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Sovranita-Credito-E-Mercato-9788833394909-2117630

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Giuseppe Conti
Luciano Fanti
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Sovranità, credito e mercato
Verso l’arte del governo
economico totale
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Conti, Giuseppe (1955- )
Sovranità, credito e mercato : verso l’arte del governo economico totale / Giuseppe
Conti, Luciano Fanti. - Pisa : Pisa university press, 2020
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I. Fanti, Luciano 1. Moneta - Teorie - Storia 2. Credito - Teorie - Storia
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CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
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ISBN 978-88-3339-490-9
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INDICE
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Introduzione IX
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Parte I
La categoria del moderno e le sue implicazioni
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economiche e sociali
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Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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2.1. Un mondo artificiale
2.2. La felicità insoddisfatta
2.3. La felicità dei moderni
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Capitolo 2
La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
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1.1. Alla ricerca del tempo moderno
1.2. Antico e moderno: l’individuo e la libertà
1.3. Vita activa tra antico e moderno
1.4. Lavoro senza libertà
1.5. L’opera
1.6. Forza-lavoro come vita e procreazione: “crescete e moltiplicatevi”
1.7. Un futuro di consumo-spreco senza pensiero e libertà?
37
37
39
46
Capitolo 3
La costruzione dell’animale politico
e il teatro dello scambio
3.1. L’azione e la libertà
3.2. Lo «spazio dell’apparenza»
3.3. L’apparenza del mercato
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Capitolo 1
Sovranità, credito e mercato
IV
Capitolo 4
L’ordine del mondo, in moto verso il prezzo “giusto”
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4.1. Le tre (quattro) età della vita activa
4.2. Dalla società alla piccola comunità, al mercato e “ritorno”
4.3. Mercato come bilancia sociale di giustizia
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Capitolo 5
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Crematistica e anticrematistica (da “allora” a oggi)
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5.1. La crematistica e la vita beata pa
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5.2. Ancora su economia antica e moderna: le visioni storiche
5.3. Le istituzioni al centro di grandi dicotomie
5.4. I giochi pericolosi dello scambio e la crematistica
5.5. L’annebbiamento del tempo o le critiche dei neo-istituzionalisti
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Capitolo 6
Il modello neoistituzionale del mercato
e il capitalismo come religione
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6.1. L’infelicità nel mercato autoregolantesi
e la ricerca della vita beata
6.2. Verso il primato degli interessi
6.3. Dono e sacrificio e la soglia sacro-profano
6.4. Il capitalismo come religione di culto utilitaristico
6.5. La forza disciplinante del debito per organizzare la società
sull’utile e sull’efficienza
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153
156
165
Parte II
Moneta e debito: una rivisitazione genealogica
Capitolo 7
Le teologie del credito e della moneta. Un’introduzione
Capitolo 8
179
Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
187
8.1. Le tensioni tra teologia politica e teologia economica
8.2. Le fragili fondamenta della comunità di mercato
8.3. Uno Stato “forte” per un mercato “forte”
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Indice
Capitolo 9
V
Credito, pegno e moneta (pegno arcaico di fiducia)
221
9.1. Due paradigmi conservatori, non liberali
9.2. Le ambigue affinità del dono e dello scambio
9.3. Alle origini dello scambio: il dono, il contratto e la moneta in mezzo
221
223
228
Capitolo 10
Il problema delle origini della moneta
235
10.1. L’inizio della fine della mitologia monetaria
10.2. L’antico problema della sovranità sulla moneta
10.3. Libera nos a debitis
10.4. L’antropologia del dono e le origini della moneta
235
244
255
260
Capitolo 11
Il debito originario
273
11.1. La moneta merce tra merci e la sua mitologia evolutiva
11.2. Prima il dono-debito e poi l’“invenzione” della moneta
11.3. Il nexum
11.4. L’accumulazione del denaro come metamorfosi del sacro
11.5. Sulle origini della moneta dal debito
273
281
294
297
307
Capitolo 12
313
12.1. Debito, colpa, morale e regolazione della vita sociale
12.2. La genealogia della moneta (e la questione della sovranità)
12.3. “Come, non si fanno pegni? È questa la prima volta?”
12.4. La rivoluzione finanziaria e lo Stato fiscale moderno
313
318
328
332
Capitolo 13
Questo E-book appartiene a roffis
La desovranizzazione della moneta
Le soluzioni infinite per rendere “neutrale”
e “sana” la moneta
13.1. Il dibattito sulla natura (neutrale o influente, esogena o endogena)
della moneta
13.2. Le implicazioni della formazione del tasso di interesse
fra oggettività del mercato e sovranità politica
13.3. Cenni alle dottrine di politica monetaria e bancaria
361
361
380
386
Sovranità, credito e mercato
VI
13.4. “Sapere” scientifico e sovranità monetaria
13.5. La nascita “segreta” della principale banca centrale
13.6. Il vero punto di vista della finanza “sana”
410
429
454
Capitolo 14
Ancora sulle dicotomie della moneta e del credito
461
14.1. Centri e periferie
14.2. La denazionalizzazione delle monete
14.3. Un granaio sempre pieno e prezzi stabili
461
467
474
Parte III
La paradossale costruzione neo-ordoliberale
di un’economia “naturale” di assoggettamento
Capitolo 15
La riscossa neo e ordoliberale contro l’economia mista
499
15.1. La reazione al “nuovo patto” di welfare state
15.2. Liberi, a condizione di obbedire
15.3. Il principio sovra-ordinante e performante della concorrenza
15.4. La strada verso la “servitù”: da Mont Pèlerin all’ordoliberalismo
dal volto “umano”
15.5. Il neo-ordoliberalismo: più pensiero d’azione che teoria
15.6. La “buona società” di Lippmann alla base dell’avventura
neo-ordoliberale
15.7. L’organizzazione “bolscevica” del neo-ordoliberalismo
499
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Capitolo 16
Il “plebiscito dei prezzi”
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16.2. L’arte di governo ordoliberale
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Capitolo 17ok
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Il decalogo
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stocome formare una società sul modello dell’impresa
17.1. Un decalogo etico e di azione politica
17.2. I comandamento: prima di tutto libertà d’impresa
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16.1. Democrazia e “plebiscito dei prezzi”
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Indice
VII
17.3. II comandamento: informazione senza conoscenza
17.4. III comandamento: automatizzare la vita
17.5. IV comandamento: la Statofobia
17.6. V comandamento: la concorrenza da mezzo a principio
17.7. VI comandamento: responsabilità non solidale
17.8. VII comandamento: la sussidiarietà principio di accentramento
governamentale
17.9. VIII comandamento: ognuno è (e sia) imprenditore di se stesso
17.10. IX comandamento: lo Stato minimo per l’individualismo massimo
17.11. Il X comandamento: l’oppio doppio della religione capitalistica
617
621
627
632
Bibliografia 645
Indice dei nomi 703
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Introduzione
In un ben noto passo hegeliano è la filosofia, come la nottola di
Minerva, a involarsi sul far della sera. Tuttavia, almeno per quel
che riguarda le questioni qui esaminate, la metafora della sistemazione teorica che giunge a cose fatte non si riferisce alla filosofia: si può dire anzi che sia successo il contrario e che il ritardo
teorico, questa volta, abbia riguardato proprio quella disciplina
che per statuto si sarebbe dovuta occupare di quel che succede
nel mondo dell’economia. La cartina di tornasole che evidenzia
il ritardo ce la forniscono, in particolare, le opere di due filosofi,
emblematiche tanto per la loro rilevanza quanto per la quasi totale noncuranza con la quale sono state prese in considerazione
nell’ambito delle discipline economiche. Gli economisti accademici, di mainstream e, talora, anche “alternativi” o eterodossi, le
hanno trascurate del tutto (o quasi), forse sottovalutando la profonda trasformazione storica che, negli ultimi decenni, ha riguardato l’arte del potere e, in particolare, l’arte del governo dell’economia. Tutto ciò ha avuto implicazioni rilevanti sul modo di
interpretare quanto stava avvenendo. Passato e futuro hanno un
“ponte” relativamente corto e ingannevole gettato nel presente.
Una prospettiva più lunga aiuta, spesso, a rintracciare un “alveo”
più profondo nel quale sono confluiti i caotici rivoli minori del
presente. Giungere in ritardo – è bene precisarlo – era essenzialmente riferito alla piena consapevolezza di quel che un tempo si
chiamava “senso della Storia”, cioè la collocazione e la comprensione dei fatti recenti e della storia del presente all’interno di una
prospettiva più estesa nel tempo e più ampia.
Ma veniamo alle due opere. La prima è la pubblicazione nel
2004, post mortem, delle lezioni tenute da Michel Foucault, tra
il 1978 e ’79 al Collège de France, sulla nascita della biopolitica
(concetto sul quale ritorneremo più volte e non è il caso di sof-
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Sovranità, credito e mercato
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fermarci a discuterlo qui). Quel concetto ha avuto tanta parte nei
dibattiti delle scienze sociali, salvo – occorre ribadirlo – nell’ambito della teoria economica accademica e della storia economica.
Il silenzio può essere spiegato da un’incomprensione di fondo.
Un semplice aneddoto può chiarire quel che intendiamo. Alcuni
allievi di Foucault presentarono il loro maestro al premio Nobel
Gary Becker, quale economista tra i più citati da Foucault nelle lezioni. Si attendevano di ricevere da Becker un commento e un riconoscimento all’opera del filosofo. Nelle lezioni Foucault analizzava a lungo l’opera dell’economista di Chicago sul trattamento
dei delitti e delle pene, nel contesto più ampio degli sviluppi del
governo neoliberale della società. Pare che, invece, la riesposizione dell’insegnamento foucaultiano lasciasse del tutto indifferente
l’economista, il quale, forse annoiato e per tagliar corto, affermò
di non aver ben compreso la presunta grandezza delle intuizioni
del suo interprete. L’episodio, al di là di tutto, è significativo del
disinteresse che poteva suscitare in molti economisti l’esercizio
stesso della critica sul lavoro che stavano svolgendo.
L’altro libro, a cui ci riferiamo, uscì a tre anni di distanza
dall’edizione francese delle lezioni foucaultiane. Nel 2007 Giorgio Agamben pubblicava Il Regno e la Gloria, un denso volume,
non rivolto a un largo uditorio come quello delle lezioni. In quel
caso, a spiazzare erano il titolo e la ricchezza di riferimenti eruditi: dai filosofi antichi, alla patristica fino alla filosofia contemporanea. Il titolo – è vero – non aveva nulla che potesse invogliare
un economista a sfogliarlo, a meno che non si fosse soffermato sul
sottotitolo nel quale spuntava un aggettivo – “economica” – che
poteva incuriosire. In quel caso, una scorsa delle pagine interne
finiva per scoraggiare una lettura più attenta. L’intreccio fitto tra
questioni teologiche ed economiche, e di un’economia dichiaratamente intesa alla maniera antica come gestione domestica, non
offriva molti appigli per proseguire e approfondire la lettura.
Perché allora attribuire a queste due opere il merito di aver
anticipato la comprensione di un’epoca, la nostra, peraltro arata in lungo e in largo, e con la consueta competenza e scrupolo
scientifico, da parte di accademie e studiosi di scienze economiche? Innanzitutto perché Foucault, prima di altri, individua,
con molta chiarezza e precisione, una genealogia del liberalismo
Introduzione
XI
Ques
economico e politico dalla quale derivare le prassi politiche più
recenti, non solo sotto il profilo delle elaborazioni dottrinarie,
ma specialmente sotto quello dell’azione politica e amministrativa, riguardo all’economia e all’intera società. Al momento in
cui svolgeva le sue lezioni, gli indirizzi politici ed economici oggi
dominanti erano appena delineati, ma in esse emerge una forte capacità di anticipare tendenze e implicazioni che si stavano
prospettando e dipanando da quell’intreccio di interessi e di ideologie economiche e sociali, manifestatosi, specialmente, in paesi
come la Germania Federale e gli Stati Uniti. Solo nei decenni successivi alle lezioni, alcuni progetti e nuove istituzioni avrebbero
preso forma e sostanza, soprattutto con la costruzione ulteriore
dei trattati e delle disposizioni che sono andati a formare quella
che è diventata l’Unione Europea, ma anche attraverso altre configurazioni istituzionali a livello internazionale. Inoltre si sono
riplasmate le consuetudini di vita di quelli che erano sempre più
formalmente riconosciuti cittadini ma solo per esser sempre più
sostanzialmente considerati utenti, messi di fronte a istituzioni trasformate progressivamente in aziende e riforniti di diritti, che da
principi di tutela sono venuti ad assumere sempre più lo status di
disposizioni amministrative per comportamenti da disciplinare.
All’epoca di quelle lezioni, una dottrina come l’ordoliberalismo,
al di fuori di pochi addetti, non era molto conosciuta, l’“economia
sociale di mercato” (vessillo ordoliberale abbracciato anche dalla
socialdemocrazia tedesca) era vista come una buona soluzione di
compromesso tra capitalismo sfrenato e società del benessere, e lo
stesso neoliberalismo cominciava a diffondersi come fosse un ultimo germoglio che non tradiva il ceppo liberale originario a cui
apparentemente si richiamava. Foucault aveva tuttavia mostrato
quali profonde mutazioni genetiche fossero avvenute nel liberalismo di laissez faire e anche su queste ci soffermeremo a lungo.
Il contributo di Agamben si inscrive nello stesso programma
di ricerca tracciato da Foucault. Agamben sviluppa e approfondisce importanti aspetti genealogici lasciati incompiuti o solo intuiti da Foucault, come quello della differenza tra sovranità e governo, che Agamben fa risalire all’elaborazione teologica del dogma
trinitario, nel quale la relazione “economica” tra le tre “persone”
è vista a fondamento della teologia politica schmittiana congiun-
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bo
XII
Sovranità, credito e mercato
ta a quella che Agamben definisce teologia economica (anche in
questo caso concetti e argomenti sono qui solo enunciati come
“parole chiave”, e inviti a proseguire nella lettura). Agamben costruisce una complessa «genealogia teologica del governo dell’economia», così recita appunto quel sottotitolo del suo libro – cui
abbiamo fatto allusione poco prima –, un sottotitolo che poteva
lasciare attonito più di un cultore di discipline economiche.
Il nostro lavoro, si può dire, è iniziato da qui. Può essere considerato come un contributo critico sulle basi, o meglio sulla genealogia, del paradigma neo e ordoliberale dominante in economia,
paradossalmente accolto, forse inconsapevolmente, anche in molti approcci cosiddetti “alternativi”. Il termine neo-ordoliberale – da
noi coniato (v. le avvertenze alla fine di questa introduzione) – intende accomunare due indirizzi che, sebbene mostrino alcune distinzioni sul piano dottrinale, mantengono tuttavia una sostanziale unità sui principi primi e sugli obiettivi di fondo dell’azione. Il
neoliberalismo, come vedremo, attraverso alcuni dei suoi maggiori rappresentanti, è un conservatorismo radicalmente statofobico,
costruttore del mercato come feticcio assoluto, nel quale però sono
più che tollerate le grandi imprese, gli oligopoli che soffocano di
fatto la “mano invisibile” smithiana, in conseguenza di una concorrenza scatenata e senza freni. L’ordoliberalismo è la versione
teutonica di un capitalismo che ha bisogno di essere amministrato
e regolato, nel quale l’ordine è lo strumento per imporre e incoraggiare la concorrenza, che, lasciata a se stessa, si infiacchirebbe: l’iniziativa privata ha bisogno della frusta di dispositivi che
spingano alla concorrenza e lo Stato viene messo in condizione di
disporre solo di tali strumenti amministrativi, non di altri mezzi
d’intervento nell’economia, che comporterebbero spese e implicherebbero riallocazioni di risorse sulle quali, invece, la decisione
deve spettare solo ai privati, considerati calcolatori ottimali del
proprio profitto, anche se ignoranti, perché aiutati dal mercato,
quale ordine spontaneo generatore dell’informazione migliore.
Il metodo genealogico da noi applicato permette di risalire
alla matrice e agli sviluppi successivi del liberalismo moderno nel
suo farsi strumento di governo dell’economia e della società in
ogni aspetto (riprendendo, così, anche tradizioni amministrative
d’ancien régime). Abbiamo perciò intrecciato vari fili tematici – a
Ques
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Introduzione
XIII
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Questo E-book appart
partire dalla triade concettuale posta nel titolo – dentro percorsi
genealogici – che vanno indietro e avanti nel tempo – di una storia di fatti e di idee, per comporre confronti incrociati in modo da
penetrare, attraverso quel prisma formato da discipline diverse
– e non solo l’economia o la storia economica –, nel significato dei
concetti presi in esame. Siamo andati avanti per opposizioni dicotomiche, come fossero trama e ordito di un disegno che si costruiva su dottrine – filosofiche, politiche ed economiche – nonché su
azioni e scelte, considerate, queste ultime, in una forma spesso
molto stilizzata di fatti storici, per non disperdere in un dettaglio
minuzioso – anche se talvolta il dettaglio è apparso necessario e
addirittura imprescindibile – quell’ossatura di processi e di contorcimenti storici, senza la quale può esser vano dar senso a un
vaglio critico di fatti e idee.
La triade di sovranità, credito e mercato è il punto di partenza, la raffigurazione sintetica delle dimensioni costitutive dell’economia in sé e dei riflessi che di essa possono essere letti in
filigrana negli approcci dottrinari del passato e sul passato, cioè
di quel che pensavano dell’economia coloro che, nel passato, la
vivevano da contemporanei e coloro che, oggi, si confrontano
con economie del passato attraverso l’esperienza del mondo economico del presente. La triade prescelta poteva, ovviamente, essere declinata in modo diverso, specialmente riguardo al termine
intermedio, per il quale un’opzione convenzionale sarebbe stata
quella di considerare la moneta. Tuttavia, l’idea di fondo è che
la moneta non sia altro che una forma di credito, anche quando
essa giunge a circolare come moneta-merce (anche questo sarà
sviluppato largamente nel corso del lavoro). In questo senso la
moneta è perciò da considerare come un resto, una rimanenza
che si può depositare in scritture contabili, ma che può risultare
come il pegno di una fiducia, data o ricevuta (riprenderemo più
avanti tali concetti economico-teologici). Un’altra scelta, forse più
allettante, sarebbe stata quella di dar preferenza, come termine
intermedio, al debito, lato opposto (contabilmente) a quello del
credito, così come la condizione speculare del debitore è quella
del creditore. Il debito – è vero – riassume una condizione umana
paradigmatica, quella di un rapporto nel quale ricompare, regolarmente e a più riprese, l’originaria radice di potere, violenza e
Sovranità, credito e mercato
comando, a dispetto della visione contrattualistica liberale che
sottolinea soltanto la parità tra contraenti, negando, in tal modo,
l’asimmetria congenita al rapporto di debito, inteso, genealogicamente, come metamorfosi di una relazione radicata nella sfera
del sacro. Se l’uomo è – seguendo Nietzsche – un animale capace
di promesse, le promesse sono espresse da coloro che chiedono
un credito, o che – non dimentichiamolo – possono essere sollecitati dal creditore a indebitarsi. Tuttavia, è il credito che, accettando la promessa (e – come vedremo – qualcos’altro), avvia un
rapporto di permanente equilibrio conflittuale, ma anche di continua tensione tra le parti. L’origine della responsabilità, quella
necessaria ad «allevare un animale che possa fare promesse» –
sempre in Nietzsche – presuppone l’introduzione di regole e di
disciplina per rendere calcolabili i comportamenti. La fiducia è
perciò una creazione d’ordine sociale per dar valore, misura, calcolo, possibilmente in un sistema a “partita doppia” nel quale siano immediatamente riconoscibili i termini del “dare” e dell’“avere”. Ma la riduzione della fiducia a un mero calcolo soggetto
alla razionalità strumentale occulta l’autentica discendenza dalla
sfera sacrale del rito espiatorio relativo al torto ricevuto e alla
colpa da infliggere. Ciò è particolarmente evidente in un altro
nesso originario che è quello dell’espiazione di una colpa, di una
caduta e di una mancanza, attraverso l’intervento della giustizia
penale per ristabilire un equilibrio tra le parti. In quel rapporto
interviene un’autorità che esercita il dono della grazia, ovvero
di una promessa di salvezza con la quale estinguere la violenza
potenziale tra le parti. L’autorità trasmette regole e forme rituali
e giuridiche di adempimento della fede (aspetto “sacro” il cui
correlato “profano” è la fiducia). Il credito, creando obbligazioni
nei debitori, mette in circolo promesse insieme a trasferimenti di
beni. Da rapporto privato diventa rapporto sociale. È uno strumento di valutazione che, prima di registrarsi in un contratto,
poggia sull’esercizio, o sull’esistenza inerte ma potenziale, di
potere. Il rapporto credito-debito è in equilibrio solo in partita
doppia, per il resto è un elemento di tensione permanente, di
lotta, in cui occorre un esercizio del potere – in termini di sovranità – per tenere entro margini di tolleranza il conflitto e tentare
di riportare in equità la relazione.
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Introduzione
XV
Il credito, secondo Mauss, è una derivazione del dono, una
pratica di prestazioni, al tempo stesso, libere e obbligatorie di
carattere religioso, giuridico ed economico in società arcaiche.
Come forma ricorsiva il dono e contro-dono, con carattere agonistico, rinsalda i legami comunitari, riorganizza le rivalità e riconferma le subordinazioni nei confronti delle autorità, attraverso
trasferimenti di ricchezze, nel rispetto di regole istituzionali e di
riti sacrali. Abbiamo accennato alla moneta come un resto materiale (oggi quasi del tutto smaterializzato) di un qualcosa d’impalpabile (intangible asset) come il credito. Gli scavi archeologici
portano alla luce tesori di monete, non trovano tracce di crediti
e di debiti. Debiti e crediti però permeano di sé le religioni e,
persino, le loro genealogie si confondono – come sostiene Nietzsche – con l’origine della morale. Vedremo che ci sono altri motivi logici e storico-empirici (su cui insiste anche l’antropologo
Graeber, scomparso di recente) per respingere l’evoluzionismo
naturalistico della mitologia sull’origine della moneta inventata
da Menger, accolta con estrema nonchalance in economia teorica, per il facile e neutro passaggio dal semplice al complesso,
implicito nell’ipotizzata, ma del tutto arbitraria, sequenza storico-cronologica di baratto → moneta-merce → moneta fiduciaria
→ credito → finanza. A questa visione, secondo noi falsata, si
contrappone quella che stabilisce come pietra angolare di tutte
le istituzioni economiche la promessa: l’uomo animale addestrato a promettere (altra cosa è “mantenere”). Anche Hume deve
ammettere che l’obbligo delle promesse non può aver nulla di
logicamente “naturale” (come vorrebbero Menger e gli austro-economisti), bensì è «semplicemente un’invenzione umana per
convenienza della società» (Hume 1739, 1035 [III, ii, 5]). Dunque
la promessa, il credito e la moneta stessa, quest’ultima pur nelle
forme storiche materiali di gregge animale, oro o certificazioni
contabili di carta, sono istituzioni di fede, di credenze, di convenzioni sociali che (anche qui a differenza delle volizioni contrattualistiche) hanno però bisogno per sostenersi di una conferma
da parte di una sovranità, che può essere anche un deus absconditus fintanto che la fiducia, da sola, circola e lega insieme gli individui in comunità. Senza il dono del credito, puntualizza Musil,
si sgretolano le difficili condizioni della civiltà. Il passaggio dalla
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XVI
Sovranità, credito e mercato
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dimensione privata del patto/contratto bilaterale, propria dello
scambio mercantile “puro”, alla dimensione pubblica e politica
di una sovranità che interviene, non solo per regolare, ma per
imporre ed esercitare un’arte di governo, è un passaggio che si
esplicita nel pegno. In esso ricompaiono i segni della dicotomia
pubblico/privato e sacro/profano, con tutti i riti di passaggio
e di circolazione tra le due sfere della fede, da una parte, come
osservanza di una promessa sacralizzata e da destinare al culto
(lo vedremo nel mistero della transustanziazione, a cui fanno riferimento sia Hume che Marx quando parlano del denaro e della
merce), e della fiducia, dall’altra, quale aspettativa di adempimento veicolata da una qualche forma di garanzia (il pegno material-sacrale e l’im-pegno personal-giuramentale), sperimentata
nella sua efficacia di onorabilità.
Il pegno, per il suo valore simbolico, prima ancora che per il
suo valore commerciale, ha la doppiezza di cosa che sta in mezzo.
E la moneta è residuo di credito concretizzatosi in un saldo contabile pubblico, che un’autorità impone a compensazione di un danno
subito e in esecuzione di una pena inflitta, o per pagamento di un
tributo (un dono obbligatorio verso un’autorità sovrana). In questo
senso, la moneta è un pegno sociale e politico, che va a “riequilibrare”, su una bilancia sociale, il piatto sul quale potrebbe solo avere
un peso equivalente e risolutivo la violenza tra le parti. Interviene
qui una funzione di colpa e di pena da estirpare attraverso la restituzione del dono nel ritorno del contro-dono, ben compreso nella
sua dimensione di rivalità e di violenza sacrificata nella distruzione e privazione di cose. Si ripresenta, quasi inevitabilmente, quel
rapporto complesso e ricorsivo del dono, fatto di liberalità ma anche di violenza. Tutto ciò richiama il dio Giano, divinità arcaica più
di altre, effigiato su varie specie monetarie romane (p.e., l’asse, la
didracma). Giano è appunto il patrono degli “inizi”, il dio di “passaggio”, il cui regno – nell’iniziale età dell’oro – aveva introdotto i
requisiti peculiari della civiltà: l’arte della coltivazione dei campi,
l’arte della navigazione, l’arte e l’uso della moneta. Il dio protettore
delle porte è colui che avvia a buon fine ogni impresa e ogni atto
(Agostino, De Civitate Dei, VII, 8-9 e 12), ma anche divinità infera
tra vita e morte (si direbbe, perciò, progenitrice, forse, anche delle
potenze alchemiche, unioni ermafrodite di opposti).
Introduzione
XVII
Tutto questo vale per ribadire l’esigenza di rovesciare la sopra
menzionata sequenza logico-mitologica mengeriana in un’altra,
schematizzabile nel percorso sequenziale di promessa → dono
→ credito → pegno → moneta. Molti filosofi e antropologi hanno
fornito sostegno ed evidenze a quest’ultimo percorso ma, a differenza degli economisti che dovevano costruire una genealogia
monetaria nella purezza di una “neutralità” della moneta, essi
non avevano la stessa ambizione “costruttivista” (che gli austro-economisti combattevano e attribuivano agli avversari, quando,
invece, erano i primi a mostrare metodicamente nella loro azione
di “costruzione” statale dell’impresa e della concorrenza), né molto interesse ad occuparsi di genealogie monetarie e creditizie che
sembravano più un’occupazione da numismatici e collezionisti.
La moneta, in questa nuova prospettiva, è lo scettro economico-finanziario a disposizione della sovranità per poter intervenire
nelle relazioni tra creditori e debitori, per salvare gli uni o gli altri,
nei momenti difficili, a seconda dei rapporti di forza, scaricando
su una delle due parti i “costi” degli “aggiustamenti”, o condividendoli equamente tra esse. Tutte le elaborazioni teoriche e pragmatico-politiche, che esamineremo, per rendere la moneta neutrale, sana, e – in teoria – capace di tenere sotto controllo il credito,
sono esercizi politico-normativi per sopprimere il potere sovrano,
ridurre l’arte della politica a tecnica autonoma e asettica, ma che
tuttavia si rivela come una politica niente affatto “neutrale”, nella
misura in cui agisce per trasferire i poteri al mercato e renderlo
sovrano. Si tratta tuttavia di un mercato idealizzato, come se fosse
un meccanismo generatore di prezzi “giusti” e non – come realmente è – di prezzi completamente aggiustati sotto il dominio
di gerarchie imprenditoriali, di “mani visibili” lontane dal soffio
provvidenziale di una “mano invisibile” che riordina e appiana
bisogni in modo naturale.
Il racconto di Menger e della scuola austriaca di economia sull’evoluzione lineare della tecnologia di scambio di mercato dal baratto
alla moderna banconota è infondato e tale sforzo intellettuale, del
tutto mitopoietico, si rivela tendente a “neutralizzare” il portato
della moneta. All’origine vi era il credito. E il credito apparteneva
alla sfera del sacro. La moneta eredita questa origine di promesse e
di fede, da cui non può liberarsi, nonostante i tentativi degli econo-
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misti classici e neoclassici di ridurla a semplice “lubrificante” degli
scambi di mercato. In questa origine sacra va ricercata la natura e il
lessico del campo monetario, che si rivela attraverso una teologia
irriducibile alla strumentalità del calcolo. Una teologia della quale
sono avvertiti, paradossalmente, soprattutto coloro che sono noti
per la loro critica radicale alla religione, come Hume e Marx.
Non a caso, una indagine secondo un criterio genealogico e
non riduttivamente logico-economico, ha evidenziato impensabili strutture del tutto invisibili agli economisti monetari. Senza
pretesa di ordinarle per importanza, segnaliamo in particolare la
peculiarità della esperienza cristiana nella formazione dei concetti di credito e debito. Questa osservazione generalizza nel tempo
e nel contenuto la nota – e controversa – tesi weberiana dell’esperienza calvinista come genesi del moderno capitalismo. Da un
lato, la “fede” è strettamente collegata col “credo”, dandosi così
luogo ad una inedita relazione biunivoca fra la fede e il credito.
La profondità dell’analisi etimologica sviluppata da Benveniste (1976) sui temi dell’origine linguistica delle istituzioni economiche europee aiuta a comprendere come la fides implica un
potere che non è obbedienza ad un comandamento, ma una libera
adesione di chi si è lasciato persuadere da un credo. In questo la
fede cristiana, nella misura in cui si aderisce liberamente al credo,
si differenzia da quella ebraica basata sull’obbedienza alla legge
per paura; si potrebbe individuare qui una dicotomia fra un’obbedienza sottomessa per legge e alla legge e un’obbedienza per
fede all’economia (amministrazione) che coincide con la legge.
Se la relazione originaria colpa-debito identificata da Nietzsche viene – nella religione cristiana – sanata dal culto e dal sacrificio di Cristo che redime (rimette i debiti), nel “capitalismo
come religione” identificato da Benjamin il peccato-colpa non
può essere redento, e quindi si accumula nel tempo: non è difficile scorgere qui una radice della finanziarizzazione del mondo
contemporaneo.
La genealogia creditizia e monetaria non è solo un esercizio
di archeologia intellettuale o, più semplicemente, accademica.
Essa è un’archeologia del presente. È, o può essere, una chiave
per enigmi del nostro tempo. L’attuale conflitto silente, ma aperto,
vede schierati, da una parte, imprenditori e banchieri schumpe-
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teriani quasi sorti dal nulla, insieme anche a colossi informatici,
come Facebook, mossi allo sfruttamento delle miniere di criptovalute (seguiti in questa corsa all’oro, da banche e banchieri pronti
a far leva sui nuovi strumenti monetari) e, dall’altro, la sommessa
riscossa delle banche centrali per entrare sul medesimo terreno
di conquista, sebbene in quale veste e per quali interessi sia un
problema tutt’ora da valutare (l’emblematica origine della Fed
– raccontata in questo libro – funge in questo da monito, da cave
canem). Lo scontro in atto ripropone – in forme variegate, con strumenti diversi e con esiti tuttora incerti – un conflitto permanente
tra spazi politici di sovranità e istanze privatistiche, queste ultime lanciate attualmente all’assalto di tali spazi per conquistarli.
Inoltre, la netta supremazia, in tempi presenti, di conglomerati finanziari internazionali non si inserisce, forse, nella stessa logica di
restringimento del perimetro e delle prerogative di quel che resta
di quelli che un tempo sembravano i Leviatani? Gli Stati nazionali
“sovrani” non si trovano ora, mutatis mutandis, in una geopolitica
molto simile a quella precedente gli accordi di Vesfalia del 1648?
La finanza internazionale detta l’agenda e le condizioni dei debiti
pubblici e delle politiche governative. I valutatori del merito di
credito sono un pugno di agenzie al servizio dei grandi colossi
finanziari. Le bandiere nazionali che ancora sventolano quasi per
ardimento, paiono molto strappate e hanno perso i colori vividi di
un tempo. Il neo-ordoliberalismo si è presentato sulla scena conquistando, poco a poco, sempre nuove fortezze e casematte, nelle
quali insediarsi per imporre un’arte di governo finalizzata a mettere ulteriormente gli Stati nazionali a servizio dei “mercati” che,
lessico edulcorato a parte, stanno, di fatto, a significare una finanza internazionale presidiata da Behemoth, l’agglomerato di colossi
imprenditoriali che dispongono già di mezzi e forze sufficienti per
soggiogare diritti personali e dignità umana a interessi mercantili.
Per portare a compimento la propria missione, il neo-ordoliberalismo è stato, dalla seconda metà del XX secolo in poi, lo strumento
politico-amministrativo del capitalismo, di un capitalismo come
religione, una religione cresciuta sulla pianta delle vecchie fedi e
confessioni per sostituirsi ad esse. La nuova religione è quella dei
riti aziendal-consumistici e della cosiddetta “cultura d’impresa”
(si noti l’ossimoro), da inculcare in ogni fedele produttore-consu-
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matore e fare entrare in forze nelle stesse istituzioni, ora valutate
con lo stesso metro mercantile e trasformate da presidi di diritti in centri erogatori di servizi, in concorrenza tra loro, in modo
così da non aver neppure bisogno di doverli “privatizzare” per
estrarre efficienza. La stessa pretesa di realizzare monete neutrali,
la cui definizione, peraltro, è continuamente sfuggente, o quella
anarco-hayekiana di ritornare a sole monete private (equivalenti
alle cambializzazioni medievali dei rapporti di credito e debito),
hanno risvolti politici molto concreti finalizzati a porre saldamente le leve del credito e della finanza nelle mani degli stessi colossi, che, certamente, non intendono negoziare le proprie posizioni
di vantaggio e di potere. Ovviamente il nuovo paradigma aziendal-mercatolatrico e statofobico, evangelo della nuova religione,
si estende dalla finanza, alla salute, all’ambiente, all’educazione.
La contesa è ancora tra sacro e profano, tra chi deve gestire – e in
che modo – i poteri di promettere, giurare, garantire, certificare.
I piani della fede e della fiducia ritornano a incrociarsi. La nuda
economia è ancora politica e i suoi linguaggi restano teologici.
Ritornando al paradigma teologico-economico evidenziato da
Agamben, che si aggiunge a quello rappresentato dalla teologia politica, di cui Carl Schmitt è stato l’alfiere, ricordiamo che esso raccoglie le radici cristiane dell’economia intesa come governamentalità
(basti ricordare l’analisi foucaultiana del pastorato cristiano come
tecnica di governo delle vite umane): la teologia politica cristiana
ha al suo interno – principalmente nella interpretazione del dogma
trinitario e dell’evento dell’incarnazione del Cristo data dalla letteratura patristica – una specifica valenza “economica”, che, appunto, vede nell’economia il metodo per condurre le vite – biopolitica e
bioeconomia come una “economia di salvezza”. Pertanto, la logica
economica – uscendo dalla sfera della produzione e della distribuzione dei beni materiali – è diventata negli ultimi decenni la logica
della tecnica governamentale neoliberale.
Le opere di Foucault e Agamben, proprio per la loro natura pionieristica, lasciano però molti aspetti in sospeso. In questo
lavoro, l’analisi genealogica ci porta a suggerire come le moderne storie e teorie monetarie non rivelino soltanto un processo di
“secolarizzazione” e di “laicizzazione”, comune a molti ambiti
delle scienze sociali, ma siano incastonate in una cornice teologi-
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co-economica, che estende e integra l’ambito dell’economia come
“economia di salvezza” proposto da Agamben.
La “trinità” di sovranità, credito, mercato rappresenta inoltre
tre dimensioni tipiche di quel che sta, al tempo stesso, “dentro”
e “fuori” l’economia. In che senso possiamo interpretare un ossimoro come questo? A prima vista il termine sovranità sembrerebbe star “fuori”, essendo un concetto eminentemente politico e
che nell’economia teorica – dove si vuole eliminare il conflitto per
sostituirlo con il palliativo della concorrenza, dove non vi sono
nemici ma solo competitors – trova sempre meno un proprio spazio legittimo, se non in senso negativo nei termini di Stato, fiscalità, politiche economiche, regolamentazione, e, più in generale,
in tutto quello che interferisce, dall’“esterno”, sull’andamento
corretto dell’economia. In particolare, all’economia sfugge della
sovranità quella forte carica di potere, di arcana imperii, di termine
eminentemente “politico”. Credito-debito e mercato sembrano,
d’altro canto, concetti e oggetti di stretta pertinenza dell’economia, avulsi da ogni segno di potere. Invece, a ben guardare – e
come mostreremo nel lavoro –, questi concetti e oggetti si intrecciano strettamente con la sovranità, con la dimensione propria del
potere, dell’autorità, delle istituzioni. Il metodo genealogico è anche un procedimento critico e demistificante. Molte mistificazioni
sono state perfezionate dall’economia di mainstream secondo un
preciso “piano” volto a espungere la politica dall’economia per
portare a compimento un’operazione di pulizia scientifica di un
corpo dottrinario che pretendeva di stabilire ricette “asettiche”,
ammantate dell’aura di “scientificità”, per produrre invece prescrizioni che, al di là delle retoriche, restavano cariche di un proprio carattere politico. Per portare a compimento tale programma
l’economics ha lanciato un sistematico assalto di imperialismo culturale nei confronti delle altre “scienze” sociali “minori”, compiuto con una costruzione intellettuale riconducibile a tre costrutti
teorici audaci: i) il primo consistente nell’inglobare le istituzioni
(perciò la politica) in uno schema di razionalità massimizzante ed
evoluzionistica, ii) il secondo mirante a ridurre il credito a moneta, considerando la moneta, e con essa il mercato (quale mero
“teatro” degli scambi), una pura tecnologia di scambio, iii) infine,
ma non ultimo, il terzo, consistente in un progressivo appiatti-
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mento delle differenze tra epoche storiche e tra sistemi economici,
sulla base di alcuni criteri di misura “universali” (produzione,
consumo, e anche indicatori più sofisticati), col risultato, previsto
in anticipo, di dover indagare su un solo sistema: quello del capitalismo, che sarebbe una invariante, naturale ed ineliminabile
presenza sia in età arcaiche che moderne, sia in economie “arretrate” che in paesi “avanzati”. Il risultato finale è ovviamente
quello di poter postulare, oggi e nel passato, l’esistenza di una
sola tipologia economica, più o meno pura, ma costituita sempre dal mercato, e di un solo tipo umano, rappresentato dall’homo
oeconomicus. Insomma, con un gioco simile a quello delle tre carte, tutto improvvisamente scompare e ricompare sotto un’altra
forma, la sola possibile: quella di un capitalismo onnipresente,
un’araba fenice che c’è sempre, anche quando non è manifesta o
sembra estinta. Se la realtà si discosta troppo dall’ideale, allora
si introduce – come vedremo – quello che altro non è se non un
dispositivo teologico: fare cioè come se tutto funzioni appunto secondo le regole del mondo immaginato (più che teorizzato).
Anche la scienza economica, nella sua pretesa scientificità
ha mostrato una tanto drammatica quanto ridicola incapacità di
pensiero e di cura delle crisi finanziarie e della disuguaglianza
fra persone e popoli; anzi, semmai, ad una lettura più attenta e
critica, che tenga conto del paradigma foucaltiano della governamentalità come intreccio fra popolazione, scienza economica e
tecniche politiche securitarie, tale scienza si è dimostrata la stampella del sapere al potere capitalistico che ha giustificato e persino
evocato l’accadimento degli eventi, come discusso nel cap. 13.
La triade concettuale del titolo è per questi motivi costituita
di elementi “ponte”, elementi di tensione e di potere, attraverso i quali si esercitano mediazioni e passaggi – come vedremo –
dal sacro al profano, dal pubblico al privato, in una direzione e
nell’altra. Gli elementi che compongono la triade sono i segni e i
luoghi (figurati e non solo) di conflitti che si esplicitano nel lungo
processo che porta verso il capitalismo moderno.
Per quanto riguarda tale processo, la nostra analisi prende
avvio da un altro importante testo, che dopo Marx e Weber, si
interroga sulla dicotomia antico-moderno. Ci riferiamo al libro di
Hannah Arendt del 1958 sulla “condizione umana” e sulle forme
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della vita activa e i loro cambiamenti. Un elemento importante,
rispetto a tali cambiamenti, che noi abbiamo ritenuto di sottolineare, ha riguardato le figure “anfibie” di mercanti e banchieri.
Arendt fornisce tutti gli elementi, ma senza svilupparli, per compiere quella sottolineatura rispetto a quello che per noi è stato ed
è il ruolo di mercanti e banchieri nel processo di cambiamento
della “condizione umana”: il loro operare per entrare a pieno titolo nelle sfere della politica, dalle quali, invece, erano stati tenuti
accuratamente fuori in epoche antiche, nelle quali le prerogative
del potere politico nel governo e nella difesa della società e della
stessa economia civica e rurale erano affermate proprio contro le
attività mercantili e la ricerca del guadagno per il guadagno. La
distinzione tra una crematistica naturale e una innaturale è teorizzata specialmente in Aristotele, di cui va annotata l’influenza
per la teoria del valore e della moneta sviluppate da Marx.
Arendt, come noto, si concentra su tre attività in cui l’uomo
interagisce in società (per questo non sarebbero per lei rilevanti
attività intime come amare, pensare, creare ecc.), cioè il lavoro,
l’opera e l’azione, a cui noi aggiungiamo l’attività specifica del
mercante e banchiere. Tali attività si passano il testimone del primato nelle varie epoche storiche.
Sia ben chiaro, l’attività contemplativa (theoria) nel pensiero
classico come nell’analisi del medesimo riproposta da Arendt,
rimane comunque incommensurabilmente superiore rispetto
all’agire umano (vita activa), persino se quest’ultimo è considerato soltanto nella sua parte più nobile, l’azione (corrispondente
all’agire politico e discorsivo di quel tipo di uomo denominato
zoon politikon da Aristotele). Qui l’aggettivo activa indica per contrapposizione l’assenza di quiete, di otium, che è necessaria per
contemplare l’eternità dell’Essere – irraggiungibile o al massimo
negativamente perturbabile – da ogni opera ed attività umana.
Tuttavia, Arendt, con la sua analisi dell’agire umano classificato
in lavoro, opera e azione, intende (come afferma Dal Lago nella
sua introduzione alla Vita activa) interrompere la lunga tradizione occidentale del primato della contemplazione e del pensiero,
gettando almeno nuova luce sull’agire umano, che, specialmente
nei suoi aspetti inferiori, ha preso il sopravvento nella società moderna a dispetto della sua scarsa considerazione nella filosofia.
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Noi, qui, suggeriamo che, se viste entrambe più modernamente, da un lato, l’azione è il potere politico e, dall’altro lato,
l’opera è la tecnica, tuttavia, a cavallo delle due – ma di ambedue
nutrendosi e adattandosi ad esse come talvolta adattando esse a
se stesse – prosperano altre attività umane e agiscono altre figure – il commercio e il mercante, il credito e il banchiere – che già
in Atene erano ben caratterizzate e attive, e che nella riflessione
filosofica sull’agire umano sono rimaste inizialmente in un cono
d’ombra solo perché fuori dallo splendore della sovranità politica e dall’illuminazione “pubblica”, solo perché figure apolidi,
amorali, liquide e aeree, globalizzanti, già allora come oggi, ma,
tuttavia, oggi visibili perché lo splendore dell’oro (denaro) ha offuscato e spento le luci della politica. Le concezioni del tempo, del
cosmo e dell’uomo del pensiero greco vengono più o meno gradualmente sostituite dalle corrispondenti concezioni del pensiero
giudaico-cristiano. Dal tempo ciclico (dell’eterna immutabilità
della natura e dell’uomo semplice ingranaggio senza storia) e da
quello cairologico (la percezione soggettiva dell’attimo che conta)
si passa al tempo lineare e cronologico, che, da un punto di vista
religioso, istituisce una direzione in avanti verso il compimento
finale della salvezza (eschaton) e, da un punto di vista mondano,
istituisce sia la storia umana con il concetto di progresso e di trasformazione della natura da parte dell’uomo con le sue tecniche,
sia il tempo sempre più preciso, calcolato, suddiviso che è proprio
del mercante e del lavoro. Se con il cristianesimo l’uomo diventa creazione di Dio a sua immagine e somiglianza (Deo creatus et
imago Dei), ne segue che l’uomo è il signore del mondo e quest’ultimo ha un senso e un valore nella misura in cui è “utile” all’uomo. Se l’uomo acquista la posizione centrale nel mondo, il tempo
è progresso storico nel senso di liberazione dal giogo naturale e di
progressiva trasformazione umana della natura.
La nuova relazione giudaico-cristiana fra uomo e natura ha la
conseguenza che il ruolo dell’opera, dell’attività dell’homo faber,
viene quindi rivalutato sia che si consideri l’uomo come distruttore della natura (visione medievale) o come edificatore di una
nuova natura (visione moderna). Questa signoria dell’uomo sulla
natura dovuta alla sua somiglianza con Dio – Dio creatore della
materia dal nulla e l’uomo creatore dalla materia data – diventa
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il motivo per esaltare, già a partire dal medioevo, la produttività e la creatività umane, sebbene la Arendt ricordi, da un lato,
che questa esaltazione della produttività umana, che riedifica il
mondo creato da Dio manipolandolo, trasformandolo e, quindi,
almeno in parte distruggendolo, appare come una rivolta prometeica alla divinità, e, dall’altro lato, che, a stretto rigore filologico,
il Dio biblico della Genesi ha reso l’uomo signore delle creature
viventi ma solo per preservarle e custodirle. Con il cannocchiale
galileiano – emblema della nuova scienza sperimentale e della
sua sottoposizione della “verità” alla prova dell’esperimento fabbricato dall’uomo e alla verifica nella “pratica” – la conoscenza
non veniva più a dipendere dalla contemplazione, osservazione e
speculazione ma “dall’attivo procedere dell’homo faber, del fare e
del fabbricare”. Insomma, il fare prevale sul contemplare. Questo
passaggio cruciale della modernità, connesso anche al passaggio
da un concetto di verità ad un altro, viene magistralmente reso
da Arendt: «Mentre la verità si era identificata in precedenza con
la “teoria”, che dai greci in poi aveva significato visione contemplativa dello spettatore che percepisce la realtà che gli si scopre
davanti, ora la questione del successo prevalse e il banco di prova
della teoria divenne “pratico”, divenne cioè la capacità o meno di
operare. La teoria divenne ipotesi, e il successo dell’ipotesi divenne verità» (Arendt 1958, 206, VI.38).
Il seme del rovesciamento nella graduatoria “valoriale” delle attività umane viene gettato dalla nuova visione cristiana del
mondo che rimpiazza quella greca. Lo sdoganamento del lavoro
come attività che non sarà più giudicata come inferiore e non-umana avviene attraverso molteplici e separate tappe, che un esame genealogico può sintetizzare in almeno sei: i) l’avvento del
tempo giudaico-cristiano, con l’uomo proiettato nella storia che
guarda al futuro, e con la sua oggettività e precisione consentita
dall’orologio; ii) il cosmo, che, dalla eraclitea immobilità ed eternità che preesiste persino agli dei, diviene creazione volontaria e
continua di Dio, cioè il passaggio da kosmos a saeculum; iii) la teologia improntata alla tradizione giudaico-cristiana che vuole la
signoria dell’uomo sul mondo come comando di Dio, per cui, allora, «Dio è il fondamento che giustifica la bontà dell’operare tecnico e la doverosità della sua attuazione» (Galimberti 2002, 295) e
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che, non a caso, è del tutto compatibile con l’utopica operazione
di Bacone di iscrivere la scienza nell’orizzonte teologico; iv) la verità ebraica che si fa nel tempo – perché per gli ebrei la verità non
è qualcosa che si conosce, ma qualcosa che si pratica osservando la
legge di Dio – sostituisce quella greca che si contempla nell’immodificabilità della natura, come ci ricorda Galimberti (2002, 294),
per cui anche quando Bacone mette al centro del potere il sapere
scientifico o Marx subordina la contemplazione, o meglio l’interpretazione, del mondo alla sua trasformazione, entrambi starebbero di fatto adottando l’ebraico “fare verità”; v) la concezione
della tecnica che libera dalla gabbia della natura e permette di
concepire il progresso lineare in avanti; vi) una nuova relazione
complementare fra la contemplazione e il fare all’interno della regola benedettina che alla contemplazione di Dio e alla preghiera
unisce il lavoro, liberandolo dalla inferiorità classica, relazione
che poi diventerà nell’età moderna di pieno predominio del fare.
Anche la concezione teologica del lavoro muta lentamente: si
passa dal considerare il medesimo come la ineliminabile espiazione della colpa del peccato originale al considerarlo come una legge
di natura utile per l’uomo per almeno due motivi: combatte i pericoli spirituali, che il cristianesimo individua nell’ozio, e produce
ricchezza e benessere. In realtà, il lavoro è – come ci suggerisce una
escursione etimologica – lavoro per gli dei, servizio alla divinità:
anche per questo l’ozio appare come nemico del cristianesimo. Il
lavoro che si esprime nel biblico leawod è sinonimo di servire e per
estensione di officiare per la divinità (cosa che si rintraccia probabilmente anche nel nome dei sacerdoti ebrei, Leviti) come il greco
liturgia, termine composto da laos (popolo) ed ergon (lavoro), indica il servizio che la comunità deve rendere agli dei. Sebbene la
centralità dispotica del lavoro nell’età moderna non abbia riferimenti evidenti nella dottrina cristiana (anzi la parabola evangelica
di Marta e Maria sembra togliere ogni dubbio sul primato della
contemplazione), tuttavia nel fermo invito paolino a occuparsi
delle cose private, quale anche il lavoro, a discapito delle attività
politiche e pubbliche, oppure nel ruolo del lavoro nelle pratiche
spirituali del monachesimo benedettino, intravediamo proprio
nel cristianesimo lo “sdoganatore” dell’agire pratico e del fare, insomma, del lavoro. Per Arendt, il lavoro, in particolare quello più
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basso dell’animal laborans, ha preso il sopravvento su tutte le altre
attività umane: con esso, l’uomo è pura specie biologica, senza più
alcuna facoltà superiore (spirituale), puro processo metabolico di
riproduzione vitale. Una speranza di cambiamento di tale situazione potrebbe consistere nel restituire il primato dell’agire umano
all’azione politica e discorsiva. Questa speranza ha ancora un fondamento umanistico, riassumibile nel concetto dell’uomo soggetto
libero dell’azione che può quindi stabilire i suoi fini, ovvero essere
responsabile del proprio destino attraverso l’uso dei mezzi tecnici,
peraltro sempre più sviluppati. Invece, la tecnica, da strumento di
distruzione-modificazione della natura, diventa essa stessa natura,
ma nel senso deteriore che viene incorporata nell’uomo, a sua volta ridotto a pura vita biologica. Arendt ricorda che un fantasioso
ed ironico Aristotele aveva già ipotizzato la possibilità dell’automazione e robotizzazione del lavoro migliaia di anni prima della
sua effettiva realizzazione affermando che «ogni arnese potrebbe
eseguire la sua opera a un semplice comando» e che «la spola tesserebbe e il plettro toccherebbe la lira senza che una mano li guidi».
Bisogna ricordare la natura e il ruolo della tecnica, che non è
un esempio della superiorità dell’uomo nel creato, come a prima
vista apparirebbe dalla sua ingegnosità e creatività, bensì il segno
della sua inferiorità biologica rispetto alle altre specie animali,
della sua carenza di dotazione istintuale, essendo così la tecnica il
suo strumento per sopravvivere.
Sul tema del cosiddetto dominio della tecnica nel mondo contemporaneo, che qui viene solo sfiorato, non possiamo comunque
che convenire con le trancianti affermazioni di Galimberti (2002,
34), per cui bisogna innanzitutto «farla finita con le false innocenze, con la favola della tecnica neutrale che offre solo i mezzi che poi
gli uomini decidono di impiegare nel bene o nel male [...] coloro
che, pur abitandolo, pensano ancora di rintracciare un’essenza
dell’uomo al di là del condizionamento tecnico, come capita di
sentire, sono semplicemente degli inconsapevoli». Il rischio – o
la già avvenuta realtà – è l’inversione – percepita già da Arendt
e chiaramente affermata, fra gli altri, da Galimberti – del rapporto mezzi-fini nella relazione fra uomo e tecnica: quest’ultima, da
mezzo per realizzare i fini dell’uomo, si trasforma in fine a se stessa di cui l’uomo è solo un mezzo.
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La “cifra” più stringente della riflessione di Arendt sul mondo contemporaneo non sta tanto nell’osservazione sia dell’avvenuto predominio dell’animal laborans e del lavoro, un tempo
esecrato, e adesso divenuto l’unica attività umana socialmente
accettata e persino glorificata, che dell’espansione della tecnica
che riduce a livelli impensabili il tempo di lavoro, ma, piuttosto,
va ricercata nella drastica negazione di ogni illusione rispetto alla
possibilità che l’emancipazione dal lavoro possa liberare l’uomo,
trasformandolo da animal laborans ad homo dedicato ad altre forme «superiori» di attività. Sebbene l’utopia di Marx ammettesse
la possibilità dell’emancipazione dal lavoro in tempi in cui la tecnologia e l’automazione erano ben lungi dal farla persino immaginare, oggi che il gigantesco progresso tecnico potrebbe permetterla, Arendt pronuncia un secco teorema dell’impossibilità della
liberazione dal lavoro per volgersi ad attività superiori: sebbene
la quantità del tempo libero dall’impegno lavorativo possa diventare persino la totalità del tempo di vita, in una società capitalistica centrata sull’economia e senza più sfera politica autonoma,
la libertà del tempo non può che trasformarsi in libertà di consumare ossessivamente quanto più mondo possibile: qui starebbe
l’errore di Marx, cioè nel non aver intuito che in una società e in
un tempo dominato dall’animal laborans più tempo libero si crea,
più crescono i rapaci, insaziabili e totalizzanti appetiti consumistici dell’uomo. Ma ad Arendt che preconizza il fatale esito della
deriva consumistica di una società basata sull’animal laborans, noi
potremmo aggiungere, alla luce degli avvenimenti contemporanei e ovviamente a lei successivi, altre forme di fatale esito quale
la finanziarizzazione del mondo economico globalizzato (il finanzcapitalismo di cui parla Luciano Gallino), il quale richiama il
predominio di un altro homo, il capitalista finanziario e banchiere,
che, forse a complemento del ruolo del lavoro come servizio alla
divinità, pone – per rimanere nell’ambito di una ineliminabile relazione fra teologia, politica ed economia – la “fiducia” ovvero
la “fede” (fides) al centro del proprio mondo che è poi il mondo
contemporaneo.
Nella prasseologia degli austro-economisti come Mises, sviluppata nel solco degli scolastici e gesuiti spagnoli, l’azione umana è estrinsecata nella scelta economica dei mezzi, indifferente
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Introduzione
XXIX
alle finalità, come la felicità e il benessere che, invece, motivano
l’azione umana nell’economia politica di Bentham e Stuart Mill.
È nella capacità di impiegare i mezzi per realizzare un profitto,
per produrre un risparmio, che questi ultimi diventano un fine
in sé: agire per far scaturire un profitto, un risparmio, considerati
di per sé e non perché il profitto o il risparmio siano generatori
di un fine come il benessere. È, in questo, visibile anche l’etica
calvinista del dovere del lavoro, del profitto e del risparmio, visti come un dovere religioso e non per l’utilità e la ricchezza che
generano. Il circuito corto del denaro impiegato per ottenere un
incremento di denaro (D-D’), che sembra caratterizzare la finanziarizzazione del capitalismo contemporaneo e che diventa anche
un corto circuito devastante per l’economia (la bolla speculativa
e il suo scoppio), può infatti consentire nel breve periodo un accumulo di denaro, un profitto ben più alto di quello ottenibile col
circuito produttivo, ovvero la circolazione definita da Marx come
D-M-D’ (investire una data quantità di denaro, D, nella produzione di merci, M, per ricavare poi dalla vendita di queste ultime
una quantità di denaro, D’, maggiore di quella investita). Nella
ricerca mediante il calcolo razionale di una irrazionale e insensata produttività e profittabilità finalizzate solo all’incremento di
se stesse, in cui si manifesta l’agire umano senza scopo teorizzato dalla prasseologia, possiamo individuare una caratteristica
dell’odierno capitalismo finanziario globale.
Uno degli elementi messi in luce dalla nostra analisi è la natura originaria del credito-debito, di cui la moneta è derivazione. Nelle società e nelle economie arcaiche, i depositi dei doni di
beni eccedenti erano parte di rituali per rendere obbligati amici e
nemici, costretti e indotti alla replica del contro-dono, del pegno
di valore che il debitore lascia in ostaggio al creditore a testimonianza della propria fides, del non darsi alla fuga di fronte agli
impegni da onorare.
Nella teologia del dono e contro-dono e del credito-debito c’è
quell’astrazione, quella «transustanziazione» – così Marx (come
prima di lui Hume) – di ogni merce “reale”, che da valore d’uso si trasfigura in valore di scambio, ovvero il denaro costituisce
il mezzo e il fine in sé dell’accumulazione capitalista. È sempre
Marx a considerare il denaro il dominus del capitalismo, ovvero
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Sovranità, credito e mercato
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ad affermare che il capitale finanziario sta come sovraordinato
rispetto al capitale reale (a dispetto della fama assunta soprattutto dai calcoli di Marx sulla composizione organica del capitale
industriale ecc.).
Forse, in molti esegeti è passata come una semplice nota erudita la lunga citazione che Marx nel Capitale (da noi richiamata
anche nel testo più avanti) riprende dalla Politica (1993, 18 [I, 9,
1256b 40-1]) dove Aristotele definisce la crematistica (innaturale) la «forma d’acquisizione […] a causa della quale sembra non
esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà». Per Marx essa è
«arte di far denaro», «il suo fine consiste nell’arricchimento assoluto. L’economica ha un limite, la crematistica no» (Marx 1867,
184n. [4.1]). La fonte della ricchezza non è più la produzione bensì la circolazione, il denaro e la finanza, invece dell’economia in
senso stretto (l’“economica”).
Nel capitalismo tutto ciò tende, secondo Marx, a fare del
«plusvalore […] fine ultimo e unico dell’umanità» (Marx 1867,
926 [24.6]); ma «non sorge dal carattere stesso della produzione
nessun bisogno illimitato di pluslavoro», di cui il plusvalore è
espressione (Id. 1867, 287 [8.2]). L’accumulazione illimitata di
capitale avviene attraverso un ciclo ripetuto all’infinito che cambia solo perché si espande continuamente. Quell’accumulazione
illimitata di capitale di cui parla Marx non è altro che la trasposizione nel sociale di ciò che Hegel chiama «cattiva infinità».
Per Hegel, logico e qui anche “teologo”, è «molto importante
intendere in modo appropriato il concetto della vera infinità e
non limitarsi alla cattiva infinità del progresso infinito», infatti
aggiunge che il «perdersi nell’osservazione di questo progresso infinito è noioso, perché è il continuo ripetersi della stessa
cosa […] di seguito senza fine […] Se poi si crede di liberarsi
dal finito passando in quell’infinità, in effetti si ha soltanto la
liberazione costituita dalla fuga. Ma il fuggitivo non è ancora
libero, perché nella fuga è ancora condizionato da ciò davanti a
cui fugge. Se poi si osserva ancora che l’infinito non può essere
raggiunto» (Hegel 2004, 275-6 [§ 94]).
L’illimitatezza dell’accumulazione di denaro che ha per mezzo e fine solo se stessa in un’eterna, infinita ripetizione è la “cattiva infinità” hegeliana in versione economico-finanziaria (come fa
Introduzione
XXXI
osservare Urquhart 2016), che nella realtà odierna del capitalismo
finanziario maturo porta alla proliferazione di strumenti creditizi
e finanziari con l’inevitabile contropartita di un debito illimitato,
infinito, ripetitivo.
Il richiamo di molti studiosi all’idea di debito-colpa, osservata da Nietzsche, e, per certi versi, ripresa con la folgorante
immagine del «capitalismo come religione» da Benjamin, ripropone la mistica-etica germanica della forza disciplinante del debito, obbligazione morale per eccellenza, di religiosa osservanza
di riti e precetti di comportamento. Tuttavia, un’adesione completa all’identità debito-colpa porta a disconoscere i pregi della salvezza da un debito irredimibile, non pagabile. Anche qui
irrompe il conflitto di potere che si instaura nei territori della
sovranità, del credito e del mercato, per definirne i limiti reciproci e le inevitabili sovrapposizioni e interferenze. La guida
austera dello Stato va in soccorso alle imprese, ma invita i singoli cittadini a diventare imprenditori di se stessi in ogni ambito
della propria esistenza, al fine di curare la casa e la proprietà
che debbono mantenere attraverso un responsabile equilibrio
tra entrate e uscite. Allora è chiaro che il debito diventa un fardello e uno strumento oppressivo, specialmente se lo Stato e la
banca centrale lasciano ai “mercati” (leggi banche e banchieri) il
dominio sovrano sui tassi d’interesse.
Lo Stato moderno, nella sua piena sovranità, riconosciuta e
acclamata, può costruire un debito anche “infinito”, irredimibile
(cioè sempre rinnovabile e incrementabile a scadenza), con la promessa di non estinguerlo con una dichiarazione di default, e di
onorarne il servizio con il pagamento degli interessi (ed eventuali
quote di ammortamento). La stessa cosa non è nei poteri dei privati, per i quali il debito è il classico fardello, la catena che incatena e può trascinare il debitore nella colpevole caduta del disonore
fallimentare e della conseguente espropriazione dei beni di sua
proprietà (in antico vigeva il nexus, ossia la riduzione in schiavitù
per chi non onorava il debito). Il debito dello Stato, per quanto
appena detto, può essere liberatorio, perché da esso dipende la
stessa “leggerezza” del tasso d’interesse applicato ai debiti dei
suoi privati cittadini. Il governo neo-ordoliberale dell’economia
identifica il governo dello Stato di diritto sovrano con quello del-
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Sovranità, credito e mercato
la famiglia, e il buon governo con l’idea del governo domesticoE
del buon padre di famiglia. L’identificazione che compie
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disegno politico preciso che è quello della statofobia: l’avversione verso lo Stato economico, che interviene nell’economia per
imporre tasse e redistribuire reddito, trova una giustificazione
proprio nell’equiparazione rozza famiglia-Stato. L’idea della già
ricordata diligenza e responsabilità del bonus pater familias poteva
valere in epoche passate come criterio generale, ma vale molto
meno in epoche moderne, nelle quali lo Stato riesce ad affrancarsi
dal giogo dei banchieri privati; ciò ovviamente può accadere solo
nella misura in cui la sovranità statale è in grado di instaurare
una “rivoluzione finanziaria”, fiscale e di gestione del proprio
debito (come quella inglese di metà del XVIII secolo e quella francese successiva alla Rivoluzione, richiamate a grandi linee nella II
parte), per sottrarsi finalmente dal dominio dei mercati dei capitali. Il debitore sovrano, e sovranamente consapevole che il peso
del proprio debito può schiacciare i suoi creditori, mette questi
ultimi nella condizione degli antichi servitori, quando a fare le
condizioni era il “padrone di casa”.
Lo Stato è sovrano se sottrae la determinazione dei tassi d’interesse ai banchieri. In quel caso è la (sua) domanda di debito a
determinare il tasso d’interesse fondamentale per l’economia e
l’offerta di credito da parte della banca e della finanza è perciò
in posizione subordinata. Il governo neo-ordoliberale, rispetto al
sistema keynesiano, intende riportare – come ha fatto – l’asse del
dominio sul mondo della banca e della finanza, soggiogando ad
esso la domanda di debito da parte degli Stati.
Due sono i momenti cruciali di questa battaglia per la sovranità. Il 1971 è la data simbolo che lascia ai mercati, ovvero al capitalismo finanziario internazionale, la determinazione del valore
delle monete nazionali e spalanca la porta per una finanziarizzazione senza precedenti. Attorno al 1979 si situa l’altro tornante
storico nel quale si realizza, nelle principali economie avanzate,
una separazione fra Tesoro e banche centrali, alle quali viene riconosciuta una formale “autonomia” per significare la volontà (politica) di sottrarle dal loro ruolo storico di finanziatrici di prima
istanza dei bisogni finanziari dei governi. Con tale operazione di
depotenziamento finanziario si costringono gli Stati all’indebita-
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Introduzione
XXXIII
mento forzato alle condizioni stabilite dalla finanza internazionale. Uno dei cavalli di battaglia del neo-ordoliberalismo è quello di
affermare che lo Stato troppo indebitato trasferisce sulle generazioni future oneri di pagamento che dovranno essere compensati
estraendo tasse e imposte e limitando le loro capacità di spesa e di
soddisfazione nei consumi. Lo Stato sovrano moderno – purché
Leviatano in grado di disciplinare banche e banchieri – può permettersi di creare un debito infinito. Rinnovarlo a ogni scadenza,
come in una sorta di Ponzi finance statale. Le generazioni future
si troveranno sì di fronte a una mole tale di debiti che solo un dio
potrà ripagare attraverso una soluzione giubilare ma si troveranno anche con più beni pubblici: scuole, ospedali, tempo libero. In
questo il debito, se ben governato – ovviamente – nella “qualità”
della spesa sociale, specialmente, è una risorsa di civiltà e non
una regressione verso la schiavitù.
