. Dopo Hume e Smith, le posizioni in tema monetario diventano più variegate e il dibattito sul tema più ampio e serrato. Riportiamo qui per sommi capi una disputa sulla moneta e sulla banca che percorre, riemergendo nei periodi di crisi e sotto varianti appena diverse, la storia dalla Rivoluzione francese ad oggi. Al cuore della disputa stava, come al solito la dicotomia fra moneta fiat (una moneta fiduciaria creata dal nulla e senza convertibilità in metalli preziosi) e moneta-merce, in metallo prezioso o convertibile; corollari non meno importanti erano le questioni di chi e come dovesse emettere moneta e, da un lato, le relazioni fra l’offerta di moneta e le necessità economiche, e, dall’altro lato, i prezzi. Per amor di precisione cronologica, potremmo far iniziare la disputa nel 1797 in Inghilterra con la sospensione della convertibilità in oro della moneta a causa della minaccia d’invasione di Napoleone e ai conseguenti problemi di offerta monetaria, e terminarla con la riforma della Banca d’Inghilterra del 1844 da parte di Peel, ma, in realtà, essa viveva già nel ’500 nel dibattito fra gesuiti e domenicani della Seconda Scolastica, e rimane viva ancora oggi sotto mutate vesti, a causa del secolare contrasto fra gli orientamenti che sottostanno all’oggetto della disputa: il contrasto tra piena discrezionalità e regolazioni strettamente vincolanti rispetto all’emissione di moneta. In quell’epoca – dal 1797 al 1844 – i dibattiti sorti sui temi monetari e più in generale economici – che possiamo riassumere nella controversia fra currency school e banking school –, presentano elementi che, in essenza, possono essere considerati ancora attuali; basta citare soltanto il problema della moneta endogena o esogena, oppure il rapporto fra governo centrale e banca di emissione per farci ricordare la controversia fra keynesiani e monetaristi e la letteratura sterminata, da essa generata. La currency school faceva riferimento al cosiddetto currency principle, come principio di buon governo monetario. La regola da seguire era quella di mantenere la massa monetaria in circolazione, mista di specie metalliche e di banconote, in modo che ogni variazione della sua quantità complessiva si conformasse alla variazione della quantità di oro tenuto in riserva dalla banca di emissione to es bo E- ne rtie a pp a ok o m isi off ar 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 373 (Viner 1968, 128). La regola monetaria fondata sulla quantità di riserve auree non era affatto nuova, e aveva nobili precedenti nelle elaborazioni economiche e politiche dei teologi spagnoli del siglo de oro per mantenere la stabilità dei prezzi e assicurare una quantità di moneta sempre adeguata alle necessità del ciclo (che, quindi, determina sostanzialmente l’offerta di moneta), sia in un sistema monetario esclusivamente metallico (in cui l’afflusso o il deflusso di moneta metallica ha un effetto diretto e immediato sull’ammontare di moneta in circolazione), sia in uno misto (in cui variazioni delle riserve d’oro debbono essere compensate esattamente dalla carta moneta). Questa scuola, sposando la visione della teoria quantitativa della moneta secondo cui un aumento dell’offerta di moneta causa esclusivamente un aumento del livello dei prezzi, ritiene che qualsiasi emissione di banconote provocherebbe un aumento generale dei prezzi, a meno che tale emissione non sia controbilanciata da un afflusso di oro nelle casse della banca di emissione. Con la Palmer’s Rule del 1827 (dal nome del governatore John Horsley Palmer), la Banca d’Inghilterra cercò di regolare le variazioni dell’intera circolazione monetaria a quelle che si sarebbero verificate in una pura circolazione metallica (Viner 1968, 131). L’idea di fondo era quella di poter mantenere costanti le attività rappresentate da titoli, compresi gli sconti cambiari. Per questo un adeguamento delle passività alle variazioni delle riserve auree poteva lasciare alla Banca un margine di discrezionalità sia nel manovrare il rapporto tra circolante e depositi che nel rispondere alla diminuzione delle riserve auree prevalentemente con una riduzione dei depositi, lasciando quasi invariato il circolante. Tuttavia, secondo Viner (1968, 132), la «regola aveva il gravissimo difetto di non tener conto della necessità di mantenere costanti anche i depositi, se si voleva che il mantenimento dei titoli a un livello costante garantisse la corrispondenza tra le fluttuazioni del metallo prezioso e le fluttuazioni della circolazione cartacea». Riassumiamo brevemente il nocciolo di quell’importante dibattito ottocentesco che coinvolse principalmente due differenti scuole di pensiero riguardo ai temi monetari e bancari. La banking school (o scuola bancaria) condivideva con la currency school l’idea di un monopolio d’emissione, ma senza l’autorità superiore della banca centrale o altri tipi di regolazione, in accordo con la visione Questo E-book appartiene a Parte II - Moneta e debito 374 dell’economia politica classica che il mercato si autoregolasse e la moneta in circolazione si adeguasse perfettamente alle esigenze commerciali, senza dare origine ad effetti inflazionistici. A differenza della currency school, per cui la moneta è composta soltanto dalle banconote circolanti e dalle monete metalliche, per la scuola bancaria la moneta è composta dal circolante, dai depositi e dalle cambiali, per cui, nella misura in cui i depositi e le cambiali sono convertibili in denaro, nessun intervento pubblico può modificare la massa monetaria (idea condivisa con la scuola che ne era il recente predecessore, l’antibullionismo, della quale condivide molto ma non il monopolio di emissione – come vedremo più avanti). In altre parole, secondo la scuola bancaria, l’offerta di moneta non potrebbe essere controllata dalla banca centrale perché essa è, secondo un termine moderno, “endogena”. Con il Bank Charter Act del 1844, noto anche come Peel Act dal nome del suo ideatore il primo ministro inglese sir Robert Peel, venne rinnovato lo statuto della Banca d’Inghilterra secondo i principi della dottrina del currency principle, o principio monetario, in contrasto con le teorie del banking principle, o principio bancario, sostenute da Thomas Tooke, John Fullerton e James Stuart Mill. Col nuovo statuto si riconosceva una libera facoltà di emettere banconote anche a istituti di credito privati esentati da ogni controllo diretto del potere esecutivo, nonostante l’emissione della cartamoneta restasse uno dei privilegi statali; tuttavia la facoltà di emettere banconote era vincolata all’osservanza di regole rigide per assicurare la piena convertibilità e il mantenimento della fiducia (Giannini 2004, 1224, 147). La concessione della libertà di emettere banconote, sebbene sotto vincoli molto rigidi, ebbe un effetto paradossalmente inverso: quello di disincentivare i banchieri e le banche dal farne uso. Nella determinazione di questo paradossale effetto, intervennero sia il caso, come spesso succede nella storia, che una particolare sorta di posizionamento strategico delle forze in campo e di adozione di specifiche strategie. Per meglio spiegare le determinanti di questo effetto bisogna riferirsi a quanto era accaduto nel mondo bancario nei venti anni precedenti il Bank Charter Act. Il caso volle che la crisi del 1825 travolgesse un gran numero di piccole banche provinciali, con un massimo di sei soci, a responsabilità illimitata, rese fragili dall’inadeguatezza di fondi patrimoniali e dalla concentrazione dei Qu es to E- bo ok 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 375 u Q o es t k bo o E- rischi nelle economie distrettuali. In quell’occasione la Banca d’Inghilterra dette quasi fondo alle proprie risorse per scongiurare il diffondersi ulteriore dell’ondata di panico. Tale azione giocò a favore della Banca, perché nel 1833 giungeva a scadenza il proprio statuto e il parlamento doveva discutere l’opportunità del rinnovo. Nel 1826 il parlamento, temendo l’eccessiva concentrazione di potere nella Banca, aveva autorizzato la costituzione di nuove banche in forme societarie più solide. Le cosiddette joint-stock banks, ossia banche a “capitale congiunto” (o “in comune”), non erano altro che società per azioni, a responsabilità limitata. In questo modo, la legge estendeva la responsabilità