Il richiamo ossessivo dell’odierna economia neo-ordoliberale
alla salvaguardia delle future generazioni dai danni del debito
pubblico corrente è una delle più subdole truffe ideologiche della
teoria economica; c’è da domandarsi infatti perché i cantori di
quella logica economica, che porta, invece, effettivamente allo
sterminio corrente di milioni di bambini nella periferia del mondo, diventino così attenti all’etica per quanto riguarda i bambini
del futuro. Dobbiamo notare che questi ultimi, a fronte di un debito sempre rinnovato e mai rimborsabile, che non costituirà per
loro alcun problema, godranno di un corrispondente elevato benessere di uno Stato sociale sostenuto da quel debito. La risposta,
allora, va ricercata ancora nella relazione fra sovranità e credito/
debito: il debito pubblico serve al capitale finanziario mondiale
per sostenerne il saggio di profitto, ma perché ciò accada la sovranità sul debito medesimo deve essere sottratta al “politico” per
essere affidata ai creditori medesimi, i quali valuteranno quando
e come gli interessi e il rimborso dei debiti debbano essere fatti al
solo fine di massimizzare i loro profitti.
Quanto infine alla contemporaneità, la nostra analisi si sviluppa in forma di “decalogo” critico (nella III parte) delle principali tesi e tecniche di governo totale dell’ideologia neo-ordoliberale, oggi dominante in maniera pervasiva in tutto il mondo e
specialmente nell’Unione Europea.
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Al di là degli aspetti dottrinali di tale ideologia, abbiamo sottolineato specialmente la sua specifica natura di un pensiero che
però è soprattutto azione politica militante, che si è estrinsecata
attraverso organizzazioni multiple dedite alla costruzione politica di una società che realizza la vera “gabbia d’acciaio” in senso
weberiano e porta a compimento la profezia di Benjamin del “capitalismo come religione”.
La sovranità sul credito e la moneta è il “millenario” campo di
battaglia (esteso fra i poli dell’alleanza e del conflitto) fra la casta
più o meno “sacerdotale” dei capitalisti finanziari (che per Braudel non hanno nulla a che vedere né con il mercato di scambio né
con l’imprenditore schumpeteriano, ma sono una casta definita
dal loro “potere” nella gerarchia sociale) e le istituzioni politiche
e sociali che si sono formate ed avvicendate nella storia, dal regime antico allo Stato moderno, a sua volta prima assolutista e poi,
infine, democratico-liberale, per il “comando” sulle vite (per Marx,
che da post-hegeliano conosce le sottigliezze teologiche ma anche
la “critica”, il denaro è l’astrazione universale che comanda il lavoro, ovvero le vite, e tramite ciò si rivela l’alchemico mistero della
sua “cattiva infinità”). Giusto per esemplificare, la distinzione fra
moneta-credito e moneta-merce nella paradigmatica contesa fra
Keynes e Hayek, come la distinzione fra “regole” e “discrezionalità” nella condotta della politica monetaria, oppure ancora la differenza nelle teorie dell’interesse in Keynes o in Sraffa o nell’economia mainstream, sono elementi della moderna teoria monetaria che
possono essere letti alla luce del paradigma teologico-monetario e
della dialettica nella triade sovranità, credito e mercato.
Avvertenze
Nelle citazioni da opere “classiche”, o ritenute tali, si è, generalmente, indicato l’anno della prima edizione (p.e., Smith 1776).
Tuttavia, le citazioni e i rinvii all’opera (in questo caso, alla Ricchezza delle nazioni) sono da un’edizione o da una traduzione successive al 1776, così come indicato precisamente in bibliografia.
Tale regola è stata seguita, quando possibile e quando opportuno, per richiamare (quasi) immediatamente autore, opera, epoca.
Introduzione
XXXV
Per le opere citate più spesso si è preferito fornire, a seguito della
pagina, l’indicazione di capitolo e paragrafo, per permettere di
rintracciare facilmente il passo in questione in una delle diverse
edizioni dell’opera. Un esempio, forse, chiarisce meglio quanto
appena detto: Arendt (1958, 256, III, n. 20) rinvia al libro di Hannah Arendt pubblicato in edizione originale nel 1958, 256 è la pagina dell’edizione italiana indicata in bibliografia e per III, n. 20
si intende il cap. III e la nota 20; in casi più semplici, tipo: Arendt
(1958, 63-4, III.14) il III.14 significa cap. III, paragrafo 14. Tuttavia,
non sempre è stato possibile fornire indicazioni così precise, per
consentire al lettore di rintracciare il brano citato in originale o
tradotto. Spesso, dai testi in lingue straniere, siamo ricorsi a nostre traduzioni (ciò vale specialmente per quelle opere che non
hanno avuto traduzioni nella nostra lingua, o non è stato possibile rintracciarle facilmente).
In bibliografia gli “a cura di” sono stati sostituiti dalle equivalenti abbreviazioni inglesi di ed. o eds. (rispettivamente al singolare o al plurale) solo per fornire una sigla più sintetica.
Un’altra precisazione, più concettuale, riguarda le due “famiglie” neoliberali, quella del neoliberalismo, austro-americano
(Hayek – scuola di Chicago, per intenderci), e quella dell’ordoliberalismo germanico, forgiato essenzialmente dalla cosiddetta
scuola di Friburgo. Come vedremo le due scuole hanno “anime”
diverse, ragioni teoriche distinte su alcuni punti, ma forti elementi di convergenza sulle prassi politiche e di politiche economiche,
di propaganda (che gli aderenti chiamerebbero “educazione”).
Per questo abbiamo usato due neologismi: più spesso quello di
neo-ordoliberalismo, per sottolinearne, dove necessario, presupposti e intenti comuni, quella di neo-ordo-liberalismo, quando era
necessario sottolineare una lieve sfumatura, al fine di avvertire
dell’esistenza di modi diversi con i quali ognuno dei due filoni
tratta una questione specifica, pur senza andare a rimettere in discussione la comune visione di fondo. Va poi da sé che quando
le due scuole di pensiero e azione hanno seguito impostazioni
divergenti lo abbiamo espresso facendo riferimento alle loro denominazioni originarie e al fine di rimarcare meglio i punti di
attrito (nei par. 15.4 e 15.5 si trovano, comunque, le “definizioni”
più stringenti, per chi fosse impaziente di conoscerle fin da ora).
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Parte I
La categoria del moderno
e le sue implicazioni economiche e sociali
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Capitolo 1
ANTICO E MODERNO: PUNTI DI ROTTURA,
PONTI DI PASSAGGIO
1.1. Alla ricerca del tempo moderno
nel momento in cui avevo riconosciuto inconsapevolmente il sapore della piccola madeleine, poiché, in quel
momento, l’essere che ero stato, era un essere extratemporale, e dunque incurante delle vicissitudini dell’avvenire.
(Proust 1990, 2319)
È giunto il momento di invitare ciascuno a realizzare il
proprio destino. Il progresso della ragione umana ha posto
le basi per questa grande rivoluzione, e ora assumerete il
particolare compito di accelerarne il ritmo. (Robespierre,
Discorso sulla Costituzione, 10 maggio 1793)
Tutto questo, e ciò ch’era stato e ciò che seguì, si svolse in
un tal viluppo di rapidità, che passato, presente e futuro
parvero un attimo solo. (Melville 1992, 299)
Modernità è un concetto temporale di una semplicità un po’ troppo misera e vaga, e col suo uso spesso disinvolto, si rischierebbe di
squalificarne il senso, se non fosse anche un argomento estremamente ricco di sfaccettature, allusivo e denso di problemi, necessario per definire quel che di nuovo si è imposto in sostituzione di
quello che invece non è più. Cosa sia il “nuovo” resta comunque
indefinito, come indefinito rimane il pre-moderno. Non poteva essere altrimenti, visto che il cambiamento a cui si allude pone già
grossi problemi per la (quasi) totalità delle scienze umane che pure
ne fanno un uso quasi quotidiano. In sociologia, modernità è il mutamento sociale avvenuto dopo la Rivoluzione industriale e dopo
la Rivoluzione francese. E almeno questa definizione è già qualcosa, anche se i due fenomeni non coincidono né nello spazio né nei
tempi. Ma anche a tal riguardo, la soglia iniziale della modernità si
sposta, all’indietro o in avanti, a seconda dei fenomeni a cui si intende dar rilievo. Si pensi alle questioni dello sviluppo economico,
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Parte I - La categoria del moderno
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della transizione demografica, dell’urbanizzazione, della divisione
e organizzazione del lavoro, delle condizioni di vita e della differenziazione e stratificazione sociale in base al reddito, oppure si
considerino i cambiamenti delle strutture familiari, della formazione dello Stato (appunto) moderno, della burocrazia e della fiscalità che lo contraddistinguono, delle istituzioni e degli ordinamenti
giuridici che lo regolano e regolano la vita sociale, infine ma non da
ultimo, delle basi etiche della società, delle credenze e via dicendo.
Ma c’è di più: non bisogna dimenticare che l’asincronismo
negli eventi e nei fattori di cambiamento considerati, ma anche le
varie difficoltà nell’identificare i punti di svolta, hanno indotto a
porre maggiore attenzione alle tendenze di fondo, cioè alla continuità piuttosto che alle discontinuità. Nelle scienze economiche,
nelle quali la critica allo storicismo (p.e. con Menger, vedi par.
5.2) ha fatto breccia, la modernità ha trovato un terreno fertile
nella destoricizzazione delle categorie fondamentali, tipo “economia di mercato”, capitalismo e altre ancora, che vengono narrate
come eterne invarianti. Tutto ciò ha condotto anche ad abbandonare riferimenti a quei concetti socio-economici che venivano ritenuti troppo complessi per la loro intrinseca valenza olistica e organicistica, dando, invece, valore alla stretta oggettività empirica,
quasi narrativa, o sofisticatamente narrativa, con l’ausilio di strumenti analitici raffinati, semplificando talora quello che un tempo
era detto “senso storico”. Un esempio di questo dualismo interpretativo rispetto all’avvento del moderno nella storia è la stessa
Rivoluzione industriale, a seconda che sia considerata, alternativamente, come momento di cambiamento radicale e profondo
nel sistema economico, nei modi di produzione e di distribuzione
del reddito, oppure come appartenente a un contesto più ampio
di sviluppo economico di lungo periodo; in quest’ultimo caso, le
categorie, per esempio, di feudalesimo (o società post-feudale) e
capitalismo sono rimpiazzate da un più anodino termine “pre-industriale” e tutto il cambiamento è riportato nell’ambito di concetti-misura, del tipo prodotto interno lordo, reddito et similia.
Nelle altre scienze umane la distinzione tra epoche storiche
svolge ancora un valore euristico fondamentale. E la stessa modernità, e la modernizzazione, intesa come processo, mirano a segnare
una linea di separazione per distinguere territori diversi, al di là
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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della distinzione fra gradualità o rottura, fra continuità o cambiamento, che contraddistinguono il passaggio dall’uno all’altro. In
altri termini, non si tratta solo di un problema di cambiamenti nella
misura quantitativa di certe grandezze socio-economiche, ma della
sostanza di una società che, nel suo insieme, cambia. Un sistema
economico si caratterizza per uno specifico modo di organizzare le
attività produttive, l’utilizzo delle risorse, la distribuzione del reddito e dei prodotti, le relazioni tra soggetti e funzioni che cambiano
per intensità ma anche per intervento di un insieme di categorie e
strutture istituzionali che interagiscono tra loro e col mondo della produzione e della circolazione dei beni. Il cambiamento complessivo, generato dalle interazioni anche dei livelli istituzionali,
disegna un nuovo sistema economico con le sue complessità, i suoi
equilibri e le sue dinamiche che lo differenziano sostanzialmente
rispetto ad un altro. Ad esempio, un serio problema interpretativo
si pone nel passaggio tra feudalesimo e capitalismo e non si può
pensare che possano essere stati solo i brandelli di mercato, che
sono presenti anche in società arcaiche, ad essere stati i responsabili
del traghettamento verso un’intera società fondata sull’economia
di mercato, su nuove regole di governo economico che disciplinano il mondo e le persone. Schumpeter afferma che l’economia si
occupa essenzialmente di processi che hanno una loro coerenza e
unitarietà «nel tempo storico». Ciò dà un senso evolutivo a categorie e concetti economici che, per Schumpeter, riflettono, «inevitabilmente, anche fatti istituzionali», cioè non strettamente economici (Schumpeter 1954, 16 [II, 1]). Schumpeter non crede a un corso
della storia segnato da fratture, sebbene non accetti di abbandonare concetti densi di complesse relazioni di sistema, come quello
della «struttura economica e sociale del medioevo» che dovrebbe
rimanere distinto rispetto a quello del capitalismo o dei sistemi a
economia pianificata1. Egli è molto severo nei confronti di rotture
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Su posizioni analoghe anche il noto e “classico” saggio di Gerschenkron,
il cui suggerimento era comunque di «meglio individuare le specifiche strutture
continue e discontinue» dei processi storici e, in particolare, del processo di industrializzazione, per interpretare «l’espansione economica come un insieme di
modificazioni intelligibili del saggio di sviluppo, che si verificano modo paulatim,
modo saltatim [poco a poco e in modo discontinuo]» ed evitare, così, diatribe tra
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Parte I - La categoria del moderno
nette nei processi storici. Respinge, ad esempio, senza mezzi termini, l’interpretazione weberiana della nascita del capitalismo,
secondo lui, Weber avrebbe erroneamente costruito «un problema
completamente immaginario», quello di una società «puramente
feudale» e di una «puramente capitalistica», per risolvere il passaggio dall’una all’altra con un semplice cambiamento di attitudine
verso la vita, cioè attraverso la produzione di uno spirito congeniale all’attività capitalistica che trasforma «un individuo limitato
dalla tradizione in un solerte cacciatore di profitto» (Schumpeter
1946). Secondo Schumpeter, i cambiamenti in questione hanno riguardato istituzioni, e relazioni tra livelli istituzionali, che influiscono sulle strutture economiche e permettono a queste di funzionare meglio o peggio, in modo più o meno resistente rispetto agli
shock di natura interna o esterna; inoltre, le istituzioni proteggono
o svantaggiano nuovi o vecchi attori, gruppi o classi sociali. Il problema dei cambiamenti storici è complesso e analogo a quello del
geografo meticoloso che deve stabilire la scala adatta per tracciare
la riva del mare avendo in mente il monito del poeta messicano
José Gorostiza: «No es agua ni arena la orilla del mar» (non è acqua
né sabbia la riva del mare).
A proposito di geografia, il moderno è però, per analogia, anche l’Occidente rispetto a tutto il resto. Max Weber nelle osservazioni preliminari alla sua monumentale Sociologia delle religioni
affronta appunto la questione seguente: «per quale concatenazione di circostanze, proprio qui, in terra d’Occidente, e soltanto qui,
si sono prodotti dei fenomeni culturali i quali – almeno come ci
piace raffigurarceli – si sono trovati in una direttrice di sviluppo
di significato e di validità universali?». Il riferimento è allo sviluppo della scienza, con le sue basi matematiche e sperimentali,
dell’arte, dello Stato e dell’economia, che si manifesta attraverso la razionalizzazione dell’«istinto del profitto» e della «sete di
guadagno», dell’aspettativa di guadagno «sfruttando […] delle
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«opposte schiere di coloro che amano e di coloro che detestano le rivoluzioni, i
quali dovrebbero cercarsi il loro terreno di giuoco e il loro campo di battaglia fuori
dal recinto della ricerca seria» (1976, 31). Ma è davvero possibile, nelle scienze
sociali, trovare un terreno così del tutto asettico e privo degli influssi di quella «visione» che Schumpeter definisce «atto conoscitivo preanalitico» (1954, 52 [4, (d)])?
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
7
occasioni di lucro (formalmente) pacifiche», con calcolo contabile
razionale e un’«organizzazione razionale capitalistica del lavoro
(formalmente) libero», e, in definitiva, «in tutti questi casi ci troviamo di fronte ad una forma specifica di razionalizzazione che
è propria della cultura occidentale» (Weber 1920, vol. I, 99, 102-3,
106 e 111). Dunque razionalità e Occidente, e già qui si individuano rotture che hanno una geografia e devono avere un tempo.
1.2. Antico e moderno: l’individuo e la libertà
si lamentava della semplicità severa e franca con cui le affermavo che tutti quegli ultra-liberali erano certo rispettabilissimi per le loro virtù, ma incapaci di capire che due e
due fanno quattro. (Stendhal 1944, 49)
Dubito che l’uomo possa mai sopportare contemporaneamente una completa indipendenza religiosa e una totale
libertà politica; e sono incline a pensare che, se non ha fede,
bisogna che serva e, se è libero, che creda. (Tocqueville, cit.
in Zagrebelsky 2008, 146)
Non si deve confondere società e governo. La società è prodotta dai nostri bisogni, mentre il governo è prodotto dalle
nostre debolezze. […] La società incoraggia la relazione, il
governo crea delle differenze. La società è un patrono, il
governo è ciò che punisce. In ogni circostanza, la società è
una benedizione. Il governo non è altro, nei casi migliori,
che un male necessario, mentre in quelli peggiori è intollerabile. (Paine 1793, 165)
Le dimensioni della modernità sono tali e tante che nel 1819 Benjamin Constant tenne una conferenza dal titolo incisivo per declinare
lo stesso concetto di libertà in antico e moderno (Constant 1819;
e Berlin 1969)2. Una dicotomia concettuale, quella che distingue
nettamente la libertà in due categorie, la libertà degli “antichi” e
quella dei “moderni”, che è ancora oggi al centro della riflessione
della filosofia politica sui sistemi politici e sul liberalismo. Come
dice Bobbio (1978), di queste due libertà, la prima corrisponde alla
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Su antichi e moderni la “querelle” risaliva molto più indietro, nella Repubblica delle Lettere, ma si trascinò molto a lungo, fino agli inizi del XIX secolo;
cfr. Fumaroli (2005) e Iacono (2019).
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Parte I - La categoria del moderno
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definizione corrente di libertà negativa, la seconda corrisponde alla
definizione altrettanto corrente di libertà positiva3. La prima è un
bene per l’individuo nel contesto di una concezione individualisti-
3
Secondo Bobbio (1978), posto che esistano nel linguaggio politico due
forme di libertà generalmente note come “negativa” e “positiva”, la “libertà negativa” si definisce come la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di agire
senza essere impedito, o di non agire senza essere costretto, da altri soggetti. La
definizione di “libertà negativa” può essere ulteriormente qualificata distinguendola in due sotto-casi, ovvero in “libertà come assenza d’impedimento” – dove per
impedire s’intende il non permettere ad altri di fare alcunché – e in “libertà come
assenza di costrizione” – dove per costringere s’intende l’obbligare altri a fare alcunché. Se vista in riferimento al soggetto di cui è il predicato, la libertà negativa è
una qualifica dell’azione (cioè una certa mia azione non è ostacolata, si ha la libertà
di agire). Ancora Bobbio illustra l’origine del concetto a partire dall’uso fattone da
alcuni fondatori, quali Hobbes, Locke e Montesquieu. Per Hobbes, in De cive, questa
libertà si manifesta su infinite attività laddove su esse vi sia silenzio della legge:
«vi saranno necessariamente infinite attività che non risulteranno né comandate né
proibite, e che ciascuno potrà svolgere o non svolgere a suo arbitrio. Qui si può dire
che ogni cittadino goda di una certa libertà, intendendo per libertà quella parte del
diritto naturale che viene rilasciata ai cittadini in quanto non è limitata dalle leggi
civili» (Hobbes 1948, XIII, 15). Locke mantiene la definizione hobbesiana: «la libertà
degli uomini sotto un governo consiste […] nella libertà di seguire la mia propria
volontà in tutto ciò in cui la norma non dà precetti, senza esser soggetto alla volontà
incostante, incerta, sconosciuta e arbitraria di un altro» (Locke 1690, IV, 22). Infine,
Montesquieu ne formula la definizione più nota e più classica: «La libertà è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono» (nel suo De l’esprit des lois, 1748, XII,
2). Per concludere, Bobbio rileva anche che talvolta la libertà negativa è chiamata
come il suo sotto-caso di “libertà come non impedimento” perché, in genere, tutte
le libertà civili rappresentano il risultato di una lotta contro precedenti impedimenti
piuttosto che contro precedenti costrizioni. La libertà positiva si definisce, invece,
come la situazione in cui un soggetto ha la possibilità di prendere delle decisioni,
senza essere determinato dal volere altrui, ovvero di autodeterminarsi. Se vista in
riferimento al soggetto di cui è il predicato, la libertà positiva è una qualifica della
volontà (cioè il mio volere è libero, ho la libertà di volere). Così la intende, per esempio Rousseau, quando l’uomo, in quanto parte del corpo politico omogeneo ovvero
dell’“io comune”, non ubbidisce ad altre leggi se non a quelle che si è dato: «L’obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la libertà» (nel Contratto sociale, 1762, I,
8). Tale concetto di libertà fu ripreso, per influsso diretto di Rousseau, da Kant, dove
peraltro si trova anche il concetto di libertà negativa. Infine, mentre le Dichiarazioni
dei diritti dell’uomo (art. 4 della Dichiarazione del 1789, art. 5 della Dichiarazione
del 1793), definiscono la libertà giuridica come «come la facoltà di fare tutto ciò che
si vuole pur di non recare ingiustizia ad alcuno», Kant (1994, II, 46) esclude tale
definizione, preferendo quella di «facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia
quella a cui i cittadini hanno dato il loro consenso».
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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ca della società, la seconda è un bene per l’individuo in un contesto
in cui esso si sente membro di una collettività (società) che deve
prendere decisioni. Constant collega ciascuna tipologia di libertà ad
una differente epoca storica e, quindi, a un differente sistema politico – la libertà positiva “all’antichità” delle città-stato (polis) e quella
positiva alla modernità e agli Stati moderni – scrivendo: «Il fine degli antichi era la suddivisione del potere sociale fra tutti i cittadini di
una stessa patria: era questo ciò che chiamavano libertà. Il fine dei
moderni è la sicurezza nei godimenti privati; e chiamano libertà le
garanzie accordate dalle istituzioni a questi godimenti» (Constant
1819, 55). Il “discorso” di Constant, divenuto uno dei testi fondativi
del liberalismo, definiva la libertà degli antichi quella «fatta della
partecipazione attiva e costante al potere collettivo», mentre quella
dei moderni, ossia quella che «ci è propria», soltanto «fatta del godimento pacifico dell’indipendenza privata». Quella degli antichi
era perciò una società ristretta, nella quale gli uomini liberi partecipavano attivamente e costantemente all’esercizio di un potere collettivo. La società moderna vede la mobilità degli individui e delle
masse, che entrano anche in conflitto per godere dei «progressi della civiltà», resi disponibili dalla scala degli scambi commerciali e
dalle occasioni d’accesso ai «mezzi della felicità dei singoli». Venute meno quelle condizioni e «[p]erso nella moltitudine, l’individuo
non avverte quasi mai l’influenza che esercita. Mai la sua volontà
s’imprime sull’insieme; niente prova ai suoi propri occhi la sua cooperazione». L’inattaccabilità della sfera privata definisce la libertà
in senso negativo, e la libertà individuale è l’autentica libertà dei
moderni. Si tratta perciò di delimitare il potere, il perimetro dello
Stato, che può generare conflitto o meglio oppressione, prevaricazione nei confronti dei privati, i quali si trovano in costante posizione di difesa per limitare e sorvegliare le prerogative dell’autorità
statale. La società civile per i liberali è di per sé armonica, non vive
di conflitti, è pacificata, perché i conflitti si risolvono nella libertà di
incontro tra interessi che trovano mediazione nei contratti d’affari.
La critica di Carl Schmitt al liberalismo riguarda proprio la presupposta armonia che la società liberale persegue e ritiene di ottenere.
Per Schmitt il liberalismo è fondamentalmente la «negazione del
“politico”» che, in quanto «contenuta in ogni individualismo conseguente, conduce bensì ad una prassi politica della sfiducia nei
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Parte I - La categoria del moderno
confronti di tutte le forze politiche e le forme di Stato pensabili»
(Schmitt 1932, 156). La protezione della libertà individuale e della
proprietà privata si realizza, paradossalmente, attraverso la sfiducia totale nella politica e nelle istituzioni della politica, dello Stato
in primo luogo, in nome del dominio dell’economia. Quest’ultima,
in particolare, è la sfera autonoma che ha norme proprie e dispositivi, come il mercato, per fissazione dei prezzi, distribuzione del
reddito e allocazione delle risorse senza dover rispondere ad altri
criteri se non ai propri. L’economia «è diventata qualcosa di “politico”», con «strumenti economici di potere» (Schmitt 1932, 156 e 164).
Aggiunge ancora Schmitt (1932, 159): «Che produzione e consumo,
formazione del prezzo e mercato avessero una loro propria sfera e
non potessero essere diretti né dall’etica, né dall’estetica, né dalla
religione né, meno che mai, dalla politica, era uno dei pochi dogmi
realmente indiscutibili e indubitabili dell’epoca liberale». La libertà
degli antichi si confondeva col loro concetto di sovranità.
uesto E-book
appartiene
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Così tra gli antichi - afferma Constant (1819, 39) -, l’individuo, sovrano
pressoché abitualmente negli affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino, decide della pace e della guerra; come singolo, è limitato, osservato, represso in ogni suo movimento; come parte del
corpo collettivo, inquisisce, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a
morte i suoi magistrati o i suoi superiori; come sottomesso al corpo collettivo, può a sua volta esser privato della sua condizione, spogliato delle sue
dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme
di cui fa parte. Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella
vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in apparenza.
L’unicità e l’indivisibilità della sovranità si esprimevano, per
gli antichi, in un potere quasi totalizzante. La libertà dei moderni,
ovvero quella dei privati come la intendeva Constant, era quella
che Rousseau riteneva illusoria, apparente, circoscritta alle occasioni di voto nelle quali il popolo esprimeva la volontà generale:
«Il popolo inglese crede di essere libero; si sbaglia di grosso, lo
è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento; appena
questi sono eletti, diventa schiavo, non è più niente. Nei brevi momenti della sua libertà, l’uso che ne fa merita di fargliela perdere»
(Rousseau 1762, 322 [III, 15]). Il bersaglio polemico di Constant era
rappresentato da Mably. L’abate Gabriel Bonnot de Mably, filosofo e fratello di (Étienne Bonnot de) Condillac, era propugnatore
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
11
della sovranità della legge, critico dell’armonia che i fisiocratici
vedevano dipendere dagli interessi e dalla proprietà fondiaria, e
non dalla proprietà comune, intesa nel senso di collettività di corpo sociale; cosa interessante, Mably era difeso principalmente da
conservatori e reazionari, ma accolto anche dallo stesso pensiero
rivoluzionario, che da lui aveva tratto i valori della patria comune,
delle virtù soggiogatrici delle passioni, quali fondamenti dell’unità repubblicana (Harpaz 1954 e 1955; e Guerrier 1886, 48-51).
1.3. Vita activa tra antico e moderno
Eppure, quando si agisce bisogna pur fidarsi di qualcuno!
(Stendhal 1990, 378, II, 21).
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Non appena l’uomo riuscì ad avere tanti schiavi insieme,
come le bestie nel gregge, furono poste le basi dello Stato e
della detenzione del potere. (Canetti 1989, 465)
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È tipico per questa distinzione fra possesso e proprietà che
vi fossero città greche in cui i cittadini avevano l’obbligo
giuridico di dividere i raccolti e di mangiare in comune, ma
che nelle stesse città ognuno di loro conservasse l’indiscusso
diritto di proprietà sul proprio terreno. (Arendt 1958, 247)
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Un interessante modo di affrontare le questioni della modernità
è proposto da Arendt (1958) attraverso un tentativo, forse ancora ineguagliato, di ricomporre la molteplicità di dimensioni del
mondo moderno dentro un quadro complessivo di sviluppo
storico materiale e di storia della politica e dell’ethos sociale4. Il
concetto chiave è quello di vita activa, cioè la traduzione nel pensiero medievale, ma già presente in Agostino, dell’aristotelico
bios politikos. La vita activa assume tre forme permanenti di attività che interagiscono tra loro, ma secondo una gerarchia variabile che si stabilisce ed evolve nel tempo. Le forme per così dire
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Il libro uscì nel 1958 col titolo The human condition (Chicago, University
of Chicago Press). L’edizione italiana a cui si fa riferimento (Arendt 2006) modifica
il titolo originario così come era avvenuto nell’edizione tedesca del 1960 (Vita activa order vom tätigen Leben) e come è in quello del § 1: “Vita activa e la condizione
umana” (elidendo la congiunzione). Come termine di confronto si è tenuto presente la II ed. (Chicago-London, University of Chicago Press, 1998).
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Parte I - La categoria del moderno
elementari sono: lavoro, opera e azione (rispettivamente: labour,
work e action). Si tratta, ad un tempo, di attività concrete, perché
interessano il modo in cui gli uomini si rapportano col mondo,
e anche di visioni etiche, perché mettono in relazione gli uomini
tra di loro. Il valore, di fatto e per costume, assegnato a ciascuna
di queste componenti della vita activa connota un ordinamento
che, secondo Arendt, varia ed evolve lungo quattro grandi epoche del mondo occidentale: l’antichità, il mondo cristiano, che va
all’incirca dal V fino al XVII secolo circa, il mondo moderno, che
prende forma dopo la metà del XVII secolo e, infine, l’età contemporanea, che inizia dopo la prima guerra mondiale ed è una
propaggine della precedente, della quale, però, porta alle estreme
conseguenze quanto già venuto a maturazione, specialmente in
ambito tecnologico e di organizzazione del lavoro a causa del crescente predominio delle tecniche.
Arendt mette in piedi una griglia analitica complessa nella quale le forme della vita activa sono inserite e cambiano lungo
direttrici specifiche (v. tav. 1). Oltre alle suddette tre distinzioni
dell’attività umana, ella prende in considerazione altre differenze
che consentono una definizione dei concetti attraverso una lente
multidimensionale caratterizzata dalle dimensioni di i) potere, violenza e forza, ii) libertà, proprietà e ricchezza, iii) terra e mondo di
lavoro, iv) contemplazione e ozio, v) ruolo occupato dalla scienza.
A quest’ultimo riguardo, Arendt introduce il “punto di Archimede”, espressione ripresa da una frase di Kafka5, per indicare che il
punto di leva viene posto finalmente fuori dall’uomo: è a partire da
questo “punto” che si apre la strada alla rivoluzione di paradigma
scientifico e filosofico. Il cannocchiale di Galileo costituisce lo strumento e l’invenzione fondamentale attraverso la quale superare la
centralità del mondo umano e la credulità indotta dai molteplici
trompe l’oeil che, senza l’esperimento, celavano la realtà sotto una
velatura opacizzante (Arendt 1958, 190 e ss., 36). Tutte queste categorie sono calate nel rispettivo tempo storico e danno senso alle
genealogie filosofiche ed etimologiche, e alle tensioni evolutive che
Questo E-boo
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La frase è in esergo del cap. VI in Arendt (1958, 183): «Ha trovato il punto di Archimede, ma se ne è servito contro se stesso; evidentemente gli è stato
possibile trovarlo solo a questa condizione».
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
13
le modificano e le trasformano per consegnarle alle epoche successive, nelle quali non solo cambiano di significato e di rango, ma
acquistano anche ruoli e funzioni diverse finendo per rompere una
tradizione ed instaurare una società diversa. Sono categorie propriamente storiche perché spiegano le epoche della storia.
Tav. 1 - Caratteristiche della vita activa in Arendt.
Lavoro
(labour)
Opera
(work)
Finalità
sussistenza
riproduzione della vita
sussistenza
creazione di opere
Regime di libertà
schiavitù
Prodotto
beni di prima necessità
consumi caduchi
relativa autonomia
dell’artigiano
Stile di vita
Azione
(action)
l’azione è finalizzata
in sé – politica.
Vivere bene
libertà
beni che restano
consumi durevoli
beni pubblici
istituzioni
animal laborans
homo faber
Sfera di attività
privata
privata
mercato
cives, bios politicos
vita contemplativa
Nel “tempo libero”
consuma
Credenze
«ha sempre chiesto
di essere felice»
consuma e idea
attrezzi e macchine
«gioie del lavoro»
e della tecnica
pubblica
istituzioni
agisce e parla
contempla, prega
onore e virtù
La tav. 1 merita qualche primo breve commento, anche anticipando aspetti ripresi successivamente. Lo scopo principale per il
quale l’abbiamo costruita è quello di sintetizzare le caratteristiche
essenziali delle tre forme di attività: i) finalità, ii) regime prevalente di libertà d’azione, iii) beni prodotti, iv) stile di vita, cioè di
quell’insieme di scelte e atti che definiscono il comportamento e
l’immagine sociale, v) sfera di attività, vi) le inclinazioni prevalenti nell’uso del tempo “libero” e vii) il profilo etico, le credenze
e le convenzioni. Se per quanto riguarda l’animal laborans il lavoro
lo conduce a una vita obbligata e sottoposta alle necessità primarie, del tutto «simile a quella del gregge» (Arendt 1958, 115,
IV.22), per l’homo faber l’opera, il proprio lavoro, fornisce la dignità e l’orgoglio di poterlo eseguire in una certa autonomia e consapevolezza di mezzi per fini concreti, materiali, a cui è rivolto lo
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Parte I - La categoria del moderno
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sforzo lavorativo. Egli è perciò un creatore di strumenti, rivolti
essenzialmente ad alleviare le fatiche dell’animal laborans (Arendt
1958, 103, IV.20). L’homo faber è un “reificatore”: è «creatore del
mondo dell’artificio umano» (Arendt 1958, 99, IV.19). L’attività
dell’azione, invece, è finalizzata in sé (Arendt 1958, 112, IV.21 e
173, V.32). Non rientra nella strumentalità mezzi-fini; genera la
sfera pubblica, che dà possibilità e protezione alle sfere private.
La sfera “pubblica” dell’homo faber è uno spazio mercantile, nel
quale esibire e vendere le proprie produzioni ed entrare in relazione con gli altri «attraverso lo scambio dei rispettivi prodotti»
(Arendt 1958, 115, IV.22). L’homo faber – la cui sfera pubblica è perciò il mercato – è la radice dell’uomo borghese che usa «metri,
misure, regole e criteri» e mal sopporta la «perdita della misura “assoluta”» in conseguenza del processo di secolarizzazione
(Arendt 1958, 119, IV.22).
Sui contenuti dell’ultima riga della nostra tavola – le credenze – Arendt non si pronuncia espressamente. Tuttavia, ci dice che
l’animal laborans oppresso dal lavoro aspira alla felicità, che cerca nell’abbondanza di beni di consumo; che l’homo faber prova le
«gioie del lavoro» (Arendt 1958, 100, IV.19); che l’uomo d’azione,
infine, crea un teatro che è quello della res publica e delle istituzioni, nel quale coltiva il «vivere bene», con virtù e onore (Arendt
1958, 139, V.26).
In tutte le figure dell’attività, il termine di confronto paradigmatico è sempre quello con l’antichità e l’allontanamento progressivo da essa. Arendt rivolge la sua attenzione principalmente alle
credenze etiche, come in Weber, ma con un ancoraggio costante
in ben definiti sistemi economici e sociali di vita activa. In essi, le
attività si stratificano sull’organizzazione e riorganizzazione del
lavoro rivolto alla sussistenza e si realizzano in opere che elevano
architetture “superiori”, dei cui spazi poi usufruisce anche l’azione che si dispiega in attività politiche e di vita civile. In tutto ciò
traspare una critica alla filosofia politica tradizionale, solitamente distaccata dalla dimensione economica e sociale delle attività
umane e dalla loro storicità. «Il mondo in cui si svolge la vita activa
– afferma Arendt – consiste di cose prodotte dalle attività umane;
ma proprio le cose che devono la loro esistenza solo agli uomini
condizionano costantemente i loro artefici» (Arendt 1958, 8, I.1).
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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E ancora più incisivamente nel passo seguente: «non le idee ma
gli eventi cambiano il mondo» (Arendt 1958, 202, VI.37). Già da
questo passo si comprendono i frequenti riferimenti a Marx, sia
pure per criticarlo su alcuni aspetti riguardanti specialmente le
conseguenze della modernità; in ogni modo, Marx e Weber, la cui
presenza resta però molto più in ombra, sono, per Arendt, termini
di riferimento imprescindibili.
1.4. Lavoro senza libertà
l’operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del suo lavoro
come rispetto ad un oggetto estraneo. (Marx 1973, 72 [XXII])
Si ritiene che nel Medioevo nessuno lavorasse più che metà
dei giorni dell’anno. I giorni festivi ufficiali erano 141.
(Arendt 1958, 262)
Dapprima lottano i singoli operai, poi gli operai di una fabbrica e quindi gli operai di un dato ramo produttivo in un
dato luogo. […] Prendono di mira non soltanto i rapporti
borghesi di produzione, ma anche gli stessi strumenti di
produzione; distruggono le merci straniere che fanno loro
concorrenza, fanno a pezzi i macchinari, danno fuoco alle
fabbriche, cercano di riconquistare la tramontata posizione
dell’operaio medievale. (Marx e Engels 1848, 17)
Fin dal prologo, Arendt definisce l’obiettivo innovativo di riconsiderare la condizione umana «dal punto di vista privilegiato delle
nostre esperienze attuali e delle nostre più recenti paure» (Arendt
1958, 5, con leggere varianti di traduzione). Le esperienze a cui si
allude sono il primo lancio spaziale nel 1957, ipotetica via di fuga
dalla condizione terrestre, e le paure dell’atomica e dei rischi di
una tecnica che sfida i limiti naturali, con l’avvento delle prime
forme di automazione e di liberazione dal lavoro, esperienze che
hanno implicazioni dirette sulla vita activa come era intesa fino
ad allora, prospettando un’autonomia della tecnica e dell’opera
fuori dal controllo della politica (intesa alla maniera antica).
Da un punto di vista economico, la distinzione fondamentale che Arendt sviluppa è tra lavoro e opera. L’opera è intesa
come prodotto del lavoro, un lavoro di tipo artigianale, che nel
termine inglese di work traspare meglio quale attività finalizza-
Questo E-book appartiene a roffisimone.2000
Parte I - La categoria del moderno
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ta a concretarsi in qualcosa che resta nel tempo, non soggetta a
un consumo immediato. Questa forma di attività umana risulta
sfuggente, specialmente se considerata in base alle classificazioni
economiche o statistiche, ma serve ad Arendt – come vedremo
meglio – per polemizzare con le teorie economiche sul tema del
lavoro produttivo e improduttivo. In contabilità nazionale si distinguono i beni di consumo propriamente detti dai beni di consumo durevoli proprio in base al loro grado di caducità o di durata (ovviamente caduchi i primi, durevoli i secondi). L’“opera” in
Arendt comprende questi ultimi, senza però distinguerli dai beni
di investimento6. Arendt riprende dall’economia la distinzione
tra valori d’uso e valori di scambio (Arendt 1958, 117, IV.22), ma
la sua finalità è sempre rivolta alla comprensione dell’azione politica. E la distinzione tra lavoro e opera è in questo fondamentale
per afferrare le gerarchie interne alla definizione storica della vita
activa. Quindi, detto in soldoni, le “opere” sono i prodotti durevoli creati dal lavoro “artigianale” dell’uomo. Il lavoro propriamente detto, invece, non produce nulla che resti, ma fornisce solo ciò
che è connesso con il mantenimento della vita puramente “animale” dell’uomo.
Oggi, col trionfo completo dell’animal laborans e del consumo-spreco e con la sua correlata esibizione nel corso delle celebrazioni della società dello spettacolo (ricordiamo i famosi quindici
minuti di celebrità che non si negano a nessun animal laborans, secondo Andy Warhol), resta persino difficile concepire come solo
poco tempo fa l’animal laborans fosse considerato una nullità sul
piano della sua esistenza “storica”. Balzac, nel 1830, distinguendo
nella civiltà moderna tre categorie di esseri umani – l’uomo che
lavora, l’uomo che pensa, l’uomo che non fa niente – poteva in
tutta tranquillità dire del primo (che è non dissimile dall’animal
laborans della tripartizione arendtiana delle attività umane):
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egli diventa un mezzo [… gli] operai sono soltanto una sorta di argani e
restano confusi con le carriole, le pale, i picconi […] non hanno nulla di
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Ma in Arendt non si fa mai riferimento a un’attività di investimento,
mentre si parla di accumulazione e di capitale. Compare una sola volta il termine
“investor” e una “invested”, ma Arendt li riprende dallo storico W. J. Ashley.
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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individuale. L’uomo-strumento è una specie di zero sociale […] un coltivatore, un muratore, un soldato, sono i frammenti uniformi di una massa
[…] lo stesso utensile dal manico differente […] Il lavoro sembra essere
per loro un enigma di cui cercano la chiave fino all’ultimo giorno […] la
vita si risolve nel “pane dentro la madia” e l’eleganza in una cassapanca
dove ci sono stracci (Balzac 1833, 18).
La dimensione che è la sola a formare la libertà, è, per Arendt
filosofa politica, l’azione, mentre, per il romanziere Balzac, sono
l’eleganza e l’ozio, ma, in ogni caso, questa vita di qualità superiore sarà appannaggio solo di chi non sia né animal laborans né
homo faber.
Le occupazioni di lavoro sono alla base di ogni possibile sviluppo umano, sia per quelle che riguardano lo sviluppo biologico
del corpo umano, sia per quelle che sono rivolte a superare la
mera sussistenza in modo da non assorbire tutte le energie individuali e sociali nella soddisfazione dei bisogni elementari della vita. Il lavoro in senso stretto è ciò che non distingue l’uomo
dall’animale, è impulso all’azione per una necessità biologica.
Esiodo – ricorda Arendt – distingue tra i concetti di lavoro e opera
(ponos e ergon). Il lavoro è la punizione di Zeus per le offese ricevute da Prometeo, ed esce dal vaso di Pandora per soggiogare gli
uomini a una vita da schiavi. Da qui la visione negativa dei greci
rispetto al lavoro e l’equiparazione del lavoro alla schiavitù della
necessità. Ma, specialmente nel lavoro agricolo del proprietario
fondiario, resta un fondo di libertà finché egli si occupa della cura
della propria terra come base per l’azione politica. Nell’antichità, la schiavitù non era considerata un semplice espediente per
ottenere lavoro a buon mercato e conseguire un profitto, quanto
piuttosto un modo per escludere il lavoro dalle condizioni per la
realizzazione della vita umana autentica (Arendt 1958, 60-1, III.11
e 254n.)7. Il lavoro è l’attività rivolta al mantenimento e alla ripro-
Del seguente passo di Marx e Engels (2011, 359 [libro I, (1)]) Arendt condivide il nesso famiglia-schiavitù-proprietà privata ma non la finalità sociale: «la
schiavitù nella famiglia è la prima proprietà, che d’altro canto, a questo livello, corrisponde già in modo perfetto alla definizione data dai moderni economisti, per cui
essa risiede nel disporre di forza-lavoro di altri. D’altra parte, divisione del lavoro e
proprietà privata sono interscambiabili: con la prima, si segnala in relazione all’at7
18
Parte I - La categoria del moderno
duzione dell’esistenza umana, perché, come tale, il lavoro è una
condizione di alienazione e di solitudine impolitica:
La sola attività che corrisponde strettamente all’esperienza dell’estraneità dal mondo, o meglio alla perdita del mondo che occorre nel dolore, è il
lavoro, in cui il corpo umano, nonostante la sua attività, è anche ripiegato
su se stesso, non si concentra su nient’altro che sul suo essere vivo, e rimane imprigionato nel suo metabolismo con la natura senza mai trascendere il ciclo ricorrente del proprio funzionamento, liberandosi da esso
[…] cioè [dal]lo sforzo penoso che è richiesto dalla riproduzione della
propria vita e della vita della specie (Arendt 1958, 81, III.15).
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Lo stesso disprezzo gli antichi lo riserbavano anche al lavoro
degli artigiani, assimilati a animal laborans, che non hanno necessariamente bisogno di altri, perché svolgono un’attività paragonabile a quella animale8, verso la quale solo nel medioevo i padri
della chiesa e le comunità monastiche iniziano a guardare con
maggior benevolenza per giungere con gli economisti classici a
elevare il lavoro più umile e subordinato a lavoro produttivo,
senza distinguerlo più dall’opera dell’homo faber (Arendt 1958, 18,
II.4; 61-2, III.11). Tale distinzione – che è poi quella tra il “lavoro
del nostro corpo” e “l’opera della nostre mani”, come si esprime Locke – è infatti andata del tutto perduta nell’età moderna
(tranne forse in Locke medesimo, come vedremo), anche se magari ne resta visibile una traccia all’interno delle lingue europee,
(p.e., labor/work, fatiguer-travailler/oeuvrer, arbeiten/werken, laborare/
facere-fabricari, ponein/ergazesthai) in cui il primo termine indicante il “lavoro” conserva, etimologicamente, il senso della penosità
fisica9. Infatti, la distinzione fra i concetti di animal laborans e di
tività precisamente ciò che con la seconda si segnala in relazione al frutto dell’attività». La differenza tra lavoro e opera in Arendt trova un qualche riscontro sempre
in Marx e Engels quando parlano di «diversità tra i mezzi di produzione naturali e
quelli prodotti dalla civiltà» (Marx e Engels 2011, 437 [libro I, B (3)]).
8
Anche Arendt riconosce esplicitamente che «l’uso della parola ‘animale’
nel concetto di animal laborans […] è pienamente giustificato. L’animal laborans non
è che una, sia pure la più alta, delle specie animali che popolano la terra» (Arendt
1958, 61, II.5).
9
Basti pensare anche al dolore del parto che è chiamato “travaglio” e che,
infatti, nel francese mantiene il doppio significato.
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
19
homo faber è del tutto assente nel bagaglio mentale/concettuale
del moderno economista del lavoro. Invece questa dicotomia
antropologico-filosofica del concetto di lavoro, prima dominante nell’epoca classico-antica e oggi tipicamente solo arendtiana,
meriterebbe un approfondimento e una rivisitazione economica
per la sua valenza tanto critica quanto illuminante rispetto alla
nozione di lavoro usuale nella teoria economica (che include distinzioni come quella fra lavoro improduttivo e produttivo nella
sua versione classica o quella fra lavoro specializzato, skilled, e
non specializzato, unskilled, nella sua attuale versione mainstream,
ma dove, comunque, permane, in entrambe le versioni, l’incapacità di cogliere quella dicotomia che ancora Locke riconosceva)10.
Qu
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1.5. L’opera
l’ignorante non si conosce mica dal lavoro che fa ma da
come lo fa. (Pavese 1950, XVII)
ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto
dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta
nella sua testa prima di costruirla in cera. [… L’uomo] realizza nell’elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio
scopo, da lui ben conosciuto, che determina come legge il
modo del suo operare, e al quale deve subordinare la sua
volontà. (Marx 1867, 216 [V, 1])
A rigore non si dovrebbe dare il nome di arte se non alla
produzione mediante libertà, cioè per mezzo di una volontà che pone la ragione a fondamento delle sue azioni.
Difatti, sebbene piaccia chiamare opera d’arte anche ciò che
producono le api […] ciò si fa soltanto per analogia; non
appena ci accorgiamo che esse non fondano il loro lavoro
Anche Arendt si domanda, infatti, come sia possibile il sorprendente fatto che, pur in presenza del rovesciamento dei valori delle attività umane portato
avanti dall’età moderna, con l’attribuzione al lavoro sia della paternità di ogni valore (con l’economia politica classica) che del ruolo di strumento di glorificazione
(vedi par. 4.1), quindi con la corrispondente collocazione dell’animal laborans alla
posizione di testa, l’età moderna – e aggiungiamo noi, specialmente la teoria economica, la quale, nel quadro delle specializzazioni della scienza, anche al concetto
di lavoro avrebbe dovuto dedicare una sua analisi – «non abbia prodotto una sola
teoria in cui animal laborans e homo faber, “il lavoro del nostro corpo” e “l’opera
delle nostre mani”, siano chiaramente distinti» (Arendt 1958, 62, II.5).
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Parte I - La categoria del moderno
20
su una vera riflessione razionale, diciamo che si tratta di un
prodotto della loro natura (dell’istinto), e in quanto arte lo
attribuiamo soltanto al loro creatore. (Kant 1790, 283, §43)
Arendt, a differenza appunto degli economisti, introduce il concetto di homo faber come colui che compie l’opera, l’artigiano, in
primo luogo, e il tecnico moderno. Essi svolgono le proprie attività sulla base di un progetto da essi concepito o compreso. I greci
diffidavano della mentalità degli artigiani per le stesse ragioni per
le quali disprezzavano il lavoro schiacciato dai bisogni elementari. Quella degli artigiani era opera delle mani, che impediva loro
di agire politicamente; sebbene vivessero nella polis, non avevano
voce nelle decisioni pubbliche. La differenza tra “arti liberali” e
“arti servili” non riguardava il più alto impiego di intelligenza
delle prime rispetto alle seconde, bensì una distinzione tra «occupazioni che comportano la prudentia, la capacità di formulare
giudizi oculati, che è la virtù dell’uomo di stato»11 e attività che,
invece, ne sono prive. Solo alcune professioni erano considerate di rilievo pubblico, come quelle di architetti e medici, e, per i
romani, godevano di tale rilievo anche gli agricoltori proprietari che condividevano il senso dell’amor di patria (Arendt 1958,
65, III.11 e 256n.). Altri mestieri, tipo quelli del falegname o dello
scriba, senza considerare le attività di negozianti o commercianti,
rientravano tra le attività “sordide”. La distinzione tra lavoro manuale e intellettuale risponde a criteri più moderni, e prevale da
quando, dopo il medioevo, al lavoro sono riconosciute dignità e
“utilità” sociali. Con l’avvento nella società mercantile moderna
e, soprattutto, con l’ascesa della “setta” degli économistes cresce il
Questo
Va ricordato che la “prudenza” alla fine del ’700 diventa, con Smith,
dall’essere in precedenza virtù specifica dell’uomo di stato, una caratteristica propria per la formulazione di giudizi “imparziali” dell’uomo borghese ed economico. Essa è, infatti, centrale nella Teoria dei sentimenti morali di Smith, che la considera un elemento importante della perfetta virtù (le altre essendo apprezzabilità
morale, giustizia e benevolenza) ed è, in particolare, fra esse quella peculiare del
soggetto economico, in quanto Smith riconduce alla prudenza tutte quelle qualità
che consentono una cura appropriata dei propri interessi e delle proprie esigenze,
ovvero quelle qualità che sono tradizionalmente definite virtù borghesi o commerciali, come l’economia, l’industriosità, la parsimonia (v. Viganò 2014).
11
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
21
discredito nei riguardi dei “lavori di concetto” e per le opere della
penna e della carta, ovvero verso il lavoro intellettuale, a meno
che non siano inserite in rapporti di subordinazione ad imprese dedite ad altro. Tutte le attività intellettuali suscitano dubbi,
prevalentemente per la loro effettiva produttività in termini di
prodotto fisico netto o, con Marx, di contributo all’estrazione di
plusvalore12. L’homo faber ha però in Arendt una funzione distinta da quella attribuita all’artigiano dagli economisti. Si potrebbe
assimilare l’“opera” (work), come la intende Arendt, a un’attività “imprenditoriale”. Arendt è tuttavia estremamente parca, per
non dire “prudente” in senso antico, nell’uso del lessico economico e, in particolare, nell’accostare l’“opera” all’attività dell’imprenditore. Non evoca mai la funzione dell’imprenditorialità o
la figura dell’imprenditore. Parla di «successo, industriosità» ma
in riferimento alla scienza moderna (v. Arendt 1958, 206, VI.38).
Considera gli “uomini d’affari” (businessmen), ma non lascia spazio all’imprenditore inteso in senso moderno. Al più, l’homo faber
è avvicinabile al concetto di imprenditore in senso vebleniano,
cioè di colui che è dotato di abilità tecniche e costruttive (workmanship), opposto sia al mercante che allo speculatore, cioè al tipo
dell’uomo d’affari moderno, dedito a ottenere guadagni pecuniari da qualsiasi attività, che non si propone di realizzare nulla di
concreto né con le proprie mani né con la propria testa13.
Cfr. Marx (1968, vol. I, 252-4). Nel Capitolo VI inedito la questione è messa
bene in chiaro: «Milton, che scrisse il Paradiso Perduto, era per esempio un lavoratore improduttivo; ma lo scrittore che fornisce lavoro di fabbrica al suo editore è un
lavoratore produttivo. Milton creò il suo poema al modo stesso che il baco da seta
genera la seta, cioè come estrinsecazione della sua natura; poi vendette per 5 sterline
il suo prodotto e così divenne trafficante in merci» (in Marx 1975b, 1266-7).
13
Veblen scrisse nel 1914 The Instinct of Workmanship and the State of the
Industrial Arts, e nel 1921 uscì The Engineers and the Price System. In quest’ultima
opera Veblen riconosce le funzioni dell’ingegnere nell’organizzazione moderna
del mondo del lavoro nei compiti di «controllare la strategia produttiva nel suo
complesso e di tener sotto sorveglianza le tattiche produttive». Funzioni divenute indispensabili «per il regolare funzionamento del sistema industriale» e come
argine alle tendenze affaristiche – il «pregiudizio commerciale» – che per Veblen
costituisce il vero pericolo e la forza deviante del capitalismo industriale. I tecnici
lottavano, da una parte, contro i lavoratori addetti alle macchine e sempre più
privati delle competenze che una volta erano degli artigiani, e, dall’altra, contro
12
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Parte I - La categoria del moderno
Arendt non riconosce allo spirito imprenditoriale neanche particolari forze prometeiche che si esplicano in sistemi economici e
politici nei quali solo i “diritti di proprietà”, come oggi vengono
detti, riescono a estrarre e valorizzare tali capacità operative. Due
passaggi sono significativi e danno senso alla visione economica
di Arendt. Nel primo, l’imprenditorialità, come da lei si ricava, è
una sfaccettatura dell’homo faber, ed è considerata alla luce dell’opposizione privato/pubblico, cioè tra sfera privata e sfera politica,
nel senso che solo in condizioni di legge e ordine l’imprenditore
esprime il suo meglio: «ciò che conta per la sfera pubblica non è il
maggiore o minore spirito d’iniziativa dei privati uomini d’affari,
ma gli steccati attorno alle case e ai giardini dei cittadini» (Arendt
1958, 52, II.9). In un altro passo, il concetto è ribadito in termini ancora più netti, seppure in un contesto leggermente diverso:
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Si potrebbe dire che gli «istinti pratici», di cui parla Arendt,
siano una sorta di via di mezzo tra gli animal spirits keynesiani
e l’imprenditorialità schumpeteriana. Gli animal spirits hanno
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Se avessimo dovuto contar solo sui cosiddetti istinti pratici dell’uomo,
non sarebbe mai esistita una tecnologia, e sebbene oggi le invenzioni
tecniche già esistenti abbiano un certo potenziale che genererà probabilmente fino a un certo punto altri progressi, è improbabile che il nostro
mondo tecnicamente condizionato potrebbe sopravvivere, e tanto meno
svilupparsi ulteriormente, se finissimo per convincerci che l’uomo è essenzialmente un essere pratico (Arendt 1958, 214, VI.41)14.
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una proprietà assenteista composta da azionisti interessati esclusivamente al dividendo (Veblen 1921, capp. III e VI). Insomma, l’ingegnere o il manager come
figure rappresentative del vero imprenditore ed homo faber.
14
Il concetto di “uomo pratico” di Arendt era, forse, quello anticipato anni
prima in maniera pungente da un grande scrittore: «Il nostro tempo ha partorito
una curiosa fantasia, secondo la quale quando le cose si mettono davvero male abbiamo bisogno di un uomo pratico. Ma sarebbe assai più giusto dire che quando
le cose vanno assai male avremmo bisogno di un uomo non pratico. Di sicuro, per
lo meno, abbiamo bisogno di un teorico. Un uomo pratico è una persona abituata
soltanto alla vita concreta di tutti i giorni, al modo in cui le cose funzionano normalmente. È sbagliato suonare la cetra mentre Roma brucia, ma è del tutto legittimo studiare la teoria dell’idraulica mentre Roma brucia. Pertanto, è necessario
disfarsi del proprio agnosticismo quotidiano e tentare di rerum cognoscere causas»
(Chesterton 2011, 19).
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bisogno di stabilità macroeconomica per essere civilizzati e non
irrompere nei sentieri pericolosi della speculazione. Gli inquieti spiriti imprenditoriali possono esaltare le proprie capacità per
fare da battistrada allo sviluppo tecnologico se – secondo Schumpeter – i banchieri, da parte loro, assolvono alle proprie funzioni
“pubbliche” e sociali di selezione e controllo (selection & monitoring) delle forze imprenditoriali brute, rivolte al profitto senza
vaglio della moralità, che è invece appannaggio dei banchieri, a
loro volta disciplinati dai potenziali rischi del rimborso dei debiti
(altrui e propri) (Conti 2003). Ovviamente lo stesso Schumpeter
era perfettamente consapevole che erano proprio i banchieri i primi a derogare dai principi etici e scatenare la speculazione con le
conseguenti crisi bancarie e finanziarie.
1.6. Forza-lavoro come vita e procreazione: “crescete e moltiplicatevi”
Perché il popolo s’eccita tanto, e grida? Esso vuole|nutrirsi,|far figli, e nutrirli come meglio non può.| Ségnati, tu che
viaggi, questo, e a casa tua fa’ altrettanto! (Goethe 1981, 99)
Conseguenza dell’incremento della produzione è che si
desidera un numero sempre maggiore di uomini. Più si
produce, più devono essere i compratori. […] Dal moltiplicarsi degli oggetti essa giunge fino al significato originario di ogni accrescimento: il moltiplicarsi degli uomini.
(Canetti 1989, 566)
Il primo oggetto della polizia: il numero degli uomini,
lo sviluppo quantitativo della popolazione […] la copia
civium, la quantità, l’abbondanza dei cittadini. (Foucault
2017a, 235)
Il fatto, chiaramente scoperto e analizzato da Marx, è che il lavoro
di per sé, anche quando produce beni caduchi e non durevoli, ha
una potenza che va oltre la riproduzione della propria forza applicata, ha una propria produttività che non viene esaurita dalla
riproduzione della medesima forza. La forza-lavoro non produce
oggetti, se non fortuitamente, ma riproduce solo sé stessa e in più
produce il surplus, ovvero, sia conserva la vita, sia la amplia attraverso la fertilità. Arendt lo esprime chiaramente quando attribuisce a Marx (e a lui solo fra gli economisti classici) la scoperta che
Parte I - La categoria del moderno
24
la stessa attività lavorativa […] possiede una “produttività” sua propria,
per quanto possano essere futili e non-durevoli i suoi prodotti. Questa
produttività non consiste in alcuno dei prodotti del lavoro ma nel “potere” umano, la cui forza non si esaurisce nella produzione dei mezzi per la
sussistenza […] ma è capace di fornire un “surplus”, cioè più del necessario per la propria “riproduzione” […]. Diversamente dalla produttività
dell’opera, che aggiunge nuovi oggetti al mondo umano artificiale, la
produttività della forza-lavoro produce oggetti solo incidentalmente e
in primo luogo si occupa dei mezzi della propria riproduzione; poiché
la forza non si esaurisce dopo che la riproduzione è stata assicurata, può
essere usata per la riproduzione di qualcosa di più che un processo vitale, ma non produce altro che vita (Arendt 1958, 63, III.5).
Possiamo osservare che la forza-lavoro, per Marx, è “teologicamente” quello che è l’agricoltura per i fisiocratici. Si deve
insistere sulla crucialità della distinzione fra lavoro e opera, ma
sottolineandone una implicazione qui rilevante, che non è tanto
quella sottesa alla sua antropologia filosofica (p.e. lavoro, inteso
come natura e materia, e opera, vista come modificazione della
natura e creazione di materiale), ma quella connessa alla distinzione fra le categorie economiche di bene di consumo e di bene
durevole. Arendt sottolinea come Marx riconduca al lavoro in generale (non distinto fra lavoro e opera)15, inteso come forza-lavoro
e come processo vitale riproduttivo ed espansivo – e proprio a
causa di tale intendimento – l’intero processo economico intrinsecamente tendente all’accumulazione di beni e ricchezze16: il lavoro per Marx sarebbe l’attività umana che risponde all’ebraico
imperativo “crescete e moltiplicatevi”. È questo imperativo che è
la linfa espansiva e sottotraccia che pervade l’età moderna in ogni
sua espressione. Perché – Arendt osserva – l’età moderna non difende tanto la proprietà privata quanto «lo sfrenato perseguimen-
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In questo, Marx è in linea con l’economia politica classica per quanto
concerne la centralità del lavoro nel processo economico, ma si distingue da essa
per quanto concerne la sua funzione nel processo di produzione.
16
Arendt qui trascura la distinzione fra beni di consumo e beni di investimento; può, allora, essere notato che per l’economia politica classica di Smith (che
pure deve molto all’etica calvinista del lavoro e pone il lavoro al centro della determinazione dei valori di scambio) è la parsimonia umana, il risparmio e quindi l’investimento – e non la forza-lavoro – la potenza che crea la crescita economica persistente.
15
25
to di maggiore proprietà e di appropriazione […] nel nome della
vita, la vita della società» (Arendt 1958, 75-6, III.14). Solo il lavoro
(e non l’opera né l’azione) è l’attività umana che è «senza fine e
procede automaticamente in accordo con la vita stessa e fuori dalla portata delle decisioni della volontà o degli scopi a cui l’uomo
attribuisce significato» (Arendt 1958, 75, III.14).
Nulla è più privato del proprio corpo. Ad esempio, le funzioni
che riteniamo il più possibile private, e che perciò nascondiamo
persino nel più “socializzato” sistema sociale, sono quelle bassamente corporee, le deiezioni e le copulazioni17. Il lavoro, sebbene
sia un’attività umana che usa il corpo e non sia una funzione del
corpo, rimane comunque sufficientemente vicino al processo della vita del corpo da poterlo considerare come proprietà del corpo
medesimo: così come sono privati i prodotti funzionali del nostro
corpo (liquidi e solidi vari), così lo sono anche i suoi prodotti intenzionali (l’attività lavorativa). È questa la via interpretativa che
Arendt suggerisce per la rivoluzionaria idea di Locke sull’origine
della proprietà privata, come diremo più avanti. Infatti, mentre in
precedenza lavoro e proprietà rimanevano due nozioni fra loro
incompatibili, dopo la pubblicazione di Locke vi è un repentino
quanto drastico mutamento concettuale: «Indubbiamente, prima
del 1690, nessuno attribuiva all’uomo un diritto naturale alla proprietà creata col proprio lavoro; dopo il 1690 quest’idea divenne
un assioma della scienza sociale» (Arendt 1958, 259, III.n.56).
L’esaltazione del lavoro in età moderna avviene sicuramente
perché l’attenzione dei moderni (e anche di Marx) è colpita dal
progresso straordinario del processo produttivo e, quindi, si concentra, in particolare, proprio sul carattere processuale del lavoro.
Ma quali sono le caratteristiche dell’attività lavorativa che hanno
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Va detto che nella contemporanea società dello spettacolo, la esuberante
socializzazione del privato tende però a ridurre anche quei nascondimenti. Va
anche detto che questa invasione del privato nel pubblico – nei cosiddetti social si
“pubblica” anche il più intimo privato – mostra paradossalmente – nel momento
in cui tutto viene “pubblicizzato” e “pubblicato” – come non esista più una sfera
pubblica ma solo una desolata somma di privati solitari ridotti a puro corpo. Questo sembrerebbe in linea con quanto Arendt afferma – vedi più avanti in questo
paragrafo – che lo sviluppo economico consumistico porta alla eliminazione dello
spazio pubblico che viene invaso dalle private attività hobbistiche.
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Parte I - La categoria del moderno
determinato tanto tale espansione produttiva quanto, in conseguenza, tale sua esaltazione? Nella sua critica a Marx, Arendt gli
riconosce il risultato, come unico fra i pensatori ed economisti
moderni, di aver riconciliato la teoria dell’età moderna dell’accumulazione continua, della tecnica e del lavoro con la più antica intuizione sulla vera natura del lavoro, che è di origine ebraica. Ella
riconosce che il vero significato della moderna esaltazione della
produttività del lavoro viene riscoperto proprio da Marx, quando
associa produttività e fecondità, quando rileva che lo sviluppo
delle forze produttive umane come della capacità intrinseca della forza-lavoro nel processo capitalistico di generare un continuo
surplus – cioè una produzione sempre maggiore di quella necessaria alla riproduzione della forza-lavoro medesima – non sono
altro che l’espressione dell’obbedienza alla legge ebraica del “crescete e moltiplicatevi”. Per Arendt, l’attività lavorativa, secondo
Marx, ha l’obiettivo, e non solo per analogia, della riproduzione
e della fertilità che accresce la popolazione, rivisitando in termini
moderni l’intuizione ebraica del nesso tra lavoro, vita e procreazione. La produttività del lavoro consiste nella capacità della
forza-lavoro di produrre più di quanto necessario per assicurare
la propria sopravvivenza, esattamente come la riproduzione animale assicura non solo la sopravvivenza del singolo, ma anche
quella della specie. La forza-lavoro è produttività e la produttività è vita e fecondità. Per questo, Arendt interpreta il centro profondo dell’analisi marxiana del lavoro, sottolineando che
il famoso sviluppo delle “forze produttive” del genere umano in una
società caratterizzata dall’abbondanza di “buone cose” non obbedisce
in pratica ad altra legge e non è soggetto ad altra necessità se non al
precetto “crescete e moltiplicatevi” […] La fecondità del metabolismo
uomo-natura, che scaturisce dalla naturale abbondanza di forza-lavoro,
appartiene ancora alla sovrabbondanza che vediamo ovunque nel regno
della natura (Arendt 1958, 75-6, III.14).
Per Arendt, la distinzione fra animal laborans e homo faber scompare in Marx, che, portando a compimento un processo avviatosi
con l’età moderna, innalza l’attività dell’animal laborans al livello più
elevato della vita activa. Secondo Arendt, per il filosofo tedesco tutto
il lavoro è divenuto produttivo, perché quello che è considerato è
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27
solo il processo vitale dell’umanità (senza più alcuna utopia)18, sparendo così la distinzione fra attività servili, che non producono nulla di tangibile, e attività produttive di beni durevoli. Ogni cosa è oggetto di consumo. Arendt rileva in questa parte dell’opera di Marx
un’interpretazione che considera solo il processo vitale dell’umanità, e in
questo quadro di riferimento tutte le cose diventano oggetti di consumo.
In un’“umanità completamente socializzata”, il cui solo scopo sarebbe
quello di occuparsi del processo vitale […] la distinzione fra lavoro ed
opera scomparirebbe del tutto; ogni opera dovrebbe diventare lavoro
perché tutte le cose sarebbero concepite, non nella loro qualità terrena,
oggettiva, ma come risultati di forza-lavoro vivente e funzioni del processo vitale (Arendt 1958, 63-4, III.14).
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Se la proprietà privata più stretta che ci sia è quella del proprio corpo, tuttavia – come argomenta Locke – anche “il lavoro
del corpo” e “l’opera delle mani” diventano proprietà privata
perché corpo, mani, bocca sono mezzi di appropriazione naturali che Dio avrebbe dato singolarmente agli uomini proprio per
“privatizzare” quel mondo apparentemente di proprietà comune.
Cosa hanno in comune Marx e Locke? La visione della “naturalità” – nel senso di legge naturale – della crescita progressiva
della ricchezza, cioè della crescita come una legge immodificabile
inscritta nella fisica del mondo, che nessun uomo può intenzionalmente mutare. Allora l’unica attività umana che può esistere
e rimanere coerente con questa legge naturale è quella animale,
corporale, biologica.
Arendt appare lockeana, nella misura in cui riconosce alla
proprietà privata, tanto difesa da Locke, di fungere da possibile
antidoto alla devastazione del – e all’alienazione dal – mondo19
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Arendt (1958, 256, III, n. 20) osserva che Marx, specie quello giovanile,
ha sempre sottolineato come la “produzione della vita” fosse la primaria funzione del lavoro, considerandola quindi strettamente associata alla procreazione
(vedi il passo dell’Ideologia tedesca in Marx e Engels (2011, 331 e ss.) per le elaborazioni del materialismo storico rispetto alle impostazioni idealistiche della
“sinistra hegeliana”).
19
Nota che per “mondo” Arendt intende non la mera natura, ma ciò che
viene artificialmente ri-creato dall’uomo attraverso la sua modificazione della natura stessa.
Parte I - La categoria del moderno
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causata dall’infinito processo di accumulazione previsto dal genio di Marx. Ma appare anche anti-marxiana, nella misura in cui
attribuisce a Marx, questo Darwin della storia, non solo di aver
previsto un esito finale della storia, ma anche di avere espresso
una certa gioia, secondo Arendt ingiustificata, per tale esito:
Marx aveva previsto giustamente, benché con gioia ingiustificata, l’“abolizione” della sfera pubblica […] e aveva ugualmente ragione quando
prevedeva che “gli uomini socializzati” avrebbero impiegato la loro libertà dal lavoro in quelle attività strettamente private ed essenzialmente
estranee al mondo che ora chiamiamo hobbies (Arendt 1958, 83, III.14).
Infatti, l’esito previsto da Marx, cioè la vittoria delle irrefrenabili forze produttive e il relativo uomo socialista liberato dal
lavoro, secondo la Arendt, avrebbe in realtà condotto ad un uomo
estraneo al mondo: perché, infatti, l’uomo, alla fine della storia in
cui il capitalismo è vinto, sarebbe rimasto estraneo alle attività
discorsive della polis e all’azione, da lei considerate la vera buona vita, per essere invece interamente preso, essendo finalmente
liberato dal lavoro, dal suo privato, insomma, come evocato da
Marx, sarebbe stato catturato dalla poesia, dalla pittura o dalla
pesca, che Arendt invece non considera attività umane “superiori” ma semplici hobbies privati.
Cosa invece distingue Marx da Locke, proprio sul tema della
proprietà? Qui Arendt manifesta il suo tributo a Locke, attribuendogli l’individuazione di un particolare ruolo della proprietà
che, invece, non sarebbe stato compreso da Marx. Entrambi infatti rilevano e accettano la sfida offerta dalla modernità, cioè una
crescita potenzialmente infinita di ricchezze e beni, ma lo fanno
con obiettivi opposti. Il primo la interpreta come occasione per
incrementare l’appropriazione privata delle ricchezze, il secondo come motore per liberare l’uomo dal lavoro e dalla proprietà.
Ma, secondo Arendt, Marx (e anche Smith) fraintende associando
strettamente ricchezze e proprietà.
Arendt offre una originale lettura del significato di proprietà
privata, intendendola come una difesa contro i danni causati alla
natura umana dalla crescita economica infinita.
In Locke, la proprietà privata è un argine contro la tendenza
invasiva e distruttiva del processo lavorativo e di accumulazione
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
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della ricchezza, che aliena l’individuo dal mondo – ricordiamo
che, per Arendt, la modernità, al contrario di quanto convenzionalmente sia ritenuto, non ha significato un tuffo dell’uomo
nel mondano, ma, piuttosto, un ritiro dal mondo (per rivolgersi
all’interno di sé, come Cartesio pensò), quindi anche dal mondo
comune. Così, il carattere implacabilmente espansivo del processo lavorativo potrebbe essere frenato proprio dall’acquisizione
proprietaria e dalla difesa di quello spazio privato di mondo.
Questo argine contro l’alienazione funzionerebbe perché
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la proprietà non rafforza, ma piuttosto mitiga la mancanza di relazioni
con il mondo del processo lavorativo, a causa del suo carattere sicuramente mondano. Allo stesso modo, il carattere processuale del lavoro,
l’implacabilità con cui il lavoro è spinto e stimolato dal processo vitale,
è frenato dalla acquisizione della proprietà (Arendt 1958, 81-2, III.14).
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L’interesse per l’accumulazione e l’abbondanza manifesta un
obiettivo tipico dei poveri, dei non-proprietari; invece, Arendt
osserva che «in una società di proprietari, in quanto distinta da
una società di lavoratori salariati e stipendiati, è ancora il mondo, e non l’abbondanza naturale né la mera necessità della vita,
che si pone al centro della cura e delle preoccupazioni umane»
(Arendt 1958, 82, III.14). Di contro, se al centro dell’interesse sta
il processo di accumulazione e di accrescimento della vita e dei
beni, tale processo deve potersi sviluppare senza freni – in tutta
libertà e in piena velocità – e deve potenzialmente essere infinito
come lo è il processo evolutivo della specie; ma ciò cozza, evidentemente, contro le esigenze della vita limitata del singolo e della
sua privata proprietà. Infatti, affinché tale processo accumulativo
possa avvenire fino in fondo, deve essere presa in considerazione
solo la vita della società nel suo insieme e non quella del singolo,
quindi occorre abolire la proprietà e, in ultima istanza, l’individuo stesso come essere separato: l’individuo dovrà infatti agire
come un “appartenente alla specie”, un Gattungswesen nei termini
di Marx, poiché il vero soggetto dell’accumulazione è la specie o
la vita della società. Perciò «solo quando la riproduzione della
vita individuale è assorbita nel processo vitale del genere umano, il processo vitale di un’“umanità socializzata” può seguire la
sua “necessità”, cioè il progresso automatico della sua fecondità
mo
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30
Parte I - La categoria del moderno
nel duplice senso di moltiplicazione delle vite e di incremento
dei beni da esse richiesti» (Arendt 1958, 82, III.5). Ma l’esito del
processo di sviluppo e di socializzazione è paradossale: è proprio
il mondo che è comune a tutti gli individui e non la separatezza
dell’individuo dal mondo ciò che si estingue, perché
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né l’abbondanza dei beni né l’abbreviazione del tempo effettivamente
speso per lavorare sembrano suscettibili di costituire un mondo comune,
e l’animal laborans non diviene meno privato perché è stato deprivato di
una sua privacy in cui appartarsi ed essere protetto dal dominio comune
(Arendt 1958, 83, III.5).
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Ma quand’anche si avesse l’“umanità socializzata” (p.e. la
società comunista), ove siano stati aboliti tanto la sfera privata
quanto quella pubblica, l’individuo rimarrebbe comunque estraneo al mondo, impegnato in attività paradossalmente molto
private come sono gli hobbies: una vita che per Arendt sarebbe
tragicamente futile, se si interpreta la lettera del termine di “passatempi” che in Marx – e Arendt non poteva non cogliere – era
liberazione dal lavoro20.
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20
Si veda il passo, sempre dall’Ideologia tedesca, dove la divisione del lavoro
comporta un aumento della produttività e un superamento dei bisogni elementari
cosicché «nella società comunista, nella quale ognuno non ha un ambito di attività esclusivo, bensì può progredire in qualsivoglia settore secondo il suo capriccio,
la società amministra la produzione generale e, proprio in questa maniera, mi dà
la possibilità di fare oggi questa determinata cosa, domani quell’altra, di andare a
caccia di mattina, di pescare il pomeriggio, di allevare il bestiame di sera, di fare il
critico dopo pranzo, così come ho voglia di fare; senza che io divenga né un cacciatore, né un pescatore, né un pastore, né un critico» (Marx e Engels 2011, 359 [I, 1]).
Una medesima fiducia nel progresso tecnologico si ritrova, anni dopo, in un altro
grande economista. Infatti, nel 1930 Keynes ritenne non utopica una prospettiva di
questo genere: «Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l’anno, in 20 anni
l’attrezzatura produttiva del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cento anni
di sette volte e mezzo. […] ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione dei
suoi problemi economici»; e prosegue: «noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo
un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro»,
cioè «[r]ivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente
meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non
seminano e non filano» (Keynes 2011, 276-7; 280 e 282; corsivo nell’originale).
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
31
Que
Per finire, osserviamo come, inoltre, Arendt (1958, 259n.,
III.n.56) ci offre una interessante interpretazione del significato
del termine lavoro: infatti, nella sua lettura della Bibbia tradotta
a Berlino da Martin Buber e Frank Rosenzweig, quando vi si dice
che Adamo fu creato per lavorare la terra dell’Eden, ella nota che
viene impiegato un termine, leawod, per designare tale lavoro, che
andò a significare l’attività lavorativa in ebraico, e che ha il senso
di “servire”. Quindi il lavoro, secondo la sua origine linguistica,
sarebbe il “servizio”. Azzardiamo qui una ulteriore ipotesi etimologica: anche l’attività di sacerdozio e di celebratore di culti nella tradizione ebraica si esprime con la radice “lw’” che potrebbe
persino spiegare il nome dei Leviti, appunto sacerdoti del culto
ebraico. In altre parole, nella sua assoluta origine – quella dell’Adamo biblico lavoratore della terra edenica – la parola lavoro designa un servizio, ma non un servizio qualsiasi, bensì il servizio
sacerdotale, quello che sarà l’officium del culto cristiano. Non è
difficile allora rinvenire, nello spirito delle recenti stimolanti ricerche di Agamben, per esempio Opus Dei, in cui il dovere, di cui
viene permeata la moderna civiltà capitalistica culminante nella
morale kantiana, deriva dal dovere di rendere l’offerta cultuale nel rito cristiano, una corrispondenza fra il lavoro e il dovere
rituale di rendere culto e gloria al Signore. Questa nostra interpretazione etimologica renderebbe maggior giustizia anche alla
nota interpretazione weberiana dello spirito capitalistico basato
sul concetto di lavoro e professione (Beruf), che sarebbe, secondo
il calvinismo, da compiersi e perseguirsi nella vita solo di per sé
stesso, come dovere indipendente da ogni attesa di salvezza e che
invece avrebbe una più comprensibile motivazione religiosa se
inteso come servizio cultuale da rendere alla divinità21. Inoltre,
e forse più interessante, la nostra interpretazione del significato
del lavoro si collegherebbe ad una interpretazione teologica in
tempi di secolarizzazione del moderno capitalismo, fornendo un
mattone genealogico per le fulminanti intuizioni di Benjamin del
capitalismo come religione (v. par. 6.4).
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Cfr. Weber (1904-05, 171-4 [II,i]).
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Parte I - La categoria del moderno
1.7. Un futuro di consumo-spreco senza pensiero e libertà?
Questi sono gli svantaggi dello spirito commerciale. La
mente dell’uomo ne è immiserita, e resa incapace di pensieri elevati. L’istruzione è disprezzata, o almeno trascurata, e lo spirito eroico è quasi del tutto estinto. (Smith
1763, 259)
A causa del processo cumulativo, il progresso tecnico
dell’homo sapiens è stato estremamente rapido. In un numero piuttosto ridotto di generazioni, l’uomo è pervenuto
al controllo del suo ambiente e al dominio delle forze più
potenti della natura. Ma di quanto ha migliorato se stesso in qualità? L’uomo stenta a liberarsi della sua origine,
che è quella di un animale disgustosamente carnivoro e
cannibale. (Cipolla 1966, 121)
Sotto l’espansione delle forze produttive – non ultima l’automazione di cui si osserva adesso un trionfale sviluppo – prevista da
Marx, vi è però il rischio che l’emancipazione dal lavoro (altrettanto prevista e auspicata da Marx) non solo fallisca, ma imprigioni tutti sotto il giogo della necessità. Marx lo aveva chiaro:
l’emancipazione dell’uomo dal lavoro come compimento della
storia non avrebbe dovuto essere nient’altro che la liberazione
della specie dal fardello della necessità. Questa, almeno, sarebbe
la caratteristica peculiare del messaggio utopistico e mobilitatore
delle masse che proviene dal marxismo, secondo Simone Weil.
Ma, data la condizione umana, che è effettivamente caratterizzata
da un metabolismo simbiotico con la natura, la liberazione dal
lavoro implicherebbe la liberazione dal consumo. Tuttavia, rileva
Arendt, il processo vitale deve sempre comporsi di due fasi, il
lavoro per produrre e il lavoro (nel senso dell’attività di consumo, dallo shopping al tempo per mangiare) per consumare. E,
per Arendt, purtroppo, il fardello della vita biologica – ovvero i
bisogni elementari della vita – è ineliminabile, poiché la “fatica”
e la “pena” per ottenere i beni elementari necessari e il “piacere
di incorporarli” non possono essere rimossi, pena la perdita della
vitalità e della vivacità della vita stessa. Solo se uno fosse capace di trascendere gli stessi processi vitali e fosse spinto da una
forte ripugnanza per la futilità potrebbe accettare di emanciparsi
da tale fardello. Inoltre le tendenze moderne hanno, se possibi-
Ques
1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
33
le, peggiorato il potere di questo fardello. L’homo faber che crea il
mondo è stato messo all’angolo dall’animal laborans che, invece,
lo consuma in continuazione: «Gli ideali dell’homo faber il costruttore del mondo, che sono permanenza, stabilità e durevolezza,
sono stati sacrificati all’abbondanza, l’ideale dell’animal laborans»
(Arendt 1958, 90, III.17).
Persino la divisione del lavoro non ha mutato l’essenza della
necessità, ma ha, invece, paradossalmente mutato quella dell’“opera” che, sempre più parcellizzata, è, di fatto, trasformata in “lavoro”:
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Viviamo in una società di lavoratori perché solo il lavoro, con la fecondità che gli è connaturata, sembra garantire l’abbondanza; e abbiamo trasformato l’opera in lavoro, frantumato questo nelle più minute particelle
[…] allo scopo di eliminare dallo sviluppo della forza-lavoro, che è parte
della natura e forse è anche la più potente della forze naturali, l’ostacolo
della “innaturale” e puramente mondana stabilità dell’artificio umano
(Arendt 1958, 90, III.16).
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In seguito alla divisione del lavoro e allo sviluppo delle macchine, l’attività artigianale si è trasformata in produzione di massa, e nella società contemporanea i prodotti hanno perso sempre
di più il loro carattere di uso (bene che resta) per acquistare quello
degli oggetti di consumo immediato:
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L’interminabilità del processo lavorativo – osserva quindi Arendt – è
garantita dalle sempre ricorrenti esigenze di consumo; l’interminabilità
della produzione può essere assicurata solo se i prodotti perdono il loro
carattere d’uso per acquistare sempre più quelli di oggetti di consumo,
o se, in altri termini, la velocità d’uso e il rapido andirivieni dei beni di
consumo, diminuisce fino a essere insignificante (Arendt 1958, 90, III.16).
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Il progresso illimitato della ricchezza ha solo il problema di
riuscire ad adeguare ad esso il consumo umano. Rispetto a questo punto, Arendt, suggerisce una semplice soluzione, che effettivamente appare profetica: «la soluzione […] consiste nel trattare
tutti gli oggetti d’uso come se fossero beni di consumo, così che
una sedia o un tavolo vengono oggi consumati con la stessa rapidità di un abito, e la durata di un abito è di poco superiore a
quella del cibo» (Arendt 1958, 89, III.17).
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Parte I - La categoria del moderno
Persino se lo sviluppo delle forze produttive – p.e. l’automazione – fosse così elevato che rimanesse come attività quasi solo
lo sforzo del consumo, per esempio il 99,9% del tempo quotidiano fosse impiegato a consumare, l’uomo finirebbe comunque per
divorare il mondo in un giorno per ri-produrlo subito dopo e
ri-consumarlo ancora. E, in tal caso, per ovviare al grave problema del tempo libero che si creerebbe quando la fase del lavoro
raggiungesse una minima proporzione rispetto alla fase di consumo, si tratterebbe di trovare «come provvedere sufficienti opportunità di spreco quotidiano per mantenere intatta la capacità
di consumo» (Arendt 1958, 93, III.17).
La funzione della vita rispetto al mondo è di consumarlo, o
meglio consumare ciò che è durevole, e paradossalmente questa
funzione in futuro non sarebbe stata mitigata, ma, al contrario,
potenziata a dismisura dalla meccanizzazione e dalla automazione:
Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale
della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare
ciò che è durevole (Arendt 1958, 93, III.17).
L’economia politica classica e l’utilitarismo di Bentham, assumendo che l’attività umana mira all’abbondanza e a massimizzare la felicità per il più grande numero, non rappresenterebbero
altro che l’obiettivo utopistico, da sempre esistente, dei poveri.
Dove stava, allora, secondo Arendt, l’errore di Marx? Stava nella
speranza che il tempo libero creato dallo sviluppo delle forze produttive potesse emancipare gli uomini dalla necessità. La speranza di questa emancipazione si basava sul fatto che – secondo una
concezione meccanicistica – la forza fisica risparmiata si sarebbe
conservata disponibile per altre attività.
Solo oggi, di fronte alla società capitalistica contemporanea –
di cui è possibile scorgere la vocazione pervasiva alla futilità e al
consumo illimitato – è possibile prendere atto dell’errore illusorio
presente nella speranza di Marx: la forza-lavoro non spesa nella
fatica di vivere, effettivamente, non è andata perduta, ma, al contrario di ciò che sperava Marx, non è andata a dar vita automaticamente ad altre superiori attività. Anzi, quell’energia liberata
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1 - Antico e moderno: punti di rottura, ponti di passaggio
35
è finita nel consumo connesso al ciclo del lavoro: «Un centinaio
di anni dopo Marx comprendiamo l’errore […] il tempo libero
dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e
più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti»
(Arendt 1958, 94, III.16).
La società contemporanea è una società di lavoratori, ovvero
è una società di consumatori in cui si realizza l’ideale di una possibilità illimitata di consumo insieme a una progressiva diminuzione della fatica e della pena.
Il bisogno di una sempre più rapida sostituzione delle cose ci
porta a “divorare” letteralmente sedie, tavoli, abiti, case, cellulari,
automobili. La precarietà del mondo artificiale creato dall’uomo,
attraverso la sua modifica della “materia” trasformata in “materiale” e con lo spazio della libertà che è lo spazio dell’azione
– mondo che è sempre stato in bilico di fronte alla potenza della
natura – viene ingigantita fino al rischio di una sua estinzione:
«È come se avessimo forzato i confini che proteggevano il mondo, l’artificio umano, dalla natura, dai processi biologici che vi si
svolgono internamente come dai processi naturali ciclici che lo
circondano» (Arendt 1958, 90, III.16).
Arendt, quindi, rivolge la propria critica alla società capitalistica contemporanea. In essa individua, lucidamente, una serie
di pericoli. Il primo pericolo è quello di una società dominata
dal consumo, che annulli il precario mondo finora creato dalle
attività superiori dell’uomo, ovvero «il grave pericolo che nessun
oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento
attraverso il consumo» (Arendt 1958, 94, III.17). Inoltre, vi è il pericolo dello spreco, della pura attività di divorare tutto:
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Uno dei più evidenti segni di pericolo, che mostra come siamo in procinto di tradurre in realtà l’ideale dell’animal laborans, è la misura in cui la
nostra economia è divenuta un’economia di spreco, in cui le cose devono
essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte (Arendt 1958, 94, III.17).
Ma, purtroppo, esiste anche il pericolo possibile di una improvvisa catastrofe: «ammesso che il processo stesso non giunga a una fine improvvisa e catastrofica» (Arendt 1958, 95, III.17).
Questi pericoli sono tali, soprattutto, perché l’uomo non può so-
36
Parte I - La categoria del moderno
pravvivere senza esercitare le superiori attività, non può annichilire l’homo faber e il suo portato di stabilità e permanenza:
Il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla terra e fatta dei materiali che
la natura affida alle mani dell’uomo, non consiste di oggetti da consumare ma di oggetti da usare […] Senza strappare le cose dalle mani della
natura e senza consumarle, senza difendersi dai processi naturali della
crescita e del deperimento, l’animal laborans non potrebbe mai sopravvivere. Ma senza trovare la propria dimora tra oggetti resi dalla loro durata
adatti all’uso e alla costruzione di un mondo, la cui permanenza si pone
in diretto contrasto con la vita, questa vita non potrebbe mai essere umana (Arendt 1958, 95-6, III.17).
E, infine, il pericolo diviene, sorprendentemente, maggiore
proprio quando, poiché la società del lavoro gira a ritmi crescenti,
la pena o lo sforzo diventano minori, quasi invisibili, e l’abbondanza cresce. È il pericolo, forse, peggiore per Arendt: quello di
una vita futile. Così Arendt conclude la sua riflessione sul “lavoro” nella vita activa:
Più sarà diventata facile la vita in una società di consumatori, o di lavoratori, più sarà difficile rimanere consapevoli della necessità da cui è
guidata, anche quando la pena o lo sforzo, manifestazioni esteriori della
necessità, siano riconosciuti a stento. Il pericolo è che una società del genere, abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più
a riconoscere la propria futilità – la futilità di una vita che “non si fissa
o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la
fatica necessaria a produrlo sia passata” (Arendt 1958, 96, III.17, l’ultimo
passo cit. è da A. Smith).
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Capitolo 2
LA RICERCA DELLA FELICITÀ
(TRA ANTICO E MODERNO)
2.1. Un mondo artificiale
l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente […] mentre l’uomo produce in modo universale
[…] l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo
riproduce l’intera natura […] quindi l’uomo costruisce
anche secondo le leggi della bellezza. (Marx 1973, 78-9
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Lo sviluppo gigantesco dei mezzi di produzione ha solo la
forza di rivelare pienamente il senso della produzione, che
è il consumo improduttivo delle ricchezze. (Bataille 1995,
87-8)
Un punto cruciale della critica che Arendt rivolge a Marx, al di là
della gran parte di richiami al suo pensiero economico e filosofico, consiste, quindi, come già sopra discusso, nel fatto che Marx
(nell’Ideologia tedesca) crede che il tempo libero, conquista del progresso tecnico e dell’aumento di produttività che l’homo faber consegna all’animal laborans, possa definitivamente emancipare gli
uomini. Nell’Ideologia tedesca si legge: «Il lavoro è libero in ogni
paese civile; non è questione di liberare il lavoro: si tratta semmai
di sopprimerlo» (Marx e Engels 2011, 719 [libro I, III.6.A]). Nel III
libro del Capitale al cap. 48: «il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalle necessità e dalla finalità esterna» (1894, 1102 [cap. 48, iii]). Per Marx l’uomo in società
si libera quando riproduce a livello collettivo le condizioni di lavoro artigianali e solo a quel punto «comincia lo sviluppo delle
capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà,
che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità» (1894, 1103 [cap. 48, iii]). Anni prima, un concetto analogo
era espresso in questi termini: «in tutte quante le rivoluzioni che
si sono avvenute fino ad ora non si è mai messo in discussione il
38
Parte I - La categoria del moderno
genere dell’attività, ma si è semplicemente trattato di una nuova
ripartizione di tale attività, di una nuova ripartizione del lavoro
tra altri soggetti, mentre la rivoluzione comunista si dirige contro
il modo dell’attività invalso fino ad ora, abolisce il lavoro» (Marx e
Engels 2011, 449 [libro I, B.3]).
L’attività dell’homo faber non si consuma immediatamente,
resta nel tempo e man mano costruisce un mondo artificiale che
avvolge quello naturale, lo umanizza, liberando energie che diminuiscono le fatiche dell’animal laborans. Che il tempo liberato
venga occupato da attività “superiori” è – secondo Arendt – un
miraggio dovuto al trasferimento nel mondo moderno del modello di vita dell’Atene di Pericle. Infatti, qui sta la critica a Marx
e ai moderni, «il tempo libero dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti» (Arendt 1958, 94, III.17).
Marx, considerando che ogni lavoro è produttivo (se genera
plusvalore), è il pensatore che con maggior coerenza perfeziona
la prospettiva della modernità nella quale si «considera solo il
processo vitale dell’umanità, e in questo quadro di riferimento
tutte le cose diventano oggetti di consumo» (Arendt 1958, 63,
III.11).
La società di massa (la fase “contemporanea” nelle età tipo di
Arendt) è quella del «trionfo» completo dell’animal laborans, prima di allora chiuso nella propria sfera privata dei bisogni elementari e “bassi”, e che ora si trova ad aver conquistato e occupato la
sfera pubblica dove può finalmente esibire apertamente le attività
private, i suoi desideri intimi e irrefrenabili di consumo (Arendt
1958, 95, III.17). È il trionfo, come già accennato, preparato dalla
“setta” degli economisti, che nobilitano il lavoro del contadino e
poi del salariato industriale per il semplice fatto che essi svolgono
lavori produttivi. L’economia dominata dall’animal laborans è – ripetiamo – un’economia di spreco caratterizzata da un processo di
crescente produzione di cose da consumare e di sempre più immediato consumo delle medesime, un processo dinamico la cui
stabilità non solo non è garantita ma che è invece soggetta anche
ad una potenziale catastrofe. Il concetto è precisato ulteriormente
con questa osservazione: «La richiesta universale di felicità e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società (le due facce della
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2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
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stessa medaglia) sono i segni più convincenti che viviamo in una
società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro
per essere appagata. Infatti solo l’animal laborans, e non l’artigiano
né l’uomo d’azione, ha sempre chiesto di essere “felice” o pensato che gli uomini mortali possano essere felici» (Arendt 1958, 95,
III.17).
2.2. La felicità insoddisfatta
si ritiene che la felicità risieda nel tempo libero (σχολή);
infatti sopportiamo fastidi allo scopo di essere poi liberi e
facciamo la guerra allo scopo di vivere in pace. (Aristotele,
Etica nicomachea, 917 [X, 7, 1177b])
La felicità è la realizzazione differita di un desiderio preistorico. Ecco perché la ricchezza dà così poca felicità: il denaro non è un desiderio infantile. (Freud 1986, 210)
l’ordine del profano non può essere identificato sull’idea
del regno di Dio […] L’ordine del profano va eretto sull’idea di felicità. (Benjamin 2011, 67)
Due osservazioni a riguardo della felicità sono necessarie. La
prima: c’è una sorprendente assonanza tra la visione di Arendt
della società consumistica di massa e le osservazioni di Walter
Benjamin sul «capitalismo come religione», nonostante lei non
potesse essere a conoscenza di quel breve appunto pubblicato
solo di recente, in cui Benjamin tratteggia una lucida e innovativa
interpretazione della società capitalista in chiave teologica. Ma il
trionfo dell’uomo-massa, accanito consumatore, indotto al consumo compulsivo da una religione a-dogmatica ma celebrativa,
è diventato lo stesso ingranaggio fondamentale di un meccanismo produttivo, nel quale svolgono un ruolo essenziale la fidelizzazione alla nuova religione del lavoro – inteso come lavoro
produttivo – e l’identificazione del lavoratore-consumatore con la
propria “comunità” aziendale. Tale comunità viene intesa come
chiesa di intercessione solo per mezzo della quale esprimere il
proprio credo e ricercare una salvezza non concessa nemmeno
come speranza, ma solo come impegno profuso di continuo secondo il proprio Beruf.
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Parte I - La categoria del moderno
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La seconda osservazione sviluppa un ulteriore accostamento a completamento del precedente. In questo caso l’accostamento può, forse, prestare il fianco alla critica di una certa
forzatura interpretativa del pensiero espresso da Arendt sulla
rivoluzione americana1. Ma la felicità evocata nel passo alla fine
del paragrafo precedente richiama la costituzione americana, in
cui happiness compare come diritto naturale, al pari della vita e
della libertà, una costituzione tanto celebrata dal pensiero liberale anche in contrapposizione con le costituzioni repubblicane
francesi, nelle quali il concetto di felicità, com’è noto, è assente. Nell’Europa dei Lumi, come ricorda Starobinski, la felicità
è intesa più come libero godimento, di libertini e libertari2. A
fine secolo Saint-Just espresse in forma lapidaria un concetto
di felicità universale: «Le bonheur est une idée neuve en Europe»: la felicità è un’idea nuova in Europa, ed era la Rivoluzione
Il riferimento è specialmente alle proposizioni ricorrenti in Sulla rivoluzione riguardo all’esperienza americana della lotta per l’indipendenza, dove
si riconosce l’elemento di continuità con la tradizione inglese. In Vita activa
si continua a distinguere la rivoluzione americana, come caso a sé, rispetto
alle altre rivoluzioni di età moderna per le quali Arendt osserva: «tutte (con
l’eccezione di quella americana) mostrano la stessa combinazione del vecchio
entusiasmo romano per la fondazione di un nuovo corpo politico con la glorificazione della violenza come unico mezzo per “realizzare” questo compito e
ciò «sintetizza la convinzione dell’età moderna e trae le conseguenze dalla sua
più intima fede che la storia è “fatta” dagli uomini come la natura è “fatta” da
Dio» (Arendt 1958, 168, V.31). L’osservazione induce a riflettere sulla distinzione tra violenza difensiva (quella, ad esempio, dei coloni americani) da quella
che viene glorificata per segnare un punto di non ritorno e l’inizio di un “uomo
nuovo”.
2
Starobinski (2008, 17): «Questo secolo (almeno nei suoi rappresentanti
più qualificati) si voleva libero d’inseguire la felicità come di conquistare la verità.
Libero godimento, ma anche libero esame. Libertini e libertari» e – aggiunge –
una ricerca di «felicità nel gioco delle idee piuttosto che nelle gioie immediate
della vita sensibile». Altrove l’accostamento è più alla voluttà che non alla virtù
(idem, 52). La rappresentazione artistica esprime il senso della felicità nel XVIII
secolo: «La felicità vi è rappresentata, precisamente, come un’energia interamente
rivolta a dissiparsi nella casualità del gesto; la felicità era l’attività senza scopo e
il riposo senza immobilità; la danza rappresentava la riuscita perfetta di questo
divertimento movimentato, il capolavoro di un’animazione pura» (idem, 84-5). È
più il vivere negli agi del lusso e della spensieratezza, forse, più che in quello della
serena austerità esaltata dagli antichi.
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2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
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a renderla accessibile a tutti, concetto in cui la felicità non era
espressa come opulenza ma come Verità, compagna della Virtù secondo Helvetius (Postigliola 1992, 175-6, 181). Per Thomas
Jefferson, e altri padri della costituzione americana, il principio
di autodeterminazione e di legittimazione di un governo era
finalizzato alla felicità dei governati3. Secondo alcuni studiosi,
Jefferson avrebbe però ripreso l’idea dalla Teoria dei sentimenti
morali di Smith4. Tutto acquista un suono molto più prosaico in
Francia nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789), nella quale i «diritti naturali» sono la libertà, l’uguaglianza e la proprietà. Della felicità non si fa menzione alcuna.
Il diritto alla ricerca della felicità nello spirito dei costituenti
americani non è affatto lontano da quello della proprietà, ma
la proprietà è evidentemente un mezzo per la felicità, che non è
uno stile di vita ma un fine. Per i puritani Dio era eternamente
felice di se stesso5. Nel primo numero del Federalist del 27 ottobre 1787 Alexander Hamilton, con fama di senza patria, monarchico, conservatore, sostenitore delle classi benestanti6, interveniva per propugnare il progetto di costituzione predisposto a
3
La Dichiarazione d’indipendenza recita: «Consideriamo come evidenti
queste verità che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal Creatore di certi
diritti inalienabili, tra i quali la vita, la libertà, il perseguimento della felicità;
che, per assicurare questi diritti, vengono istituiti tra gli uomini governi i quali
attingono i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che, ogni qualvolta
una forma di governo porta a distruggere questi scopi, il popolo ha diritto di
cambiarla o di abolirla, istituendo un altro governo su principi tali e con tale
organizzazione di poteri da avere le maggiori probabilità di assicurare sicurezza
e felicità». Cfr. anche il documento stilato da Jefferson a nome della commissione nominata il 10 giungo 1776 dal Congresso continentale e composta anche
da John Adams, Benjamin Franklin, Roger Sherman e Robert Linvingston, in
Aquarone (1961, 53).
4
Hill (2016, 3) rinvia al passo seguente: «Tutti i governi [costituzionali],
tuttavia vengono valutati solo in proporzione alla loro tendenza a promuovere la
felicità di coloro che vivono sotto di essi» (Smith 1759, 377 [IV.i.11]).
5
“Happy” e “happiness” fanno anche parte di un lessico puritano v. Jones (2016, 50-1); e il credente deve sforzarsi di raggiungere la felicità come dono
della grazia; v. Roberts (2016, 102-3 e 106). E solo in assenza di miseria la felicità
può essere conseguita (ibidem, 113).
6
Per la contrapposizione con gli altri “padri” della patria v. de Caprariis
(1961, 7-8). Cfr. Hamilton, Madison e Jay (2004).
42
Parte I - La categoria del moderno
Filadelfia, dicendo: «Sì, cittadini, sento il dovere di dirvi che
[…] l’adottarla, corrisponda a vostro interesse. Sono persuaso
che essa rappresenta la migliore soluzione per la vostra libertà,
la vostra dignità, la vostra felicità»7. È all’interesse che rivolge le
sue esortazioni Hamilton ed è con lo stesso realismo che porta
l’attenzione dai diritti alle forme di governo perché «mano a
mano che le ricchezze aumenteranno – obietterà ai suoi avversari alla convenzione di New York per la ratifica della Costituzione – e saranno concentrate nelle mani di pochi, e il lusso
prevarrà nella vita sociale, la virtù sarà sempre più considerata
quasi una graziosa appendice della ricchezza […] questa è la comune disgrazia che minaccia la nostra Costituzione, come tutte
le altre» (cit. in de Caprariis 1961, 19).
I “vizi privati, pubbliche virtù” di Mandeville (1727) diventano rights and public happiness in Madison8. Non va però neppure dimenticato che la “pubblica felicità” era un compito che le
monarchie assolute dovevano paternalisticamente svolgere per
i loro sudditi e, nel senso del cosmopolitismo illuministico, una
dimensione universale di “pace perpetua”, che poteva essere realizzata anche dalle monarchie purché illuminate dalla ragione9.
La felicità ha un’accezione meno politica e più individualistica
nel passo famoso del saggio kantiano Sopra il detto comune. Qui,
lo stato civile, fondato sul diritto, segue i tre princìpi a priori di
libertà, eguaglianza e indipendenza, e libertà e felicità sono così
iene
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7
La frase è tratta da Aquarone (1961, 80). V. anche Hamilton, Madison e
Jay (2004, 3).
8
“The Federalist” n. 14, in Hamilton, Madison e Jay (2004, 63). Hamilton
ribadiva il concetto di «the great ends of public happiness and national prosperity» nel n. 36 dell’8 gennaio 1788 (idem, 168) dove la felicità è “pubblica” e la
prosperità “nazionale”.
9
Nella ricordata prima stesura della dichiarazione d’indipendenza Jefferson menziona una lunga lista di «offese ed usurpazioni» del sovrano verso
i sudditi delle colonie, per questo accusato di dispotismo e di tradimento della
propria missione (cfr. Aquarone 1961, 54-8) per concludere così: «Insieme avremmo potuto essere un popolo grande e libero; ma sembra che una comunione di
grandezza e di libertà sia al di sotto della loro dignità [dei britannici]. Sia pur così,
dato che lo vogliono; la strada che porta alla gloria ed alla felicità è aperta a noi
pure; la percorreremo separatamente, e ci pieghiamo alla necessità che pronuncia
il suo definitivo Adieu!» (idem, 59).
2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
43
intese: «Nessuno può costringermi ad essere felice a suo modo
(nel modo cioè in cui egli si immagina il benessere degli altri
uomini), ma ad ognuno è lecito cercare la propria felicità per la
via che a lui sembra buona, purché alla libertà degli altri di tendere ad analogo scopo, la quale può coesistere con la libertà di
ogni altro secondo una possibile legge universale, egli non rechi
pregiudizio alcuno» (Kant 1995, 154). Il principio è infatti «dare
preferenza a ciò che mira alla felicità piuttosto che a ciò che la
ragione pone come condizione suprema: ossia rendersi degni di
essere felici» (Kant 1995, 152). Kant condanna infatti senza mezzi
termini i governi paternalistici (imperium paternale) che lasciano i
sudditi in uno stato di minorità, incapaci di esprimere un volere
autonomo, senza quell’autodeterminazione che solo la libertà assicura contro ogni forma di dispotismo (Kant 1995, 154). Quando
Madison si interroga su quali siano i principi su cui fondare una
confederazione di Stati, la risposta che dà è il ricorso al principio
dell’auto-conservazione (self-preservation), delle «trascendenti
leggi di natura e della natura di Dio, che dichiarano che la sicurezza e la felicità della società sono i fini a cui mirano tutte le
istituzioni politiche e a cui tutte le istituzioni devono essere sacrificate»10. Qui e altrove, la felicità è una dimensione “pubblica”
o “politica” e un compito istituzionale; per il suo perseguimento
è ancora lo Stato, ora repubblicano e non assoluto, a farsi carico
di compiti abdicati da una monarchia dispotica come quella da
cui gli americani volevano staccarsi. La distanza con Kant è sostanziale.
Tale distanza è la stessa sottolineata da Benjamin Constant
nella sua critica a Gaetano Filangieri. «Il Filosofo napoletano –
scrisse Constant – sembra di voler sempre affidare all’autorità
la cura d’imporre a se stessa dei limiti […]. È ormai passato il
tempo, in cui si diceva, che conveniva far tutto per il bene del
popolo, e nulla col popolo. […] Cognite e definite sono le funzioni dell’autorità. Non devono già emanare da lei i miglioramenti, ma dall’opinione, che comunicata nella massa del popolo
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Dal “The Federalist” n. 43 del 23 gennaio 1788, in Hamilton, Madison e
Jay (2004, 216).
10
Parte I - La categoria del moderno
44
colla libertà […] ripassa da questa massa popolare in quella da
essa scelti per suoi organi», cioè i rappresentanti del popolo e
le assemblee parlamentari11. Quel che sottolinea Constant è la
differenza tra il liberalismo e il riformismo dell’assolutismo illuminato («far tutto per il bene del popolo, e nulla col popolo»).
Nel primo, i limiti al potere statale erano posti dalla volontà
popolare, nell’assolutismo erano autolimitazioni imposte da governi riformatori. L’altro elemento importante nella posizione
che Constant rivendica per se stesso è il ruolo svolto dall’«opinione» – «tramessa alle masse popolari» («transmise à la masse
populaire») – e la fabbrica dell’opinione è uno dei meccanismi
di governamentalità12 liberale che presuppone la costruzione di
un «mercato tendenzialmente liberalizzato» (Habermas 2002,
86). Infine, Constant ribadisce ancora meglio il concetto della
sua distanza da Filangieri: «Laddove Filangieri vede una grazia, io scorgo il diritto, e dovunque egli implora protezione, io
reclamo libertà»13.
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11
Si riprende da Constant (1828, 6). Sul pensiero di Filangieri e le critiche
di Constant si rinvia a Pecora (2007).
12
Il concetto di “governamentalità” rappresenta il fulcro della teoria
sviluppata da Foucault nei suoi corsi per formulare una originale e complessa
analisi sia delle forme di potere che della connessa formazione della soggettività nel mondo occidentale. Il concetto di governamentalità viene concepito da
Foucault in tre modi, complementari fra loro. Limitandoci alla prima definizione, estremamente utile per inquadrare il regime di governo neo-ordoliberale,
che è specialmente l’oggetto del par. 15.4, la governamentalità è «l’insieme di
istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono di
esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di
sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico essenziale» (Foucault
2017a, 97-8). Foucault si occupa principalmente del governo nei termini di razionalità e pratiche applicate alla sovranità politica, ma anche alla produzione
della soggettività dei governati, come peraltro emerge dalla sua definizione
di governo: «governare può voler dire dirigere qualcuno, nel senso propriamente spirituale del governo delle anime, […] imporre un regime a un malato,
[…] può riguardare la condotta morale, […] il dominio che si può esercitare
su se stessi e sugli altri, […] non si governa mai uno stato, né un territorio, né
una struttura politica. Si governano persone, individui e collettività» (Foucault
2017a, 75).
13
Constant (1828, 7).
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2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
45
Nella cameralistica14 germanica del XVII-XVIII secolo, il paternalismo del principe “buono” è ancora il dispensatore di Wohlfahrt, benessere dei sudditi, termine che ha un’accezione diversa
dal bonum commune della scolastica, ed è un benessere da stato
di «polizia», essenziale per il bene dei sudditi e per la prosperità
dello Stato nazionale. Il cameralismo si pone come «scienza di
polizia», metodo di governo dell’economia privata e di prescrizioni da scienza delle finanze15. Questo concetto di ordine e stabilità non è lontano dalla happiness dei padri costituenti americani.
Sempre per Hamilton l’importanza dell’Unione sta nella «vostra
[si rivolge ai Fellow Citizens] sicurezza politica e felicità»16. A cogliere il senso del repubblicanesimo americano con un tagliente spirito critico non era del tutto lontano Stendhal, che al suo
“eroe” repubblicano Lucien Leuwen, che vive la sconfitta della rivoluzione di luglio e l’instaurazione della monarchia “borghese”
di Luigi Filippo nel 1830, fa dire: «In America creperei di noia, tra
persone, se si vuole, perfettamente eque e assennate, ma rozze, e
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ne a roffisimone.2000
14
Per cameralismo (da Kammer, l’organo che si occupava del patrimonio
del principe e della finanza pubblica nella Germania) si intende un eclettico insieme di dottrine fiorito in Germania nel XVII e XVIII secolo – Federico Guglielmo I
di Prussia istituì due cattedre di Scienze camerali ad Halle e a Francoforte sull’Oder nel 1727 e in Italia nel 1769 Cesare Beccaria ottenne la cattedra di Scienze
camerali nelle Scuole palatine di Milano – che unisce le questioni relative all’amministrazione dello Stato con quelle del benessere generale ed economico. Queste
dottrine, o scienze camerali, si occuparono di numerosi campi del sapere più o
meno connessi con le due precedenti questioni, quali la politica, il diritto amministrativo, la popolazione, l’attività economica e la ricchezza nazionale, la scienza
delle finanze, le teorie della bilancia commerciale. L’ottica con cui il cameralismo
approcciava questo ampio raggio di questioni economiche, politiche, giuridiche
e sociali erano quella del mercantilismo per quanto riguarda l’economia e quella
dell’organicismo sociale – una concezione organica della società col vertice (monarca, principe o altro) attento verso tutte le componenti della medesima – per
quanto riguarda la società; tuttavia la caratteristica principale dell’approccio cameralistico era il focus dottrinario e pratico sulla “amministrazione”. L’attenzione
alle tecniche amministrative e alla cornice legale dello Stato anche nell’approccio
all’economia e alla società ne fanno un “sapere” interessante anche per la comprensione del moderno pensiero neo-ordoliberale e le modalità di “governo” da
esso ispirate.
15
Schiera (1983, 1143). Sul tema anche Napoli (2003).
16
Nel n. del 1 dicembre 1787 in Hamilton, Madison e Jay (2004, 64).
Parte I - La categoria del moderno
46
che non pensano che ai dollari»17. L’happiness stendhaliana è più
vicina al concetto degli happy few di Shakespeare (Enrico V, 4, 3)18
di quanto non lo sia a quella della costituzione americana o anche
al severo individualismo kantiano.
2.3. La felicità dei moderni
Mi convinsi che nelle relazioni umane la verità, la sincerità e
l’onestà erano di fondamentale importanza, per il raggiungimento della felicità. (Franklin 1967, 105)
Felicità raggiunta, si cammina | per te sul fil di lama. | Agli
occhi sei barlume che vacilla, | al piede, teso ghiaccio che
s’incrina; | e dunque non ti tocchi chi più t’ama (Montale,
Ossi di seppia, 1990, 40)
La felicità [...] deve essere in qualche modo prelevata e trasformata in utilità dello stato: fare della felicità degli uomini l’utilità dello stato, è la forza stessa dello stato. (Foucault
2017a, 238)
Nel Traité d’économie politique (1615), Antoine de Montchretien
(1576-1621), primo a introdurre il termine “economia politica”, svela anche, meglio di ogni altro, il senso della felicità dei moderni
laddove osserva che «la felicità degli uomini consiste principalmente nella ricchezza, e la ricchezza nel lavoro». La passione per
la ricchezza era però una delle passioni da controllare, perché la-
Stendhal, Lucien Leuwen, Torino, Einaudi, 1956, p. 67 che traduce il
passo: «Je m’ennuierais en Amérique, au milieu d’hommes parfaitement justs et
raisonnables, si l’on veut, mais grossiers, mais ne songeant qu’au dollar» (Paris,
Flammarion, 1982, I, p. 157 [cap. VI], in corsivo nell’originale).
18
«Potessi esser morto! Tale fosse davvero la volontà del buon Dio: infatti,
che altro v’è in questo mondo se non affanni e sventure? O Dio mio! credo, in
verità, ch’io avrei vissuto una vita felice, non essendo altro che un modesto campagnolo» (Would I were dead, if God’s good will were so – | For what is in this
world but grief and woe? | O God! Methinks it were a happy life | To be no better
than a homely swain) dalla 3a parte di Henry VI, 2, 5, 19-26; ma cfr. Curtis (2009).
La felicità è l’idealizzata “gioia dell’anima” e pienezza nell’amore fino alla felicità
di morire in Desdemona; in Zamir (2007, 160-3). Happiness significa qualcosa di
molto simile a quello che per i francesi è il bonheur come stato d’animo colmo di
soddisfazione; cfr. Mauzi (1960).
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sciandola preda di una concorrenza sfrenata, al pari di quella per
la ricerca della gloria, comportava una maggiore insicurezza per
tutti. E per Hobbes uscire dall’insicurezza dello stato di natura, nel
quale «la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve»19, è la sola condizione per far volgere gli interessi verso un bene
comune (un commonwealth), in modo da superare «il dominio delle
passioni, la guerra, la paura, la povertà, la trascuratezza, l’isolamento, la barbarie, l’ignoranza, la bestialità»20. Se si legge lo stato di
natura hobbesiano alla luce di Vita activa, le opere sono quelle che
liberano l’animal laborans da una condizione umana opprimente e
invivibile, senza possibilità di libertà. In Rousseau, sempre seguendo le indicazioni arendtiane, lo stato di natura è considerato secondo i parametri della sapienza antica e, dunque, non come conflitto
di ambizioni passionali, bensì come una felicità istintiva, priva di
passioni distruttrici, di un uomo libero, che è in pace con se stesso
e in buona salute, ma che anche in questo caso gode della libertà
perché non è afflitto dal lavoro, non vive in una società che è «assemblage dʼhommes artificiels & de passions factices» («un’accolta
di uomini artificiali e di passioni fittizie»), che non hanno alcun
fondamento nella natura, e perciò «ne respire que le repos & la liberté, il ne veut que vivre & rester oisif» («non respira che quiete e
libertà; non vuole che vivere e restare ozioso»)21. A dividere Hobbes
da Rousseau c’è lo stesso fossato che separa l’animal laborans dall’azione del cives, il quale è libero, al contrario dell’animal laborans, dal
fardello di una quotidianità affannata alla ricerca disperata di beni
di consumo. Arendt ritiene che, se di felicità si può parlare (in Vita
activa “happyness” non è nobilitata come categoria a sé), ha senso
solo in riferimento a una condizione sociale.
La fecondità del metabolismo uomo-natura, che scaturisce dalla naturale
abbondanza di forza-lavoro [esubero di “labor power”], appartiene ancora alla sovrabbondanza che vediamo ovunque nel regno della natura.
La “benedizione o la gioia” del lavoro è la maniera umana di sperimen-
19
La frase, famosa, è tratta dal Leviathan, XIII I, 13, nella versione Hobbes
(2001, 144).
20
Da De cive, X, I in trad. it. Hobbes (1948, 226).
21
Dal Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes
(1754), II parte, le parti tradotte sono da Rousseau (1972, 75).
48
Parte I - La categoria del moderno
tare la mera beatitudine di essere vivi che condividiamo con tutte le creature viventi, ed è inoltre il solo modo in cui anche gli uomini possono
rimanere e muoversi con soddisfazione nel ciclo prescritto della natura,
faticando e riposando, lavorando e consumando, con la stessa regolarità
felice e senza scopo con cui si susseguono il giorno e la notte, la vita e la
morte (Arendt 1958, 76, III.14).
L’aggettivo happy, qui sottolineato, dà il senso di una condizione condivisa in uno spazio politico di libertà e non di persistente pursuit che fa leva sulla massimizzazione di mezzi scarsi
per alimentare un’insoddisfazione perenne e inappagabile. La
cura di se stessi e dei propri interessi non ha nulla a che vedere
con la libertà e col luogo di partecipazione a una vita collettiva
di azione e parola. La libertà autentica è «regolarità felice e senza
scopo», appagamento e pace sociale.
«La libertà dal lavoro in se stessa non è nuova; un tempo era
uno dei privilegi più radicati in pochi individui»; lo sviluppo
tecnologico pare prospettare che tutto ciò può essere accessibile anche ai più, tuttavia «[l]’età moderna ha comportato anche
una glorificazione teoretica del lavoro, e di fatto è sfociata in una
trasformazione dell’intera società in una società di lavoro. La realizzazione del desiderio, però, come avviene nelle fiabe, giunge al
momento in cui può essere solo una delusione» e quella odierna
è «una società che non conosce più quelle attività superiori e più
significative in nome delle quali tale libertà meriterebbe di essere
conquistata» (Arendt 1958, 4, prologo). La conclusione è amara se
anche i governanti equiparano le loro funzioni a un lavoro necessario alla società e se anche tra gli stessi intellettuali solo in pochi sentono di svolgere «un’attività creativa piuttosto che […] un
mero mezzo di sussistenza. […] Certamente non potrebbe esserci
niente di peggio» (Arendt 1958, 5, prologo). Il termine “società di
lavoro” fa riferimento al libro di Ernst Jünger, Der Arbeiter, uscito
un anno prima dell’avvento del nazismo, nel quale la guerra industriale moderna e la «mobilitazione totale» delle risorse e dei
mezzi della tecnica hanno spinto la società industriale alle estreme conseguenze di una struttura di fabbrica integrata, dove l’operaio-automa diventa un ingranaggio di una macchina complessa per il cui funzionamento lo «Stato nazionale è obbligato alla
concorrenza» (Jünger 1984, 173). Quest’ultima affermazione dello
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scrittore filosofo tedesco coglie sorprendentemente, in anticipo
sui tempi, le idee del pensiero neo-ordo-liberale che nei medesimi
anni dell’avvento nazista si andava formando, basandosi proprio
sulla proprietà ordinativa di una concorrenza imposta dallo Stato a se stesso e a tutti gli ambiti della società. L’operaio perde il
senso di quel che fa: compie gesti ripetitivi; altri dispongono della
sua forza-lavoro come vogliono. Jünger prende a riferimento la
Germania, o meglio la tradizione prussiana della nazione tedesca,
e rende visibili i germi della formazione ordoliberale della governamentalità moderna, che trae origine dalla lunga tradizione
cameralistica. Ciò è evidente quando afferma: «sia la libertà che
l’ordine si riferiscono non già alla società, bensì allo Stato, e il modello di ogni struttura [organizzativa] è la struttura militare, non
certo il contratto sociale»22. Lo Stato neoliberale (che trattiamo
nella III parte) tende perciò a una «smodata concorrenza» dove
una pace non può essere «mai garantita da un contratto sociale
tra Stati, ma soltanto da uno Stato dal rango indubitabilmente
imperiale, nel quale si uniscano imperium et libertas» (Jünger 1984,
177). La «smodata concorrenza [che] opprime, senza distinzioni,
produttori e consumatori» dato che «[a]lla legge economica si
sovrappongono leggi simili a quelle che reggono la strategia di
guerra – non solo sui campi di battaglia, ma anche nell’attività
economica» (Jünger 1984, 163 e cfr. anche 103 e 134). Già nella
Jünger (1984, 15). Rispetto al concetto di «prussianità» merita soffermare
l’attenzione su queste considerazioni: «La severa disciplina di una specie che si
forma nel deserto di un mondo razionalizzato e moralizzato suggerisce il confronto con lo sviluppo della prussianità. C’è da dire che il concetto prussiano di dovere
si adatta ad essere applicato, nel suo carattere intelligibile, proprio al mondo del
lavoro» e poco più avanti aggiunge: «Nel concetto prussiano di dovere si compie
l’atto con cui è domato l’elementare, secondo esempi registrati nella memoria: il
ritmo delle marce, la condanna a morte dell’erede al trono, le magnifiche battaglie che si dovettero vincere con una nobiltà domata e mercenari addomesticati»
(Jünger 1984, 63-4). Il riferimento alla condanna a morte rinvia, forse, all’ostilità
di Federico II, detto il Grande, per il figlio Federico, principe ereditario fuggito in
Inghilterra, ripreso e processato che, sul punto di essere giustiziato, fu rinchiuso
nella fortezza di Küstrin solo per intercessione dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo (cfr. Barbero 2007, cap. V). Interessante, ma non sviluppato, l’accostamento tra
esercito prussiano e ordine dei Gesuiti, entrambi frutto o reazione della Riforma,
e modelli dell’organizzazione moderna del lavoro (in Jünger 1984, 93n.).
22
Parte I - La categoria del moderno
50
sua forma non pienamente matura, lo Stato neoliberale si forma
su un avversario contro il quale combatte per raggiungere la posizione più elevata sulla frontiera dell’efficienza e l’avversario è
chi lavora senza essere efficiente, cioè senza avere come obiettivo
quello di raggiungere, come il minatore Stachanov (Vigne 1984),
il primato da schiavo e la gloria da combattente che ha resistito
sul fronte del lavoro e ha consentito quell’avanzamento di posizione trascinandosi dietro emuli compagni. Quella che Jünger
chiama la «dittatura del pensiero economico»23 ha prodotto, in
Germania, l’operaio erede della prussianità, «milite ignoto che
viene annientato sui campi di battaglia del lavoro, e proprio per
questo, d’altro canto, egli si fa avanti come signore e ordinatore
del mondo» (Jünger 1984, 40).
La digressione sull’Arbeiter jüngeriano era necessaria perché
i termini di riferimento che Arendt tiene sempre presenti sono,
da un lato, l’antichità e, dall’altro, il mondo contemporaneo della
tecnica24. Il mondo dell’autentica libertà a cui Arendt si riferisce è
quello fatto di relazioni umane intessute di «azione» e «discorso»
(quel che in Aristotele sono praxis e lexis, costitutivi del bios politikos), che, come una trama e un ordito, creano la tessitura dello
spazio politico. A differenza del “lavoro” o dell’“opera”, nell’attività umana dell’“azione” è imprescindibile la presenza di altri uomini per dar corpo a un «mondo di cose in cui vivono gli uomini,
un mondo che fisicamente si trova tra loro e dal quale derivano i
loro interessi specifici, oggettivi, mondani. Tali interessi costituiscono, nel senso più letterale del termine, qualcosa che inter-est,
che sta tra le persone e perciò può metterle in relazione e unirle»
(Arendt 1958, 133, V.25). Azioni e discorsi creano uno spazio relazionale per il quale Arendt usa il termine in-between (reso nella traduzione italiana con infra). Tale spazio è parte integrante di ogni
La supremazia dell’economico ha dell’imperscrutabile; il mistero è
enunciato da Jünger con due constatazioni: «in primo luogo, l’economia non è
una forza destinata a conferire libertà; in secondo luogo, un significato economico
non può spingersi fino a toccare gli elementi della libertà e a penetrarli» (1984, 28).
24
Va notato, tuttavia, che né in Vita activa, né in Le origini del totalitarismo
del 1951, ci sono rinvii a Jünger. Né le loro posizioni né il clima politico dell’epoca
erano concilianti; tuttavia, Lyotard (1999, 86) scorge nel concetto di totalitarismo
elaborato dalla Arendt un eco della mobilitazione totale di Jünger.
23
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2 - La ricerca della felicità (tra antico e moderno)
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relazione umana, anche della più oggettiva, a cui si sovrappone e
ricopre di parole e atti, per quanto non lascia consistenze tangibili. «Ma con tutta la sua intangibilità, – aggiunge Arendt – questo
spazio è non meno reale del mondo delle cose che abbiamo visibilmente in comune. Noi chiamiamo questa realtà “l’intreccio” [web]
delle relazioni umane» (Arendt 1958, 133, V.25).
L’homo faber ha prodotto “opere” che hanno ri-creato l’ambiente umano e consentito di liberarsi dai cicli naturali. Il dominio della natura è contrastato; il rapporto dell’uomo con la natura
è mediato da oggetti che umanizzano uno spazio prima incorporato nella naturalità delle cose. L’opera sottrae, in altri termini,
il lavoro dalla dimensione di un tempo circolare (Arendt 1958,
15, I.3; e 35, II.6) e introduce una nozione di tempo lineare per
accumulo di opere che si trasmettono di generazione in generazione producendone di nuove senza ritorni da capo. L’operare
si svolge lungo un’asse teleologico di progetto e realizzazione,
per il superamento di limiti biologici. Nella parte finale del libro,
Arendt si sofferma sulla rivoluzione costituita dal cannocchiale
di Galileo, autentico compimento della rivoluzione copernicana,
che estende dalla scienza alla morale un nuovo radicale rapporto
con la conoscenza del mondo e di sé. Col cannocchiale la visione
dell’uomo si sposta in un autentico “punto archimedeo” posto al
di fuori del mondo umano, dal quale è permesso di sollevare, in
tal modo, il velo dei segreti della natura25. Anche il tempo è umanizzato, ma diventa memoria e storia solo attraverso l’azione che
dà continuità alle istituzioni politiche26.
25
La «metafora giudiziaria» di una natura posta di fronte al tribunale
kantiano della ragione coglie il senso dell’interrogare la natura con metodo ed
esperimento a partire da Bacone, Galileo, Torricelli e Stahl; con loro inizia il disvelamento dei misteri che l’illuminismo massonico, invece, estende nei riguardi di
altre rivelazioni; cfr. Hadot (2004, 133 e 345).
26
«Tutte e tre le attività e le loro corrispondenti condizioni sono intimamente connesse con le condizioni più generali dell’esistenza umana: nascita e
morte, natalità e mortalità. L’attività lavorativa assicura non solo la sopravvivenza individuale, ma anche la vita della specie. L’operare e il suo prodotto, l’“artificio” umano, conferiscono un elemento di permanenza e continuità alla limitatezza della vita mortale e alla labilità del tempo umano. L’azione, in quanto fonda
e conserva gli organismi politici, crea la condizione per il ricordo, cioè la storia»
(Arendt 1958, 8, I.1).
52
Parte I - La categoria del moderno
La vita activa si dispiega su tre livelli ambientali e di relazioni
umane. Il primo è una sorta di stato di natura nel quale prevale
la lotta per la sopravvivenza. Il passo verso lo stadio superiore e
più complesso è dato dalla stratificazione di strumenti di lavoro e
oggetti fabbricati che fecondano le possibilità del lavoro umano.
La rivoluzione industriale rappresenta il prodotto di attività prometeiche che non hanno precedenti storici se non nell’avvento di
un’agricoltura stanziale (Arendt 1958, 85-6, III.16). Arendt fonda
il proprio ragionamento sulla base della distinzione aristotelica
tra oikos, spazio della vita privata, rivolto ai bisogni biologici della nuda vita, e agorá, una delle dimensioni della sfera pubblica27,
piazza nella quale i cittadini convengono ed esercitano la loro
“azione” ed effettuano i loro scambi. L’atto e il discorso sono il
tipo di relazioni che si esplicano nell’attività politica ed è tale attività che immette nella storia. La vita istituzionale della polis si
basa su quella dell’oikos, ma tende a superare i rapporti di violenza e di soggezione che caratterizzano l’organizzazione del lavoro
nella famiglia. Nella polis l’esercizio del potere segue regole e riti
che tendono a disinnescare l’uso di relazioni violente che negano
la pratica del discorso. L’opposizione violenza familiare-discorso
politico porta Arendt ad accentuare un rapporto essenzialmente
conflittuale che riscontra anche tra oikos e polis.
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L’agorá è qui vista, anche metaforicamente, come luogo di contesa permanente tra la libertà politica e la libertà di mercato; è perciò luogo deputato allo
scontro tra l’“azione”, in senso arendtiano, e le attività mercantili e bancarie, intese secondo la nostra estensione della tassonomia arendtiana delle attività umane
(v. par. 3.2 e tav. 2). All’epoca di Omero – come precisano Austin e Vidal-Naquet
(1977, 43) – gli scambi commerciali erano ancora poco sviluppati e l’agorá delle
città non svolgeva ancora funzioni economiche, ma era principalmente un luogo d’incontro. Omero non usa un termine preciso per definire il mercante. Solo
successivamente, ad Atene e in altre città, l’agorá accoglie stranieri per i loro commerci, sui quali le autorità imponevano tributi (Austin e Vidal-Naquet 1977, 1223). Nella Tessaglia l’agorá, originariamente piazza di incontri pubblici, diventa il
centro economico, con una separazione tra un’agorá “libera” e una “commerciale”;
quest’ultima è quella a cui si riferisce Platone nelle Leggi (v. idem, 124).