limitata e l’emissione di azioni anche alle altre banche oltre che alla Banca d’Inghilterra, sempre in deroga al diritto comune che prevedeva il regime di autorizzazione; tale regime rimase in vigore fino alle leggi del 1856 e ’58, che estesero a qualunque altra iniziativa economica il diritto di costituirsi in forma di società per azioni. Ma la vicenda non terminava qui. Le banche societarie erano anche autorizzate ad emettere cartamoneta, purché fuori da un raggio di 65 miglia dalla City di Londra, in modo da salvaguardare il principio della libertà di emissione, senza tuttavia rischiare di demolire – attraverso una completa libertà di emissione – il solido pilastro del sistema bancario e della finanza pubblica rappresentato dalla Banca d’Inghilterra. Il parlamento continuò a esitare tra liberalizzazione e prudente pragmatismo. Avendo concesso la possibilità di emettere banconote anche a banche potenzialmente grandi, consentì, per par condicio, alla Banca d’Inghilterra di aprire filiali nelle maggiori città del regno. Inoltre, quando nel 1833 il parlamento rinnovò lo statuto alla Banca, alle banche private fu concessa la possibilità di entrare nel raggio delle 65 miglia. E qui intervenne una scelta strategica importante da parte delle banche private inglesi. Esse lasciarono perdere tale opzione, per due motivi, in primo luogo, per evitare un confronto diretto e, forse, uno scontro aperto con la Banca d’Inghilterra, in secondo luogo, per preferire l’adozione di una strategia di più ampio respiro. Infatti, le joint-stock banks avevano nel frattempo scoperto la propria vocazione, che consisteva nella rinuncia all’emissione di banconote, anche fuori dal raggio d’interdizione, e nel dar seguito a un’innovazione finanziaria consistente nel proporre un efficace sostituto del biglietto di banca. Infatti, con la diffusione del deposito trasferibile mediante assegno a ap p e rti en a ro im ffi s .2 on e @ 00 0 a gm om il.c gm ail . to E- bo ok ap pa rtie n ea rof fis im on e.2 potevano offrire ai risparmiatori e ai loro clienti un efficace mezzo di pagamento, succedaneo della moneta cartacea. Il modello di banca di deposito moderna divenne un’innovazione istituzionale di successo, realizzata su ampia scala, in base ai principi delle riserve frazionarie e del frazionamento dei rischi di credito attraverso la diffusione di filiali e operazioni di sconto e anticipazione a scadenze brevi. Le banche in forma societaria avevano scoperto la loro leva del credito: ad ogni apertura di credito la banca effettuava una doppia registrazione contabile, in dare e in avere, mettendo a disposizione del cliente una somma in deposito sulla quale poter trarre assegni fino all’ammontare delle somme concesse. Cominciava ad essere evidente che a “fare” il deposito era il credito (e non il risparmio). I dibattiti, le dicotomie teoriche e le occorrenze storiche relative al campo bancario britannico dell’800 permettono di illuminare anche le successive tesi sostenute dalla free banking school – rappresentata principalmente dalla scuola austriaca di Hayek e più tardi ben sostenuta da Rothbard. La free banking school dichiara di richiamarsi a Smith, attribuendo a costui la perorazione anche per il mercato bancario del principio del puro laissez faire: 0@ Parte II - Moneta e debito 00 376 Qu es Definiamo anche un sistema di free banking come uno in cui le banche sono trattate come qualsiasi altra attività commerciale sul libero mercato. Pertanto, non sono soggette ad alcun controllo o regolamento governativo e l’ingresso nel settore bancario è completamente gratuito. Esiste un solo “regolamento” governativo: che, come qualsiasi altra impresa, devono pagare i loro debiti prontamente o altrimenti essere dichiarati insolventi e messi fuori mercato. In breve, sotto il free banking, le banche sono totalmente libere, anche di impegnarsi in attività bancarie a riserva frazionaria, ma devono riscattare le proprie banconote o i depositi su richiesta, prontamente e senza cavillo, oppure essere costretti a chiudere le porte e liquidare le proprie attività (Rothbard 2008, 111). La critica più diffusa al free banking consiste nel ritenere che tale sistema non abbia controllo sull’offerta di moneta e, quindi, non sia in grado di contenere una espansione di tale offerta che avrebbe effetti inflazionistici esplosivi. Una prima risposta da parte dei sostenitori del free banking a questa critica recita come segue: Se creo una nuova banca Rothbard e inizio a stampare banconote e ad emettere depositi bancari dal nulla, perché qualcuno dovrebbe accettare 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 377 tali banconote o depositi? Perché qualcuno dovrebbe fidarsi di una nuova e nascente Rothbard Bank? Qualunque banca dovrebbe accumulare fiducia nel corso degli anni, con un record di rimborso rapido dei propri debiti verso i depositanti e i possessori di banconote prima che i clienti e gli altri sul mercato prendano sul serio la nuova banca. L’accumulo di fiducia è un prerequisito affinché qualsiasi banca possa funzionare, e ci vuole una lunga storia di pagamenti rapidi e quindi di operazioni bancarie non inflazionistiche, affinché tale fiducia si sviluppi (Rothbard 2008, 112). Rothbard, inoltre, individua altri tre limiti alla possibilità delle banche libere di eccedere nel credito e creare inflazione. Il primo è il postulato che, secondo lui, gli uomini sono prudenti e culturalmente primitivi, tanto da preferire fare prestiti contro oro o buoni del tesoro, per cui, allora, sia il credito bancario che l’estensione complessiva delle banche risulteranno limitati e quindi innocui: Questo E-book Ci sono altri limiti severi, inoltre, sull’espansione monetaria inflazionistica nell’ambito del free banking. Uno è la misura in cui le persone sono disposte a utilizzare banconote e depositi. Se creditori e venditori insistono nel vendere i loro beni o fare prestiti in oro o carta governativa e rifiutano di utilizzare le banche, l’entità del credito bancario sarà estremamente limitata. Se le persone in generale hanno gli atteggiamenti saggi e prudenti di molti uomini delle tribù “primitive” e si rifiutano di accettare qualsiasi cosa tranne la moneta d’oro in cambio, il denaro delle banche non crescerà o causerà il caos inflazionistico sull’economia. Ma l’estensione del settore bancario è una restrizione generale di fondo che è un piccolo bene prezioso una volta che le banche si sono stabilite (Rothbard 2008, 112). Un altro limite è la minaccia della “corsa agli sportelli della banca” (bank run) per ritirare i depositi e richiedere la redenzione delle banconote; questa è così deleteria per le banche da farle fallire in un baleno e quindi la minaccia è così terribile che le banche si limitano da sole nel credito: Un’arma più pertinente e magnificamente potente contro le banche è la terribile ‘corsa in banca’, un’arma che ha messo in ginocchio molte migliaia di banche. Una corsa in banca si verifica quando i clienti di una banca, i suoi depositanti o i loro possessori di banconote, perdono la fiducia nella loro banca e iniziano a temere che la banca non abbia realmente la possibilità di riscattare il proprio denaro su richiesta. Quindi, i depositanti e i possessori di banconote iniziano a correre alla loro banca Parte II - Moneta e debito 378 per incassare le loro entrate, altri clienti lo scoprono, la corsa si intensifica e, naturalmente, poiché una banca di riserva frazionaria è effettivamente intrinsecamente fallita – una “corsa” chiuderà rapidamente ed efficientemente la banca (Rothbard 2008, 112-3). Fortunatamente, il mercato offre un eccellente tipo di correzione quotidiana di severa limitazione all’espansione del credito nell’ambito del free banking. Funziona anche se la fiducia nelle banche da parte dei propri clienti è più intensa che mai. Non dipende quindi da una perdita psicologica di fiducia nelle banche. Questa restrizione vitale è semplicemente la clientela limitata di ogni banca. In breve, la Rothbard Bank (o la Jones Bank) è vincolata, in primo luogo, dal timore di una corsa alla banca (perdita di fiducia nella banca da parte dei propri clienti); ma è anche, e ancor più efficacemente, limitata dal fatto che, nel libero mercato, la clientela della Rothbard Bank è estremamente limitata. Il vincolo quotidiano per le banche nell’ambito del free banking è il fatto che i clienti richiederanno, per definizione, il rimborso alla banca (Rothbard 2008, 113). e Qu st -b oE o a ok p rtie a p a ne r Infine l’ultimo limite viene posto dalla ridotta quota di mercato di ciascuna banca, e questo limite non dipende dal fatto che gli individui siano prudenti e poco fiduciosi, come nei casi precedenti, ma funziona anche se i clienti di ogni banca fossero molto fiduciosi in esse, in quanto essi sono molto frazionati: Peraltro, quanto i quattro limiti, postulati dai fautori del free-banking, siano convincenti è lasciato giudicare al lettore5. Poiché il principio del free banking consiste nel trattare le banche come qualsiasi altra impresa su un mercato libero, senza controlli governativi particolari o restrizioni all’ingresso e all’uscita, per cui le banche, come ogni altra impresa, o soddisfano le obbligazioni contratte o sono dichiarate insolventi, la free banking school si schierò nettamente contro il monopolio della banca centrale, vedendolo come una restrizione della concorrenza. In modo analogo a quanto avanzato dalla real bills doctrine, tale principio dovrebbe preservare la neutralità rispetto alla moneta – ovvero un’offerta di moneta sempre adeguata alla domanda – almeno finché le banche si limiteranno a scontare cambiali commerciali. Importanti lavori di sintesi e di approfondimento in Goodhart (1991) e Giannini (2004). 5 Questo E-book appartiene a roff 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 379 L’implicazione del dibattito fra queste differenti scuole riguarda la natura della creazione della moneta. La visione di questa natura è dicotomica: la moneta è esogenamente creata dall’autorità monetaria con le sue politiche (currency school) oppure è endogenamente creata dall’attività economica stessa al di fuori del controllo dell’autorità monetaria (scuola bancaria e scuola del free-banking). Rotelli (1982) discute l’interessante tesi che nelle idee di Thornton siano già presenti elementi keynesiani: egli sembra infatti assumere una posizione intermedia rispetto alle due scuole contrapposte sopra indicate, in quanto ritiene che un aumento dell’offerta di moneta stimoli anche positivamente la produzione aggregata, cosa negata dai bullionisti (che vedono l’effetto dell’aumento della moneta solo in un aumento dei prezzi) e ignorata dagli antibullionisti (che ritengono l’aumento dei prezzi la causa di un successivo aumento della moneta). Inoltre, in quegli anni, le crisi, e il corrispondente dibattito, fanno emergere un’altra dicotomia che è risultata decisiva fino ai nostri giorni, quella rispetto al ruolo della spesa pubblica in deficit, considerata inutile se non dannosa (Ricardo) oppure utile per uscire dalle crisi (Malthus). Infatti Rotelli (1982), mettendo a fuoco le due crisi vicine del 1818-1822 e del 1825 – in cui si era assistito al ritorno alla convertibilità nel 1821, preceduta da alcune fasi di surplus della bilancia dei pagamenti e caratterizzata da una politica deflazionistica della banca centrale (che, in conseguenza di quei surplus, riduce le sue emissioni, provocando una caduta del livello generale dei prezzi) – analizza l’ampio dibattito sulle cause delle due crisi e osserva come questo abbia una corrispondenza con quello del secolo successivo e anche con quello contemporaneo: infatti si confrontano in quel dibattito la posizione di Malthus, per cui la crisi di quegli anni è dovuta a carenza di domanda, in assenza di interventi pubblici correttivi, come sarebbe, p.e., l’espansione della spesa pubblica in deficit, con quella di Ricardo, per il quale, invece, tale intervento pubblico ci sarebbe stato ma senza ottenere gli effetti sperati, anzi ottenendo semplicemente la sostituzione della spesa pubblica a quella privata: si tratterebbe quindi, in altri termini, del cosiddetto crowding out, ovvero della dicotomia nella politica economica odierna, che schiera, da un lato, i keynesiani e, dall’altro, i monetaristi. 380 Parte II - Moneta e debito 13.2. Le implicazioni della formazione del tasso di interesse fra oggettività del mercato e sovranità politica È quindi evidente che il tasso di interesse è un fenomeno altamente psicologico. (Keynes 1936, 392, cap. 15, II) L’interesse fa dal denaro più denaro, e da questo ebbe origine anche il suo nome (tóxos: interesse e nato). In quanto i nati sono simili ai loro genitori. E l’interesse è denaro originato dal denaro, in maniera che esso è, tra tutti i modi di guadagno, quello maggiormente contro natura. (Marx 1976, 104 [4, 2]) Tra la psicoanalisi e il tempo, come tra la psicoanalisi e il denaro, il termine intermedio è la religione. Gli economisti e gli scienziati devono rendersi conto che quando trattano del tempo trattano sempre di una religione. (Brown 1986, 307) Un breve accenno ad un’altra controversia pluri-secolare è illuminante per la comprensione delle dicotomie fra intervento pubblico e laissez faire e fra moneta “neutrale” o meno, che, in effetti, sottostanno a tale controversia. Si tratta della controversia sulla determinazione del tasso di interesse. Naturalmente tale controversia contiene molte sfaccettature e può essere affrontata da punti di vista multipli, basta pensare alla connessione dell’interesse con il tempo e quindi la profondità filosofica, teologica, psicologica di questo nesso6. Qui ci limitiamo ad osservarla dal punto di vista della politica, della sovranità, della decisione di ultima istanza e del conflitto traslati nella dimensione economica. Per i mercantilisti del ’6007 come per i keynesiani contemporanei, il tasso di interesse è un fenomeno monetario: l’abbondanza di moneta riduce il 6 Vedi, per esempio, Brown (1986, 306-8). Chissà se Hicks fosse stato consapevole del ginepraio in cui avrebbe ficcato l’economia (se gli economisti odierni, in genere, fossero più aperti ad approcci interdisciplinari e meno dogmatici) quando affermò che il tasso di interesse è il prezzo del tempo. 7 Per esempio, alcuni mercantilisti inglesi, commentando favorevolmente l’abbassamento del saggio legale di interesse al 6% nel 1650, affermarono chiaramente che questa riduzione era stata in realtà permessa dal fenomeno dell’abbondanza di moneta: «Sir Joshua Child […] sostenne anche che il provvedimento era stato reso possibile dall’abbondanza del denaro in circolazione […] Sir William Petty […] affermava infatti che la diminuzione del saggio di interesse era dovuta unicamente all’aumento della quantità di moneta in circolazione» (Denis 1968, I, 133). Questo E-book appartiene a 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 381 tasso di interesse e questo avrebbe anche il pregio di rendere prospera l’economia8. Per Hume (nel saggio Sull’interesse), invece, il tasso è un effetto della prosperità economica e di altre condizioni “reali” che, nel loro insieme, «determinano i profitti commerciali e la proporzione tra prestatori e mutuatari» (Hume 1971, 715). La tesi di Hume fu ripresa dal liberalismo classico di Smith e Ricardo e, poi, di Wicksell e di tutti i neoclassici e neoliberali, sebbene Wicksell come poi Irving Fisher, pur restando neoclassici, sviluppano una relazione tra tasso d’interesse nominale, fissato dalle banche, e quello “reale” (relazione che sarà seguita da Friedman e da tutti i “nuovi macroeconomisti classici” contemporanei che da lui riprendono), secondo la quale una elevata offerta di moneta non causa riduzioni del tasso di interesse, perché questo è di fatto determinato dal tasso di profitto sul capitale reale (v. par. 13.3): egli [Hume] sostiene altresì che l’abbondanza di denaro non è la causa della diminuzione del saggio dell’interesse. Questo, a suo avviso, dipende dall’entità dei profitti che vengono realizzati nel commercio e nell’industria; […] Keynes […] ha tentato di riesumare la teoria mercantilistica della determinazione del saggio dell’interesse (Denis 1968, I, 187). Quindi, non dovrebbe sfuggire il fondamentale significato politico della dicotomia di visioni sulla determinazione del tasso di interesse. Tuttavia le idee in gioco si allargano qui anche a Marx. Vediamo di spiegarci meglio. Per Hume e tutti i successivi liberali, è il saggio di profitto sul capitale reale che conta e che regola tutto, la moneta è solo un “velo” che consente gli scambi e, quando di essa si abusasse in eccesso o in difetto (a causa dei politici), l’unico effetto sarebbe l’inflazione o la deflazione. Per Marx, non è la moneta il “velo” che consente gli scambi commerciali profittevoli, ma sono gli scambi commerciali il “velo” che permette la magica accumulazione di denaro. Solo che in Marx, dietro alla magia del denaro che lievita, vi è un’altra metafisica, quella del lavoro astratto che ne consente la lievitazione; da qui emerge Qu es to E- bo La convinzione che bassi tassi di interesse siano benefici è anche all’origine della giustificazione dal punto di vista economico della proibizione (teologica) dell’usura, giustificazione che appare in Smith come in Keynes (1936, 544-6 [23, V]). 