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Capitolo 3
LA COSTRUZIONE DELL’ANIMALE POLITICO
E IL TEATRO DELLO SCAMBIO
3.1. L’azione e la libertà
resoconto di Senofonte su Sparta, dove tra 4000 persone
sulla piazza del mercato uno straniero poteva individuare
non più di 60 cittadini. (Arendt 1958, 247)
Non tenevo mai, a quei tempi, libri dei conti, degni soltanto
di un animo gretto. Non avevo debiti. Pagavo con magnanimità tutto quello che acquistavo e acquistavo tutto quello
che volevo. (Thackeray 1844, 160)
L’intera costruzione arendtiana della vita activa ha – come accennato – le sue radici nell’etica aristotelica e nelle elaborazioni
successive di vita contemplativa (bios theoreticós), non riducibili alla
sola dimensione di vita teoretica né assimilabili a quella di “buona
vita” nel senso di libertà esistenziale1. Arendt chiarisce la propria
posizione, distinguendola dalla tradizione della filosofia politica
(«contraddice apertamente la tradizione»), per evidenziare le articolazioni interne alla vita activa e fornire un quadro concettuale
di riferimento al di là di capovolgimenti nell’ordine gerarchico
dell’antichità (Arendt 1958, 13-4, I.2). La nozione di azione è, sotto
questo profilo, quella più controversa, perché è posta al vertice della
gerarchia dominante sia nel pensiero greco che in quello cristiano,
per la superiorità assegnata alla vita contemplativa rispetto a tutto
il resto. L’azione così concepita si distingue dalla razionalità individualistica della ragion pratica in senso kantiano per una visione
più concreta, meno trascendentale, un’azione politica come azione
degli uomini che conoscono solo il mondo che hanno creato e sul
quale continuano a intervenire. La storia è possibile perciò con la
creazione di uno spazio pubblico, che permette il collocarsi fuori
1
Quest’ultima è la tesi di Voice (2014, 47).
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54
Parte I - La categoria del moderno
dalla ciclicità naturale. Lo spazio pubblico è quello fatto di «discorso e azione» che consentono agli uomini di distinguere le rispettive
individualità (Kohn 2000, 125). L’azione si distingue nettamente dal
lavoro e dall’opera per assenza di corporeità nel senso che
Gli uomini possono benissimo vivere senza lavorare, possono costringere
gli altri a lavorare per sé [cioè gli homines laborantes], e possono benissimo
decidere di fruire e godere semplicemente del mondo delle cose senza aggiungere da parte loro un solo oggetto d’uso [ossia nessun’opera]; la vita di
uno sfruttatore o di uno schiavista e la vita di un parassita possono essere
inique, ma essi sono certamente esseri umani. Ma la vita senza discorso e
senza azione – è letteralmente morta per il mondo; ha cessato di essere una
vita umana perché non è più vissuta fra gli uomini (Arendt 1958, 128, V.24).
La sfera domestica era il luogo della necessità (dove la sopravvivenza sia individuale che della specie era curata); la polis
era il luogo della libertà: la raggiunta sicurezza nella prima era
condizione necessaria per l’accesso alla seconda. Necessaria ma
non sufficiente, perché l’accesso era riservato ai coraggiosi, perché tali bisognava essere per lasciare la casa, luogo di cura della
propria vita e sopravvivenza, e dedicarsi o alla gloria, o, soprattutto, agli affari politici della città. Prima di Machiavelli, nel mondo post-classico, nessuno, secondo Arendt, si era accorto dell’alta
dignità della sfera politica e del coraggio richiesto per appartenervi, dignità e coraggio che Machiavelli riconosce nel Principe
che ascende dalla vita privata – condizione comune di tutti – al
principato, condizione per la signoria e per la gloria, mentre in
precedenza nei feudi come nelle comunità mercantili cittadine,
caratterizzati da un atteggiamento cristiano verso la politica, non
vi era di fatto alcuna sfera pubblica, persino la corporazione non
era altro che una “compagnia” di privati:
Non è quindi sorprendente che il pensiero politico medievale, interessato esclusivamente alla sfera secolare, ignorasse lo scarto tra l’esistenza
protetta nell’ambito della vita domestica e l’essere esposti senza alcuna
protezione nella impietosa realtà della polis, e ignorasse di conseguenza
il coraggio come una delle più elementari virtù politiche […]. Chiunque
volesse accedere alla sfera politica doveva prima essere pronto a rischiare la vita, e un amore troppo grande per la vita impediva la libertà, era
un segno certo di spirito servile. Il coraggio diventava quindi la virtù
politica per eccellenza (Arendt 1958, 26, II.5).
3 - La costruzione dell’animale politico
55
Se il prezzo della libertà – di azione – era alto, altrettanto importante era il suo rendimento: si trattava cioè del passaggio dalla
nuda vita alla “buona vita”, scopo della esistenza della polis stessa, dove la “buona vita” «non era quindi solo migliore, più libera
da preoccupazioni pratiche o più nobile della vita ordinaria, ma
di una qualità del tutto differente […] non era più legata al processo biologico della vita» (Arendt 1958, 27, II.5).
Il salto qualitativo, la liberazione dalla necessità biologica,
consentono la trascendenza in una potenziale immortalità terrena, trascendenza che è, di fatto, una condizione persino necessaria per l’esistenza della politica e della sfera pubblica. È la sfera
pubblica, che precede e succede al singolo in una lunga catena di
continuità, che sola può assicurargli che qualcosa di lui si preservi dall’oblio del tempo:
Per molti secoli prima di noi – ma ora non più – gli uomini entrarono
nella sfera pubblica perché volevano che qualcosa di proprio […] fosse
più duraturo della loro vita terrena […] la polis era per i greci, come la res
publica per i romani, la prima garanzia contro la futilità della vita individuale, lo spazio protetto dalla futilità e riservato alla relativa permanenza, se non all’immortalità, dei mortali (Arendt 1958, 41-2, II.5).
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Nelle prime pagine di Vita activa c’è, forse, il solo indizio di
cosa sia l’uomo per Arendt quando osserva che l’“animale politico” (o sociale) della definizione classica è tale solo se entra in
gioco il linguaggio: «Ogni volta che è in gioco il linguaggio, la situazione diviene politica per definizione, perché è il linguaggio
che fa dell’uomo un essere politico» (Arendt 1958, 3, prologo). La
stessa osservazione si ritrova nelle lezioni di Foucault (2017b, 2445). È chiaro che né l’homo laborans, né l’homo faber sono animali
politici; per essi il linguaggio non è essenziale, hanno vita, ma non
identità, sono morti all’azione politica. L’azione rivela agli altri la
persona e qualifica la platea di coloro che assistono come spettatori. I regimi totalitari – come Arendt aveva messo in luce nel libro
del 1951 – non hanno spazi pubblici per l’esercizio della volontà
politica, ma solo – si potrebbe aggiungere – spazi di propaganda
per ottenere acclamazione di massa, cieco fanatismo e esaltazione
dello spirito di sacrificio (Arendt 2010, 481-8 [cap. XI]). Lo spazio
pubblico e politico è uno spazio comunitario, come l’agorá nella
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Parte I - La categoria del moderno
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polis2. Contrariamente all’opera, l’azione è finalizzata in se stessa. L’osservazione di Arendt che «l’azione non ha fine» la porta a
precisare un altro concetto importante come quello della libertà.
Quando osserva, poco più avanti (Arendt 1958, 172, V.32), che «chi
agisce non sa mai cosa sta facendo e diventa sempre “colpevole”
delle conseguenze che non ha mai inteso provocare o nemmeno
ha previste», introduce un aspetto della dimensione comunitaria
e storica nella quale l’azione come «facoltà umana della libertà» si
infila in un «intrico delle relazioni umane», in un campo nel quale
l’intenzione segue curvature impreviste per l’agente.
La proprietà dell’azione che è sfuggita all’antichità è quella
della “processualità”. L’azione umana innesca processi consequenziali sia nella natura che nella storia. Quindi l’azione umana
non è finita nel senso di avere un inizio (la causa) e una fine (l’effetto), ma è solo l’innesco di un processo potenzialmente infinito
e, quindi, incerto negli sviluppi e negli esiti.
Qui Arendt si pone al centro della dicotomia basilare che
distingue il pensiero etico dal pensiero tecnico ed economico:
per il primo è l’intenzione dell’azione che rileva per il giudizio
(indipendentemente dalle conseguenze della medesima), per il
secondo a rilevare è la conseguenza o risultato dell’azione (indipendentemente dall’intenzione della medesima). E, di fronte
alla inevitabilità delle conseguenze non intenzionali dell’azione
umana, Arendt sembra comunque ritenere sempre colpevole l’agente (ricordiamo il suo libro sul caso di Eichmann). Ma, inoltre
sembra anche farsi convinta della inevitabilità della eterogenesi
dei fini, che per Mandeville e Smith agisce sempre, fortunatamente o provvidenzialmente, per assicurare l’esistenza della società
capitalistica moderna.
L’agente potrebbe perciò solo astenersi, stoicamente, per evitare colpe. Su questo punto Arendt ha la soluzione per salvare la
libertà umana dalla via senza uscita dell’inazione. L’errore principale, secondo lei, consiste nell’identificazione della libertà con la
Cfr. Esposito (1999, 94-106) il quale riconosce ad Arendt di aver fornito
uno dei contributi più significativi all’elaborazione del concetto di comunità: «non
solo Arendt ha pensato la comunità, ma è colei che nel nostro secolo lo ha fatto con
maggiore intensità» (p. 94).
2
3 - La costruzione dell’animale politico
57
sovranità (ma potremmo aggiungere noi – la sovranità è scevra da
colpe, per definizione). La spiegazione è la seguente: «Se fosse vero
che […] sovranità e libertà si identificano, allora nessun uomo potrebbe esser libero, perché la sovranità, l’ideale di non compromettere l’autosufficienza e la padronanza di sé, è in contraddizione con
la condizione della pluralità» (173, V.32). Per Arendt, allora, è forse
possibile coniugare la libertà con l’assenza di sovranità: «Dobbiamo allora domandarci se […] la capacità di agire non alberghi in se
stessa certe potenzialità che le consentano di sopravvivere nonostante l’assenza di sovranità» (Arendt 1958, 174, V.32).
Lo spazio pubblico in cui gli agenti compiono liberamente
discorsi e atti è, di fatto, una rete di relazioni predeterminate, nella quale tutti quelli che vi partecipano vengono inevitabilmente
condizionati. La libertà è sempre condizionata. Ed è questo che
introduce nella sfera pubblica legami e colpe. Pare trasparente
– seppure non citato – il riferimento alla Genealogia della morale di Nietzsche in tema di promesse [II, 1]3. La promessa entra
nel ragionamento di Arendt nella sequenza logica della sovranità-libertà. L’animal laborans era salvato («redento» così dice) dal
ciclo vitale ricorrente di lavoro-consumo-lavoro dall’homo faber
alleviatore di fatica, e quest’ultimo, attanagliato nella tensione
mezzi-fini della tecnica, era, a sua volta, redento dal discorso e
dall’azione. Ma anche l’azione ha il proprio circolo vizioso, che
è quello appena visto della colpa, anche inconsapevole. Il modo
per uscirne è quello di «fare e mantenere delle promesse», come
rimedi «all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro»
(Arendt 1958, 175, V.33). L’allevamento nietzschiano a poter «fare
promesse» è il modo di rendere responsabile e di introdurre qualche certezza in un mondo che non ne ha. Considerata nel contesto arendtiano dell’azione, la proposizione ricordata contribuisce
a delineare il complesso reticolo di legami che sostiene l’intera
comunità di relazioni, ma nel quale inevitabilmente si trova impaniata ogni persona agente. La libertà d’azione – si può dire – è
conquistata mediante una riduzione dell’incertezza (e dell’inattività) a condizione che s’infittisca la rete di impegni reciproci. In
Questo E-book appart
3
Sulla questione v. Gazzolo (2014, 31-54).
Parte I - La categoria del moderno
58
questo senso si può comprendere il nesso stabilito dalla Arendt
tra promesse e perdono quando afferma che queste
due attività si completano poiché una, il perdonare, serve a distruggere i
gesti del passato [tra cui le promesse non mantenute], i cui “peccati” pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni generazione; e l’altra, il
vincolarsi con delle promesse, serve a gettare nell’oceano dell’incertezza,
quale è il futuro per definizione, isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere,
sarebbe possibile nelle relazioni tra gli uomini (Arendt 1958, 175, V.33).
Ovviamente Arendt non ha in mente solo le promesse di credito-debito (vedi parte II), ma soprattutto quelle degli accordi
politici e dei patti sociali. Ma in cosa si differenziano i debiti da
altri tipi di impegni presi nel passato per rendere prevedibile il
futuro? La riconoscibilità di una controparte, non solo nelle relazioni economiche, diventa più chiara attraverso le promesse. Il
ragionamento di Arendt a tal riguardo è pertinente persino se ci
limitiamo a considerare un contesto semplicemente economico.
Riassumiamolo in questo modo: la condizione umana della pluralità genera incertezza, superabile attraverso legami, che aiutino
a definire la propria e l’altrui identità, in base a impegni per l’adempimento di promesse. Si legge appunto:
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Senza essere legati all’adempimento delle promesse, non riusciremmo
mai a mantenere la nostra identità; saremmo condannati a vagare privi
di aiuto e senza direzione nelle tenebre solitarie della nostra interiorità,
presi nelle sue contraddizioni e ambiguità – tenebre che solo la sfera luminosa che protegge lo spazio pubblico, mediante la presenza degli altri
che confermano l’identità di chi promette e chi mantiene, può dissolvere
(Arendt 1958, 175, V.33).
Ma la capacità di agire, e anche quella di contrarre promesse e
mantenerle, sarebbe paralizzata, o espressa in atti singoli che non
hanno repliche, se non ci fosse una qualche possibilità di «essere
perdonati». Il perdono è dunque l’altra faccia della promessa ed
entrambi, promessa e perdono, sono da considerarsi il collante
essenziale di una comunità di uomini liberi che agiscono con parole e atti. Il perdono libera dalle conseguenze di fatti e promesse,
dissolve gli impegni, redime e offre possibilità di ripresa.
3 - La costruzione dell’animale politico
59
3.2. Lo «spazio dell’apparenza»
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L’immagine fantastica ha infatti una sua verità (Giordano
Bruno 2003, [61] Articolo XXX)
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Ogni rivoluzione scientifica ha trasformato la immaginazione scientifica in un modo che dovremo descrivere […]
come una trasformazione del mondo entro il quale veniva
fatto il lavoro scientifico. (Kuhn 1978, 25)
L’intelletto ha la vista lunga in fatto di metodi e strumenti,
ma è cieco rispetto a fini e valori. (Einstein 2000, 221)
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Lo «spazio dell’apparenza» è propriamente il mondo di cose e di
relazioni così come si rappresentano a chi si trovi all’interno di
esso. È lo spazio che si forma laddove gli uomini «condividono
le modalità del discorso e dell’azione» (cfr. Arendt 1958, 145, V.27
e p. 146, V.28). È quindi uno spazio di civiltà e di potere, di un
potere che non si accumula ed è sostenuto da parole e atti volti a
mantenere i patti, le trasparenti promesse4. La sfera pubblica è un
fragile spazio di apparenza. Nulla di più effimero vi è della fiducia nel potere pubblico, a causa dell’eredità del pensiero platonico
e agostiniano che inocula un’intrinseca diffidenza verso il potere
temporale. Inoltre è evidente che, in uno spazio basato su patti e
accordi più o meno informali, la fiducia e la certezza del rispetto della parola data diventano cruciali. Allora, data la fragilità e
la complessità della natura umana, appare evidente che anche lo
spazio pubblico risulta indebolito. Infatti, osserva Arendt:
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Non esiste forse nulla nella storia che sia così effimero come la fiducia nel
potere, nulla che sia stato più duraturo della sfiducia platonica e cristiana nello splendore che accompagna lo spazio in cui esso appare, nulla
infine, nell’età moderna, più comune della convinzione che “il potere
corrompe” (Arendt 1958, 150-1, V.28).
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L’animal laborans e l’homo faber stanno fuori da tale spazio, e ne
sono tenuti fuori. Essi non hanno tempo per l’ozio. Il loro essere
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«Il potere è realizzato solo dove parole e azioni si sostengono a vicenda, dove
le parole non sono vuote e i gesti non sono brutali, dove le parole non sono usate per
nascondere le intenzioni ma per rivelare la realtà, e i gesti non sono usati per violare o
distruggere, ma per stabilire relazioni e creare nuove realtà» (Arendt 1958, 146, V.28).
60
Parte I - La categoria del moderno
impolitici li porta a considerare le attività pubbliche solo per la
loro utilità, il primo perché preoccupato di rendersi la vita più
facile e lunga, il secondo perché valuta il mondo in funzione di
cose usabili. Entrambi non possono, tuttavia, fare a meno della
sfera pubblica perché senza di essa anche la loro realtà non tiene.
Lo spazio dell’apparenza fornisce quella fiducia nella loro stessa
identità, li preserva dal dubbio (Arendt 1958, 153, V.29). Si può
aggiungere (ma Arendt non lo fa, sebbene lo lasci intendere) che
l’infiltrazione della corruzione nella sfera pubblica viene dal suo
interno, quando non c’è più dialogo né udienza e quando i gesti
politici tendono a mutarsi in violenza; per esempio, la corruzione
nasce, principalmente, a causa della formazione di gruppi che coagulano potere, escludono gli altri da informazioni e decisioni e,
per questa via, stravolgono i patti originari, seminando sfiducia,
ma anche per effetto delle più forti pressioni che possono giungere dal “basso”, da parte dei marginali, esclusi dal discorso e
dall’azione, cioè da parte di coloro che si muovono in un altro
ordine di finalità, per interessi particolari e sete di guadagno.
Le relazioni all’interno della fragile sfera pubblica e l’importanza del binomio promessa-perdono, inteso come fattore di coesione sociale e di sicurezza nell’azione, suggeriscono un’ulteriore
considerazione che riguarda la figura del mercante. Il mercante è
il tipico uomo d’affari, che non è oggetto di una riflessione particolare nei modi della vita activa. Da un lato, Arendt riprende infatti
la considerazione aristotelica che assimila l’«attività acquisitiva del
mercante» a quella dell’artigiano indipendente nelle proprie occupazioni, ma sempre soggetto, come uno schiavo, alle dure necessità
della sopravvivenza (Arendt 1958, 11, I.2), dall’altro, il mercante
compare come figura anfibia tra l’homo faber e il trafficante che esce
dall’isolamento per fondare il «mercato di scambio» e far sbocciare il valore di scambio dal valore d’uso (Arendt 1958, 117, IV.22).
Allora, ovviamente, il mercante non compare sulla scena dove
si svolge l’attività dell’azione. A ben riflettere, anche il mercante,
come l’uomo d’azione, svolge le proprie attività d’affari sulla base
di promesse. Ma tali promesse trasportano il mercante verso un
altro tipo di mediazione, che non è quella politica ma è quella economica. Come prima avveniva nella metamorfosi dell’homo faber,
ora, l’uomo d’affari, alla ricerca di occasioni di profitto, diventa il
Questo E-b
61
mediatore tra la sponda dei bisogni e quella dell’azione disinteressata, in quanto costruttore di promesse e di fiducia. In altre parole,
ciò significa che la figura del mercante rimane necessaria, sebbene
confinata fuori dello spazio pubblico.
La funzione di mediazione propria dell’attività mercantile intreccia trasferimenti di merci con negoziazioni di promesse. Ciò è
ancora più evidente in una figura più specifica di mercante come
quella del mercante di denaro. Il banchiere tratta una “merce” che
è propriamente “non merce”, essendo un prodotto particolarmente
fragile; tale prodotto non è, come le altre merci, soltanto il frutto di
un processo di produzione privato, di una fabbricazione con input appropriabili. Infatti, nella funzione di produzione della banca
compare, fra gli input, un bene non tangibile e non prezzabile sul
mercato, come la “promessa” e un insieme di regole che la rendono
credibile (v. II parte). In altre parole, intervengono dei “beni pubblici” che non gravano sui costi aziendali, ma sono il frutto di quel
“bene” che Keynes chiama «stato della fiducia»5. La merce “non
merce” ha del paradossale; la sua comprensione richiede qualche
premessa. È noto che il banchiere, quale intermediario di credito,
ha come atavica raffigurazione quella piuttosto odiosa dell’usuraio. Costui non ha mai trovato grande comprensione né sociale
né teorica fino alle elaborazioni degli economisti e, in particolare,
di Jeremy Bentham6. Marx, anche in questo caso, si pose nel solco della tradizione aristotelico-tomista, e pur in epoca industriale
vide pullulare attorno alle banche usurai, fiancheggiatori di «que-
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3 - La costruzione dell’animale politico
Lo state of confidence per Keynes (1936, 344 [12, V]) è un aspetto decisivo
per la stabilità del mercato del credito e dei capitali; è una condizione generale e
non aziendale, un peggioramento dello stato di fiducia «è sufficiente a provocare
un crollo» finanziario, «il suo miglioramento, se è condizione necessaria della ripresa, non è condizione sufficiente». Come ricorda Graeber (2012, 239) la moneta
è un simbolo di promesse, «il segno di un accordo collettivo». L’esempio che fa
è significativo: le «immagini impresse sulle monete greche (il leone di Mileto, il
gufo di Atene) erano generalmente gli emblemi del dio della città, ma anche una
sorta di promessa collettiva, con cui i cittadini convenivano che non solo le monete sarebbero state accettate in pagamento per i debiti con le autorità pubbliche,
ma in senso più ampio, che ognuno le avrebbe accettate, per tutte le transazioni, e
quindi che potessero essere usate per comprare qualunque cosa si desiderasse».
6
Sulla questione si rinvia a Guidi (1991, 90-7, 106-7, 132-3 e, specialmente,
145-6, 169-73).
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Parte I - La categoria del moderno
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sta classe di parassiti», all’opera per «decimare periodicamente i
capitalisti industriali, ma anche [per] intervenire nel modo più pericoloso nella produzione effettiva – e questa banda non sa nulla
della produzione e non ha nulla a che fare con essa» (Marx 1894,
748 [33]). La tradizione giudaico-cristiana, specialmente dopo la
netta prescrizione evangelica del «prestare senza nulla sperare» in
premio – inde nihil sperantes (Lc 6, 34-35) – resiste ovviamente anche
dopo Bentham, e anche pensatori lontani dal pensiero marxista,
come Veblen o Keynes o, persino, Schumpeter, distinsero nettamente economia “reale” da “finanza”, attività d’investimento in
impianti e macchinari da investimenti in attività finanziarie scambiate nei mercati borsistici, dove gli operatori hanno prospettive di
guadagno “corte”, e sono pronti a rivendere immediatamente le attività detenute pur di realizzare guadagni in conto capitale. La tradizione di condanna morale del prestito a interesse aveva esentato
pochi prestatori e banchieri dal peccato e dal reato di usura. Non
che questa condanna frenasse il fenomeno. Per non porsi del tutto
fuori dalla legalità coloro che continuavano, per necessità e per mestiere, a prestar denaro ricorsero ad artificiose procedure tecniche,
torsioni giuridiche e teologiche. Un solido fondamento teorico contro tali pratiche risale agli inizi del XIV secolo, quando il vescovo
di Worcester Tommaso di Cobham, da fine teologo e autore di uno
dei primi trattati per confessori, ricorse non solo alle solite parole
durissime contro l’arte della banca, ma introdusse un argomento
di una certa consistenza, per quanto non ampiamente ripreso nei
dibattiti teologico-filosofici che già a quell’epoca iniziavano a trovare soluzioni a una pratica dilagante e, obtorto collo, riconosciuta
necessaria. Va da sé che per Tommaso di Cobham, come per altri
teologi, le ragioni della condanna erano senza via di scampo. Ma,
per lui, la pretesa di ottenere un frutto, un interesse, oltre alla restituzione del capitale, altro non era che una forma particolarmente
odiosa di furto. Non si trattava di una semplice appropriazione di
un bene altrui, ma di un bene appartenente a Dio. L’usuraio è un ladro del tempo, vende tempo, e il tempo appartiene a Dio7. Questo il
7
Tommaso di Cobham è stato riscoperto da Le Goff (1992, 33), che ha
messo in valore le argomentazioni del vescovo-teologo. Si veda la Summa confessorum di Thomae de Chobham (1968) alla Questio XIa De usura, dove sono ripresi
3 - La costruzione dell’animale politico
63
ragionamento di Tommaso di Cobham: «Unde fenerator nihil vendit
debitori quod suum est, sed tantum tempus quod dei est»: l’usuraio non
vende nulla di suo ai propri debitori, ma soltanto il tempo che è di
Dio (Thomae de Chobham 1968, 505). Pertanto, se nessuno può esigere un profitto da una cosa che non è sua, tanto meno, può esigere
un compenso quando compie il sacrilegio di appropriarsi di una
cosa fuori dalle disponibilità umane perché res sacra.
In epoca moderna il concetto di debito odioso è stato rinverdito, in particolare dal periodo post-coloniale in poi, per
designare col termine di odious debt i rapporti di disparità e di
assoggettamento delle economie in via di sviluppo attraverso
l’indebitamento nei confronti delle banche dei paesi avanzati. In
certe condizioni di difficoltà commerciale e di crisi del cambio, il
servizio del debito estero è l’ingranaggio fondamentale che rende
inevitabili le politiche di austerità imposte dai creditori, anche col
ricorso a pressioni politiche e militari, per imporre il rimborso e
sanzionare le politiche espansive che il debito aveva accondisceso
fino ad allora8. È quanto accaduto in Grecia nel 2015 dopo la crisi
dei debiti sovrani.
Questo E-boo
e commentati tutti gli argomenti contro il fenerator che trae lucro senza lavorare,
opera senza sudore, guadagna anche dormendo; rende in miseria il povero (1968,
505); è un avaro e un idolatra (1968, 506).
8
I debiti pubblici sono stati denunciati come “odiosi”, o “intollerabili”,
specialmente in fasi rivoluzionarie o alla fine di conflitti. Dopo la guerra di secessione americana, l’Unione vincitrice dichiarò privi di valore i debiti degli stati
confederali sconfitti. Lo stesso successe dopo la rivoluzione d’Ottobre per i debiti
dell’impero zarista. Ma la nozione giuridica di debito “odioso” fu sviluppata da
Sack (1927) in riferimento alle conseguenze della guerra ispano-americana del
1898. In quel caso il passaggio di Cuba sotto il protettorato americano pose ai
vincitori il problema di accollarsi gli oneri di un debito contratto dalla corona spagnola, perciò si ritenne di respingere un’ipotesi del genere con la giustificazione
che quel debito era stato contratto senza il consenso popolare e contro l’interesse
generale di generazioni ora liberate dall’oppressore. In questo modo, si introducevano due concetti abbastanza evanescenti per sostenere il diritto di annullare
il debito e tutte le pretese dei detentori locali di titoli legittimamente acquistati
prima dello scoppio del conflitto. Una tesi avversa alla scelta “ripudiatrice”, fatta
degli americani nel caso cubano ma anche da altri paesi nel corso della storia,
ritiene che il ripudio di un debito sovrano comporti, se non ci sono rotture di
regime politico, una perdita irrimediabile di credibilità e il peggioramento delle
condizioni nel caso di dover contrarre nuovi debiti.
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Nel “tempo
libero”
«ha sempre chiesto
di essere felice»
privata
Sfera di attività
«gioie del lavoro» e
della tecnica
“virtù” borghesi
accumula
risparmio / lusso
mercato
privata
mercato
consuma e idea
attrezzi e macchine
filisteismo borghese
homo faber
trasporto
e fornitura di beni
dio denaro
accumula e si
accultura
mercato / anticamera
delle istituzioni
riservatezza e
introspezione
credito
onore e virtù
agisce e parla
contempla, prega
pubblica
istituzioni
cives, bios politicos
vita contemplativa
beni pubblici
istituzioni
libertà
l’azione è finalizzata
in sé – politica.
Vivere bene
Azione
(action)
Parte I - La categoria del moderno
Credenze
animal laborans
beni che restano
consumi durevoli
profitto
Intermediari
di credito
ubi pecunia ibi patria
Mediazione
mercantile
Ques
Stile di vita
beni di prima necessità
consumi caduchi
schiavitù
Regime di
libertà
Prodotto
sussistenza
creazione di opere
sussistenza
riproduzione della vita
Finalità
relativa autonomia
dell’artigiano
Opera
(work)
64
Lavoro
(labour)
Tav. 2 - Caratteristiche della vita activa e, in aggiunta, il “corridoio” dei mediatori di fiducia.
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La condanna dell’usura, al di là delle motivazioni morali, ha
avuto forti motivazioni politiche e sociali nel corso della storia.
Manfredini (2013) ha ripercorso buona parte del lungo periodo
delle lotte persistenti e delle crisi ricorrenti tra debitori e creditori.
La salvezza dell’anima va considerata all’interno di una salvezza
della società. Il “corridoio” che abbiamo introdotto nella tav. 2
(rispetto alla tav. 1) è quello che nella vita activa arendtiana trova
uno spazio molto ridotto per una sorta di compressione esercitata dalle prime due sfere, del lavoro e dell’opera, da una parte, e
dalla sfera dell’azione, dall’altra parte. La salvaguardia della res
publica è assicurata nella misura in cui la politica ha un predominio sulle altre sfere della vita, che sono da essa garantite e tutelate. Un varco nella garanzia che la politica offre alla res publica si
apre per quelle caratteristiche di mediazione fiduciaria, svolta in
particolare dai banchieri e dai mercanti, a loro volta distinguibili,
come vedremo, per alcune caratteristiche. Ma, come ogni “ponte”
o “corridoio”, l’opera di mediazione, avendo accesso alla sfera
della politica, può esercitare su questa una “contaminazione”
di principi affaristici che possono avere effetti letali per il buon
ordine sociale, compito della “buona” politica. Sebbene un certo
grado di “contaminazione” sia sempre stato presente persino in
tempi famosi per la bontà della politica, come nel periodo più fulgido del liberalismo classico, ci appare evidente che nel periodo
corrente tale grado sia fortemente aumentato fino ad un punto
tale da rendere l’attività della politica non più quella autonoma,
distaccata e superiore, esercizio di virtù, di memorialità e di storia
degna, disegnata da Arendt. Il motivo del pericolo per la società
sta nelle finalità proprie dei mercanti, che sono dediti alla ricerca
di profitto; è proprio questa finalità che li porta a non riconoscere
nessun attaccamento alla patria. La loro è una patria strumentale: ubi pecunia ibi patria. Il motto è una corruzione di ubi panis
ibi patria, che esprime invece il regime che assicura la tranquillità dell’animal laborans. La patria dei mercanti si identifica con
un territorio di caccia senza limiti al profitto, che poteva limitarsi
anche alle sole occasioni di scambio previste in spazi cittadini ben
definiti e autorizzati. Per negoziare, mercanti e banchieri, hanno
bisogno di reciproca fiducia, di un ambiente di confidence che faciliti le transazioni, riduca incertezza e complessità. Per Luhmann
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Parte I - La categoria del moderno
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Quest
la fiducia consente agli individui di effettuare scelte e sopportare
l’«estrema complessità del mondo» (2002, 5.) E qui il varco verso
una sfera limitrofa o intersecante quella politica è aperto e necessario. In molte antiche civiltà i sacerdoti diventano banchieri
proprio perché, come ricorda Tommaso di Cobham, essi hanno
accesso a una res sacra e la loro funzione è quella di essere mediatori e intermediari tra il mondo dei profani e il mondo sacro.
La fides è un mezzo che consente di portare in pegno del profano
la testimonianza e la documentazione per dargli confidenza che
la promessa verrà mantenuta. La fiducia può essere creata dal
banchiere non meno di quanto lo sia quella garantita dall’azione
politica di chi opera nelle istituzioni.
Ma vediamo di entrare meglio nel “corridoio” dei mediatori di fiducia. Esso non è espressamente trattato in Arendt (1958),
anche se non mancano le piste e le intuizioni che spingono la riflessione in questa direzione: il concetto di mercato di scambio
(trattato in IV.22), la formazione degli spazi dell’apparenza (V.28
e 29), nei quali la fiducia svolge una funzione essenziale per dare
consistenza all’effimero della costruzione politica (1958, 150, V.28)
e per «preservare dal dubbio» (1958, 153, V.29).
Le figure sociali dei mercanti non possono, secondo noi, essere assorbite sotto il segno dell’“opera”. Anche quando l’artigiano
si presenta sul mercato per mettere direttamente in vendita i prodotti del proprio lavoro, la sua attività commerciale è ben diversa
da quella del mercante; anche in quel momento il suo scopo vitale
resta quello del costruttore di beni durevoli, mentre il profitto che
ricava sulle vendite resta per lui secondario. Quando però il mercante viene considerato un puro mediatore di merci, allora egli
non è più artefice di opere che restano, ma un soggetto interessato a realizzare un profitto da compravendita; egli non trasforma
e non crea, bensì mette in contatto chi produce con chi compra,
attraverso transazioni che lasciano persino pochi segni del loro
accadimento fintantoché una qualche autorità politica non si incarica di registrare i prezzi, il che, peraltro, accade sia per lo scopo di organizzare meglio i mercati, evitare le liti, le frodi e altre
appropriazioni indebite, sia per quello di poter imporre tributi.
Mercante puro e banchiere puro cominciano a differenziarsi
quando ognuno di loro si specializza in un tipo di traffico, o di
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merci o di crediti. Ciò differenzia anche i loro stili di vita. Il borghese, espressione civile della mercatura, ha spesso una visione
grettamente retriva e avversa ai cambiamenti9. È talmente esposto alle fluttuazioni dei mercati da risultare un uomo che esige, in
quanto calcolatore, anche per il resto del suo mondo, un ordine
in partita doppia. Non a caso, dalla fine del XVII secolo in poi,
nelle università tedesche intellettuali e studenti guardarono con
un certo distacco e disprezzo il borghese al punto da affibbiargli
l’epiteto di filisteo che ebbe un’ampia fortuna anche per i secoli
successivi10. Il filisteo era specialmente il piccolo borghese egoista,
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Questo non significa però che oggi si debba riproporre un cliché del
borghese come sostanzialmente caratterizzato da conservatorismo, perbenismo,
legalismo, tradizionalismo ecc. Ciò vale magari per il piccolo borghese ma non
per il capitalista finanziario. Ma soprattutto notiamo che non si tratta di definire
la psicologia del singolo capitalista, quanto piuttosto lo “spirito” del capitalismo,
che, invece è per sua natura, per la necessità della continua accumulazione e della
strenua difesa del saggio di profitto, mobile, cangiante, proteiforme, debordante
ogni argine e confine, sia territoriale che valoriale. Marx, per primo, ne individua
il carattere continuamente dissacratore di ogni tradizione e di ogni valore. Come
ci ricorda Michéa – sulla base di quanto già avvertiva Marx quasi due secoli fa – è
folle e inverosimile pensare al capitalismo come un sistema conservatore: «Questa
illusione, per dir così trascendentale, è l’idea secondo la quale il sistema capitalista
rappresenterebbe per natura un ordine sociale conservatore, autoritario e patriarcale, basato sulla costante rimozione del desiderio e della seduzione, una rimozione imposta dalla disciplina del lavoro, della quale la Famiglia, la Chiesa e l’Esercito sarebbero gli agenti privilegiati. […] Essa pretende però che ci si dimentichi
che già nel 1848 Marx aveva preso la precauzione di invalidare in anticipo un’interpretazione dei fatti tanto folle quanto inverosimile. “La borghesia” ammoniva
“non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione,
quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali, [mentre]
l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione era invece, per tutte le
classi industriali precedenti, la prima condizione della loro esistenza». Per questo,
aggiungeva, man mano che il sistema capitalista progredisce, «si dissolvono tutti i
rapporti sociali stabili e fissi, con il loro seguito di concezioni e di idee tradizionali
e venerabili; i nuovi rapporti invecchiano prima di essersi consolidati. Qualsiasi
elemento di gerarchia sociale e di stabilità di casta se ne va in fumo, tutto ciò che
era sacro è profanato”» (Michéa 2012, 100-101).
10
I filistei erano una popolazione indoeuropea insediata sul litorale della
terra di Canaan, nell’attuale Palestina. Il dio adorato dai filistei Baal nella mitologia ebraica era detto in maniera sprezzante Baal-Zebub, “signore delle mosche”
(2Re 1, 2-6.16) e, poi, identificato nella tradizione cristiana con Belzebù, principe
dell’inferno (Mt 10, 25; 12, 24 e 27; Lc 11, 15-19). V. anche le osservazioni di Arendt
(2017, 260-3).
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servile in pubblico, uomo d’ordine ma ribelle quando le autorità
pubbliche lo pungevano nelle sostanze più care, attraverso l’obbligo di pagare tributi all’erario. Ovviamente, più in alto saliva nella
scala sociale, più il borghese cercava di distinguersi dalla feccia,
spesso in maniera non meno ridicola nell’ostentazione volgare
della ricchezza, sebbene nelle forme più affinate ciò avvenisse per
emulazione e assimilazione all’aristocrazia, per togliersi definitivamente di dosso gli ultimi residui della scorza originaria. Il lusso ostentato, una volta raggiunto un certo grado di prosperità e
ricchezza, seguiva i canoni del mecenatismo delle classi nobili, a
dimostrazione di una raggiunta sicurezza economica e sociale.
Per virtù borghesi si intende la radice dello stile di vita che
ha nella spinta al successo negli affari quel requisito essenziale,
condensato, in definitiva, nel self-interest, nella virtù del risparmio, del calcolo e della razionalità strumentale rivolta al “piacere” dell’accumulazione della ricchezza.
Mediatore di fiducia per eccellenza nel mondo degli affari è,
però, il banchiere, colui che per professione esercita un’attività di
intermediazione creditizia, offrendo proprie passività (depositi e
altro) per raccogliere fondi, e concede crediti (attività proprie in
vari tipi di strumenti, scadenze, ecc.) a chi non dispone di mezzi.
In questa funzione il suo lavoro – come puntualizza Schumpeter
(1939, 145) – «non è solo un lavoro altamente specializzato», che
non può essere semplicemente acquisito per esperienza, ma si
tratta «anche [di] un lavoro che richiede qualità intellettuali e
morali che non si trovano in tutti coloro che si dedicano al mestiere bancario». L’insieme di tali qualità intellettuali e morali
sono qualcosa che va al di là della mera professionalità. Schumpeter, in questo caso, si riferisce a un banchiere che ha caratteristiche weberiane: in primo luogo, quella di intendere il proprio
lavoro come una professione praticata come “missione” (Beruf),
in secondo luogo, quella di svolgere funzioni di leader. Il leader
in Max Weber ha un’autorità carismatica, cioè investita di quel
dono della grazia di cui parla l’apostolo Paolo e che si esplica in
una serie di doti che danno capacità di comprensione e di guida
in condizioni difficili e complesse (ad es. in Rm 12, 6-8). Le stesse
doti Schumpeter le riscontra nei banchieri che svolgono bene il
loro mestiere e le loro funzioni, «funzioni così difficili da realiz-
-bo
3 - La costruzione dell’animale politico
69
zare, che molti di coloro che ci si provano rimangono terribilmente al di sotto di quello che ottiene un operaio, un artigiano o
un contadino mediocre» (Schumpeter 1939, 145).
Il commercio di credito, nelle economie capitalistiche come in
quelle precapitalistiche, non è solo una semplice trasformazione di
scadenze e di rischi che si realizza attraverso la concessione di un
finanziamento, ma qualcosa di assai più complesso. Il banchiere
trasforma un rischio “reale”, industriale, in un rischio finanziario
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in capitali. Questi ultimi, infatti, 1) offrono rendimenti che solo
in più esercizi ripagano le somme inizialmente erogate e 2) sono
generalmente incorporati in strumenti, macchinari e impianti di
tipo specifico per una certa impresa e linea di produzione, cioè
in beni capitali che hanno specificità tecnologiche tali da essere
efficienti solo se usati per una particolare attività di produzione in
combinazione con altri specifici beni capitali, e questo li priva, almeno in parte, di valore nel caso dovessero essere rivenduti e impedisce la nascita di un mercato secondario di una qualche consistenza in cui poterli rivendere; infatti, in caso di una liquidazione
quel che può esser ricavato non va molto oltre quello realizzabile
su un mercato per “ferri vecchi”. È questo il problema che vedeva Keynes nelle economie avanzate, cioè quello di un «rischio
che la speculazione prenda il sopravvento sull’intraprendenza»
nel caso in cui s’ingenerino dubbi e sfiducia sulla possibilità per
un individuo di poter liquidare, senza conseguenze patrimoniali
rovinose, i propri portafogli di investimenti, dato che «l’alternativa di acquistare beni capitali reali non può venir resa abbastanza
attraente (specialmente per chi non li amministra […] e conosce
molto poco su di essi), se non organizzando mercati nei quali quei
beni possano essere facilmente realizzati in moneta» (Keynes
1936, 345 e 347 [12, vi]). Ed è a questo stesso concetto che si richiama Schumpeter quando osserva che l’arte della banca non è solo
una professione come un’altra, in essa la fiducia svolge un ruolo
fondamentale e insopprimibile al punto che i banchieri, «come
corporazione», devono difendersi da chi «può infilarsi negli affari
bancari, trovare clienti e trattare con essi in base alle sue proprie
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70
Parte I - La categoria del moderno
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impostazioni» che non siano almeno al livello standard necessario per non «trasformare la storia dell’evoluzione capitalistica in
una storia di catastrofi» (Schumpeter 1939, 146). Per i banchieri
non sono sufficienti le attitudini morali normali dell’homo oeconomicus, poiché è proprio sulla loro responsabilità professionale
e morale che si gioca buona parte del destino del capitalismo. In
definitiva «i banchieri si meritano il pane che guadagnano solo se
si rendono profondamente impopolari con i governi, con i politici e con il pubblico» (Schumpeter 1939, 147). Si legge in queste
parole quella funzione sacerdotale e pastorale che i banchieri, di
una certa levatura, svolgono per proteggere le reti fiduciarie di
un’intera economia di mercato. Le funzioni di leader a cui sono
chiamati i banchieri non sono realizzabili attraverso la semplice
ricerca del profitto («alla stessa maniera con cui uno lascia un impiego che paga poco, per un altro che paga molto»; idem, 145). La
banca “cattiva” interferisce sul buon funzionamento dell’intero
sistema economico: è una mela marcia che deteriora l’ambiente
di mercato nel suo complesso. Si ricordi che Schumpeter scrive il
suo libro sui Business Cycles nell’epoca della grande depressione,
ed individua – come Keynes – nel sistema bancario e finanziario
l’anello fragile dell’economia, ma anche in quel momento di crisi
continua a pensare ancora, come nella sua Teoria dello sviluppo economico del 1912, che il banchiere svolga una funzione imprescindibile nel sostegno finanziario dell’imprenditore e nella selezione
e controllo sulla qualità dei piani d’investimento che quest’ultimo cerca di realizzare.
Per ritornare alla prospettiva dalla quale eravamo partiti,
quella del “corridoio” mercantile che si situa in mezzo alle due
attività dell’opera e dell’azione, riteniamo che nella sempre più
importante figura del banchiere sia riposta, nelle moderne economie, quella funzione di costruzione della fiducia che, in altre
epoche, Arendt vede appannaggio quasi esclusivo della politica.
Ora anche i “sacerdoti” del denaro sono detentori di una “pietra
filosofale” capace di costruire legami sociali11.
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11
Sulle responsabilità del banchiere “morale” contro gli istinti del banchiere “amorale” si rinvia a Conti (2003). Ritorneremo su molte delle questioni qui
affrontate nel cap. 7.
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3 - La costruzione dell’animale politico
71
Nella visione arendtiana, le dinamiche caratteristiche della
sfera dell’azione sono rivolte a preservare dal dubbio e a garantire il mantenimento delle promesse. Il corridoio intermedio tra lo
spazio pubblico e quello della vita biologica, da noi evidenziato e
che invece risultava meno definito nel quadro complessivo della
vita activa di Arendt, è calcato dai mercanti, e su di esso i banchieri agiscono per far da ponte verso la sfera pubblica. Su questo
ponte camminano il credito, in senso generico, e, specialmente,
la moneta, che sono componenti e strumenti essenziali
per unire
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la “piazza del mercato” con il “palazzo del comune”.
pubblica e quello che abbiamo definito “corridoio”ssussiste
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rapporto di tensione e di reciproca corrispondenza, perché
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certa prevedibilità nei loro esiti.
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L’altro teatro sul quale merita aggiungere qualche altra considerazione è quello del mercato, che Arendt chiama – come accennato – «mercato di scambio».
Se Arendt non ha sottolineato l’importanza di figure, pur
caratteristiche fino da epoche antiche e medievali, come “argentari”, cambisti, mercatores, banchieri e semplici usurai, probabilmente è perché non avevano assunto caratteri così dominanti
come negli ultimi decenni, specialmente dopo le liberalizzazioni finanziarie successive agli anni ’80 del XX secolo. Per noi
l’introduzione di un “corridoio” intermedio, collocato tra le
basse sfere delle attività di mera sussistenza e quelle artigianali e anche mercantili, da un lato, e la sfera dell’azione politica,
dall’altro, pareva necessario per cogliere il fenomeno di attività
e figure che risultano del tutto evidenti alla luce di una indagine genealogica delle attività umane. Questa evidenza emerge,
soprattutto, come prodotto ultimo del capitalismo moderno,
nella sua versione finanziaria e turbo-finanziaria, ma anche per
quella funzione di soglia tra privato e pubblico che è svolta sia
già nell’antichità dai sacerdoti dei templi, nel registrare e tenere
memoria sociale (contabilità) di un dare e avere, con la possibilità di concedere crediti, sia dai “principi” della banca moderna
che “creano” fiducia e creano credito ex-nihilo, come sottolinea,
tra gli altri, Schumpeter. Oggi quel “corridoio”, che abbiamo introdotto nello schema arendtiano, sembra diventato ancora più
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potente per l’azione di “leva” creditizia (più potente della leva
di Archimede!) di promesse su promesse, con la conseguenza di
far dipendere la realtà contingente da “simulazioni” di eventi
futuri12.
3.3. L’apparenza del mercato
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Gli errori dunque non consistono né nell’astratto né nel
concreto, né nella geometria o nella fisica, ma nel calcolatore, che non sa fare i conti giusti. (Galilei 1632, 252)
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È un luogo dove si quota quanto valgono i re, dove si soppesano i popoli, dove si giudicano i sistemi, dove i governi sono confrontati alla misura dello scudo da cento soldi,
dove le idee, le credenze sono ridotte a cifre, dove tutto si
sconta, dove Dio stesso s’indebita e dà in garanzia i redditi
delle anime, poiché anche il papa vi tiene il suo conto corrente. (Balzac 1835, 116-7)
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Res similis fictae: sed quid mihi fingere prodest? (Sembrerà un’invenzione; ma che me ne verrebbe a inventare?)
(Ovidio, Metamorfosi, libro XIII, 935)
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Arendt, nella distinzione tra sfera privata e spazio pubblico, contrappone in maniera molto netta l’organizzazione della casa nella
Grecia antica (oikia) alla polis. La famiglia, fondata su rapporti di
autorità patriarcale e regole domestiche dispotiche e di violenza,
non fornisce spazi interni di libertà. Solo con la distruzione delle
comunità parentali, la phratria e la phylē, sorge la polis come luogo di vita pubblica, in cui il cittadino agisce politicamente, libero
dalle basse occupazioni e dagli affanni della vita privata, e dedito
così alla “buona vita” (Arendt 1958, 19, II.4)13. Emerge una dop-
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12
Secondo un acuto banchiere la caratteristica degli strumenti derivati (opzioni o futures) è che «il loro valore deriva da altri strumenti finanziari»; p.e. i futures
sono contratti che obbligano ad acquistare o a vendere a una data prefissata nel
futuro. Con i derivati diventò possibile, dopo gli anni ’70, «simulare perfettamente»
un qualsiasi portafoglio composto da altri titoli (azioni, obbligazioni) (Morris 2008,
70-1). Cfr. anche Aglietta (2016, 34-6).
13
La contrapposizione è ripresa essenzialmente dall’introduzione di
Fustel de Coulanges alla Cité antique (libro 4, cap. 5) e dal saggio di Jaeger (1959, 3,
111). Ma per una rassegna recente dei problemi v. Ferrucci (2007).
3 - La costruzione dell’animale politico
73
pia vita, una vita “naturale” e una vita che diventa bios politikos.
Una dicotomia tra le due sfere, rappresentata a tinte forti, serve
alla Arendt anche per tracciare la parabola evolutiva della fine
dell’antichità, che si realizza con l’estensione progressiva della
comunità domestica e delle attività economiche che la caratterizzano, fino ad acquisire un dominio sulla sfera pubblica (Arendt
1958, 25, II.5).
Il “corridoio” dei mediatori e uomini d’affari, che abbiamo
inserito nella tav. 2, è quello relativo ad attività che la polis cerca
sempre di tenere ai margini e sotto controllo per porre un freno
alle loro tendenze pervasive. Tali attività sono quelle che svolgono appunto un’azione corrosiva nei confronti della “buona vita”
e rappresentano un fattore di potenziale sovvertimento, lento e
quanto mai inesorabile, del senso e del ruolo assegnato alla sfera
pubblica, una volta che esse siano riuscite ad aprirsi una breccia
nella medesima.
La formazione delle poleis risale attorno all’VIII secolo,
con l’incremento della popolazione in Atene e nell’Attica e
con un impulso proveniente dall’organizzazione economica
dell’oikos14. L’oikos era poi la cellula costitutiva della polis anche
nell’età classica, anche se, come nota Roy (1999, 5), solo occasionalmente la legislazione della polis interferiva nello spazio
proprio della famiglia, ma spesso gli interventi miravano a
proteggere l’oikos o a sostenere l’oikos per servire agli interessi della polis (Roy 1999, 12). Tuttavia, anche Arendt riconosce
l’interdipendenza tra i due livelli, al di là della contrapposizione presente nella concezione del pensiero politico classico,
cementata dalla sacralità riconosciuta al focolare domestico,
inviolabile da parte della polis non tanto per un rispetto verso la proprietà privata, quanto perché senza l’amministrazione
di quella complessa organizzazione delle attività domestiche
non si dava alcuna possibilità di partecipazione del cittadino
agli affari del mondo, né alla “buona vita”, più nobile della vita
domestica (1958, 22 e 27, II.5). Occorre sottolineare che Arendt
14
Welwei (1988, 47-8). Welwei sottolinea pure l’importanza delle fratrie
nello stesso processo di formazione della polis (idem, 54) e quella dell’oikos per
l’origine dell’uomo ateniese (idem, 64). Sull’origine v. anche Hansen (2012, cap. 5).
Questo
si serve della contrapposizione tra le due sfere e i due poli che
caratterizzano l’antichità per spiegare, attraverso la crescente
tensione interna, il cambiamento che si realizza in epoca moderna. La dimensione storica di quel cambiamento è al centro
del contributo arendtiano sulla vita activa. Il nostro contributo,
qui, consiste, quindi, nella rivisitazione della importante tassonomia dell’attività umana e della sua evoluzione storica proposta da Arendt, evidenziando due attività, quelle del mercante e
del banchiere, che, alla luce dei più recenti sviluppi, assumono
una caratterizzazione e una dinamica da un lato, autonome, e,
dall’altro, “contaminanti” rispetto alle sfere di attività arendtiane, particolarmente rispetto alla sfera dell’azione.
La società mercantile e i primi stadi del capitalismo moderno rappresentano – come ricorda Arendt – l’affermazione del
dominio dell’homo faber che esce dal proprio isolamento e si fa
attore sul «mercato di scambio», prima ancora di dar forma e
forza all’industria moderna. Egli inizia a produrre per il mercato, e non più su ordinazione, «oggetti di scambio piuttosto
che d’uso» (Arendt 1958, 117, IV.22). In termini economico-contabili, il passaggio dalla produzione artigianale, orientata alla
creazione di beni utili, a quella mercantile, orientata a produrre
per un valore di scambio, si riflette nel seguente mutamento:
la produzione diventa finalizzata ad essere accumulata “per il
magazzino” (Arendt riprende il concetto da Smith, che intitola il II libro della Ricchezza: “Della natura, dell’accumulazione
e dell’impiego dei fondi”), e non è più la finalizzazione di un
impegno lavorativo eseguito in base a ordinazioni e consegne
stabilite direttamente da una committenza che interagisce col
produttore spiegando a costui quali sono le esigenze specifiche
da soddisfare. È solo su un mercato organizzato che le opere
diventano “valori”. A conferire valore alle merci, non è tanto il
lavoro, il capitale o altro, bensì «solo ed esclusivamente la sfera pubblica dove esso [l’oggetto] compare per essere valutato,
richiesto o rifiutato» (Arendt 1958, 117-8, IV.22). Qui Arendt
sottolinea l’aspetto sociale del valore, aderendo al concetto che
Locke dà di valore di mercato e in base all’insistenza di Marx sul
valore come prodotto di rapporti sociali. Ma di Marx, come di
altri economisti classici, ella critica i «vari tentativi» di trovare
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3 - La costruzione dell’animale politico
75
una fonte oggettiva di valore – nel lavoro, nella terra o nel capitale – quando «nessun “valore assoluto” esiste nel mercato di
scambio» (Arendt 1958, 119, IV.22), e cercarlo è come tentare la
quadratura del cerchio. Il mercato introduce una relatività valoriale sconcertante. I prezzi determinati dal mercato sono alla
ricerca di un “metro” invariante. Tuttavia, né l’oro né altri feticci
di merci possono illudere fino in fondo di aver trovato il valore
“vero”, se non per approssimazione e come tensione verso una
sorta di continua “ricerca dell’assoluto”15. Il mercato introduce
una «relatività universale»: le cose esistono solo per relazioni
reciproche e i prezzi sono relativi e correlati alle fluttuazioni
della domanda e dell’offerta. Rispetto a tale “relatività” valoriale, anche il tentativo di assegnare un valore trascendente a una
moneta universale rientra in un esercizio di mistica teologico-economica da non sottovalutare, sul quale è opportuno leggere
Norman Brown (1986) (vedi parte II).
L’ampliamento dello spazio mercantile e il vettore dell’esca
dei prezzi nell’orientare le produzioni comportano un rivolgimento completo nelle graduatorie delle attività. Il passaggio
dall’antico al moderno giunge a compimento con la progressiva
considerazione del lavoro come virtù. Marx è il teorico più conseguente e determinato nell’identificare lavoro e opera, lavoro
salariato e abilità tecniche, ma con opportuni distinguo che in
altri economisti mancano. Nella contrapposizione del lavoro al
capitale, Marx vede nel proletariato la forza capace di liberare il
lavoro stesso dalla condizione di desolante alienazione vigente
nel sistema capitalistico. L’esaltazione del lavoro è fatta iniziare
da Arendt con gli albori del pensiero liberale. Locke è a riguardo
il filosofo che individua nel lavoro la fonte della proprietà e della
libertà modernamente intese. Il rovesciamento rispetto al mondo
antico è a quel punto completo, e la soddisfazione che l’uomo
ritrae dal lavoro è felicità, che, declinata come virtù, acquisisce i
requisiti di quella virtù pubblica e politica, condivisa ancora nel
La ricerca dell’assoluto è il titolo di un romanzo di Balzac del 1834. Ci è
sembrato opportuno richiamarlo come un concetto paradigmatico che rappresenta le lacerazioni interiori del protagonista del romanzo, ovvero quelle di un uomo
di genio preso da ricerche alchemiche e dissipazioni di valori umani.
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XVIII secolo sia dall’assolutismo monarchico che dai costituenti
americani. Si ricordi che Walter Benjamin, nell’XI tesi sul concetto di storia, attribuisce la disfatta della socialdemocrazia tedesca
all’essere caduta nella trappola dell’alienazione e aver assegnato
al lavoro e alla tecnica un potere liberatorio che non poteva avere
(Benjamin 1997, 39). Tuttavia, sebbene il lavoro, ormai del tutto
unificato nel suo aspetto più biologico e pedestre – quella dell’animal laborans – sia divenuto l’unica attività dell’uomo contemporaneo e il consumo del “mondo” il suo unico e inconsapevole
fine - cosa per cui si manifesta in Arendt un evidente pessimismo
(v. il precedente par. 1.7) – sarebbe da domandarsi se forse sia
ancora possibile un orizzonte di speranza basato sulla umanistica
centralità dell’uomo e sulle sue corrispondenti facoltà superiori,
di cui la libertà di azione politica è la più alta. Ma questo presuppone che si continui a considerare la tecnica – pur riconoscendone
la proliferazione invasiva – come uno strumento di cui l’uomo
si possa ancora servire come supporto per il proprio libero agire. Ma se l’enorme espansione della tecnica produce non solo un
effetto quantitativo ma qualitativo, allora essa, autonomizzandosi - come acutamente osserva Galimberti (2002, 42) – «non si
limita a contrapporsi all’uomo, ma è in grado di integrare l’uomo
nell’apparato tecnico» e allora ciò che nasce è «un sistema uomo-macchina dove la guida passa alla macchina». E se è la macchina che si mette alla guida del sistema e l’uomo è divenuto un
suo strumento, allora questa inversione mezzi-fini implicata nella
relazione fra l’uomo e la tecnica nel mondo attuale, non può che
renderci dubbiosi sulla possibilità umanistica che l’uomo possa
ancora agire liberamente per i propri fini e destini.
Capitolo 4
4.1. Le tre (cinque) età della vita activa
Lo stesso Zinzendorf dice occasionalmente: «Non si lavora
solo per vivere, ma si vive per il lavoro, e se non si ha più da
lavorare si soffre o ci si addormenta». (Weber 1904-05, 314)
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L’ORDINE DEL MONDO,
IN MOTO VERSO IL PREZZO “GIUSTO”
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Si è riusciti a trasformare l’assassinio nella nobile virtù del
valore ma mi sembra improbabile che si possa fare qualcosa di simile con i calcoli e i computi; non v’è bontà in essi,
né dignità, né profondità, il denaro cambia tutto in concetti,
è sgradevolmente razionale. (Musil 1972, I, 527)
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Non già l’ozio e il godimento, ma solo l’agire serve ad accrescere la gloria di Dio […] E quindi perdere tempo è, di
tutti i peccati, il primo e quello per principio più grave […]
L’avversione al lavoro è sintomo dell’assenza dello stato di
grazia. (Weber 1904-05, 217-8)
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Le forme concettuali in cui si divide la triade della vita activa
non sono figure immobili. I loro cambiamenti scandiscono il
tempo storico. Le trasformazioni nella società e nell’economia,
se modificano anche una sola delle tre dimensioni dell’agire,
comportano uno sconvolgimento nella gerarchia preesistente
tra i tre tipi di attività e ridisegnano i rispettivi spazi in cui
tali tipi operano e interagiscono. Per questo la Vita activa è essenzialmente un libro che tratta la condizione umana secondo
un approccio di evoluzione storica, dall’antichità, nella quale
la triade trova la sistemazione originaria, fino alla nostra epoca di capitalismo avanzato. La filosofia politica di Arendt è, in
definitiva, una storia del predominio di ordini e ordinamenti
gerarchici che cambiano l’agire sociale e politico di un’epoca
rispetto alla precedente. Habermas, che contribuì al recupero e
al risveglio dell’interesse verso quest’opera di Hannah Arendt,
le riconobbe il merito di aver impostato una teoria dell’agire co-
Parte I - La categoria del moderno
78
municativo capace di superare le rigidità delle visioni strumentali della politica, ma la criticò al tempo stesso per l’approccio
normativo dei concetti aristotelici presi a riferimento e, in sostanza, per l’incapacità di penetrare nella piena comprensione
dei caratteri istituzionali e di potere della modernità1. Tuttavia,
l’apparato concettuale preso a riferimento da Arendt è solo apparentemente immutabile, e – secondo noi – il merito dell’opera sta proprio nell’aver mostrato una dinamica di sviluppo del
mondo moderno e contemporaneo, al di là della scelta espositiva del proprio materiale concettuale, che incasella in una triade
di attività umane una serie di problemi e tensioni che forniscono preziose indicazioni sulla formazione sociale e istituzionale
della “modernità”. In altri termini, il riferimento di Arendt è sì
l’aristotelismo antico, ma il confronto è soprattutto con Marx
e Weber sulla formazione e sulle dinamiche dell’economia di
mercato. Proprio sotto questo profilo si rivela la fecondità di
un’analisi capace di cogliere anche molti cambiamenti, che,
all’epoca in cui Arendt scriveva, erano solo a uno stadio embrionale, ma con contorni ben delineati nelle tensioni interne ai
rapporti di potere della modernità.
La tavola 3, a doppia entrata, riduce a schema la dinamica presente nell’opera arendtiana riferita a tre epoche, e da noi
estesa aggiornandola all’epoca post-moderna e a quella contemporanea. Un primo problema riguarda le cinque età (tre “più”
due), poste nella testata orizzontale. La “quarta”, quella dell’età
post-moderna, è il costante punto di riferimento e di arrivo anche
Habermas (1986). Nell’opera precedente, Habermas aveva fatto proprie le dinamiche individuate in Vita activa: v. Habermas (2002, 24-5). Simona
Forti parla di Arendt come «pariah della cultura filosofica», il cui pensiero politico risultava difficilmente incasellabile per «l’apparente paradosso di un’opera
contesa da correnti filosofiche tra loro in disaccordo: […] fautore del liberalismo,
del neoaristotelismo, del comunitarismo, della tradizione repubblicana, di una
teoria delle élite, così come di un anarchismo conflittualista e libertario. E il paradosso di un pensiero filosofico annesso a un tempo all’universalismo, al relativismo, al soggettivismo, al decostruzionismo, al razionalismo, al nichilismo»
(Forti 1999, IV). Riguardo a Vita activa anche Forti fa riferimento all’«approccio
“metafisico” al mondo […] elaborato in Vita Activa e […] nelle opere successive»
(idem, XIX).
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4 - L’ordine del mondo
79
nella analisi di Arendt, ma può essere considerata un’età spuria
nel senso che, in fondo, porta solo a conseguenze estreme quanto già emerso nella precedente età moderna. Per questo motivo
abbiamo preferito rappresentarla come “quarta”, ma al tempo
stesso considerarla parte integrante della precedente, una sorta
di appendice di un presente che solo nella dilatazione del suo
passato prossimo trova spiegazione e senso. Infine, la quinta età,
quella contemporanea, che ovviamente non poteva essere inclusa
da Arendt nel suo libro, merita – secondo noi – di essere evidenziata nella sua specificità, in quanto contiene elementi di rottura
persino strutturali con l’età precedente.
Nella prima riga è riportata la posizione occupata dalle tre
attività - lavoro, opera e azione - nella graduatoria che esprime
l’ordine di importanza di ciascuna di loro nell’etica e nelle pratiche della società nelle cinque età considerate. Questa graduatoria
fornisce, di fatto, una definizione sommaria di ciascuna età, che
risponde alla tensione delle ambizioni di vita, ma anche di ruoli
occupati nella società, da parte di coloro che esercitano un’attività o un’altra, divisi in classi sociali, in élite e classi subalterne,
o, volendo usare uno schema più semplice, divisi in governanti
e governati. Nella seconda e terza riga sono rappresentate sia la
dicotomia tra gli ambiti – privati/pubblici – nei quali si esercitano
le attività, sia le caratteristiche specifiche che le contraddistinguono nel corso della successione delle età. L’autonomia assegnata
in ciascuna epoca alla sfera “privata” definisce quanto e come
alcune fasce sociali possono godere di un proprio perimetro di
vita più o meno “indisturbata”2. La triade delle attività è tradotta
dalla Arendt, come già discusso, nei tre tipi umani e sociali dell’animal laborans, dell’homo faber e di quello che, in termini aristotelici, è il cittadino, il quale è partecipe dell’élite di coloro che hanno
un’esistenza da bios politikos, dimensione che, però, esaurirà progressivamente i tratti originari e distintivi nel corso delle età.
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Arendt, che segue in molti casi l’analisi storica di Marx, non sembra condividere il concetto di classe sociale, o almeno non si riferisce a una divisione del
genere se non per riferimenti storici precisi. La sua proposta è più un’antropologia
storica di tipi di attività e di umanità che assumono tali “maschere” nel teatro
dell’esistenza umana.
“il privato è pubblico”
fabbrica/società di
massa – capitalismo/
Stato manageriale
Parte I - La categoria del moderno
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impresa
mondo-azienda
(corpus mysticum)
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Legenda: L = lavoro; O = opera; A = azione
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Spazio privato
individuo/
associazione
(club, loggia, ecc.)
società civile/Stato
assoluto/liberale
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vita domestica
come modello delle
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chiesa/convento
intellettuali/
corporazioni
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polis
organizzazione
di persone libere
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Età contemporanea
dagli anni ’80
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Sfera pubblica
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Età post-moderna
dal 1914
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contemplativa
Età moderna
dal XVII sec.
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Medioevo
dal IV sec. d.C.
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Ordinamento
della vita activa
Antichità
greco-romana
Tav. 3 - Le tre (cinque) età della vita activa e le loro caratteristiche.
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4 - L’ordine del mondo
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Come si può osservare seguendo la successione della riga
dell’ordinamento nella tav. 3, l’azione (A) perde via via il primato
che aveva e al posto d’onore subentrano, in età moderna, il lavoro (L) e l’opera (O), nobilitati nella considerazione sociale per il
loro contribuito alla “ricchezza delle nazioni”. Se si varcano, poi,
i confini temporali considerati dalla Arendt, in età post-moderna
il lavoro ottiene il riconoscimento di “motore” sociale ed economico preminente, che col passaggio all’età contemporanea assume una ulteriore rilevanza; infatti, tale età segna una dominanza
del lavoro sulla stessa azione e, si potrebbe aggiungere, segna
anche la sudditanza della politica rispetto all’economia, come si
vede dalla sequenza verticale LOA rispetto a quella AOL, propria dell’antichità. Le implicazioni di questo rovesciamento etico
e pratico saranno meglio illustrate nella III parte.
Sempre in forma stilizzata, nella riga successiva sono indicati i cambiamenti dei luoghi dell’azione “libera”, cioè la sfera
pubblica. Anche in questo caso, cambiando l’ordine di priorità
delle attività cambiano le sfere di pertinenza, i luoghi d’elezione
dell’attività dominante. La sfera pubblica, che, nell’antichità, si
concentrava sulla polis, e, nel medioevo, sia sulla vita religiosa
e contemplativa che sulle “fratellanze” corporative, nell’età moderna inizia a concentrarsi sul mercato e sull’organizzazione statuale. Caratteristica dell’età moderna è la rivoluzione industriale. L’industrializzazione sposta dal mercato all’impresa il luogo
“pubblico” – la fabbrica moderna –, che, in realtà, significa la traslazione della sfera pubblica in una sfera privatissima ma centrale
a causa della socialità delle relazioni umane insite in quel modo di
produzione. Nell’età contemporanea, lo spazio pubblico assume
una dimensione “globale” sia per la sopravvenuta prevalenza di
imprese multinazionali e delocalizzate, che per la supremazia di
alcuni organismi sovranazionali rispetto alle istituzioni nazionali.
Le conseguenze dei mutamenti nella sfera pubblica si riflettono, ovviamente, sugli spazi lasciati alle attività private. Vediamo
adesso cosa accade alla sfera privata nella sequenza delle età. Se
nell’antichità il cuore della sfera privata era la “casa”, nel medioevo la vita domestica diventa il modello di riferimento di tutte le
relazioni pubbliche e in tale sfera sono assorbite tutte le attività
che assumono un carattere privato a discapito di ogni loro dimen-
Parte I - La categoria del moderno
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sione pubblica (v. Arendt 1958, 25-6, II.5). L’età moderna si caratterizza per l’emergere dell’individualismo3 e di nuove forme di
socialità, come i club, le associazioni, i salotti privati. Nella società
post-moderna lo spazio privato viene occupato da soggetti “socializzati” nei luoghi di lavoro della produzione di massa. Le vite
private sono sempre più coinvolte in forme di impegno sociale,
che sono rappresentate dall’adesione ai movimenti sindacali e ai
partiti di massa (il noto slogan degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso ‒ “il privato è pubblico” ‒ esprime abbastanza bene una socialità che trae la propria origine nelle forme collettive di lavoro). Il
cambiamento che avviene con il trapasso nell’età contemporanea
è, anche sotto questo profilo, radicale. L’individualismo moderno, che pare soppiantato dall’organizzazione interdipendente e
gerarchica dell’impresa, nella quale gli individui trovano il loro
mondo di lavoro e di soddisfazioni, riemerge, nell’età presente,
ma in forma mistificata. Il processo, che sembrava avviato con
una sorta di liberazione dell’individuo dai legami oppressivi di
tipo parentale, finisce per catturare le ambizioni soggettive all’interno dei vincoli gerarchici e di subordinazione propri dell’impresa. In una società globalizzata, quelle aspirazioni soggettive,
quei disegni di realizzazioni personali vengono quasi interamente assorbiti all’interno delle stesse logiche del corpus mysticum
Il passaggio cruciale della separazione tra Stato e società civile, che si forma nell’età moderna, e che stabilisce confini netti tra la sfera pubblica e la sfera
privata, apre la strada non al “dolce” commercio pacificatore fra gli uomini, bensì
alla rottura della comunità e alla liberazione degli spiriti egoistici scatenati nella
lotta di tutti contro tutti. Paradossalmente con questa interpretazione della modernità si inverte la narrazione cronologica hobbesiana che fa passare dall’homo homini
lupus dello stato di natura alla legge e alla pace dello Stato dell’età moderna: per
Marx è, invece, proprio con l’età moderna che si realizza una guerra permanente tra
gli uomini, mentre l’uomo nello stato di natura ha un’essenza comunitaria. Infatti,
secondo Marx, la società civile viene relegata «dal diritto pubblico al diritto privato.
Essa non è più lo spirito dello Stato, ove l’uomo – ancorché in maniera limitata, sotto
forma particolare e in un ambito specifico – si comporta come ente di genere, in
comunità con altri uomini; essa è diventata lo spirito della società civile, dell’ambito
dell’egoismo, del bellum omnium contra omnes. Essa non è più l’essenza della comunità, bensì l’essenza della distinzione. Essa è diventata l’espressione della separazione
dell’uomo dalla sua natura comunitaria, da sé e dagli altri uomini, ciò che essa era in
origine. Essa è ancora solo l’astratto riconoscimento dell’assurdità particolare, della
stravaganza privata, dell’arbitrio» (Marx 2007, cap. I).
3
4 - L’ordine del mondo
83
aziendale. Alle forme di vita privata che, trovavano momenti e
ragioni di convergenza negli impegni collettivi, subentra, invece, la concorrenza per la carriera. Il riconoscimento sociale trova
ora espressione compiuta nei generi e nelle quantità di consumi
indotti dalla missione di accrescere e saper valorizzare il proprio
capitale umano, come fosse un qualsiasi marchio di fabbrica (vedremo meglio tutto ciò nella III parte).
Dall’età moderna ad oggi, il baricentro della vita conosce uno
slittamento progressivo verso la nozione di utilità e il lavoro sale
così nella scala della considerazione sociale fino ad assorbire in sé
il luogo “pubblico”, ovvero, in altri termini, con l’emergere dell’economia di mercato, l’intera società finisce con l’identificarsi nel
mercato. La stessa politica finisce con l’assegnare al mercato quei
compiti di indirizzo e di coordinamento che prima, nell’antichità,
spettavano alla polis e ai luoghi dell’azione politica. Lo slittamento
si nota già nell’evo di mezzo, nel quale il decadimento delle polies
e la fine dell’impero romano lasciano alle istituzioni ecclesiastiche,
compresi i monasteri, l’occupazione di spazi politici sempre più
rilevanti. In questi spazi l’“azione” è interpretata come vita contemplativa e il lavoro viene equiparato all’opera ed entrambi – lavoro
ed opera – cominciano ad assolvere una funzione di encomiabile
complemento dei riti della preghiera. Nel corso dei secoli successivi l’ordinamento etico e pratico viene messo in crisi. La modernità
è la glorificazione del lavoro e la quasi equiparazione dell’opera
all’attività contemplativa, intesa come mondo dell’intelletto e “occupazione” delle classi inoperose, o meglio improduttive. Si può
ricordare l’accostamento compiuto da Weber, sulla scorta del pietismo, tra la glorificazione del lavoro e la grazia del carisma dei discepoli: «la variante del pietismo rappresentata da Zinzendorf, per
esempio, esaltava [glorificava] il lavoratore zelante e fedele [leale]
al proprio lavoro, che non cerca di guadagnare, in quanto vive secondo il modello degli apostoli ed è quindi dotato del crisma [ossia
“carisma”, come dall’originale] del discepolato» (Weber 1904-05,
236 [II, 2], le varianti tra parentesi quadre sono nostre)4.
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Il conte Nikolaus Ludwig von Zinzendorf (1700-1760) è un importante
teologo pietista costantemente richiamato da Weber.
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Parte I - La categoria del moderno
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Come ha mostrato Perrotta, nel corso del XVII e XVIII secolo,
la consacrazione di stili di vita eccessivi, nel godimento dell’abbondanza e del lusso come nell’ostentazione delle ricchezze,
andò di pari passo col riconoscimento al lavoro di una funzione essenziale nel processo produttivo (Perrotta 2008). «Gli ideali
dell’homo faber, il costruttore del mondo – osserva Arendt –, che
sono permanenza, stabilità e durevolezza, sono stati sacrificati
all’abbondanza, l’ideale dell’animal laborans» (Arendt 1958, 90,
III.16). L’ideale dell’animal laborans è l’abbondanza e il consumo
crescente della crescente abbondanza. Quello dell’homo faber è la
durata della creazione, è la modifica della natura come era stata
ereditata dal momento della creazione originaria e dal corso delle
sue leggi naturali.
Il lusso contribuì ad allargare l’ambito dei beni di consumo e
a rendere essenziale il voluttuario. Al tempo stesso contribuì ad
accelerare la rapida sostituzione degli oggetti da acquisire e consumare, spingendo gli ingranaggi della produzione a muoversi
con maggior sollecitudine. Il circuito della produzione e quello
del consumo sono messi in perfetta comunicazione senza che ci
siano pause e arresti nei flussi dell’economia come, per analogia,
nella “macchina” del sistema sanguigno degli esseri viventi.
Nella sezione dedicata all’opera (work), Arendt introduce l’avvento del mercato come realtà e teatro, diventato prepotentemente
spazio pubblico prevalente, dove celebrare la definitiva glorificazione del lavoro. Il confronto anche qui è con l’antichità e Arendt
lo riprende da Marx, del quale, non a caso, riconosce il grande
senso storico. Marx commenta la definizione di Benjamin Franklin sull’uomo produttore di strumenti come tipica dell’età moderna, così come l’antichità aveva, come elemento caratterizzante,
la definizione di animale politico5. E Arendt aggiunge e parafrasa
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Marx (1867, 218 [III, 5, 1]) dove si afferma: «Franklin definisce l’uomo “a
toolmaking animal”, un animale che fabbrica strumenti» e aggiunge alla stessa pagina: «Non è quel che viene fatto, ma come vien fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò
che distingue le epoche economiche». Questa potente affermazione di Marx ci induce a ritenere la corrente età in cui viviamo – definendola 2.0 o 4.0 che sia – come
una nuova distinta epoca economica. Sulla definizione di Franklin, Marx ritorna
anche in sez. IV, cap. 11, p. 399n. in questi termini: «la definizione di Aristotele
dice che l’uomo è per natura cittadino. Essa è caratteristica dell’antichità quanto
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4 - L’ordine del mondo
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secondo i propri concetti, in questo modo: «l’età moderna era interessata a escludere l’uomo politico, cioè l’uomo che agisce e parla,
dalla propria sfera pubblica, proprio come l’antichità era interessata a escludere l’homo faber» (Arendt 1958, 114, IV.22). Nella nostra metafora del “corridoio”, gli uomini della polis ne tolleravano
l’esistenza, purché fosse ristretto, senza troppi canali aperti con le
altre sfere e specialmente con la sfera pubblica della politica, per
evitare tutte le conseguenze che ciò avrebbe comportato, compresa la temibile diffusione di corruzione e la degenerazione del buon
governo, come ben avevano diagnosticato filosofi e moralisti.
Solo nell’età contemporanea il lavoratore, animal laborans senza proprietà, è pienamente ammesso nella sfera pubblica come
uomo-massa, grazie alla redenzione di dignità conferitagli dal
valore della sua produttività. Infatti, la produttività è divenuto il
valore esaltato nell’economia teorica. La centralità della produttività e della razionalità strumentale ha giustificato la cancellazione sempre più evidente dell’aggettivo “politica” dalla denominazione di “economia”, aggettivo dal sapore troppo antico, dunque
“morto”, odoroso di decisione arbitraria, dunque ascientifico. La
società moderna esalta il lavoro produttivo come organizzazione
collettiva della produzione e non più nell’isolamento dell’homo
faber archimedeico. Anche l’amministrazione della cosa pubblica
è sottoposta al medesimo processo di razionalizzazione produttivistica. La burocrazia moderna in Max Weber è molto diversa
dalla segreteria del principe o dell’imperatore. Anche la legge e
l’ordine sono piegati all’esigenza della contrattualizzazione dei
rapporti privati6.
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è caratteristica dello spirito yenkee la definizione del Franklin, la definizione che
l’uomo è per natura “facitore di strumenti”». Va aggiunto anche che in Franklin la
virtù era dimostrata dalla metodicità nel lavoro (Methods of Working) e dall’abitudine (Habits) nell’uso appropriato e regolare di tutti gli strumenti per raggiungere
perfezione «in the Art»; cit. in Smith Pangle (2007, 82).
6
È opportuno richiamare la storicizzazione che Foucault (2017b, 155) introduce riguardo alle forme di Stato: «l’État administratif, l’État-providence, l’État
bureaucratique, l’État fasciste, l’État totalitaire», sebbene con tale tassonomia Foucault non intenda affatto suggerire una linea evolutiva delle forme statali. Invece
nel pensiero neo e ordoliberale tali forme sono sostanzialmente indistinte a causa
di un’ideologica «fobia di stato». Supiot (2005, 79) ritiene che una caratteristica
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Parte I - La categoria del moderno
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Tuttavia anche nell’antichità, ricorda Arendt, esistono comunità al centro delle quali non è posto il cittadino; piuttosto, la vita
pubblica è occupata da chi lavora per il popolo, cioè un dēmiurgos
distinto dal lavoratore domestico, oiketēs. Si tratta di comunità “non
politiche”, che eleggono l’agorá a luogo pubblico nel quale ritrovarsi e procedere agli scambi e agli incontri. Diventa quello il luogo
dove gli artigiani possono portare i loro prodotti per venderli. I
tiranni greci incoraggiarono lo sviluppo dei mercati per distogliere
i cittadini dalle preoccupazioni per la cosa pubblica (Arendt 1958,
114, IV.22). Arendt sottolinea questo aspetto del mercato, rompendo, in tal modo, la nozione ideologica – contemporanea a lei e a
noi – di un asse tra mercato e libertà, tra mercato e democrazia7, e,
anzi, delineando una inedita relazione fra tirannia e mercato. Lo
scopo dei tiranni era quello di trasformare l’agorá da luogo di mercato a luogo di botteghe, sul modello dei bazar dei regimi dispotici
dell’Oriente (Geertz 1979). Le città medievali ereditarono quello
stesso modello di mercato e di vita pubblica cittadina incentrata
sulla vita mercantile e sulle sue regole. L’animal laborans continua,
nonostante tutto, a condurre una vita «simile a quella del gregge»
(Arendt 1958, 115, IV.22), mentre l’homo faber trova la propria dimensione nello spazio mercantile dove può esibire i suoi prodotti che parlano per lui. L’homo faber, infatti, «può stabilire relazioni
con altre persone solo attraverso lo scambio dei rispettivi prodotti»
(Arendt 1958, 115, IV.22). La sua è una socialità mediata dalle merci. Quindi, l’homo faber non è l’artista, creatore di opere durature
per migliorare la natura umana, ma, al massimo, un intellettuale perfettamente inserito nel mercato dei beni durevoli intangibili
(quadri, letteratura, ecc.). Molti passaggi di Vita activa sembrano
sviluppi dell’idea marxiana di alienazione e Arendt non manca di
riconoscerne la paternità (Arendt 1958, 116, IV.22).
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dei totalitarismi del XX secolo sia quella di considerare «il Diritto e lo Stato una
questione di convenzioni sempre rivedibili», semplici strumenti vuoti di senso,
subordinati alle verità della Scienza e ai progressi irresistibili delle tecniche».
Quella caratteristica dei totalitarismi si ripresenta interamente nell’epoca attuale
delle liberalizzazioni finanziarie allo scopo di «liberare l’homo oeconomicus dalle
leggi che lo incatenano e per rimetter tutto al libero gioco dei contratti» (idem, 79).
7
Tra i numerosi lavori di apologetica storica sul binomio mercato-libertà,
v. Fontaine (2014), anche per un certo equilibrio nelle valutazioni.
4 - L’ordine del mondo
87
Con Smith, lo scambio di mercato diventa carattere precipuo
del genere umano. Infatti, gli individui sono resi pacifici, civilizzati, dalla consapevolezza che i loro bisogni possono essere soddisfatti solo dallo scambio e lo scambio libera l’uomo dalla condizione animale: «[n]essuno – specifica – ha mai visto un cane con
un suo simile fare lo scambio deliberato e leale di un osso contro
un altro osso» (Smith 1776, libro I, ii). Marx e Arendt si pongono nel solco della tradizione aristotelica: hanno un’idea della vita
activa graduata in base alle preferenze della polis, perciò rovesciano l’idea smithiana e moderna come tipica di un’alienazione di
uomini che si sentono liberi solo perché parzialmente liberati dai
bisogni più elementari, ma in realtà oppressi dal giogo, non meno
gravoso, degli affari. La borghesia mercantile e industriale, classe
liberatrice dai bisogni essenziali e dalle “trappole malthusiane”,
è espressione dell’homo faber per eccellenza, la sua libertà è una
libertà fortemente condizionata dall’impegno costante negli affari, dal riconoscimento del proprio valore e merito attraverso il
profitto mercantile e attraverso il consumo ostentato. La borghesia ha costruito nel mercato il proprio teatro, nel quale mettere in
scena le prestazioni economiche nel senso letterale che il termine
performance ha nella lingua inglese.
Lo spirito della modernità plasmato nella razionalità strumentale anche Max Weber lo vede espresso, in tutto il suo orgoglio borghese8, in Benjamin Franklin, padre fondatore dell’America indipendente, il paese che, più di qualsiasi altro, non aveva
un passato da difendere o a cui richiamarsi. L’America è forse
l’unico paese che non è rallentato nella sua corsa verso la modernità né dai ceppi dei retaggi medievali, né, soprattutto, da
quelli dell’antichità greco-romana, rinvenibili, seppure in maniera trasfigurata, nei codici delle aristocrazie europee, alle quali le
stesse borghesie del vecchio continente guardavano con soggezione, persino scimmiottandole spesso, e con le quali ambivano
a integrarsi. In questo, almeno fino alla prima guerra mondiale,
ossia all’ingresso prepotente sulla scena delle masse operaie e
lavoratrici, consisteva la “purezza” del nuovo continente rispet-
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Il tema dell’orgoglio borghese è enfatizzato da McCloskey (2006).
88
Parte I - La categoria del moderno
to al vecchio. In Europa, nelle crisi del ’900, venne detronizzato
quell’ordine aristocratico e aristocratico-borghese e, in maniera drammatica, solo dopo due grandi guerre mondiali giunse a
compimento, con la fine del liberalismo ottocentesco, l’avvento
di una società di massa e di modelli culturali adeguati alla nuova situazione, avvento realizzato attraverso quella restaurazione
borghese di cui parla il classico libro di Charles Maier (1999). Alla
fine, alle borghesie europee non restava che, mestamente, far proprio il sogno americano, borghese e plebeo, che meno di altri le
era appartenuto9. Si consumava un nuovo “ratto di Europa”, o
almeno l’inizio di un tentativo di mutazione genetica che, forse,
ha nell’ordine neo-ordoliberale il compimento completo.
L’individualismo del borghese faber è quello non più del mero
costruttore di oggetti, ma del costruttore di un’intera società secondo le proprie esigenze. La società borghese scopre sia l’interiorità e la tutela della privacy che l’anonimato all’interno di uno
spazio di coordinamento del mercato. Arendt ricorda che per i
greci l’idion, «ciò che è proprio», è ciò che è posto fuori dal mondo, è l’“idiota” (e gli idiōtēs, gli idioti, erano i privati senza cariche
pubbliche). Per i romani il ritiro dalle cariche pubbliche era solo
una condizione temporanea di riposo e di attesa (Arendt 1958, 289, II.6). In quello spirito Cassio, nel Giulio Cesare (I, ii, 139-141) di
Shakespeare, afferma: «Gli uomini, in certi momenti, sono padroni del loro destino. La colpa, caro Bruto, non è delle nostre stelle,
ma di noi stessi, che siamo degli schiavi». Nel Coriolano il «doppio
potere» [double worship], che ha sia del divino che dell’umano, è
quello che paralizza l’azione autenticamente politica, perché da
«una parte disprezza con ragione e [dal]l’altra insulta senza ragione; dove nobiltà, nome, saggezza non possono decider nulla senza
il sì o il no della comune stupidità; non può che trascurare le vere
necessità dello stato e lasciar tutto, intanto, in mano all’instabilità
e alla leggerezza» (Coriolano III, i, 143-148). In un’altra scena, Shakespeare – che come sostiene Bloom (2001) ha «inventato l’uomo»,
l’uomo moderno, anche modernamente antico – sviluppa il con-
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9
La crisi dell’Europa è anche la fine del liberalismo per autoconsunzione in Moore (1969) e Koselleck (1972), e approdo verso una società autoritaria in
Kühnl (1973) e Maier (1999).
Questo E-book apparti
4 - L’ordine del mondo
89
flitto lacerante tra privato e pubblico per bocca del protagonista:
«[ma] resterò fermo come un uomo che è tutto opera di se stesso e
non ha che sé stesso al mondo» (Coriolano, V, iii, 35-37).
4.2. Dalla società alla piccola comunità, al mercato e “ritorno”
I rapporti economici sono impersonali […] È il mercato, la
possibilità di scambio, che è funzionalmente reale, non gli
altri esseri umani; questi non sono nemmeno strumenti per
l’azione. Non si tratta di un rapporto di cooperazione né di
reciproco sfruttamento, ma di un rapporto completamente
non morale, non umano. (Knight 1935, 282)
Non è qui il caso di tenere conto della moralità o dell’immoralità del bisogno cui risponde la cosa utile e da questa
soddisfatto. Se una sostanza sia ricercata da un medico per
curare un malato o da un assassino per avvelenare la famiglia, è una questione importantissima da altri punti di vista
ma del tutto indifferente per il nostro. La sostanza è utile
per noi in entrambi i casi e, forse, più nel secondo che nel
primo. (Walras 1874)
Da Locke in poi, però, la privacy è essenzialmente un modo di
appropriazione (Arendt 1958, 78, III.15), un dominio imprenditoriale sulle cose e sull’organizzazione del lavoro subordinato. Quel
dominio allarga il perimetro per società di persone e capitali, nella cui sfera associativa mantengono il carattere di “privative” che,
nel XVIII secolo, era il nome assegnato ad attività che godevano, per legge e beneficio sovrano, una particolare protezione in
deroga al diritto comune. Tale protezione era concessa perché
l’interesse perseguito convergeva con qualche finalità pubblica,
oppure perché le iniziative, intraprese con un certo dispendio di
mezzi ed energie intellettuali erano a rischio, specialmente se rese
di dominio pubblico10. Le società commerciali sono così espressione della privatizzazione della società civile, nel senso che valgono per esse quelle stesse prerogative di riservatezza che si dan-
10
Sullo sviluppo del diritto delle società commerciali e sul carattere monopolistico del godimento di privilegi di legge v. Ungari (1974). Sullo sviluppo della
protezione dei brevetti v. Mokyr (2009 e 2017).
90
Parte I - La categoria del moderno
no per l’individuo nella sua intimità familiare. In questo senso le
società commerciali non sono assimilabili alla comunità, essendo
esse spazi chiusi e privati; le società non sono identitarie come,
invece, lo sono le comunità (sia le antiche polis, sia le moderne
nazioni)11. Il mercato è la “comunità” di privati che si relazionano
tra di loro senza perdere in termini di privacy. La disclosure è un
dispositivo introdotto nel diritto commerciale statunitense, entrato in vigore con le regolazioni delle borse valori e delle società di
capitali, per “schiudere” parzialmente la privacy di queste ultime
su aspetti sospettati di essere la fonte di pericolosi conflitti d’interesse. Dopo gli anni ’30 del XX secolo, molti atti societari non potevano più essere secretati, come era stato ovunque in precedenza, quando si riteneva che renderli di pubblico dominio arrecasse
vantaggi indebiti ai concorrenti. Quindi, adesso, la pubblicità di
quei medesimi atti societari interni viene ad essere considerata
una tutela per i piccoli azionisti e altri gruppi d’interesse, cioè, in
definitiva la disclosure può esser vista come un modo per incentivare una corretta amministrazione ed evitare abusi e distorsioni
profonde nel funzionamento dei mercati aperti12.
Le associazioni sono comunità di persone che decidono di
aggregarsi volontariamente, senza per questo regolare necessariamente le proprie attività e decisioni sulla base di uno statuto
“aperto”, ma con un ingresso condizionato a certi requisiti e a
una preselezione dell’ammissione di nuovi soci. I fondatori e i
soci si possono accordare per restringere le nuove ammissioni
alle sole persone che condividono gli stessi principi, praticano
11
A proposito di quanto detto, si rifletta sulle seguenti osservazioni di Roberto Esposito a seguito di un passo di Hobbes che distingue tra dono e contratto,
tra dimensione pubblica e dimensione privata: «Non solo, dunque, il contratto
non coincide col – né deriva dal – dono, ma è la sua negazione più diretta: il passaggio dal piano comunitario della gratitudine – insostenibile, secondo Hobbes,
dall’uomo ‘moderno’ – a quello di una legge sottratta ad ogni forma di munus. È
anzi distruttiva di quel cum cui il munus è semanticamente orientato nella figura
della communitas. A questa potenza dissolvente risponde lo scambio sovrano tra
protezione e obbedienza: a conservare gli individui attraverso l’annientamento
del loro rapporto» (Esposito 2006, 14).
12
Sull’importanza dell’informazione per rendere i mercati effettivamente
“efficienti” e portare il prezzo a coincidere con il costo marginale si veda l’eccellente, quasi “inossidabile”, Baumol (1965, 49-50).
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gli stessi riti, hanno le stesse finalità. Le società segrete, di qualsiasi genere, sono quelle per le quali il principio della pubblicità
scardinerebbe il senso stesso dell’associazione. Per esse la tutela
di una cortina di riservatezza è requisito essenziale, ma non è
così per le privacies dei singoli aderenti o postulanti. La società
segreta condiziona l’ammissione alla possibilità di poter scandagliare attentamente nella vita privata ed esercitare un discreto controllo sulla medesima. I singoli aderenti volontariamente
acconsentono di mettersi in pubblico, ma limitatamente ai soli
membri (e talvolta solo ai vertici), come segno di fedeltà ai principi della setta13. Si tratta però di circoli che hanno finalità latamente “pubbliche” e non interessi pecuniari da dividere. Dove
entrano in gioco motivi identitari, la violazione della privacy è
il prezzo da pagare per partecipare a un gruppo come sodali
e a non essere esclusi, ed è la condizione di poter regolare le
espulsioni e garantire così l’unità e l’identità comunitaria (Simmel 1906).
Il mercato, dai confini mobili, si adatta al coordinamento delle
preferenze soggettive di singoli e di compagnie mercantili, proprio perché stende un velo di anonimato sulle relazioni intercorrenti fra i partecipanti. Tuttavia, il mercato viene trasfigurato in
altri livelli di vita associativa, che paradossalmente si stratifica
proprio per vincere le incertezze che il mercato diffonde. Ecco qui
un paradosso formidabile: il mercato è visto come il risolutore
dell’ignoranza e incertezza individuale attraverso il meccanismo
magico dei prezzi, ma i partecipanti al mercato preferiscono negarlo associandosi in organizzazioni dove il mercato non vale.
L’impresa stessa – organizzazione che nasce “contro” il mercato –
è considerata il cuore della società proprio dai difensori estremi
13
Roberto Esposito critica Arendt sul concetto di comunità in questi termini: la comunità «non è semplicemente diversa dall’intersoggettività, ma il suo
opposto. Non è un modo di essere, e tantomeno di “fare”, di “agire”, di “parlare”
del soggetto [fare, agire, parlare stanno per il lavoro, l’opera e l’azione in Arendt]»
nel senso di «una improprietà radicale che coincide con l’impossibilità di essere
tutto se stesso o se stesso come un tutto» e aggiunge «Né l’azione né il discorso in quanto tali, come modalità soggettive, hanno qualcosa a che vedere con la
comunità» e ancora «La comunità non è altro che la faglia che circonda e fora la
soggettività, la sua finitezza mortale»; in Esposito (1999, 98-9).
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del mercato concorrenziale, del quale vorrebbero fare l’art.1 delle
Costituzioni politiche, cioè i neo-ordoliberali, e quindi ecco un
altro paradosso che è innestato su un’altra evidente (ma non per i
neo-ordoliberali) dicotomia: impresa versus mercato. Pertanto, la
formazione dell’impresa stessa, che è istituzione gerarchica al suo
interno, in un contesto di perfetta concorrenzialità è una contraddizione in termini, che necessiterebbe una spiegazione.
La corrente teorica dei neo-istituzionalisti (Coase e Williamson), che per molti versi è in linea col pensiero neo-ordoliberale, tenta di giustificare l’esistenza dell’impresa considerandola
un’alternativa alle transazioni di mercato, a causa di un solo motivo: queste ultime sono ritenute troppo costose. Ma inserendole
così nella struttura gerarchica dell’impresa, il risultato è quello di
conferire ad essa un potere di fissare i prezzi a proprio vantaggio (evitando costi di transazione e incertezze), sottraendo questa funzione al mercato, di cui però si continua a fare il peana,
esaltandolo come l’unico mago che può far uscire dal cilindro
dell’ignoranza, della tendenza prevaricatrice e dell’incertezza il
coniglio del prezzo che tutto equilibra. L’impresa è dunque l’organizzazione anti-mercato per eccellenza.
Le compagnie commerciali e le botteghe artigiane giustificano
l’unione di capitali come mezzo per congiungere competenze e
abilità al fine di svolgere con maggior perizia compiti che isolatamente non raggiungerebbero lo scopo sociale. Infatti, il “mastro”
esercita un dominio sull’intera produzione, frazionata in compiti
assegnati ai suoi vari aiutanti, per le necessità di divisione del lavoro e di coordinamento in una bottega, ma, anche e non ultimo,
per dare prosecuzione alle attività dell’azienda oltre la vita delle
singole persone. La stessa tendenza associativa si riscontra in altri
ambiti della vita sociale non direttamente coinvolti negli scambi mercantili14. Il salotto borghese diventa un altro luogo “pubblico” per eccellenza, regolato dal vaglio della “buona società”
Il libro di Seabright (2004) tratta, secondo un approccio storico evoluzionistico, la formazione delle istituzioni economiche che gestiscono i mercati e i
propri affari facendo leva su una divisione del lavoro che mette insieme persone
estranee e sconosciute.
14
4 - L’ordine del mondo
93
mediante le forme rituali dell’ammissione per invito15. Di fronte
alla dispersione di una società di soli individui, si ricreano così
ambiti privato-pubblici di filtro e controllo sociale sulla piccola
popolazione che li frequenta. Il club è la sua forma più allargata.
Si tratta sempre di gruppi aperti per cooptazione ma rivali verso
altre sette, salotti, club di qualsiasi natura. In questa prospettiva
il partito moderno può essere considerato la forma organizzativa
che traghetta il club in uno spazio più ampio e agitato per prendere d’assalto la vita politica.
L’intimità della vita privata viene immessa in questo modo in
un processo di socializzazione. Per Habermas, man mano che la
vita privata diventa pubblica, la sfera pubblica assume forme di
esibizione proprie della vita privata. L’esempio che riporta è quello del modello americano dei sobborghi dove i cortili dissolvono
la vita privata agli occhi del vicinato e le vetrate dei soggiorni, le
mura sottili, espongono l’intimità domestica al pubblico. Per ricreare l’intimità perduta occorre compiere atti di volontà che, in precedenza, non erano necessari, essendo la sfera privata per defini-
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Delle forme di socialità che emergono all’epoca dell’assolutismo nella
Francia del XVII-XVIII secolo si occupa Gordon (2017). Egli parla di un processo
di «trasfigurazione» della realtà per poter preservare ambiti di dignità estranei e
fuori dai territori della sovranità. Gordon propone cinque tipi ideali di sociabilità
che stabilisce rapporti egualitari in un contesto di monarchia assoluta: 1) la sociabilità per «amore dello scambio», come forma di piacere e puro gioco di amicizie,
2) la sociabilità come «propagazione dell’assolutismo», quali sono le stesse corporazioni, non necessariamente avverse all’assolutismo monarchico, anzi tasselli
nella gerarchia di rapporti tra pubblico e privato; 3) la sociabilità come vincolo
tra estranei i cui circoli sono riconoscibili per marchio, insegna od ornamento e
attraverso regole stabili; 4) la sociabilità come «socializzazione e educazione»;
infine 5) la sociabilità come «recupero di logos», di reti sociali aperte a forme di
protesta politica, ma entro i limiti dell’ordine pubblico assicurato dalla disciplina
e da regole imposte e fatte osservare dalla polizia (Gordon 2017, 40), secondo le
teorizzazioni del Traité de police di Delamare (La Mare [o Delamare] 1705, 33-42).
L’istituzione di un’amministrazione poliziesca è ben descritta da Carl Schmitt
in questi termini: «I prévôts (praepositi) francesi, che avevano poteri giudiziari,
militari e amministrativi con carattere commissario, divennero funzionari residenti verso la metà del XV secolo (con il sorgere degli eserciti di stanza) con competenza su determinati distretti, nei quali mantenevano la sicurezza e l’ordine
pubblico […]. Anche i baillis, che in origine erano missi del re per un determinato
distretto con compiti amministrativi, si incorporarono parzialmente nella gerarchia feudale fungendo da intermediari tra il re e i prévôts» (Schmitt 1975, 236-7).
Parte I - La categoria del moderno
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zione “chiusa”. In epoca pre-borghese, i due ambiti della famiglia
allargata e del vicinato erano spesso indistinti; ora, nella società
borghese, mentre «la vita privata si pubblicizza, la sfera pubblica,
a sua volta, assume forme di intimità» (Habermas 2002, 182).
Per Hoffmann, la sociabilità si inquadra in una tensione tra
istanze universalistiche e pretese di esclusività sociale e morale (Hoffmann 2007, 4-5). Nel XIX secolo ciò salda insieme virtù
civica e società civile. Per la borghesia tedesca dell’epoca, l’associazionismo su basi locali cementa il senso di nazionalità e di
universalismo umanitario. All’epoca, le logge massoniche rappresentano, ovviamente per la letteratura sociologica, un modello
di associazioni civiche e, al tempo stesso, forme più tradizionali
di comunanze e congreghe formatesi nel secolo precedente come
spazio di comunicazione tra élites aristocratiche e borghesi.
La società mercantile non ha solo una dimensione orizzontale, per quanto si voglia schiacciare tutto su tale orizzonte
“aperto”. Sarebbe fuorviante considerare “orizzontale” la stessa
dimensione del mercato (e della “piazza”) contrapposta alla dimensione “verticale” del potere politico e della burocrazia statale
(la “torre”)16. L’economia di mercato si struttura in imprese che
sono “alternative” al mercato e, al tempo stesso, lo prendono a
riferimento per gli affari. Creano, se ci riescono, “nicchie” di mercato fidelizzando i clienti, evangelizzati da un “messaggio” che
travalica il contenuto materiale del bene messo in vendita. Oggi
si dice che si acquista il “brand” piuttosto che il suo supporto concreto e tangibile, ovvero il bene vero e proprio. Veblen aveva ben
visto questa trasformazione della società dei consumi e dell’etica
evangelizzatrice, attraverso il marketing e i suoi riti, verso masse
bisognose di identità e di identificarsi in nuovi moloch. La società
di mercato, analogamente alle gerarchie dell’impresa moderna, si
struttura in un’architettura a diversi livelli di socialità e su molteplici spazi privato-pubblici: salotti, teatri d’opera, stadi, ippodromi e, ovviamente, anche chiese secondo, anche in questo caso,
forme più moderne di aggregazione. Gli sviluppi delle strutture
di sociabilità, dall’epoca moderna in poi, sono forme che, para-
16
Gioca su questa dicotomia il recente libro di Ferguson (2018).
4 - L’ordine del mondo
95
dossalmente, proteggono l’individualismo e sgretolano i valori
comunitari. Il lavoro diventa l’architrave delle nuove strutture
sociali. Non a caso Weber parla di mercato come «comunità di
mercato» (Weber 1922, t. 2, cap. VI).
La tavola 3 (nel par. 4.1), leggendo per riga da sinistra verso
destra, dà conto dell’importanza crescente che il lavoro viene ad
assumere nelle epoche più recenti. Dall’occupare l’ultimo posto
nella gerarchia delle attività umana nell’antichità, il lavoro passa
ad occupare un posto intermedio nel medioevo, e, infine, il posto
preminente nell’età moderna. La «società basata sul lavoro – osserva ancora Arendt – conferisce alla forza-lavoro lo stesso valore
più elevato che riserva alla macchina», cioè all’opera dell’homo
faber (Arendt 1958, 116-7, IV.22). Tuttavia, solo apparentemente
è una società più umana, perché più apprezzato del lavoro è «lo
sfrenato funzionamento della macchina» e, sulla base del parametro della macchina-utensile, sono valutate le stesse prestazioni
del lavoratore, apprezzate le sue qualità, stabiliti i suoi compensi.
Lo sviluppo ulteriore, che nemmeno Babbage avrebbe forse immaginato in tutta la sua fantasia (Babbage 1832)17, è l’elaborazione di algoritmi che simulano prezzi-valutazioni laddove non si
può nemmeno incontrare domanda e offerta, se non in forma potenziale o piuttosto virtuale, in fictio18. Ciò che dà valore alle cose
non è il lavoro. Arendt, anche a tal riguardo, prende le distanze
dagli economisti classici, e in primo luogo da Marx. Il mercato e
gli artifici di mercato sono luoghi in cui le cose e i prodotti d’opera si presentano e sono più o meno acclamati da un pubblico
opportunamente “preparato” all’evento da battage pubblicitari,
per mezzo dei quali creare gli pseudo-bisogni che costituiscono
la «falsificazione della vita sociale» di cui parla Debord (1997,
Questo E-book appartie
Schumpeter, nella sua Storia dell’analisi (1954, 656n. [III, cap. V.3]), giudica Charles Babbage (1791-1871) – ideatore di una delle prime macchine programmabili – «uomo notevole», uno dei successori di Newton nella cattedra di
matematica a Cambridge, scrittore versatile in varie discipline e «anche economista di vaglia», per la capacità di teorizzazione delle moderne organizzazioni
di fabbrica; «egli – aggiunge – eccelse nella concettualizzazione».
18
Sulla macchina per governare attraverso algoritmi, ratios, e misurazioni
di prestazione v. Supiot (2015).
17
Parte I - La categoria del moderno
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par. 68)19. Il valore di mercato per Arendt è un valore relativo «della proporzione esistente tra quella merce e un’altra» (Arendt 1958,
118, IV.22). L’idea di un confronto tra merci rende tutte le valutazioni molto incerte, come succede massimamente in borsa, dove tutti i
“valori” sono tra loro beni assolutamente fungibili e il valore di un
titolo è “fatto” dal valore degli altri titoli attraverso gli spostamenti
di preferenze che si formano sulle previsioni di prezzo, sullo spostamento di fondi da titoli ritenuti in ribasso verso titoli reputati in
rialzo. Per Locke il valore di mercato non ha nulla a che fare con un
valore intrinseco a ciascuna merce, bensì il «prezzo di ciascun genere cresce, o scema in proporzione della sua quantità paragonata
col suo smercio»20. Il riconoscimento della distanza tra valore d’uso
e valore di scambio è il riconoscimento di un’evidenza nell’economia di mercato e Locke non è indotto, come saranno gli economisti
dopo di lui o i filosofi prima di lui21, ad andare alla ricerca dell’arcano che tenga insieme e, possibilmente, uniti i due concetti di valore
e prezzo (vedi par. 13.3)22. Per lui, come per ogni mercante, il valore
dipende quindi dalle instabili valutazioni di coloro che effettuano
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Per Debord, gli pseudo-bisogni imposti ai consumatori e un’abbondanza di merci inusitata nella storia dell’uomo, che, insieme, costituiscono un “artificiale” sempre più illimitato, rompono lo sviluppo organico dei bisogni sociali,
rendono il desiderio vivente del tutto disarmato e impossibilitato ad essere autentico e, quindi, falsificano la vita sociale.
20
Dalla parte iniziale del cap. XX p. 73 delle Considerazioni sulla riduzione
degl’interessi della moneta, nella prima traduzione italiana di Some Considerations of
the Consequences of the Lowering of Interest and the Raising the Value of Money del 1691
in Locke (1751). Per l’opera criticamente annotata: Locke (1991).
21
Nel medioevo i teorici della Scolastica, teologi-economisti, non avevano
un’idea del valore di scambio, tutto il valore era determinato dell’utilità, intesa
però come misura di soddisfazione dei bisogni umani secondo il detto di Buridano: valor rerum aestimatur secundum humanam indigentiam. La nozione di “giusto
prezzo” aveva a riferimento un metro “oggettivo”, già definito da Aristotele, in
termini che oggi potrebbero essere espressi in calorie minime di sopravvivenza.
Cfr. Schumpter (1954, 114-6 [II, 4.b]).
22
Almeno da un punto di vista di vendite librarie, pare che gli studi di
psicologia delle emozioni e delle intenzioni, rivelate attraverso l’osservazione di
gestualità e segni non verbali, abbiano un certo successo nel mondo degli affari
(di chi li scrive almeno), che trae vantaggio dalle tecniche di comunicazione per
comprendere e scoprire quello che in economia è il prezzo di riserva; cfr. ad esempio il prontuario di un noto speaker acclamato come “psicologo d’affari”: Johnson
(2019).
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gli scambi. E anche per le merci il prezzo è molto erratico come
quello dei corsi di borsa (Arendt 1958, 119, IV.22)23.
4.3. Mercato come bilancia sociale di giustizia
La gente nova e i sùbiti gudagni | orgoglio e dismisura han
generata, | Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni. (Dante,
Inferno, canto XVI)
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È infallibile conseguenza di tutte le professioni attive promuovere la frugalità e far sì che l’amore del guadagno prevalga su quello del piacere. (Hume 1742, 709)
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le tecniche che derivano dalla magia risultano avere […]
origini indirettamente religiose. Inoltre il valore economico è una specie di potere, di efficacia, e noi conosciamo le
origini religiose dell’idea di potere. La ricchezza può conferire del mana […] l’idea di valore economico e di valore
religioso non devono essere prive di rapporti. Però quale
sia la natura di tali rapporti non è stato ancora studiato.
(Durkheim 1973, 417n.)
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Il mercato è considerato come luogo convenzionale, astratto più
che fisico, dove le merci trovano misura e i prezzi sono nobilitati
dalla continua (o sufficientemente ampia) reiterazione di contratti
indipendenti tra coppie di soggetti (le controparti di venditori e
compratori) che non si conoscono. È appunto la pluralità di contratti autonomi che forma prezzi “giusti”, cosa che, invece, lasciava
sempre molti dubbi quando il prezzo era il risultato di contrattazioni singole, sporadiche, tenute in luoghi non pubblici, né sorvegliati, e in condizioni tali che tra le stesse parti non si poteva
presumere un “equilibrio” di peso contrattuale, ovvero una delle
due parti spesso si trovava in condizioni oggettive di bisogno e
quindi senza autentica capacità contrattuale. Un punto di forza
dell’arte del mercante è quello di non acquistare o vendere in stato
di necessità, ma poter sempre avere il “fiato lungo”, e di resistere
e rinviare gli affari quando non conviene concluderli. La teoria del
“giusto prezzo” è considerata spesso un principio morale senza
alcun fondamento economico. Schumpeter, però, nel commenta-
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Cfr. sul tema del valore Orléan (2014).
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Questo E-book appartiene a roffis
re il concetto di giusto prezzo in Tommaso d’Aquino, accosta la
quantitatis valoris, valore “oggettivo”, metafisico, immutabile di
prezzo, addirittura al «prezzo di concorrenza» distinto dal «prezzo
pagato in una transazione particolare e il prezzo che “consiste” nella “valutazione della merce fatta dal pubblico”»24. Tuttavia, a ben
guardare, il fondamento per il problema del “giusto prezzo” c’era
ed era solido, se si considera che in epoche pre-moderne (o preindustriali) le attività di scambio erano rarefatte, effettuate principalmente su beni di prima necessità, in luoghi non integrati, dunque
con sensibili differenze di prezzo da una piazza all’altra anche per
le merci che più di altre erano oggetto di frequenti negoziazioni,
spesso con contratti stipulati da una parte “forte” nei confronti di
una controparte “debole” perché indebolita dal bisogno umano di
sopravvivenza, o anche dalla necessità e urgenza di vendere per
la medesima esigenza. L’estensione e l’irrobustimento dei mercati
contribuì però a “espropriare” il ruolo di metro di valore che era attribuito al “bisogno umano”, limitato in senso stretto ai soli beni di
consumo, ed esteso a misura di giustizia commutativa tra le parti.
Raggiunte condizioni adeguate di volumi e frequenza delle transazioni, il mercato si elevò a dispositivo universale d’ordine economico e sociale. Un dispositivo che restava ambiguo, controintuitivo
come metro di giustizia, dato che il prezzo era fatto da tutti e da
nessuno, saltava fuori sulla pubblica piazza, aperta al confronto di
merci e prezzi, e in condizioni che non lasciavano quartiere a giochi
d’astuzia mercantile, cioè di conoscere la(e) controparte(i) per cogliere con opportunismo il momento più vantaggioso a vendere o a
comprare25. Insomma, se valeva l’adagio vox populi, vox dei, perché
non poteva valere quello di vox mercati, vox dei, dove le voci erano
quelle dei prezzi gridati dai mercatanti per attrarre clienti?26
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24
Schumpeter (1954, 114 [II, 4.b]). Nella frase tra virgolette Schumpeter
traduce: «justum pretium … in quadam aestimatione consistit» che ritiene non possa
significare altro che «prezzo normale di concorrenza».
25
Anche in questo caso, con la Melancholia di Dürer – sulla quale ci soffermeremo nelle pagine seguenti –, si potrebbe rinviare alle astuzie relazionali nelle
numerose raffigurazioni pittoriche dei secoli XVI-XVIII riguardanti bari al gioco,
arti divinatorie sulla “buona ventura”, fino agli imbonitori di Gianbattista Tiepolo.
26
Occorre ricordare che le contrattazioni “alle grida”, proprie delle borse
valori e merci prima di diventare telematiche, avvenivano dentro un recinto nel
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Lasciarsi dietro le spalle il problema del “giusto prezzo” non
era cosa di poco conto27. La sorpresa del mercato, un mercato aperto che aveva perso, in parte, la fisicità del luogo “di mercato”, per
acquisire l’astrattezza del concetto, costituisce per filosofi, teologi e
proto-economisti la constatazione di una sorta di rivelazione, l’ammissione di esser stati gabbati da un trompe-l’oeil, un inganno dei
sensi che preannunciava, nel piccolo mondo dell’economia, l’altro inganno dei sensi, ben più eclatante, e che stava rimescolando
le cognizioni sul cosmo. Anche il piccolo libro dell’economia era
scritto in caratteri matematici e in numeri sensati (quelli sì) come il
gran libro dell’universo. In economia non si corse così in fretta nel
decifrarne i caratteri e le leggi come avvenne con la rivoluzione copernicana-galileiana; occorse ancora almeno un secolo per vedere
gli albori di una scienza minore che emulava la maggiore.
Nella società mercantile, e soprattutto per i suoi teorici (economisti), il problema e la «fonte profonda di disagio» – come ricorda Arendt – sono rappresentati dal «fatto che [l’]homo faber, la
cui intera attività è determinata dall’uso costante di metri, misure, regole e criteri, non poté sopportare la perdita delle misure
“assolute”» (Arendt 1958, 119, IV.22). La nozione di giusto prezzo
fu sottoposta, fin dalla cosiddetta seconda Scolastica, a un attacco vigoroso e, forse, senza precedenti, per un concetto-guida di
carattere profano, ma che aveva incamerato un denso spessore
morale e religioso, ancorato in un lontano passato. Nondimeno
è comprensibile che agli albori dell’età moderna il concetto moralmente robusto di giusto prezzo attraesse su di sé tutti i fulmini
polemici di parte laica, e anche religiosa, e ciò a segnalare quanto
quel punto fosse nevralgico, prima, forse, che fossero sferrati altri
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quale si riunivano gli intermediari autorizzati, agenti di cambio e altri, per gridare le rispettive proposte di acquisto e di vendita su quantità specificate di titoli
e merci. Dai contratti “chiusi” si giungeva finalmente alla fissazione del prezzo
ufficiale di ogni merce e titolo. Tutte le altre negoziazioni effettuate fuori della
“corbeille” erano da considerarsi private. Sulla questione v. Garruccio (2004). Le
grida anche nei mercati di prodotti agricoli in età moderna erano considerate una
forma di trasparenza e lealtà. Economisti e antropologi moderni si sono a lungo
contesi sulle ragioni del silent trade presso popolazioni arcaiche; v. Grierson (1903);
e, per una rassegna più aggiornata, Dolfsma e Spithoven (2008).
27
Sul giusto prezzo e la «communis aestimatio in foro» v. Prodi (2009).
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Parte I - La categoria del moderno
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attacchi del genere ad altri aspetti del mondo antico e medievale,
per aprire un varco all’incipiente processo di secolarizzazione. La
modernità, si può dire, venne tenuta a battesimo con la battaglia
ideologica per detronizzare il giusto prezzo. L’altro punto non
meno sensibile e importante era quello del tasso d’interesse e della polemica sull’usura28.
La misura assoluta, che era quella del bisogno, aveva come
parametro fondamentale il povero, il bisogno del povero. Per
quanto anche quella misura fosse “storicamente” relativa – è
quanto osservò Marx per la nozione di “salario minimo di sussistenza” – era comunque sempre un criterio fondamentale di
benessere; non un benessere fondato sull’efficienza tecnologica e
produttiva, ma un benessere da garantire a ciascuno secondo la
sua partecipazione al mondo, alla sua comunità di appartenenza.
Il prezzo “giusto” appariva, con la modernità, essere così
quello fissato sul mercato, consacrato dalla continua e volontaria licitazione di domande e offerte multiple nel nuovo santuario
della modernità. Cristo li aveva cacciati dal tempio, ma i mercanti
ne crearono uno nuovo molto più imponente, dal quale cacciare
le dottrine etiche con la benedizione delle nuove teologie secolarizzate sub specie oeconomia.
Lo sconforto, il «profondo disagio», sopraggiunse tuttavia
ben presto, per la difficoltà nella ricerca di una misura delle misure, una misura invariante, che reinsediasse un monoteismo
valoriale in un mondo politeista di merci. Per Supiot (2005, 31)
l’immagine dello sconforto moderno è l’incisione della Melancholia II di Dürer, al centro della quale un angelo spaesato e assorto,
contornato da una babele di strumenti di misura, resta inerte e,
forse, confuso. Aggiunge Supiot:
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Il nihilismo giuridico e il fanatismo religioso non sono che le due facce
della stessa tentazione e si nutrono oggi l’uno dell’altro, lasciando insoddisfatto il debito di senso delle nuove generazioni rompendo così gli argini
della violenza. Il Diritto non è l’espressione di una Verità rivelata di un Dio
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La letteratura sull’usura è sterminata, ma si possono rileggere i classici
Dempsey (1948) e Nelson (1967 [1949]). Importante e accurato il recente lavoro di
taglio giuridico di Luisa Brunori (2015).
4 - L’ordine del mondo
101
o la scoperta della Scienza; è piuttosto un dispositivo che potrebbe essere
giudicato alla luce dell’efficacia (efficacia per chi?). Come gli strumenti di
misura della Melancholia di Dürer, serve ad approssimare, senza mai raggiungere una rappresentazione giusta del mondo. (Supiot 2005, 31).
Se l’angelo di Dürer resta sospeso tra una perdita di bussola etica e un mondo realmente senza misura, disorientato, paradossalmente, per il fatto di averne troppe a disposizione, non
mancano, dopo quella, altre opere che, tuttavia, non tardarono a
celebrare l’amor borghese per la precisione della partita doppia e
per l’accumulo di denaro29. Il “denaro” ha perciò rappresentato il
bisogno di stabilità di una misura e di un denominatore comune
per i valori di merci e servizi30.
Con l’avvento del capitalismo mercantile, l’economia si caratterizza sempre più per essere un’economia di mercato, nella quale il mercato si impone come il dispositivo più adatto a stabilire
la giustizia commutativa. È giusto quel che risponde al principio
di reciprocità31 e quando la cosa giusta è giusta per tutti (Rigotti
29
Il termine “denaro” ha qui il significato generico di ricchezza e non tanto quello di moneta. Peraltro, Turri (2009) intravede uno spessore “ontologico”
nel denaro quale espressione “astratta” delle monete “concrete”, queste ultime
incarnazioni (metafora metafisica e religiosa quasi d’obbligo) e rappresentanti
imperfette e transitorie del loro concetto idealizzato (nella caverna platonica sta
il “denaro” le cui ombre sono le varie “monete”). È di un certo interesse la tesi
di John R. Searle del denaro come entità posta dall’intenzionalità sociale a delegarlo come tale e quella di Maurizio Ferraris che sottolinea la documentabilità,
registro contabile di valore per la società; v. i loro saggi in Searle e Ferraris (2018).
L’ostinazione a usare un linguaggio differenziato rispetto al denaro nei filosofi
“continentali” è forse dovuta al mantenimento di saldi legami con una tradizione
di differenziazione anche linguistica delle concezioni “monetarie”, che va dalla
teoria del denaro in Marx alla filosofia del denaro di Simmel. Sul feticismo del
denaro in Marx si rinvia a Dussel (2018, 108, 162-3 e 168).
30
Va aperta una parentesi su denaro e moneta; i letterati e i filosofi si ostinano a preferire il primo termine, ma in economia è ormai sostituito con il secondo. Qui manteniamo distinti i due termini, affinché ciascuno possa tradurre nella
propria lingua il concetto che intende meglio.
31
Il principio di reciprocità appartiene alla sfera etica, presente in molte
culture e religioni diverse, spesso definito anche come la “regola d’oro” (golden
rule); si distingue per due formulazioni (esattamente come il concetto di libertà), l’una in positivo (“fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”) e l’altra,
meno cogente, in negativo (“non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto
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Parte I - La categoria del moderno
1982, 27). Anche il mercato, come una bilancia, ha i suoi tempi
di taratura, per far corrispondere le indicazioni di scala con le
grandezze da misurare. E come bilancia complessa, in un mondo
di oggetti e valori continuamente variabili, tarare il mercato è un
processo continuo, istituzionale, storico, di messa a punto in un
contesto non affatto asettico, bensì sensibile alle interferenze di
coloro che possono trarre vantaggio da uno strumento di misura
alterato. Il metodo dell’asta, quando si afferma nel nitore di quella del banditore walrasiano32 e, latamente, nel funzionamento di
una borsa valori ben organizzata, è generalmente quello che mette a confronto i desideri dei vari soggetti, li “pesa” in pubblico, e,
infine, li valuta. Il prezzo, così vagliato, rappresenta, appunto, un
prezzo teoricamente “giusto”.
Lo strappo che comincia a farsi è, anche qui, tra antico e moderno e più precisamente è un distacco, di pratica e non solo di
“ragion pratica”, dalla ragione antica, anti-crematistica, per la
quale il giusto è definibile in assoluto e non in probabilità.
Il mercato, come “spazio dell’apparenza”, non è però più
quello di compravendite isolate in fiere e occasioni di mercato, né
si è avvicinato alla purezza walrasiana, ha bensì conosciuto, con
l’avvento dell’industria moderna, una mutazione e trasformazione rilevante per la presenza di imprese che hanno prima ingombrato e poi soffocato quello spazio, sottraendo ad esso contratti
e transazioni per internalizzarli nelle proprie strutture gerarchi-
a te”). Leibniz, nel suo interrogarsi sulla giustizia e la morale a partire dalle sue
riflessioni sul calcolo della probabilità e sui giochi, ipotizza un modo semplice per
applicare la “regola d’oro”: mettersi al posto degli altri, nel senso di scambiare la
posizione da cui si pensa, noi al posto degli altri e gli altri al posto nostro. Una
simile, ma più complicata, applicazione la propone Adam Smith nella Teoria dei
sentimenti morali quando formula la sua teoria dello spettatore imparziale.
32
Nel modello dei mercati secondo Léon Walras, l’equilibrio generale è
raggiunto quando tutti gli agenti economici massimizzano la loro utilità o il loro
profitto e in tutti i mercati c’è uguaglianza delle quantità domandate e di quelle
offerte. Ma per raggiungere questo equilibrio viene postulato un immaginifico
processo di ricontrattazione continua “a tentoni” fra gli scambisti, che è governato da un ipotetico “banditore”, la cui funzione consisterebbe nell’annunciare
i prezzi, valutare le domande e le offerte che si formano a quei prezzi, e quindi
nell’aumentare oppure nel ridurre i prezzi, a seconda che si verifichi un eccesso di
domanda o di offerta, fino al conseguimento dell’equilibrio su tutti i mercati.
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4 - L’ordine del mondo
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che e di comando. La piazza ha lasciato il posto a organigrammi
aziendali verticistici e chiusi. Il mercato resta soprattutto operante come spazio di attività finanziarie, cioè di diritti di proprietà e
di decisione, astratti e lontani dagli spazi reali della produzione.
In questo caso il mondo moderno ha approfondito una sua dicotomia tra “reale” e “finanziario”.
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Capitolo 5
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CREMATISTICA E ANTICREMATISTICA
(DA “ALLORA” A OGGI)
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5.1. La crematistica e la vita beata
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andando avanti a incrementare i propri beni, quanto più
stimano questi, tanto meno stimano la virtù. E non è forse
vero che la ricchezza e la virtù sono a tal punto differenti,
che ponendo ciascuna sui bracci della bilancia li piegano in
direzione opposta? (Platone 2009, 849 [VIII. 550e])
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si potrebbe ben presto andare così lontano da non cedere
a una inclinazione alla vita contemplativa […] Una volta
era tutto il contrario: era il lavoro ad avere su di sé la cattiva coscienza. Un uomo di buoni natali nascondeva il suo
lavoro quando le necessità lo costringevano a lavorare. Lo
schiavo lavorava oppresso dal sentimento di fare qualcosa
di spregevole. (Nietzsche 1882, 190 [329])
Rigotti, in un saggio già richiamato, definisce «principio di benevolenza» il postulato aprioristico dell’antica tradizione moralistica
per contrapporlo al «postulato di razionalità», avanzato da Cartesio e Leibniz, e dai moralisti inglesi del XVII-XVIII secolo, prima
ancora di affermarsi nell’economia politica. Accosta il metodo del
«gioco delle prospettive» di Leibniz, cioè di giungere a una valutazione mettendosi al posto degli altri, al panopticon di Bentham,
dove uno può “valutare” tutti gli altri perché vede ovunque, come
un dio ubiquo (Rigotti, 1982, 32). Il problema che sorge – osserva
ancora Rigotti – è lo sprofondare in un labirinto di specchi che
simula la pluralità di punti d’osservazione, ma rischia di perdersi
in un rimbalzo continuo di probabilità (si replica la malinconia
dell’angelo di Dürer come stato d’animo dell’impasse di decisione, per disorientamento della ragione) (Rigotti, 1982, 31). In fondo
il mercato realizza tutto questo – la “mano” resta “invisibile” –
purché tutti siano bien informés et bien éclairés (informazione “perfetta”, non distorta, e piena razionalità), altrimenti ci troviamo nel-
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la situazione keynesiana del casinò. La borsa valori in Keynes non
ha nulla di analogo col gioco degli scacchi: la scacchiera ha confini,
è divisa in caselle, sulle quali ogni pezzo si muove secondo passi
prevedibili; gli avversari (due) possono esaminare rapidamente le
mosse possibili e desumere la strategia dell’avversario e formulare la propria. Nulla di tutto ciò nel casinò-mercato che quasi giunge alla perfezione teorica in borsa1, nell’ipotesi mainstream della
perfetta efficienza di tale mercato e della conseguente perfetta
aleatorietà (random walk) dei prezzi di borsa dove la strategia potenzialmente vincente, con ampio campo d’incertezza, è quella di
prevedere quello che gli altri prevedono, cioè quali possano essere
le aspettative degli altri operatori circa il random walk futuro dei
corsi di borsa. Foucault parla di un mercato in libertà controllata
per sostenere interventi giustificati come «costo economico dell’esercizio delle libertà» e comunque per porre di nuovo il mercato
in condizione di essere lasciato nuovamente a se stesso (Foucault
2017b, 70). Il successo dell’arte di governo del neoliberalismo ordoliberale di ascendenza germanica è giustificato dall’esigenza di
stabilizzare la libertà di mercato dalle crisi (Foucault 2017b, 71-2).
Nel lessico ambiguo dei neo-ordo-liberali la libertà di mercato è il
vessillo da sbandierare per garantire soprattutto la libertà d’impresa. L’esaltazione della libertà d’impresa tuttavia non garantisce affatto la riduzione del “grado di monopolio” nei mercati e,
quindi, la difesa delle imprese medesime, nella misura in cui esse
si formano sottraendo contratti al mercato, può apparire una sottrazione di benessere e di sovranità al consumatore.
Ma, prima di esaminare tutto ciò, torniamo alla crematistica.
La crematistica era intesa come ragionamento sul mondo degli affari. Il termine crematistico, khrēmatistikós, derivazione di
khrēmatízō, “mi occupo d’affari”, è lo stile di vita di coloro che
sono presi negli affari, impaniati al punto da non poterne più
farne a meno. Arendt ricorda che Platone si scaglia contro il detto di Protagora che “l’uomo è la misura di tutti gli oggetti d’uso
(chrēmata), dell’esistenza di quelli che sono e della non-esisten-
Si tengano presenti comunque i vulnus alla perfetta previsione (perfect
foresight), come li mette in luce Baumol (2004).
1
107
za di quelli che non sono”, generalmente travisato in “l’uomo è
la misura di tutte le cose” (Arendt 1958, 113, IV.212). La parola
chrēmata sta a indicare specificatamente le cose d’uso, per bisogno o per possesso3. L’attacco di Platone si spiega appunto con il
fatto che non gli era sfuggito il fondamento affaristico-mercantile dell’“uomo” di Protagora e il pericoloso passo che poteva
essere compiuto tirandone le conseguenze. Infatti, se l’uomo è
misura di tutte le cose passibili di essere utilizzate, l’uomo strumentalizza il mondo in cui vive; è essenzialmente homo faber,
non uomo d’azione, che pensa, discute e fa. Non è più, cioè, il
modello di stile di vita del cittadino disinteressato a se stesso
e “interessato” al bene comune, impegnato nella comunità. Il
comportamento umano legittimato dall’uso, dalla possibilità di
strumentalizzare tutto come mezzo in funzione di un fine, porta
a conseguenze disastrose: la foresta – per aggiornare l’esempio
di Arendt – è sfruttabile come fonte di materie prime da vendere
e solo come tale, non più per la bellezza, per l’amenità del luogo
o altro ancora. L’uomo, da misura delle cose che dipendono da
lui, diventa misura di tutto l’esistente. Il detto, non autentico,
attribuito a Protagora, è precursore di quello kantiano: «se l’uomo è misura di tutte le cose, l’uomo è la sola cosa che sfugge
alla relazione mezzo-fine, il solo fine in sé» (Arendt 1958, 113,
IV.21). Così l’imperativo categorico kantiano: «è, dunque, uno
solo, e precisamente il seguente: agisci solo secondo quella massima che tu puoi volere, al tempo stesso, che divenga una legge
universale», o «potrebbe anche suonare così: agisci come se la
massima della tua azione dovesse, per tua volontà, divenire una
legge universale di natura» (Kant 1994, 123 e 125, sez. II). Merita
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5 - Crematistica e anticrematistica
Il detto «l’uomo “è misura di tutte le cose”» è attribuito a Protagora
nel Cratilo (Platone 2001, 137 [385-386]); in un passo successivo prosegue con le
seguenti parole di Socrate: «non è proprio di ogni uomo stabilire il nome, ma di
un artefice di nomi. E questo è, come sembra, il legislatore, che, tra gli uomini, è il
più raro degli artefici» (idem, 139 [388 E-389 A]). Nel Teeteto, il passo è: «Protagora
ha detto le stesse cose in un modo un po’ diverso. Dice, infatti, pressappoco: “Di
tutte le cose è misura l’uomo; di quelle che sono in quanto sono, di tutte quelle che
non sono in quanto non sono» (idem, 203 [152 A]).