8 ok ap pa rtie ne ar of E Parte II - Moneta e debito sto e u Q 382 la cruciale teoria dello sfruttamento e del pluslavoro come generatore del plusvalore e del saggio del profitto sul capitale reale. Chi, invece, come Keynes, fa determinare il saggio di interesse dal mercato monetario e, quindi, da questo fa derivare l’investimento in capitale reale, trasforma tale determinazione in una scelta politica di fondo, nella misura in cui il mercato monetario è sotto il controllo sovrano (banca centrale e governo): il saggio del profitto come determinazione politica. Peraltro, la natura stessa dell’interesse è una questione di non facile definizione. Per Keynes l’interesse è un fattore eminentemente psicologico e convenzionale. Per Marx l’interesse non è determinato come il prezzo delle altre merci dalla teoria del valore-lavoro, ma da qualcosa di irrazionale, la cui spiegazione non può che assumere i tratti della teologia: Se si vuol chiamare interesse il prezzo del capitale monetario, si tratta di una forma irrazionale del prezzo, assolutamente in contraddizione con il concetto del prezzo della merce. […] Interesse come prezzo del capitale è a priori un’espressione del tutto irrazionale. La merce ha qui un duplice valore, in primo luogo un valore, e poi un prezzo, diverso da questo valore, ove il prezzo è l’espressione monetaria del valore. […] Un prezzo che differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda (Marx 1894, 489-90 [cap. 21]). Tuttavia, più avanti, Marx afferma che è al di fuori del processo di produzione – quindi non creato dal lavoro – che si genera l’interesse, ovvero esso è generato dalla semplice proprietà del capitale: Dal punto di vista qualitativo, l’interesse è il plusvalore fornito dalla semplice proprietà del capitale, prodotto dal capitale in sé, sebbene il suo proprietario rimanga al di fuori del processo di produzione; che è prodotto quindi dal capitale separato dal suo processo (Marx 1894, 520 [cap. 23], il corsivo di “proprietà” è aggiunto). Ma il denaro in sé, in quanto posseduto da privati, dice Marx, è potere: il denaro, e parimenti la merce, in sé e per sé, sono capitale in modo latente e potenziale, che essi possono essere venduti come capitale, rappresentando in questa forma il potere di disporre di lavoro altrui […] è il titolo e il mezzo per appropriarsi lavoro altrui (Marx 1894, 491-2 [cap. 22]). 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 383 to Ques L’interesse quindi nasce perché il possesso di denaro è il potere di comando e di appropriazione sul lavoro degli uomini. È questa definizione dell’origine qualitativa dell’interesse vista nella proprietà, che permette a Brown di sostenere come la vera essenza del denaro dipenda dalla proprietà, ovvero dal potere, e il potere rimanda all’ambito del sacro9. Come peraltro al sacro rimanda la consuetudine, e Brown sottolinea come la “strana stabilità nel tempo dei tassi d’interesse” suggerisca una caratteristica tipica dell’economia arcaica in cui i prezzi sono rigidamente stabiliti dalla consuetudine e non dalla domanda e dall’offerta10. A lato di Keynes e a lato di Marx11, si situa poi lo smascheramento che Sraffa (1960) compie12 della determinazione “fisica” e a ene parti ok ap E-bo «La categoria fondamentale dell’economia è il potere; ma il potere non è una categoria economica. Marx riempie la lacuna che si manifesta nella sua teoria con il concetto di forza (violenza), cioè con la concezione del potere come realtà materiale. Abbiamo sostenuto altrove che questo è un errore gravissimo; il potere è una categoria essenzialmente psicologica. E, per trovare le origini del potere, dovremmo affrontare ed esaminare l’ambito del sacro: il potere è sempre fondamentalmente sacro. Qui ancora una volta il problema cruciale è la comprensione dell’uomo arcaico e dell’economia arcaica» (Brown 1986, 283). 10 «Può darsi che il tasso di interesse sia un altro residuo sacro nel mondo profano dell’economia moderna. Il tasso di interesse non è forse fondamentalmente determinato dalla consuetudine e non dalla domanda e dall’offerta? Ma se si fa questa concessione, ci si deve spingere oltre e cercare che cosa determini la consuetudine. Questa, per la teoria sociologica, è fondamentalmente sacrale, e perché il caso del tasso di interesse dovrebbe costituire un’eccezione?» (Brown 1986, 280-1). 11 È curioso, ma anche significativo della portata ineliminabile delle grandi dicotomie del pensiero, da Platone a Pirrone, da Hegel a Hume, e forse da Marx a Sraffa, come Sraffa affermi, quale scopo ultimo del suo lavoro, quello di voler liberare Marx dalla metafisica hegeliana (cosa che anche altri hanno sostenuto di voler fare), ma per sostituirla col pensiero di Hume: «una riaffermazione di Marx, sostituendo alla sua metafisica e terminologia hegeliana la nostra propria metafisica e terminologia moderna: per metafisica qui intendo, suppongo, le emozioni che sono associate alla nostra terminologia e cornici [schemi mentali] – cioè, ciò che è assolutamente necessario per rendere viva la teoria (lebendig), capace di assimilazione e per nulla intellegibile. Se questo è vero, è un esempio eccezionale di quanto una differenza nella metafisica possa renderci assolutamente incomprensibile una teoria altrimenti perfettamente sana. Questa sarebbe semplicemente una traduzione di Marx in inglese, dalle forme della metafisica hegeliana alle forme della metafisica di Hume» (Sraffa, manoscritto datato End of November 1927 (D3/12/04), cit. in Lucarelli 2004). 12 «In questo libro schematico ed enigmatico si dimostra, in un centinaio di pagine, l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profit9 e.20 imon roffis com mail. g 00@ 384 Parte II - Moneta e debito “naturale” del saggio di profitto, invocata, sebbene in modi diversi, dal pensiero classico e neoclassico (quest’ultimo per visibile contrapposizione alla teoria marxiana). L’analisi di Sraffa è stata comparata con quella di Marx in un dibattito ampio all’inizio degli anni ’70. Al contrario di chi sostiene «che i risultati teorici di Sraffa vadano integralmente rivendicati alla tradizione marxista» (Ginzburg e Vianello 1973, 19), altri sottolineano invece almeno tre elementi per i quali tali risultati esulano dalla teoria di Marx: 1) l’assenza di qualsiasi riferimento al lavoro necessario a produrre una merce, ovvero alla teoria del valore-lavoro legata indissolubilmente allo sfruttamento capitalistico della forza lavoro; 2) il lavoro assorbito nel processo lavorativo diventa un dato tecnico: determinato, appunto, dalle caratteristiche tecniche dei mezzi di produzione impiegati; 3) profitto e salario sono semplici frazioni del reddito nazionale qualitativamente indistinguibili fra loro, e il sovrappiù che si dividono viene lasciato come determinato esternamente quale fatto tecnico, senza che se ne possa indagare l’originaria formazione, e attribuendo implicitamente al capitale l’irrisolto, anzi neppure mai indagato, mistero di come esso possa produrre un sovrappiù; insomma senza sciogliere quell’intricato capriccio teologico intuito da Marx che consente di nascondere nell’apparenza di un oggettivo rapporto fra cose il sottostante rapporto sociale fra uomini, lavoratori e capitalisti. Infatti, come sostiene Cini, nell’analisi di Sraffa si assume anche se implicitamente, che siano le proprietà oggettive naturali delle cose a determinare in che modo gli uomini lavorano […] Scompare così proprio quella spiegazione scientifica dello sfruttamento che è uno dei risultati più importanti dell’analisi marxiana, per ridursi alla banale constatazione che se aumenta il