3
Si veda l’esegesi che fa Arendt del detto di Protagora e del termine
chrēmata (Arendt 1958, 265, IV n. 23).
2
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Parte I - La categoria del moderno
riportare per intero il commento di Arendt che chiarisce meglio
il senso della critica platonica:
Platone sapeva bene che le possibilità di produrre oggetti d’uso sono
illimitate come i bisogni e i talenti degli esseri umani. Se si permette che
i criteri dell’homo faber pervadano il mondo finito come devono necessariamente presiedere alla costituzione di questo mondo, allora l’homo
faber si servirà di ogni cosa e considererà ogni cosa che è come mero mezzo per sé. Giudicherà ogni cosa come se appartenesse alla classe delle
chrēmata, degli oggetti d’uso, così che, per seguire l’esempio di Platone,
il vento non sarà più inteso nel suo giusto senso come forza naturale, ma
sarà considerato esclusivamente riguardo ai bisogni umani di calore o di
fresco – il che, evidentemente, significa che il vento come qualcosa di oggettivamente dato è stato eliminato dall’esperienza umana. È a causa di
queste conseguenze che Platone, il quale alla fine della sua vita richiama
ancora una volta nelle Leggi il detto di Protagora, replica con una formula
quasi paradossale: non l’uomo – che a causa dei suoi bisogni e dei suoi
talenti desidera usare ogni cosa, e quindi finisce col privare tutte le cose
del loro valore intrinseco – ma “dio è la misura [anche] dei meri oggetti
d’uso” (Arendt 1958, 113-4, IV.21).
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La frase di Platone, nelle Leggi, a cui Arendt si riferisce, enuncia: «Il dio è per noi misura di tutte le cose, e molto di più dell’uomo, come alcuni pensano» (Platone 2001, 1535 [716 C]). In questo
passo Platone riprende il detto di Protagora per sostituire “dio”
(ho theos) a “uomo” (anthrōpos) e prosegue dicendo: «colui che fra
noi è temperante è caro al dio perché gli è simile», perché segue
quella massima considerata «la più bella e la più vera delle massime. Per l’uomo buono, sacrificare e innalzare continue preghiere
agli dèi e offerte votive secondo le regole del culto, senza nulla
trascurare, corrisponde al modo migliore, più nobile ed anche più
efficace per avere una vita felice e pienamente all’altezza dei suoi
meriti» (Platone 2001, 1535-6 [716 D - 716 E]).
Nella graduatoria aristotelica degli stili di vita, i livelli bassi
sono quelli di coloro che conducono un’esistenza sottomessa al bisogno e priva di scelta. Il lavoro più vile è quello dello schiavo,
sottomesso all’obbedienza al suo padrone per procurare a lui e a se
stesso tutto ciò che è necessario per sopravvivere. L’artigiano gode
di una certa indipendenza, è consapevole di quel che fa, ma come
homo faber vive isolato nel proprio mondo. La vita del mercante,
non meno di quella delle altre figure lavorative, è in continuo af-
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5 - Crematistica e anticrematistica
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fanno, rivolta all’acquisizione e all’accumulo di ricchezze4. Il bios
politikos designa per Aristotele il regno della vita autenticamente
umana che si esplica nella praxis; la sua azione è rivolta al bello,
rappresentato da beni né appropriabili, né consumabili piuttosto
che da cose utili o necessarie. Solo tre attività sono libere, cioè indipendenti dal giogo delle necessità biologiche. Sono tali le attività
della politica, il senso degli onori e dell’immortalità delle grandi
azioni per il bene comune. Sono tali anche le speculazioni filosofiche (bios theoreticós) che sono svolte da coloro che si dedicano alla
ricerca fine a se stessa, e infine lo sono anche le attività di contemplazione delle cose eterne. Sono queste le occupazioni anticrematistiche. La protezione dell’oikos nel mondo antico è protezione di
quello che oggi si direbbe uno stile di vita, anche se è qualcosa di
più. Sini (2015, 101) definisce l’oikos in questi termini: «[a]nticamente né la terra né l’appartenenza a essa possono essere alienati.
L’oikos, la casa, è un possesso e un’economia comune, comunitaria,
ed è simbolo di vita eterna», cioè di pienezza esistenziale.
La crematistica è invece l’attività che i mercanti portano all’estremo. Essi, più di altri, praticano l’economia innaturale della ricerca dell’arricchimento fine a se stesso, con mezzi che non sono
quelli degli agricoltori che raccolgono quel che hanno mietuto, né
degli artigiani che trasformano con le loro mani e il loro ingegno
materie in oggetti d’uso. I mercanti prendono quel che altri hanno
fatto per scambiarlo con altri beni e contro denaro. Il mercante si
porta dietro qualcosa di più del marchio d’infamia che accomuna
tutti coloro che non fanno parte della polis. Egli è l’espressione
della distorsione della “buona vita”, cioè di quel che i filosofi greci, prima di tutti, costruiscono come categoria etica della virtù civica5. Pur tuttavia, il mercato è un’istituzione necessaria alla stesSugli affari-affanni v. Benveniste (1976, I, 108-9).
Platone fa declamare al filosofo sofista Callicle nel Gorgia un elogio delle
passioni sfrenate ideale di felicità: «o Socrate, per quella verità che tu dici di voler
perseguire, la cosa sta in questo modo: la sfrenatezza, la dissolutezza e la libertà,
se si trovano in condizioni a loro favorevoli, costituiscono la virtù e la felicità; tutte
queste altre cose non sono che orpelli, convenzioni degli uomini contro natura,
chiacchiere che non valgono assolutamente nulla» (Platone, 2001, 902 [492 C]).
In un altro passo del Gorgia Platone, in una discussione sulla giustizia, fa definire
a Socrate la crematistica in questo modo: «E qual è l’arte che libera dalla pover4
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sa sopravvivenza della struttura economica della società antica,
nella misura in cui l’agricoltura e le altre attività produttive della
polis non sono autosufficienti. Perciò il mercato è un luogo da tollerare, ma al tempo stesso da sorvegliare per evitarne l’invadenza
da “contagio” morale e sovvertimento del buon governo.
Nella tassonomia platonica delle città ingiuste, il degrado inizia con la timocrazia, o Città del coraggio e dell’onore, ipocrita e
menzognera, resa instabile dall’ambizione; ma subito dopo la corruzione prosegue e si scatena nella Città del denaro, nell’oligarchia
di coloro che non solo sono assillati da vanagloria ma anche da sete
di arricchimento. Si scende ancora più in basso con la democrazia,
o Città del disordine e dell’arbitrio. Al fondo di tutto sta la tirannide, o Città della bestia, della perversione totale, devastata dal delitto e dalla paura. Nell’abisso a spirale non si perde nulla dei livelli
precedenti: alla fine tutto tiene: i mali si accumulano, non si elidono. La Città del denaro è uno scalino particolarmente pericoloso
per lo scivolamento progressivo verso il basso. È dominata dalla
plutocrazia avara, avida e senza scrupoli. In essa la scala dei valori
è invertita e la ricchezza occupa il primo posto: «virtù e denaro
hanno immenso divario» (Koyré 1996, 90-2). La città sana è una
città né troppo piccola né troppo grande, relativamente povera, ma
autosufficiente. Sini chiama “teorema di Mandeville” quel punto
di rottura per cui si passa dalla comunità frugale retta dalle virtù
dei meriti alla società opulenta retta dai vizi umani.
La virtù civica si manifesta nelle piccole comunità, in cui solidarietà e virtù private sono necessarie per creare e mantenere
prosperità, come accade nelle piccole città-stato, ma quando le dimensioni pubbliche aumentano e lo Stato diventa grande, la virtù
non ha più lo stesso potere e, anzi, il vizio dell’accumulazione del
denaro e di servirsi di eserciti mercenari e di funzionari stipendiati
è la leva della prosperità: i vizi privati e la corruzione endemica
sono gli strumenti per avere un’economia prospera (Sini 2015, 90).
tà? Non è produrre ricchezze?» (idem, 890 [477 d]), accostando, subito dopo, alla
crematistica l’arte del medico per la cura della malattia, e, infine, assegnando al
giudice quella di guarire dall’ingiustizia. In questo modo riconosce però solo una
funzione sociale al mercante che l’esercita, senza però nulla più di questo. Sulla
posizione di Callicle v. Gastaldi (2003, 33-5).
5 - Crematistica e anticrematistica
111
5.2. Ancora su economia antica e moderna: le visioni storiche
Niente turba uno Stato come l’innovazione: il solo cambiamento dà forma all’ingiustizia e alla tirannia. (Montaigne
2012, 1777 [libro III, IX])
Esistono però uomini rari che preferiscono morire piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza il piacere di lavorare
[…] A questa rara specie di uomini appartengono gli artisti
e i contemplativi d’ogni genere, ma anche quegli oziosi che
passano la vita a caccia, nei viaggi o in amoreggiamenti e
avventure. Tutti costoro vogliono lavoro e ristrettezze in
quanto sono connessi col piacere, e anche il lavoro più difficile e più duro, se così dev’essere. Altrimenti, sono di una
pigrizia ostinata. (Nietzsche 1882, 68 [42])
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Come abbiamo già visto, il pensiero sociale ed economico antico
ha un comune modello antropologico per l’economia e la società.
Aristotele stabilisce più classi antropologiche, prima ancora che
sociali, di vita activa. Arendt è, forse, uno degli ultimi pensatori, insieme a Foucault, ad aver rilanciato una visione della società contemporanea e moderna secondo paradigmi aristotelici
e classici (Forti 2006, XXII-XXIII; Villa 1996, 3-5, 42-3). Le diverse
antropologie definiscono “economie” diverse tra loro per funzionamento e, allo stesso tempo, parallele perché coesistono relativamente isolate, dato che non si contagiano nonostante i molti punti
di contatto che si stabiliscono tra loro.
La grande dicotomia fra antico e moderno contiene altre dicotomie con caratteri alternativi che contraddistinguono le economie del passato da quelle capitalistiche. Gli economisti contemporanei appartenenti al mainstream focalizzano la loro attenzione
su concetti di crescita che smorzano le discontinuità e i break strutturali facendoli passare per rallentamenti e shock casuali esterni.
Nelle posizioni più radicali, tali economisti negano la legittimità
di fare distinzioni fra sistemi economici; in quelle più moderate,
prevale il disinteresse a interrogarsi su aspetti di strutture sociali complesse e “organiche”, che non siano strettamente legate a
problemi di differenze di gradi e di intensità tra grandezze economiche osservabili; in ogni caso, le differenze nelle grandezze
economiche vengono fatte risalire all’interferenza della persistente forza repressiva e – per usare una metafora manzoniana – delle
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Parte I - La categoria del moderno
“grida” di autorità che gettano sabbia negli ingranaggi dell’economia al solo scopo di garantirsi rendite di posizione. Per questi
economisti, il capitalismo – quale sistema complesso e organico –
non è più definibile come tale, proprio perché non è più opponibile a sistemi alternativi o antecedenti. Insomma, per loro, il capitalismo è, in realtà, soltanto l’unico sistema economico esistente
e possibile, e quindi inutile come categoria a sè stante. Come
svanisce lo stesso concetto di capitalismo, identificato tout court
con “economia”, svaniscono concettualmente anche altri sistemi
e restano solo scambi e prezzi osservabili, indipendentemente
da quanto siano rappresentativi e dalle caratteristiche della loro
formazione. Una volta liberati e scatenati gli istinti utilitaristici,
tutto si riduce a spiegare le differenze nelle varie economie ‒ per
esempio una produzione fatta in maniera diversa e un consumo
composto di cose diverse ‒ soltanto attraverso l’incidenza di cambiamenti tecnologici, miglioramenti organizzativi, miglior definizione e razionalizzazione. Quel che questi economisti osservano
è una “corsa” verso la frontiera dell’efficienza, sempre spostata
in avanti dall’innovazione tecnologica, ma verso la quale impreQuepensando che solo le più
se ed economie cercano di avvicinarsi,
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efficienti riusciranno ad accostarsi il più possibile.
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dello sviluppo economico, secondo loro, è quello di consentire
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un seme e a un virgulto ‒ quelli del mercato e della tecnica ‒ di rtiene
maturare e passare da uno stato embrionale a uno più compiuto. Viste così le cose, allora non c’è più bisogno di analizzare le
economie antiche con un metro diverso da quelle moderne. Tutte
sono uguali, tutte hanno, nel tempo e nello spazio, un solo carattere, lo scambio di mercato. In alcune, questo si è evoluto bene, in
altre meno. Allora, in questa ottica “monoteista” in cui solo quel
carattere conta, le grandi dicotomie scompaiono, diventano “piccole”, insulse, perché le differenze rilevanti sono, invece, quelle
tra economie con scambi male organizzati ed economie avanzate,
che invece hanno diritti di proprietà definiti e garantiti, e, di conseguenza, mercati che funzionano bene, in maniera più efficiente,
e offrono opportunità di investimento e di guadagno agli agenti
capaci di coglierle.
Questa visione della storia, e dei sistemi economici ridotti a
unico sistema uguale per tutti i tempi e per tutti i luoghi, riaf-
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5 - Crematistica e anticrematistica
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fermatasi prepotentemente negli ultimi decenni, ha una lunga
tradizione, che risale almeno agli albori della scienza economica.
Già nel XIX secolo molti economisti, specialmente minori ma non
meno influenti, si disaffezionarono nei confronti delle prospettive storiche, se non per fini aneddotici. Le specializzazioni disciplinari e gli affinamenti degli statuti metodologici in un campo
e nell’altro (cioè, storia ed economia) contribuirono a innalzare
barriere e a orientare le discipline verso specialismi e tecnicismi.
Per imporsi come scienza, l’economia non poteva coltivare dicotomie (o, peggio, pluri-tomie) nel proprio seno. La salvaguardia
di un’unità di statuto scientifico sacrificava storicismi ritenuti
teoricamente deboli. Mentre in molte scienze sociali, la modernità è un asse di senso e mantiene una dignità analitica centrale,
salvando così, insieme alle nuove, le categorie “antiche” e i loro
paradigmi, in economia le cose sono andate in senso opposto e
molte scuole – vedremo in particolare quelle neoliberali – hanno
decisamente respinto un doppio, o plurimo paradigma, per riaffermarne uno solo: quello coincidente con l’economia di mercato,
col capitalismo maturo.
La grande dicotomia tra economie antiche (precapitalistiche) ed economie moderne (capitalistiche o di mercato) ha allora fondamento se si riconosce un ruolo alle istituzioni e alla
loro dimensione storica e politica. La questione si sposta così
sul terreno istituzionale e nel corso del XX secolo la polemica
inizia lentamente a coinvolgere le istituzioni. Anche sulle istituzioni si ripropone una grande dicotomia, per quanto spesso
non riconosciuta come tale. Si prendano le istituzioni intese secondo il paradigma del “vecchio” istituzionalismo di Veblen e
di altri e si mettano a confronto con le istituzioni intese secondo
quello che si è affermato successivamente con l’impostazione
della moderna economia neo-istituzionalista di Coase, Williamson e North: quel che emerge sono appunto divergenze inconciliabili. L’istituzionalismo di “vecchio” stampo, come corrente
di pensiero dai molti innesti, si formò nel corso della seconda
metà del XIX secolo per insoddisfazione e reazione nei riguardi
dell’approccio neoclassico che si stava affermando in economia.
Le scuole istituzionaliste, da allora, sono state molte, spesso divise su aspetti fondamentali e diversamente caratterizzate an-
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che in base a orientamenti culturali nazionali. Qui prendiamo
a riferimento il pensiero di un solo rappresentante, Thorstein
B. Veblen, uno dei maggiori esponenti con un approccio di critica radicale ai fondamenti utilitaristici del pensiero economico
neoclassico e socialista, entrambi ritenuti prigionieri di schemi
teleologici, di “leggi naturali” avulse da ogni analisi del concreto funzionamento dei fattori istituzionali che influiscono sui
processi storici, quali gli “abiti mentali” che condizionano il
comportamento economico e sociale degli individui. Nelle società moderne sopravvivono, come Veblen mostra, tra l’altro, ne
La teoria della classe agiata (1899) – il suo testo più noto –, elementi e istinti di società «barbariche» e primitive, come istinti
rapaci di rapina e di saccheggio, gli stessi che Veblen riscontra
trasformati e affinati nelle vocazioni speculative della finanza
moderna e del mondo degli affari in genere. Queste tendenze
del capitalismo affaristico-finanziario (v. Veblen 1904) entrano
in conflitto con la tradizionale attitudine alla creatività artigianale finalizzata alla perfezione del manufatto, all’accumulo di
conoscenze tecniche, che in Veblen è tuttavia un’inclinazione
lontana dalla morale del lavoro puritana di Benjamin Franklin
e, invece, – come sottolinea Bairati (1981, 17) – è ispirata alla
concezione del lavoro rappresentata dalla «figura dell’operaio
ingegnoso e del filosofo artigiano» della Ricchezza delle nazioni
di Smith. Veblen evidenzia una dicotomia che distingue tra due
tipi di istinti, l’istinto all’operosità, promotore di progresso tecnologico, e gli istinti barbarici del consumo per ostentazione e
della predazione finanziaria; i due tipi di istinti sono nettamente
contrapposti e il secondo ostacola sempre il primo.
L’homo oeconomicus, perfezionato dall’economia neoclassica
come macchina progettata per seguire razionalmente istinti utilitaristici, è per Veblen un’astrazione metafisica che non tiene conto
di istinti tribali, né delle strutture istituzionali che condizionano
i comportamenti sociali. In Veblen l’istituzionalismo ha una valenza di critica radicale all’approccio “economicistico”. In questa
sede non è tanto importante stabilire quanto Arendt possa aver
attinto da Veblen; entrambi guardano alla tecnica moderna come
risultato di un processo storico-culturale e, pur con categorie diverse, confrontano il moderno all’antico. Si può inoltre osservare
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che Veblen è uno dei pochi autori, tra sociologi ed economisti, a
essere citato in due passaggi di Vita activa.
La dicotomia vebleniana, qui sopra accennata, ci sembra rilevante come un altro modo di guardare alla dicotomia presente
nella Vita activa tra azioni che hanno come teatro le istituzioni, e
che contribuiscono a creare e a mantenere, e le attività di coloro che sono schiacciati dal giogo del lavoro o dalle incombenze
dell’opera. Non si deve nemmeno dimenticare che all’epoca in
cui scrivono, non solo Veblen, ma anche Arendt, era quasi un luogo comune distinguere comportamenti sociali ed economici fra
epoche storiche caratterizzate da strutture istituzionali profondamente diverse e, per molti aspetti, antitetiche. Anche economisti
che non avevano un atteggiamento critico, o tantomeno di repulsione, verso l’economia neoclassica riconoscevano e condividevano impostazioni istituzionali di quel genere, cioè storicizzate.
Un esempio per tutti è il libro, troppo spesso dimenticato, di John
Hicks, Una teoria della storia economica (1969), ma altri esempi non
mancano. Come vedremo meglio (nella II e III parte), in quegli
stessi anni fu messo a punto l’attacco più coerente e integrale,
sferrato da Hayek e da altri esponenti di rilievo di scuole e club
del neoliberalismo, contro lo storicismo in genere (la “miseria dello storicismo”) e contro quel modo di intendere le istituzioni. Essi
si richiamavano ai fondamenti di pensiero della scuola austriaca,
che con Carl Menger in particolare, avevano fatto una distinzione
netta tra istituzioni «sociali», cioè spontanee, e istituzioni statali,
cioè artificiali e politiche (Menger 1892, 255). Oltre a negare ogni
fondamento scientifico all’analisi storica, per sostenere l’individualismo metodologico6, il programma neoliberale, sempre con
Hayek, precisò alcuni punti di distacco dall’impostazione della
scuola neoclassica e specialmente riguardo al concetto walrasiano
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Con “individualismo metodologico” si indica un paradigma, secondo il
quale un fenomeno sociale dipende sempre da cause individuali; per esempio in
economia ogni fenomeno va spiegato con le azioni, le credenze e i comportamenti
degli individui. Menger, che ne è il primo ispiratore, parlava anche di atomismo,
per indicare appunto che la società è composta di tanti individui da intendere
singolarmente come atomi e solo essi sono i soggetti da considerare per spiegare
ogni fenomeno sociale.
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di equilibrio economico generale, che – come avremo modo di accennare – viene criticato per non aver tenuto in conto il problema
delle dispersioni di conoscenza in un mercato atomistico. Ma il
punto principale e la risultante intellettuale di tale programma
erano quelli di delegittimare teoricamente ogni diversità sostanziale tra le società e tra le economie; infatti, a causa dell’assunzione che solo gli individui singolarmente agiscono e interagiscono
tra loro, ogni tentativo di dedurre da ciò comportamenti sociali, o
di gregge (aggregati per “classi” o “nazioni”), e a maggior ragione tendenze della storia, risulta privo di ogni fondamento scientifico a causa della arbitrarietà analitica dell’aggregazione (individuata dalla logica come fallacy of composition). Le storie personali
valgono quel che valgono (sono materia di psicologia) e le storie
collettive sono prive di senso: questo il risultato di un combinato
disposto di fallacies.
Per ora rinviamo le questioni inerenti all’ideologia neoliberale e al ruolo di Hayek alla parte III; quel che invece qui ci
interessa constatare è l’emergere di un altro attacco ai fondamenti dell’istituzionalismo “classico”, che è indipendente e alternativo – specialmente in Veblen – al paradigma della teoria
economica neoclassica dell’individualismo metodologico. Tale
attacco può esser fatto risalire agli anni ’70 con l’emergere di un
filone di studi che aveva il suo precursore in Ronald Coase. Il
programma di ricerca era volto a trattare i fenomeni istituzionali non più come separati dai canoni analitici dell’economia,
ma sempre più orientato ad abbattere quella separatezza che
rendeva le istituzioni cornice esterna e condizionante dei comportamenti dell’economia, per considerarle invece prodotto dei
rapporti economici e della logica della domanda e dell’offerta di
beni; insomma, si trattava di applicare ai fenomeni istituzionali quella stessa logica che nell’economia neoclassica presiede e
guida ogni comportamento economico. L’operazione scientifica
e culturale mirava ad abbattere una dicotomia scomoda: quella
che divideva le istituzioni da una parte e l’economia dall’altra.
L‘obiettivo era il superamento della visione di un’economia incasellata entro un contesto istituzionale dato, e «storicamente
determinato». In questa visione, le istituzioni, intese come “cornice” dei rapporti economici, segnavano i confini interpretativi
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dell’economia, perché la inglobavano e la condizionavano, e anche perché i cambiamenti nell’economia sono frequenti e rapidi
rispetto alla resilienza delle istituzioni.
Un grande economista come Vilfredo Pareto era stato un teorico del modello istituzionale che i neo-istituzionalisti si apprestavano a demolire. Pareto – come sottolinea Bobbio (2005, 20 e
27) – considerava la sociologia come teoria unificatrice delle scienze sociali. L’intento dei neo-istituzionalisti era quello di invertire
l’ordine delle scienze sociali e rendere la teoria economica, nella
versione neoclassica, la teoria cardine di tutte le scienze sociali,
da rifondare sulle basi unificanti dell’individualismo metodologico. Pareto aveva introdotto una dicotomia netta distinguendo le
azioni logiche dalle azioni «non logiche». Le prime «consistono in
mezzi appropriati al fine e uniscono logicamente i mezzi al fine»
(Pareto 1978, 25 [II, 62]); quelle non logiche includono semplicemente tutte quelle in cui il rapporto tra il fine oggettivo e quello
soggettivo è “rotto”, non tiene, è spurio. La differenza è perciò
tra azioni comandate e condotte dalla «ragione» ed azioni sotto il
dominio del «sentimento» (Bobbio 2005, 21). Bobbio riporta una
lettera indirizzata a Pantaleoni nella quale Pareto scrive all’amico: «Persuaditi che la ragione vale poco o nulla per dare forma al
fenomeno sociale. Operano ben altre forze. Ciò vorrei dimostrare
nella mia sociologia» (cit. in idem, 19-20)7.
Pareto, come mostra Bobbio (2005, 42), resta estraneo al
«problema della natura del “sociale”, coi problemi connessi
della tipologia delle varie forme di società». La sua sociologia
«è prevalentemente un’analisi critica di ideologie» (idem, 43),
cioè di giustificazioni religiose, filosofiche, politiche e di altro
genere per azioni non logiche dettate dalle passioni. Ma, anche
per questo, Pareto, nonostante proponga una sociologia che non
pretende di costruire sistemi, e anzi schiva le generalizzazioni
e i concetti che tentano di raggruppare soggetti sociali, guarda
alla storia senza vedervi costruzioni artificiose volte a razionalizzare istituzioni in base a criteri economici ottimizzanti. La sua
sociologia mira ad analizzare le ciclicità storiche dei movimenti
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Ranchetti (2000, 210) insiste sull’idea metafisica di utilità in Pareto.
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sociali, dei gruppi politici, dell’alternanza tra governanti e governati, di élites che salgono, occupando le posizioni di potere
detenute in precedenza da altre élites che quindi sono costrette
ad abbandonarle: insomma una «circolazione» continua di élites
dominanti.
Veblen e Pareto esprimono, da basi diametralmente opposte,
due sociologie che, però, su alcuni aspetti non secondari presentano elementi di contatto. Veblen cerca di sbarazzarsi dell’utilitarismo economicista per comprendere, invece, i comportamenti
istintivi dell’uomo moderno, eredità di un passato ancestrale ancora vivo – sebbene in forme esteriori diverse – e le cui antiche
inclinazioni non possono essere tenute a freno. Pareto, nella sua
sociologia, va oltre le perfette razionalità che conferiscono ordine
e nitore alla sua costruzione economica. Per Pareto, mentre l’agire
economico risponde a razionalità, lo stesso non può dirsi dell’agire in altri contesti che sono poco, o per nulla, permeabili dal
calcolo economico. Sia Veblen che Pareto considerano la natura
“politica” delle istituzioni e dei meccanismi istituzionali. In entrambe le loro sociologie non c’è spazio per istituzioni tipo quelle
mengeriane, in cui vengono contrapposte le istituzioni “naturali”
e razionali a quelle “sociali” e politiche, ma le prime, se “liberate”, tendono a piegare le altre ai propri fini.
5.3. Le istituzioni al centro di grandi dicotomie
Qui su l’arida schiena | Del formidabil monte | Sterminator Vesevo | […] Dipinte in queste rive | Son dell’umana
gente | Le magnifiche sorti e progressive. (Leopardi, La ginestra, 177-178)
Che leggi vuoi che facciano i senatori? | Una volta arrivati
i barbari, saranno loro a farle. (Kavafis 2017 [Aspettando i
barbari])
Mentre, nel secondo dopoguerra, la mitologia mengeriana delle
origini della moneta faceva sempre più breccia nelle pagine dei
manuali di economia per introdurre le funzioni della moneta grazie alla sua semplice narrazione logico-evolutiva delle istituzioni
“naturali” (di cui la moneta era da considerarsi un esempio, vedi
5 - Crematistica e anticrematistica
119
parte II), molti studiosi battevano altre strade. Prendiamo qui in
considerazione solo due lavori, che ci sembrano rappresentativi
delle diversità culturali che contraddistinguono i loro autori e,
anche, dell’impatto avuto nei rispettivi campi di ricerca e fuori da
essi. Il primo è un innovativo saggio di Nicholas Georgescu-Roegen, che non pare abbia avuto sviluppi ulteriori nella letteratura
economica, l’altro è invece l’influente libro di Karl Polanyi, che
ebbe un discreto successo in ambito storico e antropologico con
un influsso su altri ambiti delle scienze sociali.
Nel 1960 usciva il lungo saggio di Georgescu-Roegen Economic Theory and Agrarian Economics. Ebbe una circolazione discreta nell’ambito degli studiosi di economia agraria, grazie anche a
traduzioni in riviste specializzate8, ma la risonanza non andò al
di là di quelle discipline malgrado alcuni importanti encomi, che
si persero col passare degli anni. Specialmente tra gli storici, il
saggio passò del tutto inosservato, in particolare anche tra coloro
che erano interessati alle questioni delle economie tradizionali e
della transizione verso economie capitalistiche, temi che animavano i dibattiti del periodo. Georgescu-Roegen, da studioso di teorie e filosofie scientifiche, era forse consapevole di tali difficoltà
quando scrisse: l’«atteggiamento di un’epoca […] è un fenomeno
tipicamente compatto, che reclamizza solo quel che gli piace, e
procede senza curarsi dell’autocritica espressa da una minoranza» (Georgescu-Roegen 1973, 51). Il suo contributo, inoltre, non si
apriva con parole concilianti né verso l’economia “classica” (oggi
si direbbe neoclassica), né verso le scuole di pensiero marxiste.
Gli economisti neoclassici non erano interessati alle economie
non capitaliste di cui, come i marxisti, attendevano la loro “maturazione”, partendo «da idee preconcette intorno alle leggi di
un’economia contadina» (idem, 159).
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In Spagna Teoría económica y economía agraria, fu pubblicato in «El Trimestre Económico», 34, 1967, n. 136-4, pp. 589-638; in Francia Théorie économique
et économie politique agraire, in «Économie rurale», 71, 1967, pp. 51-76. La prima
traduzione italiana è quella del 1973 a cura di Giacomo Becattini e qui presa a riferimento; una versione ridotta fu quella in Josling e Pasca (1981, 57-88). Maneschi e
Zamagni (1997, 696) dedicano solo un fugace accenno al saggio nella commemorazione per la morte di Georgescu-Roegen.
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Quali sono però gli aspetti di quel contributo che qui interessano? Innanzitutto, la definizione delle economie precapitalistiche e arcaiche come «economie di sussistenza», cioè economie
agricole caratterizzate da sovrappopolazione e in condizioni di
vita precarie (idem, 159). Per tali economie non è appropriato – secondo Georgescu-Roegen – applicare «una teoria economica che
descrive con successo […] il sistema capitalistico», poiché «le società umane variano nel tempo e nello spazio» (idem, 161). Come
sappiamo, la teoria standard si fonda su individui che seguono
impulsi edonistici e imprenditori che cercano di massimizzare il
profitto monetario. Ma per Georgescu-Roegen l’assiomatica delle teorie economiche moderne non è adatta a descrivere società
agricole sovrappopolate, senza diritti di proprietà definiti, né
mercati ampi e organizzati, né imprenditori che guidano i processi produttivi. L’«osservazione ancor più importante» di Georgescu-Roegen riguarda le istituzioni: «ciò che caratterizza un
sistema economico sono le sue istituzioni, e non la tecnologia che
usa. Se non fosse così non disporremmo più di alcuna base per distinguere il comunismo dal capitalismo, mentre d’altra parte dovremmo considerare il capitalismo di oggi e quello, per esempio,
di cinquant’anni fa, come sistemi essenzialmente diversi» (idem,
162). Sono le istituzioni a caratterizzare fondamentalmente un sistema economico. E per «realtà senza teoria», come quelle di tutte
le economie contadine sovrappopolate dei paesi sottosviluppati
e di quelle precapitalistiche, la griglia d’analisi di società industriali non può essere di alcun aiuto. Georgescu-Roegen aggiunge
un’osservazione importante: «regolare la produzione in base al
principio della massimizzazione del profitto è probabilmente la
peggior cosa che possa capitare a un’economia sovrappopolata,
perché determina un aumento del tempo libero non desiderato,
contemporaneamente a una diminuzione del prodotto nazionale» (idem, 197). L’obiettivo in funzione del quale erano per lo più
organizzate le economie precapitalistiche era tuttavia un principio razionale che mirava a salvaguardare la società dalla penuria
e dalle carestie e perciò si trattava di impiegare tutta la manodopera disponibile, anche per lavori poco produttivi, ma grazie ai
quali era comunque possibile aumentare il prodotto. Seguire il
principio della teoria della produttività marginale al fine di rea-
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lizzare il benessere ottimo avrebbe compromesso la sussistenza.
Per questo motivo Georgescu-Roegen giungeva alla conclusione
che né il capitalismo né la pianificazione socialista erano i sistemi
economicamente migliori per lo sviluppo di economie arretrate
con eccesso di popolazione (idem, 199).
Anni prima della pubblicazione del saggio di Georgescu-Roegen, senza lo stesso spessore teorico e analitico, ma seguendo
la stessa impostazione di fondo, era uscito il libro di Karl Polanyi La grande trasformazione (1944), incentrato sull’affermazione storica della moderna economia di mercato. Il libro è stato
considerato una delle maggiori opere nel campo delle scienze
sociali del XX secolo (Block 2003, 275). La tesi di fondo è che le
istituzioni liberali e, in particolare, il mercato erano il risultato di
una grandiosa utopia e di un’operazione ideologica per porre al
centro della società il mercato autoregolantesi. L’economia, che
era in precedenza “incassata” (embedded) nella società, regolata
secondo criteri stabiliti da essa e dalla politica, una volta svincolata da regole restrittive che limitavano il commercio e la ricerca
del profitto, finiva per sottomettere la società. Il mercato usciva
dai confini angusti dei mercati dei beni e sottometteva, con le
proprie regole, la terra, il capitale e il lavoro. Il concetto di embeddedness esprime l’idea della tradizionale non autonomia dell’economia e della sua dipendenza dalla società. Quel concetto, come
ricorda Stiglitz (2001, xxiii), è il più celebre contributo di Polanyi
alle scienze sociali e con esso si spiega, per converso, l’utopia
liberale di “disincassare” l’economia dalla società attraverso lo
sprigionamento delle forze di mercato, per poi lasciarle agire in
piena autonomia, con la conseguenza spiacevole di provocare la
grande depressione. Quel sistema di economia di mercato sfrenata e senza limiti era contrario al reale funzionamento di ogni
società umana.
L’opera di Polanyi ebbe una lenta gestazione, che può esser
fatta risalire agli anni precedenti alla prima guerra mondiale con
la partecipazione del giovane Polanyi al Circolo Galilei a Budapest, di orientamento radical socialista, nel quale si difendeva l’affermazione della libertà in ambito accademico e scientifico (Stanfield 1986, 4-5). La discussione sull’economia di mercato si accese
dopo che von Mises nel 1920 pubblicò un vero e proprio «ma-
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nifesto liberale», ribadito nel 1927, nel quale l’autentica tempra
liberale svelava esplicitamente le sue inclinazioni più profonde
laddove non mancava di esaltare il fascismo italiano per aver salvato nientemeno che la civiltà europea9. In quel contesto Polanyi,
che prese parte al movimento socialista cristiano, sia nel periodo
viennese che durante l’esilio londinese dopo il 1933 (Dale 2010,
39-44), maturò un’analisi del fascismo come attacco al socialismo
e alle sue radici morali e religiose, come un prodotto della mistica
dell’individualismo dell’economia di mercato (Polanyi 1935).
Per Polanyi è impossibile separare individuo e società, mercato e politica. La “grande trasformazione”, del titolo dell’opera, allude alla costruzione artificiosa dell’economia di mercato
e all’impossessamento da parte del mercato di terra, capitale e
lavoro, facendone merci “fittizie”, fino ad allora fuori da logiche
strettamente economiche (Polanyi 1944, 94). La grande crisi è per
Polanyi la dimostrazione dell’impossibilità di separare l’economia di mercato dalla sfera politica e il fallimento del progetto
liberoscambista di lasciar governare l’intera società dagli istinti
animali degli homines oeconomici.
Alcune tesi centrali dell’analisi di Polanyi sulle origini economiche dell’epoca moderna sono sintetizzate nei due passi seguenti. Nel primo egli introduce un concetto chiave, di sapore
dialettico hegeliano: il «doppio movimento». Tale concetto introduce una tensione interna a una società che cerca di proteggere se
stessa dall’espansione incontrollata del mercato:
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Per un secolo la dinamica della società moderna fu governata da un
doppio movimento: il mercato si espandeva continuamente ma questo
movimento si incontrava con uno opposto che controllava l’espansione
in determinate direzioni. Per quanto vitale fosse questo secondo movimento per la protezione della società, esso era in ultima analisi incompatibile con l’autoregolazione del mercato e quindi con lo stesso sistema di
mercato (Polanyi 1944, 167).
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Il saggio di Ludwig von Mises del 1920, Die Wirtschaftsrechnung in Sozialistischen Gemeinwesen, fu pubblicato in «Archiv für Sozialwissenschaften» e, poi,
incluso nella raccolta di scritti curata da Hayek (1935). Invece, per il libro di Mises
(1927), il giudizio sul fascismo si trova a p. 43.
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Il concetto è ripreso ancora per evidenziare opposizioni e dicotomie, già anticipate da Veblen, tra forze che sono spinte inesorabilmente da massimizzazioni pecuniarie e che instaurano la centralità
dei mercati e forze che oppongono resistenze e ricercano protezioni
quando l’impeto dei mercati minaccia di travolgere l’intera società:
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quello che abbiamo indicato come un duplice movimento […] può essere
rappresentato come l’azione di due principi organizzativi nella società,
ciascuno di essi ponendosi fini istituzionali specifici, avendo l’appoggio
di precise forze sociali ed usando i propri metodi particolari. L’uno era
il principio del liberalismo economico che mirava all’istituzione di un
sistema autoregolato […] l’altro era il principio della protezione sociale
che mirava alla conservazione dell’uomo e della natura oltre che della organizzazione produttiva, basandosi sull’appoggio variante di coloro che
erano più immediatamente toccati dall’azione deleteria del mercato […]
ed impiegando una legislazione protettiva, delle associazioni restrittive
ed altri strumenti di intervento come suoi metodi. (Polanyi 1944, 170)
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Dopo il libro del 1944, Polanyi spostò l’asse dei propri studi sulle società arcaiche e, in un saggio del 1957, un anno prima
della pubblicazione di Vita activa, contribuì ad aprire un ricco
fronte di studi di antropologia storica con la riscoperta di Aristotele “economista”. L’obiettivo di fondo era verificare, sulla base
di evidenze archeologiche e storiche, l’eccezionalità del mercato
come forma di organizzazione economica delle società umane,
compresa quella del capitalismo industriale. In economie precapitalistiche, arcaiche o feudali, la presenza di forme embrionali o
più avanzate di scambi mercantili costituiva realtà spesso circoscritte e confinate ai margini di economie agricole. I commerci,
talora, conoscevano un certo sviluppo senza però sconvolgere gli
orientamenti produttivi, che restavano organizzati secondo logiche lontane da quelle pecuniarie e strettamente imprenditoriali di
ricerca del profitto. In questo ordine economico e sociale, anche il
pensiero dei filosofi antichi e le prescrizioni di leggi civili o religiose avevano una coerenza in termini economici, ed era, quindi,
un errore considerarli in base a parametri contemporanei come
semplici indicazioni etiche e di buon governo, limitate a faccende
domestiche. Le logiche di sistema non erano quelle del capitalismo moderno, e miravano a proteggere la società dalle tendenze
autodistruttive dei mercati.
Parte I - La categoria del moderno
Lo “spirito del capitalismo”, la brama di profitto, pur presenti
anche in società arcaiche, non si erano mai imposti come paradigma di comportamento prevalente. Prima del totale predominio del
capitalismo, anche le forme di calcolo razionale che guidavano i
comportamenti soggettivi rispondevano a finalità molto diverse;
la contabilità risultava spesso inaccurata per mancanza di certezza
e trasparenza nei prezzi e nei valori e, persino quando risultava ai
limiti del perfezionismo, quasi mai seguiva protocolli massimizzanti il profitto. Quando Marx, a varie riprese nella sua sterminata
opera, insiste sulla storicità delle economie intende proprio che è
necessario cambiare gli schemi di riferimento con i quali comprendere le economie del passato. Ogni analisi falsata del passato induce a forme di autoinganno sul presente, a causa del preconcetto
ideologico secondo il quale la differenza tra passato e presente sta
solo nel grado di intensità della conoscenza tecnologica, e l’evoluzione sociale è intesa come uno scontro fra i Lumi scientifici, da un
lato, e le pratiche magico-religiose, dall’altro. Insomma, tale riduzionismo impedisce di poter valutare e comprendere gli uomini
del passato secondo i canoni propri dei loro contemporanei, impedendo così di cogliere le dinamiche più profonde, per fermarsi,
invece, ad ammirare, banalmente, le “magnifiche sorti e progressive”. Ad esempio, nel confronto fra l’etica economica antica e quella
moderna appare rovesciato il senso del rapporto dell’uomo con la
produzione. Il seguente passo di Marx è molto chiaro in tal senso: «l’antica concezione secondo la quale l’uomo, quale che sia la
sua limitata determinazione nazionale, religiosa, politica, è sempre il fine della produzione, pare assai superiore rispetto al mondo moderno, nel quale la produzione si manifesta come obiettivo
dell’uomo e la ricchezza come obiettivo della produzione»10. Nelle
società precapitalistiche l’obiettivo moderno della produzione per
la produzione è assente e la produzione non sovrasta l’esistenza,
che si orienta liberamente verso la coltivazione di altre attività. Il
rapporto tra bisogni e loro soddisfacimento resta un rapporto diretto e lineare, che non passa indirettamente attraverso il persegui-
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Il passo è tratto dalle Forme di produzione precapitalistiche di Marx (2009,
165); fanno parte dei Grundrisse, v. anche, con una diversa traduzione, in Marx
(1968, II, 112).
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mento di un altro fine. Nella modernità del capitalismo tutto ciò
si capovolge: l’uomo è un ingranaggio in un circuito materiale di
capitale che serve ad accumulare nuovo capitale. Infatti, nell’«economia politica borghese – e nell’epoca della produzione ad essa
corrispondente», il completo dispiegarsi «dell’interiorità dell’uomo si manifesta come un assoluto svuotamento […] a vantaggio di
un fine completamente esterno» e mentre «il puerile mondo antico
appare come un che di più elevato […] il mondo moderno lascia insoddisfatti, oppure, dove esso risulta soddisfatto di sé, è volgare»11.
Una distinzione analoga è messa in evidenza anche da Polanyi. Pare difficile liquidarla al pari di una visione romantica del
passato12. Nello studio di economie e società antiche e arretrate,
Polanyi propone una triade di principi economici che orientano i
comportamenti, fondati essenzialmente sul modo di transazione
di beni e servizi. Il mercato è solo uno di questi modi ma non è
l’unico, ed anzi, soltanto in tempi recenti, per effetto dell’ideologia liberale del libero scambio del XIX secolo, è stato consacrato
a modo universale, con quelle stesse conseguenze sottolineate da
Marx nei passi qui sopra citati. Polanyi respinge lo schema a senso unico delle elaborazioni teoriche dell’economia politica che,
dalla fine del XVIII secolo in poi, guardano alle organizzazioni
economiche arcaiche o feudali come forme inefficienti e con spazi
di mercato ristretti e incatenati in regole irrazionali. Lo schema
storico e analitico dell’economia politica è perciò riassumibile
nella metafora dell’esodo e del raggiungimento della liberazione con la terra promessa del capitalismo moderno, caratterizzato
dal “latte e miele” che promana dall’estensione e avanzamento
dei mercati in ambiti che prima di allora risultavano protetti,
come quando le realtà mercantili erano circoscritte e poste “fuori” dalla comunità o dalla polis. La terra è stata a lungo un bene
estremamente vincolato nella trasferibilità e nelle destinazioni
d’uso e solo col capitalismo, e grazie ai diritti di proprietà che
lo caratterizzano, diventa oggetto di libere contrattazioni, e vie-
il
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Marx (2009, 167, il corsivo non è aggiunto; oppure 1968, II, 112-3).
Le accuse di “romanticismo” sono state riprese e rilanciate da Godelier
(1978, IX-XLIV). Per una critica a Polanyi secondo canoni di razionalismo economico v. Pavanello (1993).
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Parte I - La categoria del moderno
Questo E-book appartiene a roffis
ne assegnata in base a un prezzo. Lo stesso dicasi per il lavoro,
in precedenza protetto nelle dimensioni extramercantili, come
dimostrano le regolamentazioni corporative e delle prestazioni
d’opera. Non ultimo, anche per il capitale e per la moneta vigevano restrizioni e controlli, ed entrambi erano vincolati nella trasferibilità. Gli interessi sui prestiti – intesi come prezzo del denaro
– erano generalmente condannati e di fatto limitati in una sorta di
“mercato nero”, anche per la viscosità dei rendimenti e la scarsa
standardizzazione delle attività finanziarie, comprese quelle più
rappresentative come i debiti statali e di enti pubblici. Quel che
Polanyi riscontra nelle società arcaiche è «l’assenza di qualunque
istituzione separata e distinta basata su motivi economici» (1944,
62), e cioè di istituzioni che orientino i comportamenti verso il
guadagno individuale in maniera sistematica come avviene in
un’economia di mercato. Gli isolani trobriandesi della Melanesia
occidentale sono un esempio di organizzazione sociale governata
su altri principi, che sono stilizzati da Polanyi nei principi della reciprocità e della redistribuzione, in assenza di scambi mercantili. La reciprocità opera soprattutto nei rapporti familiari e
di parentela secondo forme rituali di dono, le cui pratiche conferiscono un riconoscimento e una reputazione sociale. Il principio della redistribuzione interviene nei rapporti di gerarchia che,
nella stessa comunità, svolgono una funzione importante come
quella dell’immagazzinamento e della conservazione di scorte di
beni necessari al mantenimento delle attività vitali e comunitarie (Polanyi 1944, 63). Anche in questo caso le occasioni rituali,
tipo le feste o gli incontri con i vicini di altre isole, sono momenti
di donazioni e redistribuzioni di beni, non più secondo lo schema della «simmetria», come nella famiglia, ma in osservanza di
quello della «centricità», che presuppone strutture istituzionali di
tipo gerarchico, un’organizzazione burocratica, un uso di scritturazioni, per governare seguendo rituali di subordinazione e di
lealtà. Le società precapitalistiche adottano in prevalenza forme
organizzative che stanno «a mezza strada [tra] le necessità della
reciprocità e della redistribuzione» (Polanyi 1944, 65). Gli scambi
di mercato sono confinati, sporadici, soffocati, affinché non prevalgano sull’ordine sociale mettendolo a soqquadro.
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Generalmente – afferma Polanyi (1944, 72) – è corretto dire che tutti i sistemi economici che ci sono noti, fino alla fine del feudalesimo
nell’Europa occidentale, erano organizzati alternativamente sui principi della reciprocità o della ridistribuzione o dell’economia domestica
o di una combinazione dei tre. Questi principi furono istituzionalizzati con l’aiuto di un’organizzazione sociale che inter alia faceva uso
dei modelli della simmetria, della centricità e dell’autarchia. In questo
quadro la produzione ordinata e la distribuzione dei beni era assicurata da una grande varietà di motivi individuali disciplinati da principi
generali di comportamento. Tra questi motivi, quello del guadagno
non era preminente, la consuetudine e la legge, la magia e la religione
cooperavano nell’indurre l’individuo a seguire regole di comportamento che alla fine assicuravano il suo funzionamento entro il sistema
economico.
Questo
I sistemi economici precapitalistici per Polanyi sono sistemi
misti nei quali prevalgono, in misura diversa, a seconda di specifici assetti istituzionali, i principi di reciprocità e redistribuzione e, in gradi ridotti, quelli del guadagno mercantile. Tali sistemi
misti sopravvivono anche in epoca moderna, dove rappresentano le forze a difesa della società che fronteggiano gli effetti autodistruttivi dei soggetti presi nel vortice degli affari. Le stesse
politiche di welfare state rientrano nelle misure di protezione, che
anche le moderne società esprimono, attraverso quel meccanismo
di “doppio movimento”, di campo di forze e tensioni interne alle
società e alle economie. L’ideologia del laissez faire rovina sugli
scogli della grande depressione degli anni ’30, e la reazione ad
essa sono i dispositivi di protezione e di riforma sociale, con valenze politiche molto diverse, che hanno finito per caratterizzare
le “varietà” dei capitalismi dal secondo dopoguerra in poi fino
alla seconda globalizzazione, quando sono state rimesse in moto
le spinte verso la convergenza al modello unico di capitalismo,
ben note agli economisti della crescita. In tempi recenti non sono
perciò mancati, come vedremo, neppure tentativi per rimettere in
piedi un programma politico di libero mercato e libera impresa.
Un programma tenuto a battesimo fin dagli anni tra le due guerre dai fondatori del neoliberalismo e dell’ordoliberalismo (vedi
parte III).
Parte I - La categoria del moderno
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5.4. I giochi pericolosi dello scambio e la crematistica
L’oro è lo spiritualismo delle vostre società attuali. […]
Nessuna ricchezza può mentirci, noi possediamo i segreti
di tutte le famiglie. Abbiamo una specie di libro nero dove
scrivere le annotazioni più importanti sul credito pubblico,
sulla Banca, sul Commercio. Casuisti della Borsa, noi formiamo un Sant’Uffizio in cui si giudicano e si analizzano
le azioni le più indifferenti di tutti coloro che possiedono
un qualsiasi patrimonio, e noi siamo sempre in grado di
cogliere nel vero. (Balzac 1830)
Anche l’industria è legata alla terra – come l’elemento contadino [...] Solo l’alta finanza è completamente libera, completamente inafferrabile. A partire dal 1789 le banche e quindi le
Borse si sono sviluppate come una potenza autonoma [...] e,
come il danaro in tutte le civilizzazioni, questa potenza ora
vuol essere l’unica potenza. (Spengler 1995, 1395)
Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca
di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era
una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro
per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne
feci incetta. (Svevo 1930, 533-4)
Il concetto di “doppio movimento” allude a una polarità, a una
dicotomia entro la quale si mettono in moto forze che, nelle società
precapitalistiche, si cercava di depotenziare per immunizzare la
società e gli uomini dalle conseguenze di una “liberazione” delle
potenze pecuniarie dei mercati. Il mercato annulla i rapporti personali, soggettivi, di status o di discriminazione. Impone proprie
regole di allocazione delle risorse e di distribuzione del reddito.
L’anonimato e l’impersonalità del mercato riduce tutto a quello che
Carlyle definì, pertinentemente, cash nexus, cioè un vincolo che è di
puro pagamento in contanti e che scioglie ogni contratto di compravendita, o ogni altra obbligazione, attraverso la liquidazione
per cassa del dovuto. La servitù del bisogno lega l’individuo bisognoso a un altro contraente in grado di soddisfarlo, ma il rapporto
viene immediatamente sciolto dal potere della moneta di riscattare
e, in un colpo solo, liberare da ogni obbligazione residua. Le due
parti si sono incontrate da estranei e da estranei si lasciano, senza
trasmissione di sentimenti. La moneta media quel rapporto impersonale, sfrondato da ogni tipo di coinvolgimento passionale, ma
introduce un’altra passione che finisce per sconvolgere il mondo
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tradizionale. «C’era una sorta – osserva Péguy (2016, 72) – di silenzioso contratto tra l’uomo e la sorte; e prima dell’avvento dei tempi
moderni quel contratto la sorte l’aveva sempre onorato». Prosegue,
spiegando il senso di quanto appena detto: «chi tentava di evadere dalla povertà rischiava evidentemente di precipitare di nuovo
nella più disperata miseria» (Péguy 2016, 73). L’azzardo di uscire
da una condizione, per quanto penosa, raramente ripagava, e chi
non azzardava almeno non correva il pericolo di precipitare nella
miseria. Ma nel mondo moderno le cose si invertono e «chi non
gioca perde, e perde sempre; […] chi si limita nella povertà è incessantemente inseguito persino nel rifugio di questa povertà» (idem).
Ciò spiega abbastanza bene, per le economie arcaiche, antiche, o
feudali, i motivi che le spingono a contenere la forza espansiva delle
transazioni mercantili in spazi ben definiti: l’agorá, la fiera, le occasioni di mercato, e sotto il controllo delle autorità. Polanyi introduce
il concetto di port of trade per descrivere un’istituzione rivolta a regolare la concorrenza e garantire gli scambi fra comunità primitive e
arcaiche in un luogo neutrale, nel quale assegnare lo svolgimento di
attività di commercio. La funzione è quella di un «tipico strumento
del commercio d’oltremare […] in grado di soddisfare i requisiti di
sicurezza degli scambi negli stati antichi», derivazione degli scambi
taciti, o del primordiale emporium protetto da mura nelle città costiere del Mediterraneo (Polanyi 1980, 229). Le città dell’interno si
trovavano così “protette” dai rapporti commerciali d’oltremare, da
una pervasiva corruzione dei costumi, e, allo stesso tempo, sfruttavano i benefici di un’apertura col resto del mondo.
Tutto il pensiero antico e di epoche successive, fino all’incirca
agli albori della società di mercato moderna, è un pensiero “anti-mercato”, di diffidenza verso le figure dei mercanti. Aristotele
distingue tra una crematistica “naturale”, quella del sistema di
produzione e di distribuzione dei prodotti all’interno dell’oikos,
dell’ordine economico della famiglia signorile quasi autosufficiente (appunto oikonomía), da una crematistica “innaturale”, propria dell’avidità di guadagno che trova sfogo in spazi delimitati
dove i mercanti possono effettuare scambi, sostenere rischi, per
brama di profitto e per accumulare ricchezze.
Venturi Ferriolo, in un’importante monografia sul tema, esamina il doppio significato del termine crematistica, al di là di una
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varietà di accezioni minori (Venturi Ferriolo 1983, 45-48 e 59-62).
Da una parte, la crematistica ha il significato comune di possesso
e acquisizione di ricchezze finalizzate a una “buona” economia,
quella domestica dei valori autarchici propri dell’economia agricola. La crematistica è dunque un’arte per uscire dalla trappola
della povertà e per non essere in debito con nessuno, né uomini,
né dèi per sacrifici loro dovuti. Nella Repubblica si legge: «ritengo –
afferma Cefalo, ma approva anche Socrate – che l’essere ricchi sia
una grande fortuna, non per chiunque, ma per l’uomo di senno ed
equilibrato. In effetti, il possesso di ricchezze giova soprattutto a
impedire che si defraudi o si imbrogli qualcuno anche senza volerlo e che si resti debitori di sacrifici agli dèi o di denaro agli uomini e
che per tutto ciò si finisca laggiù nel terrore» (Platone 2009, 1035 [I
331 A - 331 B]). In Gorgia (Platone 2001, 889-90 [477 B, E]) la povertà
è considerata un male, insieme alla malattia e all’ingiustizia che
è il danno più grave. La ricchezza è perciò «l’arte che libera dalla
povertà». Ma comunque il «[p]iù felice di tutti, dunque, è colui che
non ha malvagità nell’anima (idem [478 D]).
L’amministrazione familiare, per vivere in armonia all’interno e col mondo circostante, deve attenersi alle regole della crematistica “naturale”.
Da un’altra parte, però, la crematistica è anche brama di ricchezze, spasmodica ricerca di guadagno e ciò va oltre la misura
dell’amministrazione della casa (dell’economia naturale, appunto), diventa un’attività d’affari in ambito commerciale, nel quale
si perde il contatto con attività naturalmente produttive, con la
natura propriamente detta e con il lavoro che forma e trasforma
oggetti. In questa accezione, la ricchezza da strumento diventa
“valore” di vita. L’esempio di Aristotele, nella Politica (I, 9, 1257 a
9-16), sul doppio uso delle calzature, per camminare o per essere
vendute, si riferisce a ogni altra cosa (infatti, «di tutto si può fare
scambio»). In quel contesto, egli introduce il concetto della doppia
crematistica, quella dell’oikos e quella insaziabile di re Mida: «la
crematistica e la ricchezza naturale sono diverse perché l’una rientra nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque, bensì mediante lo scambio di
beni: ed è questa che, come sembra, ha a che fare col denaro perché
il denaro è principio e fine dello scambio» (Politica, I, 9, 1257 a,
5 - Crematistica e anticrematistica
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Questo
20-24; e Venturi Ferriolo 1983, 51-3). La modernità, per riprendere
il concetto e la prospettiva che qui ci interessano, ha origine dalla riaffermazione della crematistica con la centralità assegnata al
mercato e alla ricerca di profitto. La caduta in disuso del termine,
come testimoniano anche innumerevoli dizionari specialistici in
materia, è essa stessa espressione dello spirito dei tempi.
5.5. L’annebbiamento del tempo o le critiche dei neo-istituzionalisti
E-book
Invitare gli dèi rovina i rapporti con loro, ma mette in moto
la storia. Una vita dove gli dèi non sono invitati, non vale la
pena di essere vissuta. Sarà più tranquilla, ma senza storia.
E si può pensare che quell’invito pericoloso sia ogni volta ordito dagli dèi stessi, che si annoiano degli uomini che
non hanno storia. (Calasso 1991, 433)
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La storia non si snoda | come una catena |di anelli ininterrotta. | In ogni caso | molti anelli non tengono. | La storia
non contiene | il prima e il dopo […]. La storia | non si fa
strada, si ostina, | detesta il poco a poco, non procede |
né recede, si sposta di binario | e la sua direzione | non è
nell’orario. (Montale, Satura I, 1990, 323)
ciò che caratterizza un sistema economico sono le sue istituzioni, e non la tecnologia che usa. (Georgescu-Roegen
1973, 162)
fisimone
Nella Storia dell’analisi economica Schumpeter ritiene che il pensiero economico greco sia una sociologia economica incentrata
sulla polis come unica esistenza civile, perciò su una visione moralistica della realtà sociale e politica, impedendo così l’elaborazione di un pensiero economico coerente e accurato (Schumpeter
1954, 66-6 e 81 [I, 2 e 5]). Polanyi, nel noto articolo del 1957 su
Aristotele, fa del filosofo lo “scopritore” dell’economia, cioè
dell’economia del suo tempo, giungendo a fornire di essa una formulazione teorica del tutto appropriata e non distorta. Aristotele
economista è in grado di comprendere il sistema economico della
propria epoca meglio di quanto non lo siano stati gli economisti
moderni attrezzati degli strumenti analitici più sofisticati, i quali
dimenticano di averli forgiati per economie capitalistiche e che
perciò non possono essere adatti a cogliere le differenze e le logiche economiche di società precapitalistiche.
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Parte I - La categoria del moderno
Polanyi – secondo cui le istituzioni non sono prodotti di natura, bensì prodotti artificiali13 – attribuisce le differenze fra economie essenzialmente alle istituzioni e considera lo stesso mercato un’istituzione artificiale come tutte le altre. Le stesse società
capitalistiche, nelle quali la centralità economica e sociale dei
mercati è caratteristica fondamentale, si distinguono per il peso
e il ruolo assegnato al mercato stesso. Un capitalismo di laissez
faire, come quello che si afferma nel corso del XIX secolo e collassa
nella grande depressione degli anni ’30 del secolo successivo, è
salvato dalla forza distruttiva dei mercati lasciati a se stessi dall’esperienza del new deal e dall’avvio delle politiche di welfare state.
La diagnosi di Polanyi non è condivisa da Schumpeter, che vede
nel capitalismo regolato una gabbia burocratica che, alla lunga,
avrebbe soffocato lo spirito imprenditoriale impedendo il pieno
funzionamento di quel «processo di distruzione creatrice [che] è
il fatto essenziale del capitalismo»14.
Dalton ha notato la coincidenza della pubblicazione di The
Great Transformation di Polanyi con quella di The Road to Serfdom di Hayek, che contemplano due opposte visioni, del tutto dicotomiche, sulla natura dell’economia di mercato15. L’idea
hayekiana è che ogni deviazione dai sistemi di mercato è la causa della distruzione della libertà personale e della democrazia
politica e, quindi, dell’inevitabile avvio verso società “chiuse”,
verso sistemi totalitari. Per Polanyi vale esattamente il contra-
13
Il miglior esempio di questo paradossale concetto di “istituzioni naturali” è fornito da Hayek (1967, 44) con l’esempio del sentiero quale ordine tracciato
da azioni indipendenti di individui.
14
Schumpeter (1942, parte II, cap. VII). Cfr. anche Schumpeter (1943).
15
Dalton osserva, inoltre, che l’estensione dei controlli pubblici sui mercati, specialmente negli anni successivi alla pubblicazione del libro di Hayek, in
Inghilterra e negli Stati Uniti, non portò affatto alle conseguenze che Hayek prevedeva. Infatti, osserva: «l’Inghilterra si è spinta più avanti nella nazionalizzazione
dell’industria e nella fornitura di alcuni servizi assistenziali», perciò non pare che
«né in America né in Inghilterra vi sia seriamente da temere che il permanente
abbandono del sistema di mercato non regolato stia distruggendo la democrazia
politica e le libertà personali. I fatti dimostrano il contrario: si pensi, ad esempio,
ai diritti civili per i negri americani, e alla riduzione della diseguaglianza delle
opportunità di lavoro in Inghilterra (determinata dalle riforme nel settore dell’istruzione)» (Dalton 1980, XV). Cfr. Tamir (1993 e 2019).
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rio: i meccanismi di mercato, quando sono diventati pervasivi e
inducono alla ricerca di profitto in maniera esasperata, producono effetti autodistruttivi, per i mercati stessi, per la società e
per le libertà civili.
Il punto di forza del paradigma di Polanyi era essenzialmente
la storicità di istituzioni irriducibili a pura logica economica di
contabilità secondo lo schema costi-benefici. Quel paradigma non
era solo di Polanyi, ma di molti economisti neoclassici “eclettici”,
che, come Georgescu-Roegen e altri, non rifiutavano di misurarsi
con i problemi e con le evidenze empiriche, senza, però, condividere progetti ideologici di un’economia come sapere scientifico
totale. Con l’avvento progressivo del neoliberalismo della scuola
di Chicago, di Friedman e, soprattutto, di Hayek, l’economia conosce una mutazione politica decisiva che coincide, paradossalmente, con l’abbandono del fossile aggettivo ‒ “politica” ‒ che
fino ad allora aveva sempre accompagnato il sostantivo. Una
scienza non poteva essere una scienza dimidiata, una competente
per economie precapitalistiche e un’altra per quelle del capitalismo avanzato. Ovviamente, una scienza con almeno due cassetti
degli strumenti distinti e separati non avrebbe potuto pretendere
di avere uno statuto come quello delle scienze “dure”. Insomma,
la scienza economica che si stava formando, si stava anche allontanando dall’esortazione keynesiana di farne un sapere socialmente utile, composito perché dotato di competenze specifiche
e con un atteggiamento «umile» verso il mondo («competenti e
umili» come dentisti, era l’auspicio di Keynes 2011, 283).
La pretesa di disporre di principi universali era una delle
ambizioni degli economisti di scuola neoliberale, del mainstream
o del “fondamentalismo di mercato”, per stabilire un insieme di
strumenti “asettici” con i quali poter vivisezionare qualsiasi economia e società del presente e del passato.
È di un certo interesse genealogico risalire, perciò, a come alcuni storici economici cominciarono ad abbracciare in maniera
originale il nuovo “verbo” della scienza economica purgata delle
contaminazioni politiche, ultime delle quali quelle keynesiane. Per
questi storici economici, messo in soffitta Marx, Polanyi era rimasto lo scoglio principale per demolire la dicotomica opposizione tra
economie precapitalistiche e capitalismo. Uno dei primi attacchi al
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pensiero di Polanyi fu sferrato, seppure in maniera rmolto
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da Douglass North sul finire degli anni ’70 del
secolo scorso. North,
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vincitore del Nobel per l’economa nel
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dei fondatori del
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neo-istituzionalismo in economia.
Polanyi, forse
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uno dei meno notiQ
o almeno dei meno citati, è rivelatore di una
svolta epistemologica che definisce alcuni postulati del neo-istituzionalismo. Il nuovo approccio di una scienza economica “impolitica” doveva necessariamente passare per l’operazione di rendere
assoluto il paradigma del mercato. Un mercato – è bene sottolinearlo – che viene inteso, però, senza far molte differenze tra un mercato
formato da attori price taker, con prezzi stabiliti su basi d’asta, o un
mercato formato da organizzazioni gerarchiche in grado di avere
un potere sui prezzi fino a imporli (imprese price maker). In questo
modo il mercato era un’entità sempre presente, anche quando il
suo posto era occupato e dominato da imprese, oppure, da istituzioni in senso proprio che, se anche costituite in forme del tutto
diverse dall’impresa, secondo i neo-istituzionalisti erano, comunque, da intendersi come travestimenti di imprese, come corpi gerarchici, luoghi di potere, che erano stati costituiti, in definitiva, da
agenti economici (incluse le stesse imprese) per superare problemi
di costi insormontabili, eliminare forme di opportunismo, fornire
forza a contratti, imporre ordine e regole del gioco. Secondo questo
modo di vedere, anche le economie precapitalistiche erano delle
forme embrionali di economie di mercato moderne, con logiche di
funzionamento non diverse da queste ultime. L’altra conseguenza
importante dell’approccio neo-istituzionalista era quella di superare una storia dell’economia intesa come successione nel tempo
di differenti sistemi economici: questo perché l’unicità del “sapere” scientifico imponeva unicità sostanziale di mondi empirici. Le
leggi di mercato erano leggi universali che potevano essere fatte
valere per ogni luogo e per ogni tempo, perché la regola della massimizzazione del profitto avrebbe anche potuto essere soffocata da
prepotenze politiche, ma l’homo oeconomicus non poteva, come figura antropologica invariante, ragionare e agire altrimenti. Gli attori
sociali sono perciò sempre agenti economici, con un’unica logica di
funzionamento e di razionalità che sarebbe meglio dire metafisica,
dato che le regole di mercato erano prevaricate – nella costruzione
neo-istituzionale – dalle logiche gerarchiche dell’impresa. Queste
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ultime, per uno storico, sarebbero però più assimilabili a forme di
feudalesimo che alla libertà dei mercati. Anche Hicks (1969) introduceva il mercato nel capitolo II dal titolo dicotomico di custom
and command, nel quale distingueva le organizzazioni economiche
precapitalistiche in economia di clientela (customary economy) e in
economia gerarchica e dispotica (command economy). Aggiungeva:
«il sottofondo è l’economia clientelare, resa più o meno gerarchica
da un elemento di comando» (idem, 25). Ma persino un’economia
di mercato (mercantile economy), distinta nettamente dalle precedenti perché «altamente individualistica», sebbene non anarchica, non
può svilupparsi finché, per “comando”, non vengono create strutture politiche che possano sostenerla (idem, 33).