saggio del profitto diminuisce il Que sto E -boo k ap parti ene a rof to possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di mezzi di produzione eterogenei […] allora non è possibile nemmeno misurare il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. […] Ne deriva che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è dimostrabile: non esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti alquanto ampi entro i quali le quote distributive possono variare, ed entro tali limiti la situazione viene determinata in primo luogo dalle influenze storiche esercitate gradualmente dalle forze sociali e politiche» (Lucarelli 2004, 26, corsivo nostro). fisim one 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 385 saggio del salario. Il modello di Sraffa comporta perciò una separazione completa fa produzione da un lato, considerata sfera di pertinenza di una tecnica che è frutto di un rapporto uomo natura privo di connessione con la società, e distribuzione dall’altro, vista come unica arena della storia e dei rapporti fra gli uomini (Cini 1976, 165-6). Qu es to Eb oo tie ar pp ka 13 «Paradossalmente, nell’impostazione di Sraffa, il problema dei classici (e di Marx) – quale sia l’origine e la sostanza del valore delle merci, e con esso il problema marxiano della trasformazione – vengono soppressi […] Sraffa ci dice che per determinare i prezzi e il saggio del profitto, così come non occorre riferirsi a quantità di lavoro, non occorre nemmeno riferirsi a utilità soggettive (e quindi diventa superflua anche una teoria del valore utilità […]). La teoria dei prezzi diviene così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore. La teoria del valore, tuttavia, non è una parte della teoria economica come le altre, che si possono giudicare erronee per il principio di non contraddizione quando non rispettano le regole del calcolo, o superflue per il principio di Occam quando le rispettano, poiché ci si chiede se la struttura economica della società sia retta da uno scambio tra uguali oppure da un rapporto di sfruttamento» (Lucarelli 2004, 44-5). ne Ma senza entrare in questo dibattito, pur ritenendo giustificabili in parte entrambe le posizioni che in esso si sono contrapposte, noi vogliamo sottolineare soltanto l’aspetto che qui rileva (e che è anche, incidentalmente, uno degli elementi di critica verso Sraffa sopra visti): Sraffa trasporta in una sfera esterna all’economia in senso stretto l’antagonismo più immediato fra lavoro salariato e capitale, consegnandolo all’ambito del “politico” (e non della tecnica oggettiva). Il secolare confronto-scontro fra capitalismo e sovranità politica, di cui qui abbiamo fatto emergere il campo di battaglia monetario e bancario, è anche antagonismo fra lavoro salariato e capitale. E lo è in modo manifesto proprio sul tema della determinazione e del controllo del tasso d’interesse. Se Sraffa, con la sua teoria, spoglia di ogni ruolo, come sostenuto in parte nel dibattito sopra visto, la teoria marxiana del plusvalore13, però ne cristallizza indelebilmente il messaggio conflittuale, quello della lotta di classe fra capitale e lavoro, e riconsegna ancora al potere politico la sovranità, nella misura in cui esso può, keynesiamente, decidere il livello del tasso di interesse e quindi del tasso di profitto del sistema economico. Parte II - Moneta e debito 386 La gestione politica sovrana del tasso di interesse da parte di un governo democratico (che ispiri pratiche e obiettivi della banca centrale) implicherebbe quindi che il grado del potere di comando sul lavoro altrui – l’essenza del denaro nella società capitalistica – possa essere soggetto, in ultima analisi, ad una scelta democratica. Questo E -book app artiene a roffisimo 13.3. Cenni alle dottrine di politica monetaria e bancaria la storia diplomatica è correlata alla storia finanziaria. (Pantaleoni 1916) Non ci sono due caratteri più incompatibili tra loro di quelli del commerciante e del sovrano. (Smith 1776, 666). Con usura nessuno ha una solida casa | di pietra squadrata e liscia | per istoriarne le facciate, | con usura | non c’è chiesa con affreschi di paradiso | harpes et luz | e l’Annunciazione dell’Angelico | con le aureole sbalzate, | con usura | nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine | non si dipinge per tenersi l’arte | in casa ma per vendere e vendere | presto e con profitto, peccato contro natura. (Pound 1977, Canto XLV) Schumpeter fa risalire la controversia e la grande dicotomia teorica sulla moneta a Platone e Aristotele, i quali espressero due visioni contrapposte sulla natura e sulle origini della moneta, con implicazioni rilevanti sulle politiche generali da adottare in materia di moneta, di credito e di regolazione dell’intera economia. Da una parte, Schumpeter afferma che Platone, in un passaggio della Repubblica (II, 371b), assegna alla moneta (σύμβоλоν) la natura di un segno di valore, di un money-token. Quest’idea simbolica della moneta è perciò coerente con i canoni platonici di politica monetaria fondati sull’ostilità verso l’uso dell’oro e dell’argento, sull’assegnare alla moneta un valore solo entro un ambito comunitario del tutto «in armonia con le conseguenze logiche di teorie che sostengono che il valore della moneta è, in via di principio, indipendente dalla natura di cui è fatta» (Schumpeter 1954, 70 [I, 2]). E, sempre Schumpeter attribuisce ad Aristotele la teoria alternativa della moneta quale moneta-merce, non diversa da altre merci, accettata per il suo “valore intrinseco”, cioè quelle teorie monetarie definite da 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 387 Mises “catallattiche” (dal καταλλάττω, scambiare), perché fanno derivare la moneta dalle funzioni di mezzo di scambio, quindi la moneta intesa come creatura non simbolica, bensì materiale, il cui valore, come quello di ogni altra merce, non dipende da meccanismi di potere e di illusione, ma da domanda e offerta. Schumpeter (1954, 79 [I, 5.b]) riconosce tuttavia che Aristotele sostiene anche l’idea opposta. In un passo dell’Etica nicomachea, «giocando sulla parola greca di moneta corrente (νóμισμα), Aristotele affermò che la moneta esiste non già per “natura”, bensì per tacita convenzione o per leggi (νόμω)». Schumpeter non sembra però scoraggiato da quel passo, che intende la moneta come istituzione anziché come merce, e insiste nel ritenere Aristotele sostenitore della tesi della moneta-merce, «mutata o demonetizzata dalla collettività», per cui «l’uso generale, o la legislazione, decide soltanto quale debba essere la materia con cui si deve coniare la forma da dare alla moneta coniata» (idem)14. Schumpeter, come, peraltro, molti altri, considera l’analisi aristotelica come un’indagine sull’ etica dei prezzi nello scambio ed Aristotele come un filosofo interessato alle questioni morali piuttosto che a quelle economiche, cosa che si comprende bene dal suo lapidario giudizio sullo Stagirita, afflitto, secondo lui, da «un senso comune decoroso, anzi pedestre, un tantino mediocre e più che un tantino pomposo» (Schumpeter 1954, 70). La critica dell’interpretazione schumpeteriana di Aristotele (Campese 1977; Taccola 2016) mette in evidenza, come già aveva mostrato Polanyi (1957a), che, al contrario, il filosofo greco tocca alcuni punti nevralgici della futura economia politica, quali i fondamenti ontologici dello scambio, la domanda di beni e la natura della moneta. Tre sono le “scoperte” di Aristotele “economista” che merita qui sottolineare: i) i concetti di valore di uso e di scambio (il già citato esempio nella parte I del doppio uso delle scarpe che possono essere calzate oppure scambiate con altre merci); ii) la doppia natura del denaro, sia mezzo che fine dello scambio, sia partico- ffi ro ne a rtie pa k ap o -bo E o t ues Q Sull’“ambiguità” aristotelica in materia monetaria si veda comunque Meikle (1995). 14 .2 ne simo 388 Parte II - Moneta e debito -bo oE est Qu lare che universale, particolare in quanto esso stesso tipo qualitativo di merce (moneta in metallo), universale in quanto tutto può essere espresso in denaro e comprato dal denaro; iii) la necessità di trovare una sostanza comune che fornisca una dimensione comune alle merci altrimenti “incommensurabili” e questa essenza comune non può fornirla il denaro – che, pure, a causa della sua doppia natura, è qui un ingannatore – poiché esso è, in realtà, solo una unità di misura. Aristotele rileva che i prodotti del lavoro di un costruttore, la casa, e di un calzolaio, le scarpe, essendo valori d’uso diversi, saranno anche beni “qualitativamente” diversi. In tre passi delle sue opere Aristotele pone sia la questione basilare dello scambio sia quella del vero ruolo della moneta in esso, sia infine trae le drastiche conclusioni. Rispetto alla natura dello scambio, premette che «tutte le cose di cui si dà scambio devono essere in qualche modo commensurabili» (Aristotele 2005, 649 [V, 1133a 18-19]). Rispetto alla natura della moneta osserva «che è diventata in qualche modo un elemento intermedio; infatti misura tutto, e quindi misura sia l’eccesso sia il difetto, e quindi anche quante scarpe siano uguali a una casa o a del cibo» (idem, 650 [V, 1133a 20-23]). Infine, avendo in mente ancora l’esempio di casa e scarpe, conclude che «[i]n verità è impossibile che realtà talmente differenti diventino commensurabili» (idem, 653 [V, 1133b 19-20]). Nella Metafisica Aristotele descrive la caratteristica basilare della misura, cioè quella di essere “omogenea” alla cosa misurata: «la misura appartiene allo stesso genere delle cose che debbono essere misurate, e la misura delle grandezze è una grandezza, e, in particolare, è una lunghezza per le lunghezze, una superficie per le superfici, un suono per i suoni, un peso per i pesi, un’unità per le unità» (Aristotele 1995, 441 [X, 1053a 25-28]). Secondo Meikle (1995, 22), Aristotele sta così affermando con chiarezza che si può dare una misura solo laddove esista commensurabilità. Se, quindi, la moneta è solo una semplice unità di misura, ecco svelato il suo effetto ingannevole sotteso alla sua duplice natura di particolarità e universalità: la moneta non può risolvere il problema tutto ontologico della commensurabilità dei beni. La conclusione drastica pone un formidabile problema per la fondazione dell’economia politica, come ben si accorgerà Marx. ok ea ien art app one sim fi rof gm 00@ .20 Ebo o Qu es to 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 389 Come può essere valutata la “giustizia” di uno scambio fra “incommensurabili”? Se non vi è modo di garantire ontologicamente una qualche equivalenza fra la “qualità” e la “quantità”, allora anche lo scambio può essere “ingiusto”. Ma va sottolineato qui che ciò che pone Aristotele non è un problema etico ma un problema che va ai fondamenti dell’economia politica: il problema della natura stessa dello scambio, che richiede, come se fosse un fatto scontato e naturale, la “commensurabilità” dei beni. Quest’ultima è infatti assunta come un fatto tautologico – ovvero lo scambio è naturale, si scambia perché si scambia – dall’economia politica, che si concentra invece nella ricerca e nell’analisi della misura che li renda commensurabili, cioè il denaro. Ma, se come argomenta Aristotele, quella “commensurabilità” è ontologicamente viziata e la moneta può essere una misura di essa ma non il suo fondamento, ecco che un’aporia logico-ontologica vizia alla base le fondamenta dell’economia politica. Per questo Marx loda il «genio [che] risplende di Aristotele» (Marx 1867, 73 [I.3]) e si pone egli stesso alla ricerca della soluzione di tale aporia, cercandolo in quella sostanza che precede e unifica valore d’uso e valore di scambio, ovvero il “lavoro umano uguale in astratto”. Marx riconosce che secondo Aristotele il denaro esprimerebbe il valore di una merce in una qualsiasi altra merce nel momento in cui afferma che l’equivalenza 5 letti = 1 casa non differisce da quella 5 letti = tanto di denaro, ma nella sua profonda ricerca di un concetto unitario di valore, cioè di quella sostanza comune che «nella espressione di valore del letto la casa rappresenta per il letto», Aristotele giunge a una conclusione scoraggiata, perché «una cosa del genere “in verità non può esistere”». Marx allora omaggia la splendente genialità del filosofo greco, riconoscendogli che solo per le limitate condizioni storiche in cui visse non raggiunse la conclusione a cui arriva, evidentemente stimolato dalla sua analisi, Marx stesso: «La casa rappresenta qualcosa di uguale nei riguardi del letto in quanto rappresenta quello che è realmente uguale in entrambi, nel letto e nella casa. E questo è lavoro umano» (Marx 1867, 73 [I, 3] con qualche variazione nella traduzione). Che la teoria del valore-lavoro, e quindi della critica più forte alle basi dell’economia politica, trovi ispirazione nell’indagine di Aristotele sulla natura della moneta e dello scambio non può risultare più evidente che da queste considerazioni marxiane 390 Parte II - Moneta e debito -bo oE est Qu sopra riportate. Come osserva Taccola, in conclusione del suo lavoro, Aristotele «ha illuminato la via verso la decifrazione dell’arcano della forma valore» (Taccola 2016). Annotiamo anche che Aristotele è “sociologo”, in quanto, se da “economista” coglie i concetti di valore d’uso e di scambio e la natura duplice della moneta, è, però, anche capace di connettere tali concetti con la situazione socio-politica della società ateniese, come Marx gli riconosce. È nella doppia natura del denaro, che diventa innesco e fine dello scambio, oggetto di illimitata accumulazione nel suo ruolo di rappresentante universale della ricchezza, che Aristotele rintraccia il cambiamento strutturale in atto nella polis. Un cambiamento strutturale di cui sono portatori coloro che, diversamente dagli altri cittadini, si dedicano alla crematistica innaturale, coloro la cui attività è legata al denaro. È il denaro che cambia le relazioni sociali e di questo cambiamento sono causa mercanti e banchieri, in genere figure mediocri, stranieri, meteci, ai margini della società (vedi parte I). Ma Aristotele osserva anche che il passaggio del ruolo del denaro da mezzo a fine coinvolge pure figure sociali non direttamente mercantili e marginali, come il sofista, il medico e il soldato, che perdono l’obiettivo del loro proprio fine – rispettivamente la scienza, la salute e la vittoria – per perseguire invece anch’essi il fine del profitto e dell’accumulazione di denaro (Aristotele, Politica, 1258a 10-14). A partire dalle contrapposte visioni generali sulla moneta sopra discusse, notiamo che, focalizzandosi più specificamente nel campo economico-monetario, è soprattutto l’aspetto politico-economico della moneta ad apparire sostanzialmente dicotomico, e queste doppiezze appaiono in più elementi di esso. Almeno duplici sono gli strumenti della politica monetaria. Almeno duplici sono i meccanismi di trasmissione della medesima. Almeno duplici sono le costituzioni delle banche centrali, intese nel senso delle loro possibili differenti relazioni col settore pubblico (e in particolare col governo) e con quello privato. Duplici sono anche gli obiettivi della medesima banca centrale. Ma duplice è anche la visione teorica dell’economia monetaria, divisa fra chi pensa che, detto in soldoni, la moneta non abbia effetti reali (sia soltanto come un velo che ricopre il mondo economico reale senza influenzarlo) o invece ce li abbia e anche molto significativi. Anche in questo caso, non interessa ok ea ien art app on sim fi rof to Qu es 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 391 qui valutare la correttezza teorica e l’efficacia empirica dell’uno o dell’altro, ma cercare di capire, aldilà dei tecnicismi bancari e delle valanghe di analisi empiriche contrastanti, quali siano state le origini storiche e le motivazioni più profonde delle varie posizioni in conflitto. Inizieremo dalle prime due dicotomie sopra accennate, che, per semplicità, consideriamo come una sola. Qualsiasi manuale elementare ci ricorda che due sono le dottrine di intervento di politica monetaria da parte della banca centrale: i) controllare l’offerta di moneta; ii) controllare il tasso di interesse. Due sono i meccanismi di trasmissione: con la prima dottrina, si agisce sulla base monetaria, che attraverso il meccanismo del cosiddetto moltiplicatore monetario determina l’offerta di moneta, attraverso la modifica delle riserve delle banche (per esempio, con l’uso dei coefficienti di riserva obbligatori o l’imposizione di vincoli quantitativi (ceilings) su depositi e crediti erogati); con la seconda dottrina, la banca centrale presta ad un certo tasso alle banche commerciali (per esempio con operazioni pronti contro termine) e, quindi, questo tasso diventa il benchmark rispetto al quale saranno adeguati i tassi praticati dalle banche e diffusi nel resto dei mercati finanziari (se la banca centrale, per esempio, aumenta il tasso richiesto, i tassi di interesse saliranno e nell’economia si ridurranno consumi e investimenti)15. 