L’attacco di North a Polanyi si giustificava perché rivolto a
uno degli studiosi che aveva individuato un Aristotele economista, e aveva rivolto le sue ricerche a rintracciare le origini, la
“genealogia”, del mercato, come, peraltro, fino ad allora avevano
fatto anche molti economisti indipendentemente dalla scuola di
appartenenza16. Il mercato andava glorificato come entità superiore e indipendente dai processi storici concreti, come una sorta d’idea della caverna platonica che rifletteva le sue ombre imperfette
nel corso della storia e in ogni angolo della terra; l’idea era “pura”
e limpida, per quanto i suoi riflessi fossero imperfetti e mutevoli.
Senza quell’idea sembrava cadere ogni costruzione economica e
teorica. Tuttavia, i neo-istituzionalisti, insieme ai neoliberali, erano
poi i primi, dopo aver eretto, come primo passo del loro programma teorico-politico, il “mercato” a loro vitello d’oro, a compiere
anche un secondo passo, in cui lamentavano invece l’insussistenza del mercato ‒ quello di concorrenza perfetta degli economisti
classici ‒ nella realtà economica; tale realtà era composta, invece,
da imprese che con le loro “mani visibili” avevano infestato e profanato la “mano invisibile” dei mercati autentici. Naturalmente
questo secondo passo era solo teorico e propagandistico, essendo
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Si ricordi che le distinzioni per epoche e sistemi economici e sociali erano accettate da storici antichisti come Moses Finley, tra gli altri, in opere che parafrasavano il titolo del saggio di Constant (Finley 2008). Infine si rilegga un piccolo
libro, dimenticato, ma che regge prodigiosamente all’usura del tempo, nel quale
un economista come Hicks (1971) ragiona con distinzioni tra sistemi ed epoche.
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Parte I - La categoria del moderno
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poi il terzo passo la desiderata giustificazione concreta dei poteri
economici e della palese assenza di concorrenza, considerandoli soltanto come fenomeni transitori, come prodotti endogeni ed
ineliminabili della dinamica concorrenziale, persino come effetti
ottici (come non accorgersi che, a ben vedere, anche un monopolista si comporta come un’impresa perfettamente concorrenziale,
scrivono i chicaghiani, vedi parte III).
Non solo gli storici e molti economisti non ortodossi, ma anche i
filosofi hanno, forse, minimizzato l’operazione che si stava portando a termine, considerando la questione una sorta di schermaglia
di scuole, una discussione tra storici e tra definizioni economiche17.
Alcuni economisti, il riferimento qui è a Stiglitz, hanno compreso
l’importanza di rispolverare, a mezzo secolo dalla pubblicazione,
il “vecchio” Polanyi, ma senza entrare nel merito dell’operazione
ideologica messa in piedi dai suoi avversari di allora e di oggi18.
North – ritornando a lui – contesta Polanyi su due aspetti strettamente connessi: primo, di non essere uno storico economico; e,
per questo, di non trattare economicamente i problemi di economie antiche e moderne. Il primo punto è una petizione di principio
senza argomentazioni: gli storici economici sono solo quelli «che
Valeria Pinto ha però colto molto bene le implicazioni di quella che, seguendo Luc Boltanski, chiama “maledizione di Popper” e cioè la messa al bando
delle conspirancy theories of society e l’imposizione del paradigma dell’economia
neoclassica nelle scienze umane da quando la coalizione Popper-Hayek iniziò negli anni ’50 la loro opera di demolizione dei saperi e degli approcci storici, olistici
e, in definitiva, di senso storico; Pinto (2012, 7-8).
18
Il richiamo è alla premessa di Stiglitz a The Great Transformation dove
osserva che «la scienza economica e la storia economica devono riconoscere la
validità delle tesi principali di Polanyi» (Stiglitz 2001, xiii), mettendo in evidenza
i difetti di autoregolazione di «una cosiddetta economia di mercato autoregolantesi [che] può evolvere in capitalismo mafioso – e in un sistema politico mafioso
– come, sfortunatamente, sta succedendo in alcune parti del mondo» (idem, xv).
In Francia un gruppo di studiosi, prevalentemente antropologi, sociologi e storici,
dal 1981 ha dato vita alla Revue du M.A.U.S.S., il cui acrostico compone il nome del
grande antropologo e si scioglie come “mouvement anti-utilitariste dans les sciences
sociales” per rivendicare polemicamente le ragioni di una tradizione di pensiero
che nelle scienze sociali cominciava ad essere posta sotto assedio da un individualismo metodologico invasivo e sempre più dominante. Un primo manifesto
rappresentativo del paradigma economico e antropologico proposto può essere
considerato Caillé (1991) e, il più recente, Caillé e Grésy (2014).
17
5 - Crematistica e anticrematistica
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usano l’economia neoclassica nella storia – cioè i “new economic
historians”»19. Per North c’è una sola economia (teorica) ed è solo
con quella, e non con altro, che vanno individuati e affrontati i problemi storici dell’economia. L’accusa rivolta a storici e scienziati
sociali è quella di ricorrere a spiegazioni ad hoc. North non contesta a Polanyi che i mercati abbiano dominato il modo di allocare
le risorse solo per un breve periodo della storia contemporanea,
all’epoca di quello che Polanyi chiama capitalismo di laissez faire,
e principalmente nell’area dei paesi occidentali. Tuttavia, anche in
epoche precedenti – e questo è il secondo aspetto del suo attacco
– non ci si può esimere dall’applicare gli strumenti della teoria economica (cioè neoclassica) che postulano comportamenti rivolti alla
massimizzazione della “ricchezza” («wealth-maximizing behavioural
postulate») per studiare struttura e performance di economie precapitalistiche (North 1977, 703-4). Polanyi si sarebbe messo fuori da
un’analisi di storia economica perché non spiega capitalismo e sistemi precedenti applicando il ragionamento massimizzante dell’economia neoclassica, cioè perché non fa riferimento a un homo oeconomicus a una sola dimensione: utilitarista, macchina di calcolo
di mezzi scarsi per fini immoderati, egoista razionale20. Di figure
ontologicamente differenti di homo oeconomicus Polanyi ne conosce
almeno tre, definibili sulla base dei loro comportamenti nelle tre
tipologie di scambio e allocazione delle risorse da lui individuate: due di queste sono fuori dallo scambio di mercato e seguono
i principi di reciprocità e di redistribuzione. North non mette in
discussione le tipologie polanyiane (North 1977, 709), ma le riconduce dentro il solco dell’economia teorica neoclassica, di un unico comportamento massimizzante (Conti e Schisani 2019). North,
come altri storici economici della new economic history, evita sempre
di distinguere tra sistemi economici del passato e del presente, se
North (1977, 704). Nonostante la sprezzante accusa di North, ricordiamo
però che Polanyi era stato nominato professore di storia economia alla Columbia
University nel 1947, ma quella era, per North, solo la “vecchia” storia economica.
20
North aggiunge, gettando via in un colpo solo decenni di studi di antropologi e di antichisti: «gli storici economici non hanno ancora iniziato ad occuparsi di tali sistemi di allocazione non di mercato e finché essi non lo fanno, può esser
detto molto poco sulle società in cui i mercati avevano compiti allocativi molto
limitati» (North 1977, 706).
19
138
Parte I - La categoria del moderno
non per catalogarli tutti dentro una medesima categoria a registro
binario: società “aperta” o “chiusa”; di libero mercato o di repressione dell’imprenditorialità, registro poi modulato secondo una
molteplicità di varianti, ricondotte tutte all’intensità della presenza
del mercato, o meglio della libera impresa massimizzante. Quel che
North contesta è che possa esserci un’organizzazione, come l’oikos
greco, non solo alternativa alla produzione per il profitto, ma anche
negazione degli scambi acquisitively oriented del mercato, dell’uso
della moneta, della contabilità costi-ricavi21. In definitiva, North
combatte l’idea dell’uomo inteso come animale sociale piuttosto
che economico, idea espressa da Polanyi nei termini seguenti:
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l’economia dell’uomo, di regola, è immersa nei suoi rapporti sociali. L’uomo non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel
possesso di beni materiali, agisce in modo da salvaguardare la sua posizione sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali (Polanyi 1944, 61).
North ammette che il caso che siano i mercati a fare i prezzi
(mercati price-making) non è mai stato dominante nemmeno nel
XX secolo. Istituzioni, come famiglie, imprese, corporazioni, feudi, sindacati, cooperative e altro, tutte operanti in modi differenti
e alternativi rispetto all’allocazione di risorse attraverso i mercati,
si sono affermate per la semplice ragione che sono risultate, paradossalmente, più convenienti dei mercati medesimi. Lo schema
teorico dei costi di transazione consente, nell’approccio neo-istituzionalista, di riportare le spiegazioni della mancata dominanza dei
mercati perfettamente concorrenziali fondate sulla socialità (cioè,
forme cooperative, associative, organizzate piuttosto che individualismo concorrenziale) ancora una volta ad un motivo di calcolo strumentale, cioè all’unico obiettivo della minimizzazione di
costi22. Se negli scambi di mercato ci sono costi di transazione, una
21
«Nonostante il coro di invenzioni accademiche tanto insistente nel XIX
secolo, il guadagno e il profitto nello scambio non hanno mai prima svolto una
parte importante nell’economia e per quanto l’istituzione del mercato fosse abbastanza comune a partire dalla tarda età della pietra, il suo ruolo era soltanto
incidentale nei confronti della vita economica» (Polanyi 1944, 57).
22
North (1977, 709). Si ricorda che i costi di transazione dipendono dal
numero di operatori, dai costi di accertamento e misurazione della qualità, dai
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5 - Crematistica e anticrematistica
139
istituzione come l’impresa in cui non si comprano i fattori produttivi sul mercato ma si creano internamente, può essere vantaggiosa. Con la teoria dei costi di transazione, che spiega l’insorgenza di
istituzioni in cui internamente sono eliminati gli scambi di mercato, si evitano così altre spiegazioni per la mancata dominanza del
mercato in taluni sistemi economici, facendo in tal modo salva l’unicità del “sistema” (del mercato capitalistico): il sistema è unico,
come unica è la teoria economica. Anche se si formano (o vengono
create) istituzioni differenti dal mercato, tuttavia ogni costruzione istituzionale «è chiaramente – sostiene North – un’istituzione
massimizzante la ricchezza
i mercati price-making»
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(North 1977, 711). I neo-istituzionalisti
to Espiegano le strutture econo-b“naturale”
miche “miste” con il fatto che la soluzione
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non sia riuscita ad affermarsi pienamente per alcune
esterapragioni
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ne al funzionamento del mercato medesimo. Invocano,ain
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luogo, ragioni “tecnologiche”, quindi esterne e non modificabili
dall’azione del mercato; in secondo luogo ipotizzano l’esistenza di
costi di transazione elevati, senza peraltro spiegare come fare per
calcolarli vista l’assenza del mercato in cui dovrebbero manifestarsi, se non ricorrendo a imputazioni fittizie “come se” il mercato
ci fosse: ritorna così l’idea della “caverna” platonica e la distanza
delle “ombre” dalla loro proiezione; inoltre, in terzo luogo, ma non
di minor peso, affermano la presenza di “repressioni” alle libertà d’impresa da parte di poteri politici, o di forme di rent-seeking
esercitate da autorità e mafie che estraggono reddito ed estorcono
tangenti (con l’equazione, spesso implicita, che anche le tassazioni
legittime sono economicamente equivalenti alle grassazioni). Tali
inefficienze, finché non sono eliminate, trattengono le economie in
condizioni di arretratezza e ne precludono il progresso sulla “via
dello sviluppo”; ritorna qui la metafora teologica del cammino verso la Terra promessa e di un Mosè che, questa volta, ritorna dal
Monte con le tavole delle leggi, quelle dell’economia. Abbiamo già
trattato la critica di Georgescu-Roegen a questo tipo di ragionamento, fondato sull’assolutizzazione dell’economia capitalistica e
costi per acquisire informazioni, dai costi di alterazioni al contratto, dai costi di
agenzia, ecc.
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Parte I - La categoria del moderno
dei suoi principi anche per economie agrarie precapitalistiche. Egli
ha mostrato che in tali condizioni la regola della massimizzazione
del profitto sarebbe stata economicamente e socialmente disastrosa, dunque non razionale.
Il quadro istituzionale considerato da Polanyi è più complesso, multivariato nelle spiegazioni. Le istituzioni non sono solo
originate dal contratto e da forme di bargaining tra interessi egoistici, ma rispondono anche a logiche di protezione dal rischio e
dall’insicurezza che riguardano la società intera, obiettivi economici che mirano alla sussistenza di tutti, con classi di occupazioni
stratificate: schiavitù, servitù domestica, élite che vivono una vita
beata e si occupano della polis, e così via. Anche sulla questione
della determinazione dei prezzi nell’economia, le differenze su
cui insiste Polanyi, e sulle quali sorvola North, sono le differenze
già considerate dagli economisti classici e da molti neoclassici o
di scuole alternative, più eclettiche e meno chiuse. Per esempio,
la superiorità “sacrale” del mercato “sovrano” nel determinare
i prezzi rispetto alla loro determinazione alternativa da parte di
altri “sovrani” politici non può essere un dogma indiscusso. Infatti, secondo Polanyi, e non solo, i prezzi amministrati hanno
proprietà vantaggiose perché livellano i profitti e riducono i rischi
(risk-free), sia di aspettative sbagliate, sia di credito per insolvenza
del debitore, rispetto alle condizioni dei price-making markets che
sono soggetti a fluttuazioni di prezzi. Un altro esempio riguarda
il trattamento del debito. In contrasto con le economie moderne, le società arcaiche stabiliscono obblighi pubblici in cui i debiti sono spesso garantiti collettivamente (Polanyi 1957b, 20-1). Si
consideri in proposito la questione del giubileo nella tradizione
giudaica. Il Levitico (25, 2-7) dispone il riposo della terra ogni sette
anni, quindi, dispone di lasciare, in quell’anno, ai poveri la raccolta dei frutti spontanei e di festeggiare un condono dei debiti il
cinquantesimo anno (Lv 8-55; 27, 17-21 e Nm 36, 4). L’anno giubilare, detto anche sabbatico perché consacrato al Signore come
il settimo giorno, è dunque un anno di rinascita. In quello stesso
senso è inteso da Gesù che riprende da Isaia il senso dell’«anno
di grazia» (Lc 4, 19), quale missione propria dell’«annunziare ai
poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista» (Lc 4, 18).
Questo E-book apparti
Capitolo 6
IL MODELLO NEOISTITUZIONALE DEL MERCATO
E IL CAPITALISMO COME RELIGIONE
6.1. L’infelicità nel mercato autoregolantesi e la ricerca della vita beata
Viviamo in un’epoca in cui l’uomo, signore di tutte le
cose, non è signore di se stesso. Egli si sente sperduto in
mezzo alla propria abbondanza […]. Per l’uomo moderno, vale quanto fu detto del reggente durante la minorità
di Luigi XV: aveva tutte le doti, tranne quella di saperle
usare. (Ortega y Gasset 1930, 167-8)
il processo capitalistico, analogamente a come distrusse
l’intelaiatura istituzionale della società feudale, tende a
corrodere la propria. (Schumpeter 1942, 142)
Ora, siccome il fine della vita retta [...] è la felicità celeste, rientra nelle mansioni del re organizzare una buona esistenza
sociale, secondo un criterio che risponda ai requisiti per raggiungere la felicità celeste. (Tommaso d’Aquino 1979, 467)
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Nel neo-istituzionalismo, di North e di altri, il modello di riferimento è sempre il mercato che si autoregola e non ha bisogno di
interventi esterni, anche quando è solo una ridotta sotto il controllo dei fortilizi delle imprese. Le altre istituzioni, compreso
l’impresa, di qualunque dimensione e potere di mercato, sorgono
in presenza di un eccesso di costi di transazione per sostituirsi al
mercato. I costi di transazione – sia detto en passant – non sono
altro che la ragione dell’incapacità dei mercati di autoregolarsi
e dunque di dotarsi di una rete di protezione e di sicurezza che
renda le transazioni sicure, a basso costo, purché, in definitiva, ci
siano istituzioni di altro tipo (rispetto alle imprese private) che
abbiano definito diritti di proprietà, indotto un enforcement sui
medesimi, diffuso le informazioni, e, tra l’altro, consolidato uno
stato della fiducia generalizzato. Ecco qui un altro paradosso: se
il mercato concorrenziale vuole funzionare (per esempio, eliminando i costi di transazione) e non essere soppiantato, deve al-
artie
Parte I - La categoria del moderno
142
lora appoggiarsi a un “sovrano” forte, efficace, sapiente. Inoltre,
nascono due aporie logiche dal punto di vista dell’analisi storica
del mercato. La prima è relativa alla seguente domanda: come
possono spiegare la creazione di istituzioni finalizzate a consentire la nascita e la protezione del mercato (cioè di quelle istituzioni
deputate a definire diritti di proprietà ecc.) coloro che considerano il mercato come lo stato di natura che pre-esiste a tutto e per
il quale, quindi, non c’è genealogia da fornire? Inoltre, ed ecco
la seconda aporia, perché – dopo che un sistema con alti costi di
transazione ha indotto a creare istituzioni fortemente gerarchiche come le imprese o i clan – imprese e clan, una volta divenuti
dominanti, dovrebbero essere disposti a farsi spiazzare e, da price-maker, diventare price-taker, cioè abbandonare, senza resistere,
quei vantaggi che faticosamente hanno conquistato indebolendo
o eliminando le regole di mercato? Ciò che occorre spiegare sono
anche i passaggi da un ordine di anonimato di mercato a un altro
di tipo gerarchico-aziendale. Il ragionamento di Hicks, che abbiamo succintamente riportato nel precedente paragrafo, spiega
l’economia di mercato come risultato di un cambiamento nelle
strutture di una società autoritaria e gerarchica, ma non spiega
il passaggio inverso dal mercato all’impresa gerarchica, ovvero
non spiega le gerarchie a partire da un’istituzione fragile come
il mercato, in forza di uno spontaneismo contrattuale come nella
visione neo-istituzionalista. In tale visione basterebbe il “naturale” (ricompare ancora l’aggettivo) istinto alla concorrenza e agli
affari per sgretolare assetti di potere solidi, poteri di comando che
non avrebbero capacità di resistere e di opporsi alla bacchetta magica delle forze concorrenziali espresse da un mercato.
Nella visione classica l’opposizione tra oikos-polis e mercato
è radicale, ma anche fondata su un’integrazione funzionale del
mercato nella polis per colmare un deficit di autosufficienza produttiva (o anche per non dissipare un surplus di beni disponibili)
e accedere a risorse esterne (o esportarne di interne)23. Solo l’atti-
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È quanto emerge chiaramente dal passo seguente: «La comunità che risulta di più villaggi è lo stato, perfetto, che raggiunge ormai, per così dire, il limite
dell’autosufficienza completa: formato bensì per rendere possibile la vita, in realtà
esiste per render possibile una vita felice» (Aristotele, Politica, I, 2, 1252 b 28-31).
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vità dei mercanti è in grado di fornire tali servizi. Tuttavia, la società si tutela dall’invasività mercantile, circoscrivendo lo spazio
libero del mercato per garantire le libertà civiche e i valori che le
contraddistinguono24. Tutto ciò per evitare che i mercanti invadano la polis e la governino secondo i propri interessi col rischio
che degeneri in Città del denaro. Il pericolo è quello ricordato di
cadere nella plutocrazia di pochi ricchi. Per questo il mercato è
considerato un’escrescenza esterna, un luogo di tutti coloro che
non hanno né terra, né “famiglia”, né patria. Le loro ricchezze
sono per definizione mobili, i loro interessi non hanno radici territoriali, la loro cultura, religione o identità sono strumenti fiduciari. Come schiavi e artigiani, i mercanti non partecipano alla vita
della polis e quando vi partecipano la corrompono. Nonostante la
loro opulenza vivono all’esterno della realtà comunitaria; socializzano soltanto sulla piazza di mercato dove svolgono affari al
fine di accrescere le loro ricchezze. L’oikos, la famiglia, è il cuore
della vita privata autonoma, ordinata su basi diverse dallo scambio (Booth 1994, 211-2). Nella tradizione di pensiero che si richiama a Platone e Aristotele, per far solo i loro nomi, la ricchezza,
per coloro che vivono in famiglia e nella polis, non è il fine dell’esistenza umana ma uno strumento per una vita felice. Ciò vale
soprattutto per coloro che sono attivi nella polis, vivono una vita
privata agiata, per cui possono dedicarsi alla ricerca della felicità. L’eudaimonia, ossia la “buona tutela demoniaca”, è il possesso
di un buon demone, un nume tutelare favorevole che aiuta nella
buona sorte; è una connessione tra felicità e fortuna, soddisfazione e piacere per la vita che si conduce (Fermani 2006, 40-3). La
felicità, da un punto di vista meramente esistenziale, è un’arte di
costruirsi la propria vita secondo virtù e capacità di temperanza25.
24
Ricorda Venturi Ferriolo (1983, 21) che Platone nelle Leggi (IX, 858 A-B)
pone i mercanti ai margini della “buona” polis; il fatto di svolgere un’attività commerciale estromette dalla città il mercante come il meteco e lo straniero (XI, 920
A), e si fa dell’agorá un luogo chiuso, al di fuori del quale non siano permesse
legalmente transazioni commerciali.
25
Ovviamente, la felicità è tanto un concetto centrale della filosofia e delle
religioni, quanto un concetto controverso ed elusivo quant’altri mai. Per amor di
precisione, dobbiamo ricordare che, per esempio, per Pascal la felicità è ciò che sta
cercando di raggiungere anche colui che vuole impiccarsi.
Parte I - La categoria del moderno
144
Attenersi a un giusto mezzo è, in questo senso, anche capacità di
usare la ricchezza, senza abusarne26.
È comunque chiaro che Aristotele non distingue tra dimensione privata e pubblica27. La buona sorte serve al raggiungimento di una vita agiata, intesa come condizione necessaria per una
vita beata, quale esercizio di virtù e ozio: «a ognuno tocca tanta
felicità quanta virtù, prudenza e attività informata a prudenza e
virtù» (Politica, VII, 1, 1323 b, 21) e, più avanti precisa:
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la buona fortuna è diversa dalla felicità (ché dei beni esterni all’anima
causa è il caso e la fortuna, mentre nessuno è giusto o temperante per
caso o in forza del caso). Viene di seguito, e in base agli stessi ragionamenti, che lo stato migliore è felice e sta bene: ma è impossibile che
stiano bene quelli che non compiono belle azioni: ora nessuna bella
azione si dà né di uomo né di stato senza virtù e prudenza (Politica, VII,
1, 1323 b, 30-34).
Il concetto è poi ribadito e sintetizzato in questi termini: «la
vita migliore per ciascuno, da un punto di vista individuale, e per
gli stati, da un punto di vista collettivo, è quella vissuta con la virtù, provvista di mezzi adatti a compiere azioni virtuose» (Politica,
VII, 1, 1323 b, 40-41 - 1324 a, 1-2). La vita felice è solo un privilegio di pochi e una conquista per ancor meno. Aristotele comprende bene i limiti della vita felice individuale e collettiva. Infatti, la buona crematistica, che rientra nell’amministrazione della
casa, «si dà un limite», mentre nella realtà «quelli che esercitano
la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di
questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica […]. In
entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, ché
l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento» (Politica, I, 9,
1258 a, 33 e 35-38). Il vivere bene ha un significato economico e
politico, per il singolo e per la comunità, perciò scivolare verso i
piaceri del corpo o verso il potere dei guadagni sposta l’asse da
una crematistica all’altra (Venturi Ferriolo 1983, 57-8).
Fermani (2006, specialmente le pp. 59, 180, 186n., 203-5) ricostruisce il
senso esistenziale della felicità e del rapporto stretto con la vita virtuosa. Il rapporto con i beni esteriori è assolutamente strumentale (idem, 51, 209, 214-6, 245-6).
27
Il tema è approfondito in Gastaldi (2003, 134-8).
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6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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Agostino considera l’otium la libertà da incombenze e occupazioni quotidiane. La vita contemplativa è una vita otiosa distinta
dalla vita negotiosa, consacrata agli affari. L’ozio non è però «inerte
pigrizia», ma vita rivolta «alla ricerca o alla scoperta della verità»
(Agostino, La città di Dio, 974, XIX, 19). Per Agostino tutta la filosofia morale antica è finalizzata al perseguimento del bene e della
vita beata. Il sommo bene e la felicità intesa come eudemonia è
per i pagani da realizzare in questa vita, unione di corpo (piacere)
e anima (virtù), mentre per il cristiano la beatitudine è raggiunta
nella vita eterna (idem, 959, XIX, 11).
Holte ha messo in luce le condizioni storiche che portarono
alla “sintesi” agostiniana relativa all’integrazione, nel pensiero
cristiano, di un insieme di problemi e concetti del pensiero più
antico, di tradizione pagana, sui fini dell’uomo e in particolare
sulla vita beata e sulla saggezza (sapientia), cristianamente tradotti
in beatitudine e saggezza (Holte 1962). Qualche secolo dopo anche Dante parla di contemplazione e azione: «l’operazione specifica del genere umano preso nella sua totalità è quella di attuare
sempre tutta la potenza dell’intelletto possibile, prima mediante
l’attività speculativa e poi, in forza e per estensione di questa, mediante l’attività pratica» (così nel De monarchia, I, iv, 1 [Dante 1997,
II, 543]). L’azione è ancora quella aristotelica della vita activa, ma
pare si apra anche un qualche spiraglio verso altri tipi di attività.
6.2. Verso il primato degli interessi
Come poterono nell’età moderna acquistare rispettabilità il commercio e la banca e le altre attività dirette solo al
guadagno, dopo che per secoli erano state condannate o
disprezzate come forma di cupidigia, amore del lucro, e
avidità? (Hirschman 1979, 15)
Un affetto non può essere ostacolato né tolto se non da un
affetto contrario e più forte dell’affetto da ostacolare. (Spinoza 2010/11, 1447 [IV, proposizione 7])
In Europa, all’incirca alla stessa epoca della nascita della scienza
moderna, iniziano a circolare compendi di buone maniere e dell’arte della dissimulazione per un incivilimento dei costumi delle élit-
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es e per una ritualizzazione dei poteri (Elias 1998). L’educazione,
attraverso la socialità delle buone maniere, è un mezzo per riscoprire i valori autentici delle polies antiche in un’epoca in cui altre
forme di stasis, come le guerre di religione, stavano lacerando la
cristianità (Agamben 2015a). Per saper stare in società Giovanni
Della Casa suggerì di mascherare gli interessi mediante l’eleganza
delle virtù, perché «chi sa carezzar le persone, con picciolo capitale
fa grosso guadagno» (Galateo, 1558, xvi). Un’accortezza analoga è
dettata anche da Baltasar Gracian, all’incirca un secolo dopo nel
suo Oráculo manual y arte de prudencia (1647), che ebbe fortuna a
partire dalla traduzione francese col titolo L’Homme de cour (1684).
In esso si legge: «un favore anticipato ha due virtù, primo per la
prontezza […], secondo per il dono, che più tardi sarà un debito».
I doni sono strumentali al tornaconto (la “virtù” potrebbe tradursi
in “vantaggio”). Uno slittamento ulteriore verso la degradazione
della virtù nelle relazioni sociali non tardò molto a essere espresso
in maniera netta da François de La Rochefoucauld (1613-1680) in
una delle famose Massime (la 171): «le virtù si perdono nell’interesse come i fiumi si perdono in mare». La Rochefoucauld testimoniava l’esaurimento progressivo delle opere di misericordia, dietro
le quali finiva per smascherarsi ogni più bieco opportunismo. Si
approssimava l’epoca di una maggiore regolazione della vita sociale, attraverso un diritto per mezzo del quale porre un perimetro
d’azione al libero movimento degli interessi e lasciare a ciascuno la
responsabilità di decidere sul proprio destino attraverso un impegno attivo nella vita economica nella quale far valere tutti i propri
talenti. Le buone intenzioni della misericordia finivano per corrodere il senso di responsabilità, peggiorando la stessa qualità della
vita collettiva. Gli interessi, comunque, cominciavano a essere più
tollerati delle passioni perché, come mostra Hirschman (1979), gli
interessi liberati da costrizioni morali cominciavano a essere considerati la forza per poter tenere a freno le passioni stesse, e così
pacificare e armonizzare la vita sociale.
Il dono, quale rito e pratica per rafforzare i legami sociali,
estromesso dall’interesse, si ritrova ancora, ma soltanto racchiuso in ambiti più riservati della vita privata. Nell’Europa cristiana
permane la tradizione paolina della carità, virtù fondamentale per
l’apostolo sulla quale rafforzare nella fede la comunità cristiana per
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6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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renderla «corpo di Cristo» (1 Cor. 12, 4-7 e 13). La carità «non cerca
il suo interesse» (1 Cor. 13, 5), ma qualcosa che va oltre. Il concetto è
espresso da S. Tommaso come la società dell’uomo con Dio che inizia nell’esistenza con la grazia e si perfeziona con la gloria (Summa
Theol. I, q. 23, a. 3, e q. 25 a 5; q. 43 a. 5)28. Sini (2015, 101), riprende
tale concetto per riferirsi all’economia del dono come alla «prima
economia politica», nella quale «il dono è un atto qualitativo spontaneo, cioè non misurabile, non quantificabile, non trascrivibile,
non prevedibile nel senso di precalcolabile, esso è anche inalienabile», non fa cioè parte di un sistema di relazioni di scambi mercantili
nei quali la misura, il calcolo, la prevedibilità sono la norma.
In qualunque modo lo si intenda, era difficile che la legittimazione dell’interesse sopprimesse del tutto le manifestazioni del
dono, per farne semmai la maschera di buone intenzioni nei riti
delle buone maniere. Le moderne buone maniere si rifanno all’antica Grecia e all’antica Roma, nelle quali il dono evergetico (da
euergétēs) era un’istituzione sociale, un mezzo per acquisire onori,
prestigio o un potere politico, che ha solo qualcosa di comparabile
nelle opere di carità di età moderna o nella fiscalità redistributrice
di reddito nelle economie più avanzate caratterizzate dal cosiddetto Stato del benessere (welfare State). Nella Grecia antica gli evergeti
erano i ricchi “benefattori”, a Roma l’evergetismo offriva alla plebe
panem et circenses, una serie di donazioni in forma di opere pubbliche a cui i ricchi opulenti non potevano e non volevano sottrarsi.
Il mecenatismo delle epoche successive o i costruttori di opere di
carità erano i degni discendenti di questa lunga tradizione (Veyne
1976). Riti e pratiche antiche sono riscoperti dalle società borghesi
moderne, finché imitano le aristocrazie nobiliari in declino e non
sono volgarizzati e contabilizzati sotto forma di brand, pratiche di
marketing istituzionali, forme di fidelizzazioni.
Marcel Mauss, in un lungo saggio sul dono (1923-24), mise in
evidenza un’attività di scambio molto complessa, rituale, che va
oltre il momento dell’atto stesso, in quanto il dono non è gene-
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La carità intesa come preoccupazione fondamentale nella società medievale per avere coesione e pace sociale nelle città e nei borghi attraverso una
redistribuzione volontaria di beni, in Rubin (1987); sulle pratiche sociali delle fratellanze anche Oschema (2005).
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ralmente unilaterale, bensì obbliga chi lo riceve a non rifiutarlo e
a contraccambiare (vedi anche la parte II). Al pari della relazione
di credito, il dono è l’altro forte vincolo sociale, cementa insieme
chi lo fa e chi lo riceve e richiede la sua “estinzione”, per poter
ripartire da capo. L’estinzione sta nel ricambiarlo come conferma
di gradimento, di valore attribuito all’oggetto e al gesto. Nel credito-debito esiste una forma analoga di legame: il laccio del debito è
spesso il cappio che strangola il debitore, ma il creditore è un soccorritore finché tutto si mantiene in equilibrio. Il dono è in questo
senso un legame sociale forte, ricorsivo, che tiene saldamente unita una comunità secondo regole alternative a quelle di una semplice compravendita fondata sulla contrattazione e sull’equivalenza
di valore. L’elemosina e anche il credito possono essere considerati
polarità opposte, nel senso che diremo di seguito, di atti di dono.
L’elemosina è ripulita dal contro-dono di ritorno, il credito toglie
dal rapporto l’incertezza e l’arbitrarietà rispetto a tempi, durata,
misura e oggetto del contro-dono. Nel credito-debito c’è la ricorsività in avere e dare. Il debitore ha sottoscritto volontariamente
quando il credito ottenuto giungerà a scadenza, e dalla sua puntualità di pagamento sa, in anticipo, che dipenderà un eventuale
rinnovo del debito. L’onorabilità del debito aumenta ogni volta
che il rapporto è rinnovato ed estinto secondo i patti.
La carità, massima virtù cristiana (1 Cor. 13, 2), è un donare volontario e unilaterale, senza attendere contropartite, come
nell’insegnamento evangelico (Lc 14, 12-14), ad eccezione, ovviamente, della ricompensa, non secondaria, di far parte di una
comunità, viatico per la salvezza eterna. Nelle società arcaiche il
dono, nella versione dell’evergetismo greco e romano antico, nel
mecenatismo moderno e perfino nella beneficenza in senso lato,
svolge lo stesso ruolo di coesione sociale e di legame identitario,
seppure senza intenzioni di gratuità assoluta.
Che tipo di interesse c’è – per il donatore come per il donatario – nelle pratiche del dono, sia esso presente in modo evidente o
nascosto? Derrida evoca il tempo fuori dai cardini (The time is out
of joint) dell’Amleto come «l’appello del dono, della singolarità»,
di una relazione con gli altri che rinvia alla giustizia (Dike) «come
incalcolabilità del dono e singolarità dell’es-posizione an-economica ad altri» (Derrida 1994, 48-9). Derrida si domanda quale sia
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
149
il dono della Dike: «Che cos’è questa giustizia al di là del diritto?
Viene essa solo a compensare un torto, restituire un dovuto, fare
diritto o fare giustizia? Viene solo a rendere giustizia, o al contrario a dare al di là del dovere, del debito, del crimine o della colpa?»
(Derrida 1994, 51-2). In un altro saggio Derrida si è posto il problema della possibilità stessa del dono (Derrida 1991). Immerso nella
dimensione circolare dello scambio, del dono e contro-dono, del
debito e del rimborso, della ricompensa e della riconoscenza simbolica e di memoria, il dono perde la dimensione unilaterale, disinteressata, senza calcolo e, di fatto, si annulla come atto possibile, con dubbi sulla stessa intenzionalità del donatore, inconoscibile
per definizione: un’aporia senza fine, circolare. Si tratterebbe di un
dono senza restituzione, senza contabilità né calcolo, di uno stato
di squilibrio, di un senso di colpa, di un debito da rendere. Salvioli
distingue tra il dono unilaterale delle chiese riformate, tendenzialmente a carattere dispotico, per far sentire il peso di quanto dato,
per porre in una condizione di perpetuo debito chi lo beneficia, rispetto alla versione cattolica della grazia, dono-scambio, tendente
sì allo scambio di equivalenti, ma dentro un rapporto che insieme
al dono libero unilaterale istituisce uno scambio perpetuo entro la
divinità trinitaria e tra questa e i fedeli29. Salvioli riconduce il dono
nell’ambito di una «metafisica trinitaria, strutturata da una concezione teo-ontologica della partecipazione», dove il «Verbum» corrisponde alla «possibilità di trattare correttamente del linguaggio,
della storia e della cultura in relazione con Dio» e lo «Spirito Santo»
alla «possibilità di pensare in radice la questione socio-politico-economica, in continuità con la dottrina tradizionale che chiama la
terza Persona della Trinità Amor e Donum» (Salvioli 2014, 206). Il
concetto è spiegato in questi termini:
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Lo Spirito Santo procedendo come Dono dalla relazione di reciprocità del Padre e del Figlio, uniti nell’Amore come un unico principio, ci
permette così di pensare partecipativamente il dono in modo da vedervi
integrata la reciprocità, confinata dal pensiero moderno nei limiti dello
scambio di equivalenti (Salvioli 2014, 207).
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Sulla questione sono molto chiare le precisazioni e i commenti di Salvioli (2013, 165n. e 166). V. anche Milbank (1995).
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Parte I - La categoria del moderno
Il dono non può tuttavia essere ricondotto all’universalità del
calcolo economico dello scambio tra equivalenti. Non tutto nel
dono può appiattirsi sul self-interest illustrato dal famoso brano di
Adam Smith con l’esempio del macellaio, del birraio e del fornaio, che non riforniscono i clienti di carne, birra e pane per benevolenza (1776, libro I, cap. ii). Nel dono c’è un qualcosa che i singoli
individui non possono produrre da sé, né la divisione del lavoro
è sufficiente a garantire: è quella carica di coesione sociale che
pervade il dono a differenza degli scambi mercantili. Montaigne
(nei Saggi, libro II, cap. 29, titolato appunto Della virtù) parlava di
un bene comune che deriva da alcune condizioni sociali e istituzionali: «Salvo l’ordine, la moderazione e la costanza, ritengo che
tutte le cose siano fattibili per un uomo oltremodo manchevole e
nel complesso pieno di debolezze». Intendeva riferirsi a una pace
sociale stabilita su regole condivise in grado di smussare e risolok
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vere i conflitti. Considerazioni analoghe si riscontranoE
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Pascal che, per raddrizzare quelle debolezze, indica
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che affronteremo qui
di seguito sull’ascesi dell’efficienza: «Le guerre civili sono il peggiore dei mali. Saranno inevitabili se si vorranno ricompensare i
meriti, perché tutti ne vanteranno» (Pensieri [1657], 128 dell’ed.
Sellier).
Tuttavia va qui rilevato che, naturalmente, gli economisti
hanno incorporato il tema del dono e del contro-dono – sviluppato dall’antropologia ma facilmente divorato dal mainstream
economico – all’interno del paradigma della loro scienza, quello
riformulato da Lionel Robbins nel 1932, per cui tale scienza ha
per oggetto la scelta umana di mezzi scarsi a fini alternativi (sui
quali ultimi l’economista sorvola). Per l’economia mainstream, il
tema altruistico deriva semplicemente da – e collassa in – quello egoistico-utilitarista; essa appare immemore, quindi, sia di
quanto già sostenevano Durkheim, Mauss e oggi Derrida – cioè
che è impossibile derivare l’altruismo dall’egoismo – sia dell’appello di Keynes all’economia come scienza “morale”. Non è un
caso che una sfilza di premi Nobel per l’economia siano stati
apparentemente molto attenti all’altruismo (e che forse proprio
per quella dissimulazione ben riuscita sono stati così premiati)
e si siano dedicati al tema del dono (e del contro-dono, noto più
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tecnicamente come gift-exchange e reciprocity)30, solo per farne,
però, un’ulteriore filiazione del calcolo economico utilitaristico
(Fontaine, 2012): quindi, per limitarci a citare soltanto i premi
Nobel, iniziamo, come al solito, col nome di Gary Becker che già
nel 1961 scriveva – il titolo è del tutto auto-esplicativo – Notes on
an Economic Analysis of Philanthropy, poi di Phelps (1975) che raccoglieva una serie di saggi rispetto all’altruismo, Ostrom (1990)
che suggeriva un’azione collettiva di gestione dei beni pubblici
sulla scia critica di Olson (1965), Akerlof (1982) che, attraverso il
meccanismo del dono-contro-dono, spiegava i contratti di lavoro (un salario più alto della media da parte dell’impresa viene
percepito come “dono” dai lavoratori, i quali, allora, si sentono
obbligati a ricambiare col contro-dono di uno sforzo lavorativo
più alto della media)31, o Kahneman e Thaler che, col medesimo
riferimento al dono – sebbene sotto le spoglie della fairness –
spiegavano certe anomalie dei prezzi nei mercati dei prodotti
(Kahneman et al., 1986).
Infine, anche un altro Nobel come Sen (1985), che, attraverso
la focalizzazione sulle capabilities – secondo cui sarebbe errato misurare le differenze di benessere tra persone in base al reddito o
alla ricchezza ma bisognerebbe, invece, “pesare” tali variabili in
base alle caratteristiche personali come il sesso, l’età, l’istruzione,
la salute – e il riferimento a valori “etici” nelle libertà economiche
– secondo alcuni di sapore “aristotelico” –, si è guadagnato una
posizione apparentemente “alternativa”32 rispetto al mainstream
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Fehr e Gächter (2000, 159), i quali introducono nel tipico modello
dell’homo oeconomicus la reciprocità, riportano che quest’ultima era già trattata,
per esempio, nell’Edda, una raccolta del XIII secolo di versi epici norreni, nei seguenti termini: «Un uomo dovrebbe essere amico del suo amico e ripagare il dono
con un dono. Le persone dovrebbero ricambiare sorrisi con sorrisi e bugie con
tradimento».
31
Un’analisi dinamica complessa degli effetti dell’ipotesi di “dono-contro-dono” in termini di maggior salario-maggiore produttività in una economia
marxiano-goodwiniana è sviluppata in Fanti e Manfredi (2000).
32
Per Sen, a parità di reddito, una persona malata e una persona sana non
possano godere delle stesse opportunità, come pure, in tema di libertà di azione
economica, digiunare volontariamente per l’obiettivo di uno sciopero della fame
deve essere valutato diversamente dal digiunare perché non si ha l’opportunità di
acquistare cibo.
30
Parte I - La categoria del moderno
152
economico, in realtà non si differenzia dal medesimo, che – come
noto – incorpora ogni eticità e altruismo all’interno del paradigma
dell’individualismo metodologico e del comportamento dell’homo oeconomicus. Anzi, il fatto di considerare il singolo individuo
(e non una qualsiasi unità collettiva), come riferimento di base
delle auspicate politiche di sviluppo, fa di Sen – che pur sembra sensibile ai visibili drammi connessi all’economia capitalista
nei paesi in via di sviluppo – un estremo sodale dell’illuminismo
kantiano contrapposto alle visioni marxiane dello sviluppo33. Insomma, l’economia del benessere tradizionale e quella del benessere secondo le capabilities di Sen, condividono nella sostanza lo
stesso approccio metodologico e la stessa visione della scienza
economica.
Per semplificare, la differenza fra la concezione economica
del capostipite neoliberale Becker e quella di Sen, è – ammesso
che ci sia – del tutto secondaria: infatti, se il primo modella la
famiglia (Becker 1991) come un’unità economica in cui il capofamiglia maschio appare altruista massimizzando la propria utilità
calcolata come utilità della famiglia, cioè tenendo in conto beni e
risorse degli altri familiari, il secondo avrebbe solo da ridire non
tanto sul modello di Becker ma piuttosto – per la visione globalista anti-identitaria e multiculturale tipica di Sen – sull’assunzione
– del tutto irrilevante nell’“economia” del modello beckeriano –
del capofamiglia di sesso maschile che potrebbe apparire discriminatoria.
In conclusione, l’indagine genealogica, condotta in gran parte dall’antropologia e dalla filosofia, su forme, contenuti e persistenza dello scambio inteso in termini di dono (e contro-dono) ha
smascherato l’“universalità” nello spazio e nel tempo del concetto di scambio in termini di mercato, come pretesa dall’economia
mainstream.
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L’associazione fra Kant, l’individualismo e l’opposizione a teorie di
azione collettiva come il marxismo sta nella ben nota affermazione che ciascun
essere umano deve essere trattato come un fine in sé e non come un mezzo per
soddisfare gli obiettivi altrui.
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6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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6.3. Dono e sacrificio e la soglia sacro-profano
Ogni concezione religiosa del mondo implica la distinzione tra sacro e profano. Questi due mondi, quello del sacro e del profano, si definiscono rigorosamente solo l’uno
per mezzo dell’altro. Si escludono e si reclamano. (Caillois
1950, 24-5)
M. G. De Lapouge ha recentemente detto: «L’antropologia è destinata a rivoluzionare le scienze politiche e sociali
così radicalmente come la batteriologia ha rivoluzionato la
scienza della medicina». (Veblen 1898, 373)
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In materia di dono la letteratura economica contemporanea ha fatto di ogni erba un fascio, riconducendo tutto a una questione di
puro interesse, sfrondando così quelle che erano ritenute dissimulazioni ipocrite e pratiche oscurantistiche, dovute a tabù inibitori
che frenavano la libera espressione di interessi legittimi. A Gary
Becker (1964 e 1974) si può attribuire il merito di questa operazione
di “imperialismo economico”, che è speculare, per parte neoliberale, all’idea del marxismo volgare di ricondurre ogni espressione
di pensiero e di condotta sociale a interessi materiali34. Lo schema
analitico di riferimento “beckeriano” prevede che ogni azione sociale sia fatta per raggiungere alcune finalità con mezzi limitati a
disposizione. Il modello, per esempio nel caso del crimine, è l’analisi del costo opportunità che il criminale (razionale) valuta, prima
di agire, in base alla pena e alla probabilità di cadere nelle maglie di
una giustizia. Tali maglie possono essere, a loro volta, tenute più o
meno strette da un legislatore che, da parte sua, fissa misure di deterrenza tenendo conto di tutti i costi della giustizia, piuttosto che
intervenire allo scopo di sradicare il crimine stesso. Studi analoghi
hanno riguardato molti altri ambiti della vita sociale, comprese le
fedi religiose trattate dall’economia delle religioni35.
Merita ricordare che lo spirito liberale è fin dall’inizio del periodo illuminista indifferente ai valori etici tradizionali, al punto
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Cfr. anche Becker (1998).
Cfr. Ekelund et al. (1996); Iannaccone (1998); Becker e Woessmann
(2009); Ekelund e Tollison (2011); mentre in un approccio di teologia politica Hauerwas e Wells (2004).
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da “formalizzare” nello spirito “matematico” della nascente economia politica, persino la “delinquenza” ottimale36. Seppure possa apparire sorprendente, i nostri Beccaria e i membri dell’Accademia dei Pugni con la loro famosa rivista Il Caffè, sono di due secoli
in anticipo rispetto a Gary Becker e alla sua Economics of crime.
L’economics contemporaneo pare abbinarsi a ogni aggettivo
qualificativo ad eccezione di political, finalmente messo da parte37
per dar rilievo di scienza “dura”, sempre meno storica e sempre
più deduttiva.
Anche le altre scienze sociali hanno ceduto e l’approccio economicistico ha fatto ormai breccia anche in esse. La presa di distanza dai Mauss e Polanyi si fonda su una nozione di scambio
che ingloba e non considera più tutte le forme di reciprocità e
redistribuzione38. È qualcosa di più di un dibattito interno a varie
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Infatti, questa tendenza appare in modo inequivocabile nella «attività
impetuosa dei giovani liberali dell’Accademia dei Pugni e […] con quale allegro
estremismo siano già in grado sulla loro rivista, “Il Caffè”, di sviluppare fino alle
estreme conseguenze alcuni principi del tutto nuovi del liberalismo illuminista
[…] Vi si scopre fra l’altro, nelle pagine scritte da Beccaria, uno dei primi tentativi di esprimere in formule matematiche il comportamento economico razionale.
Alla conclusione di dotti calcoli, il giovane autore ritiene di poter stabilire che “lo
sforzo da compiere per controbilanciare l’imposta con il contrabbando sarà pari al
quadrato del valore della merce, diviso per la somma del valore e dell’imposta”.
Come si vede da questo esempio, lo spirito capitalista delle origini non si preoccupa poi tanto dei valori tradizionali. Ed è alquanto significativo che uno dei primi
teoremi concepiti dalla «scienza» capitalista abbia per obiettivo la razionalizzazione di una pratica illecita» (Michéa, 2012, 48-49).
37
Ovviamente, l’imperialismo economico non ha mancato di invadere anche l’ambito della scienza politica, trasferendo la politica e la democrazia dentro
il paradigma del calcolo economico, ovvero riducendole ad un mercato dove si
scambiano voti e favori, e politici e lobbies massimizzano le proprie rendite (vedi
parte III). Ma è proprio questo trasferimento paradigmatico, che ne evidenzia
l’obiettivo di anestetizzazione del “politico” come conflitto e quindi anche come
libertà di poter cambiare le regole del capitalismo e di de-politicizzare lo Stato,
riducendolo ad essere e a comportarsi come un mercato.
38
La distinzione tra scambio, reciprocità e redistribuzione è fondamentale
nell’analisi di Polanyi (1944) del funzionamento di un’economia di mercato. Un
bel libro, che segue l’indirizzo della scuola economica ricordata, è di Zemon Davis
(2002). L’impossibilità del dono è la lettura che Jacques Derrida (1991) fornisce
del saggio di Mauss, del quale rovescia il senso del dono gratuito e senza ritorno.
La visibilità del dono, secondo Derrida, ne snatura il gesto e in questo starebbe il
paradosso del donare.
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6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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discipline umanistiche e si configura piuttosto come tentativo di
inclusione di ogni dimensione sociale nell’economia. L’“imperialismo” dell’economia teorica di mainstream ha come progetto di
porre il mercato a paradigma di ogni indagine: il mercato era già
stato il sostegno ideologico a quello che era il capitalismo di laissez
faire del XIX secolo, e dall’ultimo quarto del XX lo è, inteso soprattutto come sinonimo di concorrenza, in misura ancora più fondamentalista e religiosa per il capitalismo neoliberale, promotore, in
suo nome, della globalizzazione e di forme di governamentalità
totalizzanti per l’economia e la stessa vita sociale. Prima di andare avanti nell’esaminare l’avvento dell’ideologia neo-ordoliberale
(nella III parte), occorre capire meglio il concetto del dono.
Mauss, nel Saggio sul dono, insiste – come abbiamo visto in
precedenza – sugli aspetti rituali magici e religiosi che sono imprescindibili dall’atto del donare. La ritualità non riguarda solo
le forme esteriori delle donazioni in varie società. Il cerimoniale è
l’aspetto sostanziale di un procedimento identitario nel quale «la
cosa donata […] non è una cosa inerte», ma animata e individualizzata (Mauss 1923-24, 172). E ancora: «gli scambi e i contratti
trascinano nel loro turbine non solo gli uomini e le cose, ma anche
gli esseri sacri, che sono più o meno associati ad essi» (idem, 1778). Si tratta di contatti e scambi tra uomini e dèi come avviene nel
sacrificio. Il sacrificio è legato al dono; insieme, sacrificio e dono,
fanno parte integrante di forme di religiosità, che non sono solo
arcaiche. Giorgio Agamben chiarisce il senso di tutto ciò proponendo un diverso etimo del termine religione, che discenderebbe
da relegĕre piuttosto che, come generalmente ritenuto, da religare.
Mentre quest’ultimo farebbe riferimento, come noto, al legame
che si stabilisce tra umano e divino, il primo etimo ricondurrebbe
invece al riconoscimento di alterità e di separazione che gli uomini hanno nei confronti degli dèi, su cui riposa il fondamento
di rispetto che separa la sfera profana da quella sacra (Agamben
2005, 109-10). Il rigoroso confine fra le due sfere può essere oltrepassato solo attraverso il sacrificio che appartiene all’ambito
del dono, e che ha la caratteristica di sottrarre qualcosa ad un
uso per restituirlo ad un altro uso. La dimensione donativa ha
a che fare, quindi, con questo superamento del confine fra sacro
e profano e con questa trasformazione di uso. La differenza sa-
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cro-profano è resa esplicita in latino con due accezioni: da una
parte, sacer per indicare ciò che è consacrato agli dèi e che si porta
dietro l’ambiguità di un senso sporcato di ciò che è, ad un tempo,
«augusto e maledetto», «degno di venerazione e che incute orrore», dall’altra, l’aggettivo sanctus, che non è carico di nessuna
ambiguità di quel genere (Benveniste 1976, 1, 187-9). L’ambiguità
in sacer si spiega per il rapporto con il sacrificio. La cerimonia del
sacrificium è infatti finalizzata a render sacro, attraverso la morte,
un dono offerto alla divinità fonte di vita. La vittima sacrificale è
annientata nel trapasso.
Henri Hubert e Marcel Mauss pubblicarono uno studio sistematico sulla natura e sulla funzione del sacrificio visto come
un dispositivo-soglia per mettere in comunicazione il profano
col divino. Attraverso la mediazione sacerdotale e la celebrazione di un rito simbolico e cruento si realizza lo sconfinamento
dal mondo dei viventi alla sfera dei morti e del sacro (Hubert e
Mauss 1898).
Dono e sacrificio sono strettamente legati anche per l’aspetto
della condivisione. Benveniste (1976, 1, 70) traccia il lungo percorso linguistico che dalle forme greche di dono conduce al gotico
gild, che nelle lingue delle aree germaniche si corrompe in gelt, nel
senso di pagamento o sacrificio. La gilda dei mercanti è un “banchetto di corporazione”, un sodalizio insieme religioso, economico e giuridico. D’altronde la gilda deriva dal germanico gelt o geld
che significa anche denaro e che, per estensione metonimica, ha
dato il nome a una qualsiasi associazione in cui si ha contribuzione di denaro da parte dei soci per uno scopo. Dono e sacrificio –
ma anche denaro – consacrano la vita sociale, hanno una funzione
pacificatrice e di ristabilimento di un ordine turbato o minacciato
(sul sacrificio anche Girard 1982, 125-6; e Caillois 1950, 34).
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Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire
che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento
proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni.
(Benjamin 1921, 284)
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6.4. Il capitalismo come religione di culto utilitaristico
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
157
Avete portato via gli dèi che mi ero fatti e il mio sacerdote e
ve ne siete andati. Che cosa mi rimane? Come potete dunque dirmi: “che hai?” (Giudici 18, 24)
C’è un’idea che un giorno scatenerà la vera guerra mondiale:
che Dio non ha creato l’uomo come consumatore e produttore. Che i viveri non sono il fine della vita. Che lo stomaco
non ha da crescere sulla testa della testa. Che la vita non si
fonda esclusivamente sul profitto. Che l’uomo è posto nel
tempo per avere tempo e non per arrivare con le gambe da
una qualche parte prima che col cuore. (Kraus 1972, 316)
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Abbiamo ora gli elementi per riprendere la questione iniziale.
Come si è incrinata l’economia del dono al punto da giungere al
rovesciamento dei vizi privati in pubbliche virtù? Per rispondere
al quesito, che richiede di individuare e percorrere alcuni sentieri
genealogici, bisogna, prima di tutto, evidenziare le differenti visioni teoriche dello scambio economico. Gli storici economici offrono
generalmente due versioni estreme, con combinazioni intermedie
variabili. La prima, forse maggioritaria, segue uno schema “schumpeteriano” di sviluppo economico promosso sul lato dell’offerta e della produzione per effetto di innovazioni tecnologiche che
rompono la trappola malthusiana, dentro la quale le economie
tradizionali si dibattevano tra povertà diffusa e dinamiche demografiche vincolate dalle risorse disponibili nel tentativo di raggiungere un punto di equilibrio ad un livello purtroppo inevitabilmente basso del reddito. L’altra impostazione è di tipo “smithiano”,
perché insiste, invece, sui cambiamenti dal lato della domanda di
beni indotti essenzialmente dall’estensione dei mercati e dalla loro
integrazione, con la connessa espansione della divisione del lavoro
e della crescita della produttività. Infatti, l’aumento della divisione del lavoro che deriva (o ne è all’origine) dall’allargamento dei
mercati spiega così anche il miglioramento delle competenze e gli
aumenti di produttività. Quest’ultima versione è, forse, quella che
si accosta meglio all’idea di Polanyi (1944) di una sfera economica
resa progressivamente del tutto indipendente dalla società e nella
quale i mercati autoregolantesi portano a compimento il processo
di non-incorporazione (disembeddedness) dell’economia. Se queste
teorie dello sviluppo economico sono ben note, va però anche posto l’attenzione al fatto che oggi si assiste anche al recupero di una
terza posizione, non incompatibile con le due precedenti, ma che
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158
sposta l’ottica dall’economia, in senso stretto, all’etica economica
riprendendo una prospettiva weberiana ma in versione neoliberale
(McCloskey 2010, North 2006). Ciò ripropone, con argomentazioni in parte non del tutto nuove, interpretazioni di tipo sociologico
dello sviluppo delle economie industriali moderne.
Lo spirito imprenditoriale, secondo soprattutto la scuola austriaca e gli ordoliberali tedeschi, doveva essere almeno risvegliato
e rianimato per guidare il cambiamento dell’economia e della società. Occorreva però una diversa considerazione sociale dell’imprenditore, del borghese e soprattutto delle attività mercantili,
della ricerca del profitto e dell’accumulazione di ricchezze. Lo
snodo del cambiamento è collocato da Max Weber all’epoca della Riforma protestante e al successo della confessione calvinista,
interprete dello spirito del nascente capitalismo (Weber 1904-05).
L’ascesi cristiana tradizionale, di distacco dal mondo, si trasforma
in ascesi intramondana, di perfezionamento dentro il mondo. Le
virtù borghesi della vita austera e del risparmio, attraverso le quali razionalizzare i comportamenti economici e spingere alla ricerca
del profitto, sono un recupero di rispettabilità per la crematistica
“innaturale” disprezzata nel sistema di valori aristotelico-tomistici e di vita activa. L’etica della vocazione professionale (Beruf),
della responsabilità e del prestigio sociale sono le vie che conducono alla salvezza, che rivelano al fedele se appartiene o meno
alla schiera degli eletti. I comportamenti collettivi così forgiati
contraddistinguono quello sviluppo speciale (Sonderentwicklung)
che si realizza in Occidente una volta che il sacro e il divino hanno
abbandonato il mondo lasciandolo privo di significati magico-religiosi, rimpiazzati da un’etica intramondana contagiosa e pervasiva. McCloskey si fa promotrice di una idealizzazione “spirituale”
di pratiche borghesi, non più religiosamente motivate, come in
Weber, attraverso una costruzione teologica che realizza l’ascesi
intramondana, bensì come mistificazione dell’etica borghese: si è
onesti e parsimoniosi, tipiche virtù borghesi, perché semplicemente conviene dal punto di vista degli affari39.
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Sull’approccio di McCloskey, insistentemente focalizzato sull’efficienza,
come fosse un vangelo, v. Sutch (2017) e Nelson (2017); e per i fondamenti neoliberali Engelmann (2017).
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Il breve e incisivo frammento di Walter Benjamin del 1921,
pubblicato solo nel 1985 nel VI volume delle opere complete,
sviluppa in senso critico la prospettiva weberiana di un condizionamento reciproco tra etica protestante e capitalismo, ma in
un senso ben lontano da quello di McCloskey, rendendo così più
evidente l’operazione di mistificazione compiuta dalla storica
americana. Il capitalismo non era attecchito solo sul calvinismo,
ma anche sulle altre confessioni cristiane, cioè si era sviluppato, già da tempo, «parassitariamente sul cristianesimo, tanto che
alla fine, la storia di quest’ultimo è in sostanza quella del suo
parassita, il capitalismo» (Benjamin 1921, 121). Il capitalismo si è
sostituito alla religione diventando esso stesso religione, una religione che lenisce paure e inquietudini moderne solo sublimandole in una tensione estrema verso fini produttivi socialmente
accettabili. La razionalità economica, per Weber, se da un lato
perfeziona il rapporto mezzi-fini, dall’altro capovolge la razionalità etica: «così irrazionale in questo modo di vivere, dove l’uomo è in funzione e al servizio dei suoi affari, e non viceversa»
(Weber 1904-05, 93). Come una religione estrema, con un culto
utilitaristico, senza dogmi né teologie, fuori da ogni trascendenza e promessa di salvezza ultraterrena, il rito del lavoro si svolge
in un tempo indistinto, continuo, senza tregua né speranza, con
uno zelo angosciante che non salva, ma è rinchiuso in sé stesso
come il criceto che corre sulla ruota, anch’esso sans trêve et sans
merci. Per realizzare il rovesciamento etico necessario a mettere
in funzione l’efficienza economica, il dispositivo essenziale è il
senso di colpa e di debito da estinguere, che nel “capitalismo
religione” non è tanto il peccato originale, quanto, piuttosto, un
debito altrettanto originario e qui inestinguibile. Come religione
di puro culto e rito, il capitalismo «non toglie il peccato, ma genera colpa/debito» (Benjamin 1921, 119-120). La lingua tedesca
compendia nell’unico sostantivo di Schuld il debito e la colpa.
Una «demoniaca ambiguità del concetto», commenta ancora
Benjamin sulle tracce di Nietzsche il quale rinfacciava ai «genealogisti della morale» di non essersi immaginati che «quel basilare
concetto morale di “colpa” ha preso origine dal concetto molto
materiale di “debito”» (Nietzsche 1887, 51 [II, 4]). Il debito-colpa
è un dispositivo essenziale, come vedremo tra poco, nell’ordine
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morale del calvinismo-capitalismo, che coniuga moralità individuale e moralizzazione della società; senza quel dispositivo e in
assenza delle “virtù borghesi” l’ordine economico si disperde e
si corrompe. La vita activa moderna opera perciò un rovesciamento radicale, trasformando l’ascesi ultra in intramondana; si
inverte, così, il senso della vita col sopravvento della razionalità economica totalizzante per la persona e per la società. Come
osserva Tomba, qualche sollievo dalla continua tensione angosciosa si può ora, forse, ritrovare «sul lettino dell’analista dove
l’inconscio paga gli interessi sul debito/colpa contratto da una
coscienza sempre inadeguata rispetto alla tensione estrema imposta dal culto» (2014, 46).
Le tesi penetranti di Benjamin, commento e sviluppo di quelle weberiane, sulla natura religiosa del capitalismo (Löwy 2006,
205 e 207), spostano la genealogia dello spirito capitalistico dal
calvinismo al cristianesimo nel suo complesso. La questione della
Riforma protestante ridimensiona il proprio peso in un processo
di modernizzazione che può esser fatto risalire più indietro, con
l’evoluzione di una società mercantile dopo l’anno 1000.
Studi recenti, sulla scia del lavoro di Harold Berman (2003),
hanno approfondito le rotture teologiche e etiche interne alla religiosità medievale e della prima età moderna, sviluppate in seguito dalla seconda tomistica e dai teologi gesuiti. La questione
non ha solo un interesse storiografico e filosofico, ma ha aperto
una diatriba all’interno del mondo cattolico contemporaneo perché alle risoluzioni dei dibattiti teologico-politici di quell’epoca si
fa risalire la filiazione del liberalismo moderno e dei fondamenti
etici del mercato. Il contributo principale e più innovativo a tale
filiazione del liberalismo è attribuito alla teologia e filosofia francescana.
Salvioli (2013) ha compiuto una sintesi critica di tale percorso genealogico a partire da Giovanni Duns Scoto e Guglielmo
Ockham, filosofi e teologi francescani. Essi hanno contribuito a
impostare il rapporto tra Dio e gli uomini in forma di alleanza
contrattuale, conferendo agli uomini l’esercizio di diritti di proprietà all’interno di una sovranità più corrispondente all’imago
Dei. In questo modo – osserva Salvioli (2013, 80) – la «teologia
ha pertanto collaborato all’interno – e non per via di pura e sem-
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plice secolarizzazione ed ancor meno per il proprio ritrarsi dalla
scena culturale – alla ridefinizione delle nozioni di “proprietà” e
di “sovranità” che hanno permesso l’evolversi della teoria sociale
moderna». De Muralt sostiene che le tendenze alterne e opposte
della filosofia politica moderna, quelle della sovranità assoluta
del principe di diritto divino e della sovranità popolare, attraverso il contratto sociale e politico, s’iscrivono entrambe, per quanto
dicotomiche, nella linea di continuità con la filosofia morale di
Scoto e Ockham, secondo la dualità attribuita alla volontà umana
determinata sia de potentia ordinata dei, quindi per obbligazione
legale imposta arbitrariamente da Dio, che de potentia absoluta dei,
cioè assoluta rispetto a ogni determinazione oggettiva, perciò essenzialmente libera (de Muralt 2002, 89).