15 Un classico esempio di forma di prestito di denaro alle banche è attraverso una vendita di titoli pronti contro termine a scadenza breve (per esempio due settimane). Se il tasso ufficiale sul prestito è cambiato, il cambiamento si trasmette (sebbene in una misura quantitativa che può anche non essere esattamente uguale a quella del tasso ufficiale) in modo relativamente rapido, da un lato, ai tassi del mercato monetario a breve (per esempio ai pronti contro termine con scadenze ravvicinate e ai prestiti interbancari), dall’altro sia al tasso base sui prestiti che le banche erogano, sia ai tassi che le banche corrispondono ai risparmiatori (ovviamente per le banche il margine tra tassi di deposito e tassi di prestito dipende anche dalla struttura concorrenziale del mercato in cui esse sono situate; va inoltre ricordato che le banche possono finanziarsi anche con obbligazioni, prestiti interbancari e depositi). Tuttavia, a parte l’effetto sul mercato monetario a breve che è univoco come sopra visto, meno facile è conoscere l’effetto quantitativo di un determinato cambiamento del tasso ufficiale su tutti gli altri tassi di interesse, sul tasso di cambio e sui mercati finanziari in generale. Questo perché la trasmissione del cambiamento a questi ultimi dipende crucialmente – come mostrato dalla recente teoria economica monetaria – da due condizioni, del tutto esterne al controllo della banca centrale: i) il grado di “sorpresa”, o, alternativamente, di anticipo del cambiamento del tasso ufficiale; ii) il grado di influenza e mutamento che il cambiamento del tasso ufficiale esercita ien t r a pp a ok o b Eo t es 392 Parte II - Moneta e debito Qu Differenti sono anche gli obiettivi “politici” della politica monetaria della banca centrale: nella storia se ne possono enucleare due, la piena occupazione e la stabilità dei prezzi (un terzo può essere la stabilità dei cambi), teoricamente confliggenti fra loro, come lo sono Keynes e Hayek, e che quindi costituiscono, quando tenuti insieme, un tentativo di compromesso politico fra due incompatibili visioni dell’economia e della società. Non è un caso che, per esempio, la Banca d’Inghilterra li contempli entrambi, mentre la BCE contempli solo il secondo. Naturalmente, è cruciale definire preliminarmente i concetti chiave – come in ogni indagine di storia delle idee in qualunque ambito – della politica monetaria, di cui mostreremo le contrapposte visioni, perché, come nota Bindseil una serie di equivoci sono sorti nel campo dell’attuazione della politica monetaria a causa di definizioni ambigue o variabili di alcuni concetti chiave […]. I termini sono divisi in due gruppi, quello relativo all’“attuazione” (o implementazione) della politica monetaria e quello relativo alla “macroeconomia monetaria” (Bindseil, 2004, 8). Così per quanto riguarda l’implementazione della politica monetaria, vanno distinte tre componenti: 1) la scelta di un obiettivo operativo della politica monetaria, cioè una variabile sulle aspettative sia delle future azioni di politica monetaria che, soprattutto, del futuro economico in generale. Questo è il motivo della sorprendente ambiguità della direzione della trasmissione ai tassi di interesse non a breve: infatti, se l’impatto del cambiamento del tasso ufficiale su altri tassi a breve termine conserva il segno (anche se non la esatta quantità) del cambiamento, l’impatto sui tassi di interesse nel lungo termine può avere un segno opposto: per esempio, se un aumento del tasso ufficiale oggi generasse un’aspettativa di una riduzione dei tassi di interesse futuri, allora potrebbe accadere che i tassi a lungo termine si riducessero a fronte di un aumento di quelli a breve. Lo stesso meccanismo delle aspettative potrebbe rendere ambigui sia gli effetti sui mercati dei titoli che sul tasso di cambio, sebbene gli effetti standard ceteris paribus sarebbero, nel caso per esempio di un aumento del tasso ufficiale oggi, una riduzione del valore dei titoli perché i rendimenti futuri – ammesso che si attendano tassi di interesse a lungo termine più elevati – sarebbero scontati ad un tasso più alto, e un immediato apprezzamento della valuta nazionale nel mercato dei cambi, dovuto al fatto che i più alti tassi di interesse interni, in rapporto agli interessi su equivalenti attività in valuta estera, rendono le attività in valuta nazionale più attraenti per gli investitori esteri. 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 393 economica che la banca centrale vuole – e può in larga misura – controllare su base giornaliera (ad esempio, il tasso di interesse sul mercato interbancario overnight) attraverso l’uso dei suoi strumenti di politica monetaria, secondo i livelli decisi dal comitato decisionale di politica monetaria della banca centrale nelle sue riunioni giornaliere e trasmessi come guida sia ai responsabili operativi della banca centrale, sia al pubblico per informarlo sulla posizione della politica monetaria; 2) l’istituzione di un quadro operativo che consenta alla banca centrale di controllare l’obiettivo operativo selezionato (ad esempio, l’impostazione degli strumenti, la selezione delle controparti, la definizione di un elenco di garanzie ammissibili); 3) l’uso degli strumenti di politica monetaria a disposizione della banca centrale su base giornaliera al fine di raggiungere l’obiettivo operativo. Rispetto alla prima componente, emerge una prima dicotomia di visioni: semplificando, la variabile economica obiettivo può essere il tasso di interesse oppure la quantità di moneta. Le banche centrali concordano sul fatto che il tasso di interesse interbancario a breve termine sia l’obiettivo operativo appropriato. In passato, tuttavia – e alcuni libri di testo supportano ancora questo punto di vista – è stato sostenuto che sarebbero preferibili concetti quantitativi, come la base monetaria o il concetto di alcune riserve. Inoltre, alcune banche centrali hanno applicato un obiettivo operativo quantitativo, almeno in teoria. La Fed, ad esempio, ha sperimentato “riserve libere”, “condizioni del mercato monetario”, “riserve prese in prestito” e “riserve non prese in prestito” come obiettivi operativi (Bindseil 2004, 9)16. Anche gli strumenti utilizzati possono essere diversi e il loro differente utilizzo è spesso correlato alle sottostanti visioni teoriche della moneta e della banca. Le banche centrali utilizzano attualmente tre di questi strumenti: i) strutture permanenti, ii) operazioni di mercato aperto, iii) requisiti di riserva, mentre il quarto strumento, il “controllo monetario diretto” come l’imposizione di Qu es to rti E pp a ka -bo o Qui Bindseil si riferisce alle pratiche di politica monetaria moderne. Sarebbe anche interessante raccontare come è avvenuta, risalendone alle origini, la formazione di un mercato monetario (titoli pubblici a breve termine), ma ciò non può essere fatto qui per ragioni di semplicità e di economia di spazio. 16 s Que Parte II - Moneta e debito 394 massimali quantitativi di credito, di massimali dei tassi di interesse al dettaglio o di requisiti di margine operativo, è caduto in disuso, dopo essere stato in uso nel periodo che va dagli anni trenta agli ottanta, probabilmente perché in “odore di coercizione” e perché quel periodo coincise col modello keynesiano di governo socio-economico di gran parte del mondo occidentale (infatti Friedman [1960], è particolarmente critico sui “controlli diretti”). Per quanto riguarda il punto di vista della macroeconomia monetaria, la strategia di politica monetaria della banca centrale richiede 1) l’adozione di un modello macroeconomico del meccanismo di trasmissione che colleghi, secondo le modalità previste dalle sue leggi interne, l’obiettivo operativo, le variabili indicatore, gli obiettivi intermedi e gli shock casuali ai suoi obiettivi finali, e, una volta adottato il modello, 2) l’adozione di modalità di adeguamento – sia alle nuove informazioni sia ai feedback delle sue comunicazioni al pubblico – del proprio obiettivo operativo. Anche in questo caso dietro l’adozione del modello possono sottostare differenti visioni17. Per obiettivo operativo, si intende una variabile economica, a sua volta facilmente controllabile dalla banca centrale, che consente di controllare o almeno influenzare in modo significativo l’obiettivo intermedio. Per Bindseil, l’analisi delle questioni relative alla strategia macroeconomica di politica monetaria non è importante, perché sarebbe effettivamente possibile analizzare l’attuazione della politica monetaria senza considerare la strategia macroeconomica, in quanto, poiché l’orientamento della politica monetaria in un determinato momento è costituito dal valore prevalente dell’obiettivo operativo e dalle modifiche attese che ne derivano dalla comunicazione della banca centrale, non è possibile stabilire se un certo livello della variabile obiettivo operativa rifletta una posizione restrittiva o permissiva. In altre parole, quel che conta è l’obiettivo finale e gli obiettivi operativi e intermedi non hanno di per sé alcun significato. «Ad esempio, un obiettivo di tasso d’interesse a breve termine del 5% sarebbe molto rigido in un contesto deflazionistico (ad esempio, il Giappone nel 2002), ma sarebbe permissivo in un contesto fortemente inflazionistico (ad esempio, la Turchia nel 2002). Pertanto, la rigidità della posizione si riflette nella differenza tra l’obiettivo operativo e un livello “neutro”, ovvero uno che non crea pressione per la modifica delle variabili obiettivo finali. L’obiettivo finale della politica monetaria è la variabile economica alla quale mira alla fine la banca centrale. Pertanto, gli obiettivi operativi e intermedi non sono altro che mezzi per raggiungere l’obiettivo finale che non hanno un valore specifico proprio» (Bindseil 2004, 9). 17 o Quest 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 395 k E-boo Per variabile indicatore si intende una variabile economica che contenga le migliori informazioni in tempo reale per permettere alla banca centrale di modificare, se necessario, il livello del suo obiettivo operativo al fine di raggiungere il suo obiettivo finale nel modo più preciso possibile18. Per obiettivo intermedio si intende una variabile economica collegata all’obiettivo finale da una relazione chiara e possibilmente stabile (se non si adotta un modello sbagliato), che però sia anche facilmente controllabile (nei tempi e nella precisione della misura) dalla banca centrale. L’obiettivo intermedio tipico può essere un aggregato monetario come M1 o M3, un volume di credito, un tasso di cambio o un tasso di interesse a medio o più lungo termine19. tiene appar a roffi ail.com 0@gm e.200 simon 18 «Le variabili dell’indicatore contengono variabili completamente esogene come il prezzo del petrolio, la probabilità dello scoppio di una guerra o importanti innovazioni tecnologiche, ma anche variabili più endogene come gli aggregati monetari. Mentre per un obiettivo intermedio la banca centrale potrebbe dedurre che “le informazioni dalla variabile obiettivo intermedio suggeriscono che il livello della variabile obiettivo operativo deve essere modificato per mantenere l’obiettivo intermedio sul corretto sentiero”, per una variabile indicatore più endogena potrebbe dedurre che “le informazioni fornite dalla variabile indicatore suggeriscono che il livello dell’obiettivo operativo deve essere modificato per mantenere l’obiettivo finale sul corretto sentiero”. In pratica, esiste un continuum tra gli estremi delle variabili indicatori pure e gli obiettivi intermedi puri» (Bindseil 2004, 10). 19 La definizione di “moneta” si basa su aggregati di attività “perfettamente” liquide: oro, quando circolava come moneta, biglietti, depositi bancari a vista e altre ancora. Molte attività finanziarie hanno mercati ben organizzati sui quali è possibile “liquidarle”, cioè acquistare moneta. Per liquidità di un’attività finanziaria si intende appunto la sua rapida trasformabilità in forma monetaria, senza perdita di valore nominale. Il grado di liquidità delle varie attività o forme di ricchezza risulta tanto maggiore quanto più rapidamente la forma di ricchezza può essere trasformata in mezzi di pagamento al suo valore pieno, che si può intendere come il suo valore di mercato realizzabile se non fosse necessario una vendita in tempi brevi, e quanto minori sono i costi di negoziazione che tale trasformazione richiede. Quindi, la valutazione sul grado di liquidità, che spesso è opinabile anche fra gli studiosi, è ciò che può far considerare “moneta” in senso lato anche forme di ricchezza che non lo sarebbero nominalmente. Il grado di liquidità è il criterio, con cui, da parte dei tecnici dell’economia monetaria, sono state date diverse definizioni di che cosa si può considerare moneta. Infatti, sono stati definiti i seguenti differenti aggregati monetari, corrispondenti a differenti gradi di liquidità in ordine decrescente: un primo aggregato (chiamato M1) comprende soltanto i mezzi di pagamento (circolante Parte II - Moneta e debito 396 iene part k ap -boo E sto Que Infine l’obiettivo finale di una banca centrale. Sebbene tale obiettivo sia spesso sancito dal suo statuto e possa apparire determinato da esigenze giuridico-costituzionali e tecnico-economiche, in realtà esso è un obiettivo puramente ‘politico’, che ha il pregio per l’investigatore di essere una cartina di tornasole della sottostante visione teorico-politica del “sovrano” monetario. Per esempio, come annota Bindseil (2004, 10) la BCE ai sensi dell’articolo 105, paragrafo 1, del trattato UE, ha l’obiettivo primario di mantenere la stabilità dei prezzi, mentre l’obiettivo della politica monetaria della Banca d’Inghilterra, ai sensi del Bank Act del 1998, è quello di «mantenere la stabilità dei prezzi e, in subordine a ciò, sostenere la politica economica del governo di Sua Maestà, compresi i suoi obiettivi di crescita e occupazione». Invece gli obiettivi finali della Fed (Board of Governors 1994) apparirebbero meno chiari perché comprendono contemporaneamente una crescita economica in linea con il potenziale dell’economia, un elevato livello di occupazione, prezzi stabili e tassi di interesse moderati a lungo termine. Quindi, in generale, la catena causale di una tipica politica monetaria potrebbe essere così espressa: strumenti → indicatori → obiettivo operativo → obiettivo intermedio → obiettivo finale. Però, le dicotomie dovute alle differenti visioni della moneta e del suo ruolo nell’economia, si riflettono poi all’interno di ciascun elemento di questa catena causale: prendendo per esempio l’elemento degli strumenti, per i seguaci della RPD (vedi più avanti) e per i monetaristi esso sarebbe fornito dalle operazioni di mercato aperto, mentre per i seguaci della dottrina del ‘tasso bancario’ sarebbe dato dallo sconto della carta commerciale. Per fare un esempio illustrativo della catena, la banca centrale sconta effetti alle banche commerciali (strumento) per aumentare le loro riserve e ridurre il tasso dei prestiti interbancari (obiettivo operativo), ma la reazione delle banche commerciali alla variazio- a ro 00 .2 one ffisim e depositi in conto corrente utilizzabili mediante assegno); un secondo aggregato (chiamato M2) comprende, oltre ai mezzi di pagamento, i depositi bancari a risparmio; un terzo aggregato (M3) arriva a includere, oltre alle attività comprese in M2, anche attività meno liquide, quali i depositi e i buoni fruttiferi postali (che, per l’Italia, potrebbe anche includere i BOT detenuti dagli operatori non bancari). Questo E- 13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana” 397 ni di riserve potrebbe essere influenzata dalla probabilità di una guerra o di una epidemia (variabili indicatore), cosicché la banca centrale deve rivedere il suo modo di influenzare il tasso overnight affinché possa ancora trasmettere il desiderato influsso al tasso di interesse a breve o medio o lungo (obiettivo intermedio), il quale a sua volta influenzerà il tasso di inflazione o il tasso di disoccupazione (obiettivi finali). Sviluppando l’ottica d’indagine qui adottata, potremmo assumere due posizioni polari: l’una che ritenga che solo gli obiettivi finali si