La svolta compiuta sul piano filosofico-teologico è essenziale
per l’affermarsi di nuovi principi e inclinazioni nei confronti di
una realtà economica che vede nelle dinamiche mercantili l’affermazione della libera volontà delle parti.
La disputa teologica non intendeva occuparsi direttamente
di quel che succedeva nel mondo degli affari. Aveva un precedente contingente nella difesa del rifiuto dei francescani di ogni
forma di proprietà al fine di seguire il principio di vivere in povertà “assoluta”, senza proprietà, secondo la regola del vivere
sine proprio. Dopo la morte del Santo, l’ordine dei frati minori
era giunto a un bivio critico: sebbene autorevole spiritualmente,
tale autorità rischiava di frantumarsi a causa dei numerosi lasciti di privati, e minacciata dai poteri terreni attraverso le accuse
del papato e dei teologi parigini. In particolare, papa Giovanni
XXII con la bolla Ad conditorem canonum stabiliva l’impossibilità
di separare la proprietà dall’uso, proprietà definita nel diritto
comune come ius utendi et abutendi, cioè di avere piena disponibilità del bene, di usarlo e consumarlo. Per i francescani il semplice uso, usus facti, poteva ritenersi disgiunto dalla proprietà,
in questo modo l’ordine poteva rispettare la regula e ricevere
donazioni. L’opposizione papale sollevava critiche da un punto
di vista strettamente logico-giuridico, respingendo il principio
della separabilità fra uso e proprietà, che, specialmente, non poteva ritenersi applicabile ai beni di consumo, per i quali l’uso
implicava appropriazione, esclusione e annullamento (abusus)
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del bene. L’usufrutto, a cui facevano appello i francescani, poteva valere solo per quei beni durevoli che non erano distrutti
nell’uso40.
Agamben (2011, 164) trova che sia una forzatura quella di alcuni storici del diritto, tra i quali Paolo Grossi (1972), che hanno
fatto risalire a Ockham e alle scuole francescane i fondamenti della moderna teoria del diritto soggettivo e della teoria pura della
proprietà fondata sul principio della separazione, in quanto lo
scopo principale della diatriba era solo e soltanto quello di giustificare e legittimare una povertà che rinunciava a ogni diritto e
perciò cercava di circoscrivere il potere del diritto positivo, piuttosto che dare ad esso un fondamento di sovranità41.
A partire dalla riscoperta delle dottrine giuridiche ed economiche francescane, la letteratura storica, specialmente italiana,
ha sviluppato un proficuo filone di ricerche. I lavori di Prodi,
Todeschini, Muzzarelli ed altri hanno insistito sul cambiamento
intervenuto anche nelle stesse autorità ecclesiastiche, progressivamente più tolleranti anche nei riguardi del mondo degli af-
La separazione fra uso e proprietà era stata la base della soluzione
compromissoria escogitata da papa Innocenzo IV per permettere all’Ordine
francescano di possedere proprietà ma solo come personalità “giuridica” fittizia
– cioè solo accettando di essere incorporati in una persona giuridica, che avrebbe posseduto per tutti loro ciò che nessuno, per adesione alla regola francescana,
poteva possedere individualmente – il cui rappresentante fosse il Papa medesimo, e nel frattempo permettere ai frati di poter usare e consumare parte di tali
possessi per vivere. Appena tale compromesso andò in crisi, per vari motivi, la
critica papale, tomista e giuridica, si scatenò basandosi sulla messa in evidenza
di una serie di paradossi interni al compromesso, costruito sulla separazione
fra proprietà e uso: che senso avrebbe avuto un dominio papale su cose, come
cibo, vestiti, alloggiamenti, che i frati hanno consumato? Se l’Ordine avesse effettivamente ceduto la proprietà, ne avrebbe dovuto anche cedere il dominio
su di essa, ma allora come poteva un frate consumare un pezzo di pane senza
avere un dominio assoluto su di esso? E al papa, che nominalmente possiede
il pane mangiato dal frate, che cosa resta una volta che il frate lo ha digerito?
Ricordiamo, di sfuggita, che il dibattito sulla questione della separazione di uso
e proprietà, così criticata nei termini sopra visti, fu un viatico importante per
l’affermazione del diritto alla proprietà privata in quanto fondamentale diritto
naturale della modernità (v. Vatter, 2013).
41
Sui termini teorico-giuridici delle tesi francescane v. ancora Agamben
(2011, 169-71).
40
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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fari. Uno slittamento del genere era stato già messo in evidenza
da Arendt con la legittimazione, lenta ma persistente, del labora
come componente della stessa vita contemplativa. Pietro di Giovanni Olivi portò alle conseguenze più ardite l’elaborazione già
avviata da altri teologi francescani. Pensare a una società senza moneta appare utopico, i mercanti che hanno fides pubblica
svolgono un’azione moderatrice portando i prezzi di mercato ad
accordarsi con i bisogni di coloro che sono poveri non per scelta
di vita. La ricchezza acquista una luce diversa e può diventare
non di ostacolo, ma di supporto alle opere della salvezza. Per
questa via iniziano a cadere gli altri preconcetti, primo tra tutti
quello riguardante l’usura. I monti di pietà, creature delle opere
francescane, svolgono operazioni creditizie analoghe a quelle
dei mercanti, ma il loro fine dichiarato è quello di combattere
l’usura, moderando il prezzo del denaro e offrendo ai bisognosi
l’opportunità di indebitarsi, ma con lo scopo sia di liberarsi dal
debito oppressivo degli usurai che di uscire dalle condizioni di
povertà in cui erano caduti. Anche nella città terrena può esserci
una mano della provvidenza che nascostamente, o meno, aiuta
a volgere gli interessi verso il bene.
Le indicazioni presenti negli studi storici sono state sviluppate su basi economico-concettuali da Stefano Zamagni e Luigino Bruni seguendo un’impostazione di critica all’economia
di mercato, specialmente nei più recenti sviluppi di un capitalismo finanziario senza controlli, che porta al soffocamento delle
istanze di solidarietà presenti nella società. La loro proposta può
essere interpretata come una salvaguardia di bisogni sociali, al
fine di promuovere un capitalismo ben temperato, armonizzato eticamente in quella che definiscono “economia civile”. Per
dissipare ombre e incomprensioni su di essa, tipo quelle di confonderla con un’economia sociale, con un mondo costituito di
organizzazioni non profit o cose del genere, essi hanno chiarito i
concetti fondamentali in un apposito Dizionario (Bruni e Zamagni 2009). L’economia “civile” è anzitutto la riscoperta di una
tradizione di pensiero – radicata specialmente nella cultura italiana, e dominante fino a circa la metà del Settecento nell’ambito
della filosofia morale. Si tratta perciò di un corpo di dottrine
assimilabile al concetto di “capitale sociale”, nel senso di Robert
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Putnam (2004)42, che può essere misurato dal grado di partecipazione degli individui alle organizzazioni della vita civile, con
miglioramenti significativi della qualità delle relazioni sociali e
un maggior riconoscimento della dignità umana. In tal modo,
viene riproposta una scienza economica, adattata al presente,
che superi il riduzionismo di un homo oeconomicus, in cui i legami sociali esistenti sono misurati soltanto secondo la dimensione dello scambio “puro”. Il riferimento alla tradizione di «Umanesimo civile», a cui si riallaccia l’«economia civile», è peraltro
così ampio da lasciare in ombra le stesse polemiche tra tomisti
e francescani sulla separazione fra uso e proprietà (Bruni e Zamagni 2009, 10) e tutta la tradizione anticrematistica che aveva
radici profonde nel paganesimo e nel cristianesimo (cfr. ad es.
Dodds 1993, 15-6; e Pieper 1998, 25-6)43. Vero è – come ricorda
Arendt (1958) – che il processo di amalgama e contaminazione
tra principi etico-religiosi e prassi mercantili tendente a superare il contrasto originario – aristotelico-tomistico fra crematistica e anticrematistica – fu lento ma inesorabile fino al punto di
disperdere quasi interamente quella che era stata la tradizione
anticrematistica. Quindi, se da un lato la tradizione storico economica “tomistica”, di cui era interprete Fanfani (2005), tendeva
ad escludere ogni contaminazione fra pensiero cristiano e spirito del capitalismo, la recente storiografia ha rivisitato quella
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Bourdieu (1980, 2) introdusse il concetto di capitale sociale inteso come
una «rete stabile di relazioni» che facilita la circolazione di risorse di vario genere,
attraverso rapporti istituzionalizzati e informali di “conoscenza” e “riconoscenza” reciproca tra i soggetti partecipanti. L’interazione frequente che si stabilisce
tra essi costituisce un capitale sociale, caratterizzato da fiducia, solidarietà e reciprocità; un insieme di fattori che consente, appunto, una più ampia e rapida
mobilizzazione di risorse. Putnam (2004) ha ripreso ed esteso il concetto in studi
storico-comparati dei comportamenti collettivi contrapposti, dove la presenza
di capitale sociale controbilancia e stempera gli effetti socialmente disgreganti
dell’individualismo.
43
Un critico delle tesi weberiane come Fanfani in un libro del 1934 (ristampato nel 2005) faceva risalire il capitalismo moderno alla ripresa dei traffici
commerciali nelle città-stato italiane dei primi secoli del secondo millennio, ma
tendeva a ribadire, con Weber, l’estraneità dell’etica cristiana e della teologia tomista, fondamentalmente anticrematistica, dal capitalismo, inconciliabile con i
principi dell’individualismo economico.
42
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
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relazione individuando in un filone del pensiero cristiano medievale (ad es. Pietro Olivi) le prime giustificazioni etiche delle
pratiche degli affari.
Per molti intellettuali cattolici, scavare in quelle tradizioni di
pensiero e d’azione non è stata solo un’operazione di specialisti
per riaprire una polemica con le tesi weberiane, ma anche, e forse soprattutto, un modo per abbandonare una vecchia mancanza
di “cultura d’impresa” e dunque pervenire all’accettazione dello
spirito del capitalismo, e in special modo dell’economia di mercato, e, talora, persino dei fondamenti del liberalismo moderno
(cfr. Bazzichi 2015, e, in parte, il recente Bruni 201844). Come considerare questi ultimi sviluppi culturali, se non alla luce di quel
capitalismo che, nelle lapidarie tesi di Benjamin, si abbarbica sul
ceppo di una tradizione religiosa fino a sostituirsi ad essa?
6.5. La forza disciplinante del debito per organizzare la società
sull’utile e sull’efficienza
Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne
per formarsi un giudizio personale sul mondo, perciò gli
regalò carrozze e cavalli: “Ora non hai più bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito
di farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu
il loro effetto. (Anders 1963, 103).
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siamo di fronte a una profusione di scelte minori e una carenza di grandi scelte. Possiamo entrare in un ipermercato
e scegliere tra venti diverse marche di margarina, ma molti
di noi non hanno altra scelta che entrare nell’ipermercato.
(Monbiot 2000, 16)
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- Marcello: Sa qual è il suo guaio? Di avere troppi soldi!
- Maddalena [togliendosi gli occhiali da sole]: E il tuo di non
averne abbastanza! Hm... intanto eccoci qua tutti e due!
- Marcello: Questo non è mica un guaio: siamo rimasti così
in pochi ad essere scontenti di noi stessi. (Federico Fellini,
Ennio Flaiano et al., La dolce vita, 1960)
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Un’ala più radicale (Antiseri e altri) ha ripreso da Michael Novak (1994;
2000) l’idea di far sposare la dottrina sociale cattolica con il neoliberalismo anarchico di Hayek.
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Parte I - La categoria del moderno
Il capitalismo come religione è la crematistica inoculata nell’animal laborans. È, oggi, la versione triste e sconsolata della crematistica energica dell’auri sacra fames degli spiriti animali imprenditoriali, non è attrazione individuale verso il guadagno, ma
rassegnata autodisciplina sul lavoro senza più la “one best way”
dei tempi di lavoro cronometrati alla catena di montaggio dell’industria fordista. Il capitalismo, organismo saprofito della religione, si sostituisce ad essa e ritualizza l’attività di produzione e consumo, pianifica la vita eliminando le fasi inattive, improduttive.
Il sentimento della nuova religio non ha misteri teologici, tutti i
fedeli sono accolti ai riti circolari della produzione-consumo-produzione (chi ne resta fuori è perché non ha meriti). L’ideologia del
capitalismo come religione è attualmente quella neoliberale, nelle
varie versioni e confessioni, comprese quelle che, forse, in forme
più originali e mitigate finiscono per far confluire, dentro la grande famiglia dell’orgoglio crematistico, teologie neo-francescane,
forme di umanesimi pecuniari e altre combinazioni di proposte
interpretative che cercano di dare un’anima teologico-filosofica
alle “virtù borghesi”. La questione è però da riportare sul terreno
che le è proprio, quello della forza “morale” del dispositivo colpa-debito indelebile, una condizione senza speranza di riscatto.
La diade debito-colpa induce a patire una condizione di debito permanente da dover rimettere in ogni istante. Come vedremo
meglio nella parte III, l’ideologia neoliberale porta a compimento
la collettivizzazione di un Beruf che, senza la gloria della salvezza,
ma con la ritualizzazione dell’esistenza lavorativa e di un edonismo da consumo indotto, produce concorrenza e performance sul
lavoro e negli altri luoghi residui della vita. Il principio “chi non
lavora non mangia” era un principio egalitario, che nell’apostolo
Paolo è invito a non vivere disordinatamente e a imitare chi segue
le regole di una convivenza pacifica (2Tes 3). Il principio “chi non
lavora non mangia” stabilisce un diritto a una retribuzione congrua con il soddisfacimento dei bisogni. Quel principio, nell’economics si trasforma in regola selettiva in base al motto: “ognuno
mangia, in quantità e qualità, in base alla performance ottenuta
sul lavoro”.
L’idea di dare lavoro a tutti, che, come puntualizza Georgescu-Roegen, era un’esigenza di sopravvivenza in economie prein-
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dustriali, diventa, per un certo periodo di tempo, anche un obiettivo discusso e spesso prevalente anche in economie avanzate.
Infatti, la piena occupazione, come obiettivo primario di politica
economica, si afferma come enunciazione di un principio solo
dopo la crisi del ’29 e resiste fino alla metà degli anni ’70 del XX
secolo in quei governi che, in qualche misura, si proponevano di
realizzare un welfare state seguendo politiche economiche ispirate
da Keynes. Ciò ha introdotto nel sistema capitalistico industriale
elementi di quel principio che era implicito nelle economie arcaiche e precapitalistiche, cioè che tutti ottengono alimenti dentro l’oikos, nella polis composta da organizzazioni familiari, nel
convento, e in genere in comunità agricole, per contemperare
un’esigenza di poter contare sul lavoro per accumulare prodotti
nelle buone annate e poter così far fronte alle ricorrenti carestie.
Il principio di un lavoro per tutti ha, forse, introdotto nel capitalismo una spinta ulteriore verso la caduta del saggio del profitto, il
conseguente infiacchimento dell’imprenditorialità e della concorrenzialità, a cui ha poi ridato fiato il colpo di reni della globalizzazione, della deregolamentazione e della progressiva eutanasia
delle forze sindacali. Il nuovo ordine del capitalismo neoliberale,
religione laica, ha così introiettato in ognuno il senso di colpa inestinguibile attraverso l’accanimento concorrenziale sul lavoro e il
desiderio per un consumo ipertrofico.
Occorre a questo punto ritornare alle tesi di Max Weber per
precisarle meglio, in vista del loro interesse per far luce, in un’ottica genealogica, sul disciplinamento dell’individuo del XXI secolo, ricordando il disciplinamento dell’ascesi intramondana e
delle comunità dei “santi” riformati studiati da Weber. L’ascesi
della professionalità e della solerzia diventa l’esercizio spirituale
della quotidianità, dell’applicazione razionale al lavoro e all’onestà nelle relazioni reciproche. Sono tutte condizioni basilari per il
buon funzionamento del mercato, dell’ethos dell’efficienza e della
concorrenza come principi regolativi della modernità (Zamagni
2016, 106). Il mercato, osserva Weber (1920, t. 2, cap. vi), «conosce
unicamente riguardi per la cosa concreta, non per la persona, non
conosce obblighi di fratellanza o di pietà, né alcuna delle spontanee relazioni umane che conoscono le comunità di persone». In
questo senso il mercato è una forza dissacrante. Lo stesso concet-
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to era tradotto da Thomas Carlyle nel lapidario cash nexus, a cui
si riduce ogni rapporto interpersonale attraverso la mediazione
operata sul mercato, organizzatore dell’allocazione delle risorse e
della soddisfazione dei bisogni.
Va ricordato che l’economia di mercato diventa sistema solo
con il capitalismo. Prima i mercati sono sporadici, sottili, male
organizzati, sottoposti a prezzi amministrati, regolati da poteri
che contingentano i prodotti, vincolano i prezzi a vantaggio di
produttori o di popolazioni urbane per assicurare pane e generi di prima necessità. Tra mercati di luoghi più o meno distanti
sono inoltre pochi i vasi comunicanti e per lo più risultano ostruiti. Infatti, se la ricerca del profitto non nasce col capitalismo, ma
è comune a varie epoche e categorie sociali, tuttavia tale ricerca
non può essere identificata con lo “spirito” del capitalismo, che
per Weber è organizzazione razionale e disciplinata al raggiungimento di uno scopo, che non è la produzione o lo scambio, ma
il profitto (Weber 1920, 102). Ancora in età moderna, le attività
mercantili, come i grandi affari commerciali e bancari a fini di lucro e di accumulazione (la crematistica ricordata), non godevano
di una piena rispettabilità perché occupavano il tempo e lo spirito, impedendo la “vita beata”, o buona. Il labora sopraffaceva
l’ora. La tradizionale visione riteneva che il lavoro fosse svolto
per preparare alla preghiera, all’ozio, o alla meditazione, magari
di pochi eletti che ne avevano vocazione. Tradizionalmente, la
società e la politica – come già osservato – assegnavano spazi
limitati e controllati ai mercati, la cui libertà d’azione era ampia ma solo dentro quei confini, per evitare che quelle attività
compromettessero le funzioni essenziali del commercio al servizio delle economie domestiche nel loro complesso. Ma le cose
cambiano drasticamente se si inverte l’ordine di dominanza, se
sono i mercati ad assumere il predominio e ad assegnare spazi
limitati agli altri ambiti. Polanyi, come abbiamo visto, esprime,
con il concetto di «doppio movimento», l’altalena continua tra i
mercati, che, da un lato, tendono a espandersi e a prevaricare, e
le istanze della società, che, dall’altro lato, cercano di difendersi
dalle instabilità e dalla forza autodistruttiva dei mercati. Il predicatore puritano Richard Baxter non pensava più di dover tenere
a freno le forze di mercato, assunto invece a sistema regolativo
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della vita sociale, quando invitava i fedeli a non rifiutarsi di essere «amministratori [stewarts]» per conto di Dio e ad accumulare
ricchezze come doni ricevuti dal cielo e che (si noti un implicito
dispositivo dono-contro-dono) potevano essere richiesti indietro
(cit. in Weber 1904-05, cap. II.2, 222). Tuttavia, l’economia di mercato, per costruirsi su basi razionali e funzionare, non esigeva
solo che tali prescrizioni fossero osservate dai singoli, ma che la
stessa collettività imponesse quelle regole morali ai più riottosi e,
specialmente, agli ignavi e ai dissipatori. L’ascesi intramondana
diventava così una «gabbia di durissimo acciaio», spoglia di senso al di fuori delle «passioni puramente agonali, competitive»
(Weber 1904-05, 240, cap. II.2).
Qui sorge un aspetto importante e riguarda il mito dell’evoluzione “naturale” dei mercati. Le pagine di Weber, anche in questo, sono istruttive perché l’etica che rivitalizza lo spirito del capitalismo non ha solo un profilo individualistico. Il puritano sa che
per discernere hic et nunc i disegni divini, cioè per poter leggere in
essi i segni del dono della grazia, e poter sapere se egli farà parte
della schiera degli eletti (la certitudo salus), deve essere un buon
amministratore dei propri talenti e saper mettere a frutto la propria professionalità. Tuttavia, per avere successo imprenditoriale
non basta la propria individuale professionalità, ma occorre anche operare in un ambiente favorevole, ripulito di vari ostacoli e
di cattivi soggetti, tra i quali i ladri non sono i più pericolosi, bensì
lo sono quelli che tradiscono la fiducia loro accordata. Afferma
Paolo Prodi: «la criminalizzazione del furto si intreccia con lo sviluppo della religione della proprietà privata» e della «difesa della
validità dei contratti come categoria generale, dei quasi-contratti
e delle promesse sulla base del consenso, del presupposto della fiducia espressa e dell’obbligo della restituzione del maltolto,
di qualsiasi ingiusto arricchimento». E ancora: «il criminale per
eccellenza diviene sì il vagabondo ma in quanto persona che rifiuta la proprietà e il mercato e quindi almeno potenzialmente
ladro» (Prodi 2009, 164). Va costruita una società che corrisponda
ai principi a cui si ispira la comunità dei fedeli, i “santi” preservati nella grazia, altrimenti l’insuccesso mondano è quasi certo e
la salvezza seriamente o definitivamente compromessa a causa
di chi non mantiene fede (anche agli impegni), quindi anche per
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colpa di ogni opportunista. Opportunismo e slealtà sono socialmente più dannosi del furto e della delinquenza comune. Swift
ricorda che gli abitanti di Lilliput guardavano alla «frode come
un delitto più grave del furto, perciò la punivano quasi sempre
con la pena capitale», perché se è facile difendersi dai ladri con un
po’ d’attenzione e di vigilanza, «e un briciolo di senso comune»,
non altrettanto si può dire che l’onestà sia al riparo dall’astuzia
di chi mente e spaccia una cosa per un’altra (Swift 1726, 141 [I,
vi]). L’imbroglione è descritto in modo dovizioso da Quevedo
come quel don Cosimo che «[a]veva spogliato mezzo regno. Faceva credere quello che voleva. Non si è mai visto un tale artista
della menzogna, che non dice la verità neppure per distrazione
[…]. Insomma, quando non infrangeva i comandamenti di Dio,
li incrinava» (Quevedo 1626, 112-3 [libro III, cap. iii]). Anche nei
confronti dei mercanti Quevedo non era più tenero. Gli uomini
d’affari italiani erano «bari della penna “per fissare i prezzi che
governano la moneta”» nelle fiere che si tenevano a Besanzone
dove «si dirigeva il concerto dei virtuosi con le unghie», cioè
mercanti e banchieri che giravano cambiali e fornivano crediti ai
sovrani alle condizioni che lì si stabilivano45. In definitiva, concludeva Quevedo, «la coscienza di un mercante è come la verginità
di una puttana, che si vende senza bisogno di averla» (Quevedo
1626, 76-7 [libro III, cap. iii]).
Ritornando alla religione protestante, la comunità dei “santi” trova non solo i dispositivi morali ma anche quelli organizzativi per reprimere i fenomeni di frode, opportunismo e slealtà.
Come osserva Poggi, l’ammissione a comunità e sette di chiese
riformate doveva passare al vaglio dei membri anziani, ai quali
spettava “certificare” l’autenticità della “chiamata” e della vocazione attraverso una rettitudine di comportamenti, controllata da
perseveranza nelle fatiche del lavoro, propensione alla parsimonia, onestà, affidabilità nell’adempimento scrupoloso delle obbligazioni contrattuali (Poggi 1983, 77). A livello generale, la rete
di rapporti commerciali che si veniva a costituire dava maggiori
Sui metodi effettivi dei banchieri italiani dell’epoca cfr. ovviamente il
lavoro di Deleplace, Gillard e Boyer-Xambeau (1991).
45
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
171
garanzie di affidabilità e di prevedibilità degli atti individuali e
collettivi, spianando la strada al successo e alla conferma nella
salvezza. In tal senso, l’ascetismo intramondano non riguardava
solo una dimensione strettamente individualistica e isolata, come
si potrebbe ritenere a prima vista. La non assenza dal mondo, per
mettersi alla ricerca della salvezza, pone subito ciascun fedele in
un legame con gli altri; si tratta di un legame che è concorrenza e
insieme concorso con gli altri correligionari, che si sorvegliano a
vicenda per non essere danneggiati da comportamenti opportunistici, per estromettere dalla setta, e se necessario dalla società,
chi semina menzogne e falsità. Nessuno può ignorare i comportamenti degli altri che influiscono sui propri, né lasciare libero
sfogo alle volontà altrui senza forme cogenti di controllo sociale.
La comunità deve intervenire: la gabbia durissima di prescrizioni
morali non riguarda solo l’interiorità di ciascuno ma è posta anche e soprattutto sul comportamento sociale di tutti gli altri, se
ciascuno vuole scoprire di far parte degli eletti attraverso il successo che ottiene nel teatro degli affari e dell’economia. La condizione che può pregiudicare tutto ciò è quella di aver di fronte
anche pochi concorrenti che non giocano allo stesso gioco, non
rispettano le stesse regole, sono pronti ad alterare la posta in gioco a proprio vantaggio.
In questo senso, la società del capitalismo come religione
impone l’ethos dell’efficienza di cui parla Stefano Zamagni. E
l’ethos dell’efficienza si afferma non tanto in un mercato “libero”,
spontaneo, e nel relativo ordine naturale e anarchico delle relazioni intersoggettive, quanto in un’arena governata come un’organizzazione d’impresa dove funzionano le linee di comando.
Ouchi (1980) mette bene in luce il complesso equilibrio di mercati fragili, i cui spazi sono minacciati dall’azione a tenaglia delle gerarchie d’impresa che si espandono a danno dei mercati,
da un lato, e, dall’altro, dalla formazione di organizzazioni di
clan, anch’esse alternative ai mercati e sodali con i gruppi di
controllo delle imprese. Se i mercati falliscono, o sono deboli
nell’indurre i vari agenti economici all’efficienza, allora occorre
l’intervento di un’autorità per spingerli, in una direzione o in
un’altra, sulla base di un insieme di incentivi prefissati che solo
un centro di comando può fissare e imporre. Se tali incentivi
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Parte I - La categoria del moderno
172
non sono “internalizzati” in maniera ascetica e individualistica,
l’impresa, prima ancora dello Stato, può così intervenire con bastone e carota per spronare all’efficienza e disciplinare l’azione
dei singoli in funzione di quelli che sono gli obiettivi stabiliti.
L’etica manageriale, di cui oggi si parla con insistenza, mira a
inculcare quell’istinto del gregge di cui parla Nietzsche (1887,
131 [III, 18]).
Vi sono vari esempi storici di quanto appena
Max WeQudetto.
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E-book
ber, dopo la sua Etica, scrisse un saggio meno noto, ma molto
incisivo, sulle sette protestanti americane (Weber 1906). È nota,
inoltre, la dittatura moralizzatrice imposta da Giovanni Calvino
per piegare una Ginevra libertina ai sani principi della santità cristiana, da applicare con ferrea determinazione, dal 1541 al suo
ritorno e insediamento a capo della comunità riformata e della
repubblica indipendente. Calvino istituì un governo dittatoriale
austero e senza atti di clemenza (Moore 1964, 56-67). La messa
al rogo di Serveto fu uno dei tanti atti di governo dittatoriale di
Calvino (Bainton 2012). Il mercato è solo un’idea platonica, ma
nel “mondo visibile”, poco importa se del tutto illusorio, solo le
imprese possono esercitare la disciplina necessaria a raggiungere
la salvezza del benessere.
La formazione e lo sviluppo degli Stati nazionali non fu solo
la conseguenza di una rivoluzione amministrativa che spinse poi
verso l’assolutismo. Per Gorski fu l’esito di una «rivoluzione disciplinare» promossa principalmente dai movimenti religiosi riformati e, in special modo, dalle correnti calviniste. I movimenti
ascetici intervennero sui comportamenti individuali di autodisciplina e su quelli collettivi, per mezzo di modifiche istituzionali
e riforme sociali miranti a diffondere il rispetto di determinate
regole e l’osservanza di comportamenti comuni.
Lo schema seguente (tav. 4) incrocia livelli e modalità di interventi di disciplinamento. I livelli riguardano gli individui o
la società nel suo complesso46. Le modalità di disciplinamento
sono distinte tra le norme e le prescrizioni, che sono di carattere
46
(1993).
Lo schema è ripreso con varie modifiche e integrazioni da Gorski
appa
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Qu
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
173
etico, per indurre i comportamenti individuali verso obiettivi
di autodisciplina e indirizzare di conseguenza i comportamenti
sociali al successo negli affari e all’affermazione professionale
nelle carriere. I metodi per ottenere tali scopi sono la ritualizzazione di forme di controllo sui comportamenti individuali,
premiati da forme di riconoscimento del valore e di ingresso o
esclusione da gruppi e aggregazioni di setta religiosa o laica, di
mestiere, di cultura o di ricreazione. A livello sociale i metodi
riguardano strategie e politiche per incentivare l’ascesa sociale
e la conquista di posizioni di prestigio. Le strategie di concorrenza, che sostituiscono gli obiettivi di “buona vita”, fomentano
tensioni conflittuali e di rivalità non più per fasce, aggregazioni e classi sociali, bensì tra soggetti individuali che competono
tra loro per le risorse, per la carriera. In questo modo anche il
conflitto sociale è smorzato attraverso l’adesione degli individui
alla medesima visione etica. Il capitalismo non è solo un sistema
economico che organizza produzione e consumo, ma diventa
sistema di vita interiore, rito permanente senza più divisioni tra
lavoratore e cittadino, produce un’indistinta condizione di fedele che si adegua devotamente sia ai riti della produzione che
a quelli del consumo, necessari per glorificare nuovamente le
celebrazioni della produzione. Il passaggio dalla police al mercato – ben descritto da Foucault (2017a) – dev’essere inteso come
il passaggio da uno strumento di governamentalità a controllo
“esterno” (leggi di polizia, panopticon fisico come i carceri e i
manicomi disegnati da Bentham) a uno soprattutto “interno”,
cioè il lavoro e la concorrenza “interiorizzati” come forma di
soggettivazione, di identità. Come funziona questo controllo interno introdotto dalla governamentalità di mercato? Si basa su
un processo di soggettivazione che porta a una visione di sé che
ha dell’incredibile: quella di vedersi come un capitale soggetto a
riqualificazione e deprezzamento, e fruttifero di interessi. In altri termini il panopticon è trasferito dall’esterno all’interno, dove
l’occhio vigile del mercato, con le sue impersonali e immodificabili leggi “ferree”, rende l’individuo orgoglioso di sottoporsi
a «servitù volontaria», rivisitazione postmoderna del famoso
Discorso di La Boétie.
Parte I - La categoria del moderno
Tav. 4 - Metodi di disciplinamento.
MODALITÀ
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Questo E-book appart
174
LIVELLO
Normazione e prescrizione
Metodi di omologazione
per incentivi e vincoli
Individuale
Etica della professionalità
e della responsabilità
Riti identitari di inclusione
e di espulsione nel gruppo
Sociale
Successo negli affari e
nella carriera
Strategie di concorrenzialità,
premialità
Gorski, ad esempio, ha sottolineato il ruolo primario svolto
dal calvinismo, rispetto ad altri movimenti ascetici, nell’introdurre e innovare, sia sul piano soggettivo che su quello istituzionale,
forme di disciplinamento che poi si sono diffuse in vari paesi,
influendo sulla stessa formazione degli Stati nazionali (Gorski
2003, 75-6).
Lo Stato neoliberale moderno (o meglio, ordoliberale) governa la società come si governa un’impresa, secondo linee
guida manageriali, con incentivi e controlli, con un diritto considerato pura merce di scambio, rinegoziabile a seconda delle
convenienze e dei rapporti di forza prevalenti, una pubblica
amministrazione passata da servizio verso il cittadino a fornitore di beni verso il fruitore-utente, quindi divenuta da attore
“esterno”, quasi in posizione arbitrale, a soggetto “interno” alla
stessa macchina concorrenziale che regola, o tende a regolare,
ogni ambito della vita sociale. Lo Stato austero spinge alla coazione ascetica del risparmio per mettere i singoli in condizione
di rendersi economicamente responsabili, autosufficienti e laboriosi (senza più uno Stato di welfare o assistenziale che fornisca
loro certezze sul futuro). Tutto quel che gli individui fanno è
considerato in una prospettiva di accumulo di capitale “umano”. In questo modo si riducono gli spazi del dono inteso alla
maniera antica, ma anche la ricerca di senso della vita nella gratuità di socialità, di meditazione, di creatività e di educazione
al bello che il sistema di sicurezza sociale consentiva. Su tutto
questo sono essenziali le considerazioni di Supiot (2015 e 2010),
ma ritorneremo più avanti (parte III) in maniera più estesa sulle
questioni attuali.
6 - Il modello neoistituzionale del mercato
175
Inoltre, nemmeno il mercato (l’economia di mercato) ne esce
bene in un contesto nel quale il “vecchio” Stato di diritto, da arbitro, in qualche modo super partes, garante di diritti della persona,
diventa esso stesso contendibile attraverso la legittimazione della
negoziazione di quelli che sono gli incentivi da dare alle parti in
causa fino a delineare un riconoscimento di “diritti” soggettivi
all’impresa (aspetti ben individuati da Tilly 2001). Il consumatore
è allora meno sovrano e la sua sovranità limitata inibisce i mercati dal funzionare secondo le stesse virtù esaltate da Mandeville,
Smith e via di seguito. Ci si può così porre il problema di quanta
libertà personale, di quanto spirito libero e critico resti in una società così disciplinata e cosa resti del dono, se anche il tempo è
denaro e il tempo libero e quello dedicato agli amici e agli altri segue le stesse regole di contabilità. Il libro di Nuccio Ordine (2013)
fornisce molti elementi per valutare sia i danni di un utilitarismo
ossessivo fine a se stesso che i vantaggi, non solo morali e spirituali – si potrebbe aggiungere – dell’ozio intelligente.
Si può chiudere questa parte con una considerazione di Maynard Keynes. Nel 1926 egli definì il problema politico come un’equilibrata combinazione di tre elementi:
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l’efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà individuale. Alla
prima sono necessari senso critico, prudenza e conoscenza tecnica; alla
seconda spirito altruistico, entusiasmo ed amore per l’uomo comune;
alla terza tolleranza, ampiezza di vedute, apprezzamento dei valori, della varietà e dell’indipendenza, che preferisce soprattutto dare una chance illimitata all’elemento eccezionale e ambizioso (Keynes 2011, 262-263).
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In questo, ci pare si racchiuda lo spirito di un liberalismo “classico”, nel senso di ottocentesco, ma soprattutto classico perché erede di quel senso di “vita felice” proprio dei filosofi antichi e recepito
dai primi padri della cristianità fino almeno all’alto medioevo, cioè
almeno finché il baricentro dell’ascesi restò inclinato verso l’alto.
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Parte II
Moneta e debito.
Una rivisitazione genalogica
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Questo E-book
Capitolo 7
LE TEOLOGIE DEL CREDITO E DELLA MONETA.
UN’INTRODUZIONE
Siccome ogni nuova promessa impone un nuovo obbligo
morale alla persona che la pronuncia, e siccome questo
nuovo obbligo sorge dalla sua volontà; si tratta di una delle operazioni più misteriose e incomprensibili che si possano immaginare, paragonabile alla transustanziazione o
agli ordini sacri, in cui una certa forma verbale, unita a una
certa intenzione, cambia del tutto la natura di un oggetto
esterno, e anche di una creatura umana. (Hume 1739, 1037
[lib. III, p. II, v])
Oh no, no, no, no; dicendo che è un uomo buono intendevo
farvi capire che è solvibile. E tuttavia ci sono dubbi sui suoi
beni. (Shakespeare, Il mercante di Venezia, I, iii, 15-18)
La famiglia, la scuola, l’esercito, la fabbrica non sono più
luoghi analogici distinti che convergono verso un proprietario, Stato o potenza privata, ma figure cifrate, deformabili e trasformabili di una stessa impresa che non ha se non
amministratori. Anche l’arte ha lasciato i luoghi chiusi per
entrare nei circuiti aperti della banca. (Deleuze 1990, 3)
Il mito è un modo di prender possesso del passato per farlo parlare nel presente. Per questo è anche una “prefigurazione” per guidare l’azione in condizioni di incertezza (Blumenberg 2018). Tutto
ciò spiega la forza di una narrazione mitica che ha fatto breccia in
una disciplina come l’economia. Intendiamo riferirci al mito delle
origini della moneta nella versione perfezionata da Carl Menger
(1892). A lui può esser fatta risalire la costruzione più chiara e coerente di un mito basato su una narrazione ‘evolutiva’ della storia
monetaria, che è poi divenuta popolare attraverso generazioni di
specialisti, i quali, da più di un secolo, se ne sono serviti non solo
per introdurre concetti in libri di testo, ma persino per elaborare
opere “scientificamente” più avanzate.
Tentare di scrostare e rimuovere dal “mito” la patina fascinosa che lo avvolge e andare al di là della pura rappresentazione
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180
Parte II - Moneta e debito
Questo E-boo
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per verificare se nasconde qualcos’altro di più concreto, è un’operazione genealogica sul mito e sul suo oggetto. Nella VI delle
tesi Sul concetto di storia, Walter Benjamin giustifica la costruzione
di miti come un’appropriazione del passato: «articolare storicamente il passato non significa conoscerlo “proprio come è stato
davvero”». Il «proprio come è stato davvero» era il famoso programma dello storico Leopold von Ranke, il cui scopo era disciplinare con rigore metodologico le ricerche storiche. Quell’articolazione ha però per Benjamin il senso di «impossessarsi di un
ricordo così come balena in un attimo di pericolo»; ma poco più
avanti aggiunge anche: «bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di
soggiogarla». La procedura genealogica che abbiamo seguito non
ha solo un compito di demistificare. Non si tratta di sostituire una
narrazione con un’altra. In materia di origini ci si imbatte anzitutto in problemi dovuti alla insufficienza irrimediabile di documenti, ai silenzi delle fonti, ai vuoti che occorre tentare di riempire, specialmente in una storia della moneta, perché in essa, forse
più che in altri campi delle conoscenze storiche ed economiche, i
“resti” del passato sono molto – troppo – selettivi. L’altro aspetto
da non sottovalutare in un approccio genealogico è la stessa costruzione del mito, che va posta sotto la lente di osservazione. Cominciamo brevemente da questo per anticipare quanto affrontato
con maggior dettaglio nei capitoli di questa parte.
La mitologia monetaria “costruita” da Menger narra di una
linea evolutiva, continua, per fasi ascendenti a partire dalla situazione iniziale del baratto e poi raffigurante una successione
di ulteriori situazioni: prima si attribuiscono funzioni di mezzi
di scambio a vari tipi di merci (persino ingombranti come buoi
e pietre o minuscole come conchiglie), poi si coniano le monete
vere e proprie, e, infine, si giunge alle monete fiduciarie di epoca
moderna e contemporanea. Questa costruzione, che è del tutto artificialmente mitologica, è frutto, da un lato, di una specifica radice storica e, dall’altro, di un’istanza politica, cioè di quell’«attimo
di pericolo» richiamato da Benjamin. Iniziamo in maniera molto
schematica dall’occasione storica. Sulla moneta come concetto, e
come prassi, ha funzionato la “trappola” (intellettuale) tesa da
Locke e da Newton per “desovranizzare” la moneta attraverso
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Questo E-book a
7 - Le teologie del credito e della moneta
181
una riforma radicale, rivoluzionaria per molti versi, consistente
nel far aderire perfettamente il valore nominale della moneta coniata al valore intrinseco (v. il par. 10.2). Un progetto completato
poi con l’impressione dell’iscrizione valoriale sul conio, divenuta
universale dopo le riforme dei pesi e misure poste in atto con la
Rivoluzione francese. La Rivoluzione, nel dar certezza alle misure, fornisce alla moneta quell’ultimo certificato di garanzia che
fino ad allora era mancato. Da allora in poi, in tutte le monete,
la zecca di ogni nazione civile imprime due banali descrittori: i)
la denominazione (lira, franco, ecc.), e insieme ii) la quantità (50
cent., 1, 2, 5 e così via). Prima di allora, le monete coniate non
avevano nessuna precisa descrizione che richiamasse, a chi se le
trovava tra le mani e prima che potesse “valutarle” nel modo che
vedremo, né come “si chiamavano”, né quanto valessero. Tutto
ciò era rimesso alle leggi monetarie, che ne avevano ordinato
l’emissione e, per ottenere maggior precisione, a una bilancia da
orefice con la quale poterle pesare (v. anche par. 10.2). La non “trasparenza” aveva precise ragioni politiche, perché rendeva possibile a un principe e a uno Stato il compimento di azioni, molto
note agli storici economici medievisti e di età moderna, definite
in gergo “mutazioni monetarie”, cioè una sorta di proto-politiche
monetarie, esercizi di “signoraggio” non sempre facili da mandare a buon fine per i disordini indotti nella circolazione.
Per intenderci, dopo Locke e Newton, e dopo la Rivoluzione
francese, finisce un’epoca e se ne inaugura un’altra, nella quale,
per un lungo periodo, si tenta di costruire una moneta (del tutto artificiale, ma, paradossalmente, chiamata “naturale”) che sia
definitivamente sottratta ad ogni subordinazione alla sovranità
politica. Sulla moneta, resa finalmente una pura merce, eguale a
tutte le altre, si forma, almeno fino al 1914, un solido pilastro per
un’economia di laissez faire, che, però, si rivelerà anche come una
enorme illusione (vedi cap. 12).
Veniamo adesso agli aspetti politici sottesi al mito costruito
da Menger. L’operazione di neutralizzazione e depoliticizzazione
della moneta era, in realtà, più che una riforma economica, una
finissima operazione politica (negata in quanto tale dai propugnatori, a partire da Locke e Netwon). Quali erano le sue conseguenze? Lo Stato vedeva fortemente ridimensionate le proprie
182
Parte II - Moneta e debito
prerogative di sovranità monetaria. Tale sovranità era quasi completamente castrata, sterilizzata, se si esclude la valvola di sicurezza che rimaneva alla sovranità politica e che era rappresentata dalla creazione di cartamoneta affidata a banche di emissione
(centrali), controllate e gestite da banchieri privati fino a circa la
metà del XX secolo in molte economie avanzate. In che cosa consisteva l’obiettivo politico sia degli interventi sulla moneta sopra
visti che della costruzione “mengeriana” di una storia monetaria
artificiale e mistificante? Si trattava di praticare la politica di evirazione monetaria dello Stato, che consisteva appunto nell’assegnare a banchieri e finanzieri la completa gestione delle operaziogm
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perciò sotto il pieno dominio privato. Il credito, in varie forme
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zati, capaci di consentire la valutazione e i trasferimenti dei rischi
e la formazione dei prezzi. Mercati mobiliari ampi si formarono
però solo con la presenza e l’espansione dei debiti pubblici, che
per le banche furono un’attività liquida1 per mezzo della quale
gestire meglio i propri portafogli di attività, in cui i titoli rappresentativi di tali debiti, con la loro quasi assenza di rischio, andavano a compensare le operazioni più rischiose e meno liquide. Le
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Il concetto della liquidità sarà ripreso più volte. Ogni risparmiatore, ma
anche l’investitore professionale – ricorda Keynes (1936, 341 [12, V]) – ricerca di
investire parte del proprio patrimonio in attività facilmente rivendibili su «mercati di investimento organizzati avendo di mira la cosiddetta “liquidità”», ma aggiunge Keynes: «Fra le massime della finanza ortodossa, nessuna è per certo più
antisociale del feticcio della liquidità, la dottrina che sia virtù positiva da parte
delle istituzioni di investimento concentrare i propri mezzi sul possesso di titoli
“liquidi”. Essa dimentica che non esiste liquidità dell’investimento per la collettività in complesso. Lo scopo sociale dell’investimento consapevole dovrebb’essere
di sconfiggere le oscure forze del tempo e dell’ignoranza che avviluppano il nostro futuro».
Qu
7 - Le teologie del credito e della moneta
183
banche si dotarono però di un ulteriore strumento, molto potente:
con i depositi, trasferibili con un tratto di penna su uno chèque,
poterono assimilare le proprie passività a breve (appunto i depositi) alla moneta, data la stretta parentela tecnica di quest’ultima
con un mezzo di pagamento (l’assegno o chèque) reso di facile trasferimento attraverso sistemi di giroconto in un sistema bancario
sempre più integrato.
I privati (banchieri e operatori commerciali in genere) estesero così le loro operazioni su una scala molto più ampia, estesa in spazi sempre maggiori, attraverso la creazione (ex nihilo) di
strumenti creditizi liquidi quasi quanto pura moneta. Per quanto
i monetaristi (v. par. 13.1) si siano ostinati a definire come moneta solo una moneta di “base” costituita da mezzi di pagamento
“puri”, Kindleberger (1981, 57) ricorda che, tuttavia, le banche
creano «nuove forme di moneta per aggirare l’ostacolo» che vincolerebbe la loro offerta di credito, tra l’altro rivolta verso attività
che per loro natura non sono affatto liquide, ma in contropartita
delle quali possono offrire passività a breve, accettabili per comodità e sicurezza dai risparmiatori. Vista sotto questo profilo,
la storia della moneta e del credito è un processo continuo di innovazioni e di ridefinizione degli strumenti monetari, che, lungi dall’essere “neutrali” rispetto all’economia reale, influiscono
effettivamente sul livello dei prezzi ma anche della produzione.
Le lunghissime diatribe sulla moneta “neutrale” – di cui diamo
cenni nel cap. 13 – possono perciò esser lette come ricerca incessante di quell’attività finanziaria “liquida” che possa essere uno
strumento appropriato per stabilizzare il credito e l’economia.
L’operazione politica, che era alla base del mito monetario inventato da Menger nel XIX secolo, finiva per conferire al mercato
una piena sovranità, assegnandogli il compito di allentare o restringere i cordoni della borsa a cui attingono le emissioni di titoli del
debito pubblico e, quindi, di fatto esautorando la sovranità degli
Stati nelle decisioni di eccedere in spese rispetto alle entrate fiscali2.
La relazione (posizione) di dominio da parte del capitalismo finanziario
nei confronti dello Stato, costretto all’indebitamento pubblico anche per merito
del suo governo in mano alla borghesia stessa, viene espressa con magistrale chiarezza da Marx: «L’indebitamento dello Stato era, al contrario, l’interesse diretto della
2
184
Parte II - Moneta e debito
Insomma, la dipendenza dello Stato dal mercato era assicurata
senza ricorrere a regole costituzionali o altri artifici3.
La moneta mantiene comunque un privilegio rispetto alle
altre attività finanziarie, anche rispetto a quelle più “liquide”
(come, per esempio, le cambiali private a breve scadenza): quello di essere la chiave di volta per dar stabilità al sistema quando
gli altri strumenti creditizi vacillano o entrano in crisi. Tutta la
storia dell’evoluzione che trasforma le banche di emissione in
vere e proprie banche centrali può esser vista attraverso questa
griglia interpretativa, attraverso cui si osserva un potere sovrano che rivendica i suoi attributi di potere politico, e, quindi, si
riappropria di prerogative che i privati avevano indebolito o
persino sottratto del tutto; peraltro, per questa riappropriazione
di sovranità politica, tramite la creazione della banca centrale, è
complice il fatto che gli stessi operatori privati trovano, a un certo punto, conveniente non mantenere (a causa dei rischi sopra
accennati) ma delegare il potere monetario e di mantenimento
della stabilità finanziaria allo Stato, sebbene solo temporaneamente nei periodi di difficoltà e negli stati di eccezione. Quindi,
viene così di nuovo riconosciuto allo Stato uno dei segni dell’ordine e del potere, quello monetario. È vero, infatti, che la moneta
nell’epoca attuale, demercificata e senza pegno di collaterale, ha
i caratteri di uno stato di eccezione; si tratta però di uno stato di
eccezione particolare, in cui non resta definito né chi lo dichiara,
né chi ne dichiara la fine, e che lascia aperto il conflitto interno
frazione della borghesia che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il
disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e
la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo
quattro o cinque anni un nuovo prestito offriva all’aristocrazia finanziaria una
nuova occasione di truffare lo Stato che, mantenuto artificiosamente sull’orlo della bancarotta, era costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli. Ogni nuovo prestito era una nuova occasione di svaligiare il pubblico, che
investe i suoi capitali in rendita dello Stato» (Marx 1850, 377).
3
Come sostiene Streeck (2013), nelle odierne democrazie occidentali ci
sono due elettorati in conflitto: i) i cittadini o il popolo che votano per i propri
rappresentanti politici i quali dovrebbero guidare lo Stato secondo gli obiettivi
del popolo elettore; ii) i mercati (il popolo dei mercati, o meglio dei capitalisti
internazionali) che comprano e vendono i titoli di Stato e che decidono se lo Stato
debba rimanere a galla o affondare.
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7 - Le teologie del credito e della moneta
185
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Qu
sulla moneta, come conflitto, in definitiva, sulla liberazione dal
debito.
Il mito della moneta, che la intende come una moneta-merce
e la pretende anche neutrale, costruito a fini politici, pare sorto,
per reazione, dal ricordo balenato «in un attimo di pericolo», per
il terrore di un «flagello» finanziario – come quello di Law del
1720 agli occhi di Michelet –, un flagello che, da disordine monetario degenera poi anche in disordine politico. Il mito è, in questo
caso, creazione laica di un feticcio sacrale per imporre allo Stato
di non profanare regole auree. In epoca moderna, i sacerdoti della
moneta sono i banchieri, coloro che una volta erano considerati i
sacrileghi di cose sacre. Essi si sono generalmente insediati nel
sancta sanctorum del credito, anche per decidere quanto e a che
condizioni esso può esser concesso a Stati “sovrani”.
Ma il mito della storia monetaria costruito da Menger e fatto
proprio da storici ed economisti ortodossi, in particolare dai pensatori del neo-ordoliberalismo oggi dominante, principalmente
per le motivazioni politiche sopra evidenziate, è appunto una
costruzione che ignora o nasconde i due fondamenti imprescindibili per una storia monetaria: le origini e la natura della moneta
e del credito.
Il credito-debito originario, quello che le teologie trattano
come colpa perpetua o come fardello da redimere, affligge le società arcaiche e precapitalistiche che, generalmente, lo risolvono
in maniere radicali, senza bisogno di ricorrere a gettoni monetari,
come quelli utilizzati per i piccoli pagamenti (vedi più avanti i
cap. 10 e 11). È alle intricate relazioni tra creditori e debitori che
bisogna far riferimento per comprendere la natura, non solo l’origine, della moneta. Il credito risolve le negoziazioni e gli scambi,
purché ci sia un sistema di scritture e di segni contabili, anche
senza bisogno di altri strumenti materiali, se non i pegni, da offrire in contropartita. Anche nella teologia monetaria lo spirito aleggia prima di incarnarsi. È lo spirito del credito, strettamente legato all’oscuro primigenio germe della colpa e della redenzione, che
si trasforma in “ostia”. Il nesso direzionale è genealogicamente
chiaro: dal credito alla moneta. Il paragone con la transustanziazione è, non a caso, ricordato da Hume, laddove sta parlando di
promesse e ripreso, più volte, da Marx in riferimento alla trasfor-
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mazione dalla forma ideale di valore a quella reale di moneta.
Al debito occorre trovare una o più exit strategies per assolvere o
sciogliere l’obbligazione originaria. In questa prospettiva anche
la moneta, moneta-merce o moneta-segno, poco importa, è una
soluzione, nel senso proprio della funzione monetaria di liquidare un’obbligazione, di annullarla definitivamente. Il mito “artificiale”, che attribuisce origini materiali, evoluzionistiche, utilitaristico-funzionali alla moneta, doveva rovesciare la vera originaria
causalità e far nascere anche il credito dalla moneta, e non viceversa. In quel modo, dal mito nasceva la “prefigurazione” (il mito
offriva il suo servigio all’azione politica, – anche qui secondo un
fondamento teologico – «affinché si adempia tutto quello che è
stato scritto», Lc 21, 22) di lasciare la moneta, come qualsiasi altra
merce, al solo “governo” della domanda e dell’offerta (cioè alla
teologia “naturale” del mercato teorizzata dal fondatore dell’economia politica Smith, e ripresa, sotto mentite spoglie secolari, dai
neoliberali Hayek e Friedman), di rimuovere il terrore del flagello
finanziario, e, di conseguenza, legittimare il prezzo del denaro,
anche quello stabilito dagli Shylock.
I concetti dell’economia monetaria, come si vede, sono inestricabilmente concetti teologici. Il debito originario, come il peccato, conosce la sua redenzione, come via di salvezza. La casta dei
banchieri detiene da secoli saperi esoterici, che però sono anche,
al tempo stesso, per molti versi, poteri banali e quasi triviali, come
nel racconto di Schumpeter (1954, 391n.) del guardarobiere che ha
l’abitudine, ingegnosa o fraudolenta che sia, di approfittare del
fatto che i clienti lasciano i soprabiti nel guardaroba del ristorante
per noleggiarli: finché noleggia i soprabiti lasciati nel guardaroba
del ristorante, mentre i clienti pranzano, si espone forse a qualche
rischio, ma se, come nel caso della banca, «due persone – proprietario del soprabito e colui che lo prende a noleggio – vestano
contemporaneamente lo stesso soprabito», allora la cosa assume
tutto un altro aspetto. Il miracolo o la magia del credito salta agli
occhi con la stessa potenza misteriosa della verità e dell’imbroglio descritta nel capolavoro di Melville The confidence-man.
Capitolo 8
STATO E MERCATO:
UNA GRANDE DICOTOMIA MODERNA
8.1. Le tensioni tra teologia politica e teologia economica
Questo E-book a
questi stessi distruttori di fiducia e filosofi menagramo del
mercato azionario, sebbene falsi in sé, sono gli autentici
esemplari di quasi tutti i distruttori di fiducia […] Ecco, se
qui ci fosse un qualche filosofo menagramo, un orso teologico, che non manca di cogliere l’occasione per brontolare e
abbassare le quotazioni della natura umana [...] direbbe che
è il segno di un cuore che si indurisce e di un cervello che si
rammollisce. (Melville 1998, 67 [cap. 9])
ppartiene a roffis
i nostri possessori di merci pensano come Faust. In principio era l’azione. […] l’azione sociale di tutte le merci esclude
una merce determinata nella quale le altre rappresentino
universalmente i loro valori. […] Mediante il processo sociale, l’esser equivalente generale diventa funzione sociale specifica della merce esclusa. Così essa diventa – denaro. “Costoro
hanno un medesimo consiglio: e daranno la lor potenza e
podestà alla bestia. E che nessuno possa comprare o vendere, se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome. (Apocalisse)” (Marx 1867, 105-6 [I, 2])
In luogo dell’annunciata fine della storia, si assiste, infatti, all’incessante girare a vuoto della macchina, che, in una
sorta di immane parodia dell’oikonomia teologica, ha assunto su di sé l’eredità di un governo provvidenziale del mondo, che, invece di salvarlo, lo conduce – fedele, in questo,
all’originaria vocazione escatologica della provvidenza –
alla catastrofe. (Agamben 2006, 34)
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La categoria della teologia economica integra e si collega, in maniera antinomica, a quella della teologia politica. La teologia economica definisce il senso della secolarizzazione e della divisione
tra regno e governo nella tradizione occidentale. Il termine “teologia politica” fu introdotto, e a lungo elaborato, da Carl Schmitt
a partire dal saggio del 1922 (Schmitt 1922), come concetto secolarizzato della filosofia della politica e del diritto. Il problema attor-
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Parte II - Moneta e debito
no al quale ruota l’intera sua analisi è quello della fondazione di
un ordine giuridico e di condizioni per rendere efficaci le norme
che lo definiscono. L’autorità che ha potere di creare l’ordine giuridico e di prendere la decisione fondativa è un soggetto sovrano,
colui cioè che dichiara lo “stato di eccezione”. La decisione originaria è perciò stabilire lo stato di eccezione per sedare le forze
distruttive presenti nella società. I riferimenti costanti di Schmitt
sono Machiavelli, e, soprattutto, Hobbes, al quale ha dedicato importanti studi (Schmitt 1986). Lo stato di normalità, nella visione
schmittiana, è fragile, forse anche transitorio, posto tra uno stato
di eccezione che lo instaura e un altro che, se necessario, lo ripristina e lo salva in caso di collasso dell’ordine costituito. L’autorità
sovrana che può dichiarare lo stato di eccezione ha il proprio fulcro in un’“anima” spirituale che elabora le proprie formule politiche in un linguaggio di derivazione teologica, ed è perciò a quel
sistema di immagini e termini a cui occorre far riferimento per
scandagliare l’interezza delle azioni umane e della vita associata
che si esplicano inevitabilmente nella politica e nello Stato, senza
più le distinzioni che caratterizzavano il pensiero politico liberale
volte a separare la società civile dallo Stato. In Schmitt lo Stato è
“totale” (v. par. 8.3) perché tutto è “politico” e non può la tecnica
sostituirsi come fondamento, in epoca contemporanea, a quello
che era la religione per gli Stati di età moderna. La definizione
concettuale di “politico” porta Schmitt a «ricondurre le azioni e i
motivi politici» entro l’antitesi di amico (Freund) e nemico (Feind)
(Schmitt 1932, 108); concetti antitetici da considerare «nel loro
significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli»
(idem, 110). Il concetto del “politico” dicotomizzato nell’antitesi
amico/nemico non è certo quello del liberalismo che riduce il
nemico, nell’economia, al concorrente (competitor) e, nella politica, all’avversario nella discussione; quella del “politico” non è
questione riconducibile alla normatività, ma al realismo, come
«possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica»
(idem, 111).
Agamben (2007, 14-5) considera un doppio paradigma in cui
quello teologico-politico schmittiano si integra con quello teologico-economico secolarizzato, di tipo “gestionale” e “governamentale”. Se la teologia politica individua nella secolarizzazione il di-
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stacco politico dal divino e vede la sovranità ancora ammantata
in un’aura sacrale, la teologia economica ravvisa le radici lontane
dalle quali si sviluppa tutta la moderna azione di governo separata
dalla stessa sovranità. La separazione interna al potere tra sovrano
e governo, mostrata da Agamben (2007), crea una tensione tra i due
poli che ha esiti diversi con l’assorbimento delle istanze della gloria del regno nell’immanente governo delle azioni umane. Infatti,
se la teologia politica fonda il potere sovrano sull’unicità e sulla
trascendenza divina, la teologia economica si riferisce a un ordinamento immanente, a un meccanismo domestico, non strettamente
politico, a dispositivi tecnici di disporre la vita umana in rapporto
ai beni e agli strumenti pertinenti a governarla. È il dispositivo governamentale della biopolitica, cioè del trionfo finale dell’economia e delle ragioni economiche su ogni aspetto della vita sociale e
individuale. La genealogia della teologia economica è ovviamente
un compito complesso e solo recentemente esplorato. Come nota
Agamben (2006, 2007), i padri della Chiesa nei primi secoli (II-VI
secolo d.C.) ripresero il concetto aristotelico di oikonomia, come
gestione (management) della casa, sottolineandone il significato di
“prassi”, specifica ad ogni problema particolare, per applicarlo alla
teologia. In particolare, il concetto risultò efficace come soluzione
al difficile e aspramente dibattuto concetto della Trinità, tre figure
divine in una, al limite fra le interpretazioni polari “monarchiane”
di un unico Dio e quelle para-gnostiche di una pluralità di divinità,
magari in conflitto fra loro (Agamben 2006, 16-7). Detto più semplicemente, la patristica risolse il problema trinitario assumendo
l’unicità divina in essenza, ma la pluralità divina nella prassi. Dio
è unico nella sovranità (il Regno), ma quanto all’amministrazione
del mondo creato (il Governo) si affida al Figlio, appositamente incarnato per la gestione – in nome della provvidenza – degli uomini
e della via per la salvezza finale. L’economia della salvezza1 si basa
su un insieme di regole, riti, prassi, saperi, misure, istituzioni (il
calcolo razionale, la passione acquisitiva, il mercato, la concorrenza
ne sono i più moderni elementi, rispetto a quelli pre-moderni come
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Per il suo compito nella gestione economica provvidenziale del mondo,
come nota incisivamente Agamben, «in alcune sette gnostiche, Cristo fini col chiamarsi “l’uomo dell’economia”, ho anthrōpos tēs oikonomias» (Agamben, 2006, 17).
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la guida pastorale) il cui scopo è di gestire, governare, controllare e
orientare i comportamenti, i gesti e i pensieri degli uomini nel senso del bene o della storia della salvezza. Naturalmente la frattura
teologica fra l’ontologia e la prassi divina si trasla parallelamente
in quella mondana fra regno e governo, fra sovranità ed economia.
Per quanto riguarda il soggetto umano, nel mezzo della scissione
fra la sostanza (la vita umana) e l’azione (l’insieme dei dispositivi
di governo della vita, ovvero l’economia in senso lato), ci sta l’identità soggettiva, sempre plasmata e catturata dagli strumenti
economico-governamentali e quindi mutevole con le mutazioni
dei medesimi. La recente trasformazione dei dispositivi economico-governamentali nel senso indicato dal pensiero neo-ordoliberale ha significato anche una nuova soggettivazione: il soggetto viene
catturato “liberamente” dall’economia, che lo plasma (v. III parte).
Il dispositivo economico è una macchina di governo soprattutto
nella misura in cui plasma vite – paradossalmente – libere ed obbedienti, che, secondo Foucault, nel processo di assoggettamento creano “liberamente” la loro identità di soggetti assoggettati. Questi
aspetti sono fondamentali per la comprensione sia del capitalismo
moderno come religione in generale, già intuito da Benjamin (v.
par. 2.2 e 6.4), che nella sua contemporanea specifica veste neo-ordoliberale basata sulla riduzione del soggetto umano a “capitale”
sotto la legge della concorrenza (v. par. 6.5 e parte III). Un ambito
della teologia economica finora poco esplorato, ma che, a nostro
avviso, presenta i tratti più marcati della sua origine teologica è
proprio quello dell’economia monetaria. In essa, e nella sua storia,
appare più evidente sia la frattura fra sovranità ed economia che la
continua tensione fra questi due poli, come emergerà nel seguito di
questa parte II.
Lo stesso Rousseau distingue tra la sovranità e l’«economia
pubblica» (che chiama anche il “governo”) e che «consiste nel fatto
che una ha il diritto legislativo e può talvolta sottomettere il corpo
stesso della nazione, mentre la seconda non ha che il potere esecutivo da esercitare soltanto sui singoli privati» (Rousseau 1755, 101).
Rousseau tocca un punto nevralgico del paradigma della teologia
economica e, nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne, individua i limiti della separazione tra sovranità e governo:
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Uno dei maggiori inconvenienti dei grandi Stati, quello fra tutti che fa
della libertà la cosa più difficile da conservare, è che il potere legislativo
non può mostrarsi direttamente, e può agire solo per deputazione. La cosa
include aspetti buoni e cattivi, ma il male supera il bene. È impossibile
corrompere il legislatore, collegialmente, ma ingannarlo è facile. I suoi rappresentanti, invece, sono difficili da ingannare, ma facili da corrompere, e
raramente accade che corrotti non siano (Rousseau 1771-72, 500 [ch. VII]).
I limiti della democrazia per grandi numeri erano già stati individuati dai filosofi antichi. Per Rousseau la corruzione è inestirpabile e trova una breccia proprio nella separazione tra la sovranità e
il governo. Egli individua la radice della corruzione politica e della
sua diffusione nella delega del potere politico dal sovrano a una
burocrazia, che si viene a trovare nella funzione delicata di mediazione e può favorire interessi particolaristici in cambio di ricompense (Karsenti 2010). Ma la corruzione non si serve solo della “pecunia”, ma anche di mormorazioni e congiure, e può sconvolgere
gli animi: così ne parla Pirandello (in “Difesa del Mèola (Tonache
di Montelusa)” da Novelle per un anno): «Vive orrenda tuttora negli
animi dei vecchi Montelusani la memoria della corruzione seminata nelle campagne e in tutto il paese, con le prediche e la confessione, dai Padri Liguorini, e dello spionaggio, dei tradimenti operati
da essi negli anni nefandi della tirannia borbonica, di cui segretamente s’eran fatti strumento». Insomma, la corruzione pecuniaria
non è la sola, e si accompagna alla segretezza, al tradimento, all’informazione carpita e distorta (Bobbio 1980; e Id. 2011). Le impurità
nel corpo politico hanno corrispondenza a quelle che infettano i
luoghi del potere. Losano ricorda che autocrazia e democrazia «si
fondano su due opposti instrumenta regni: il segreto e la trasparenza (Losano 2017, 675). La tirannia è la sovranità arbitraria, corrotta
per l’uso dispotico nell’esercizio del potere, perciò è la forma di
sovranità corrotta per definizione e auto-delegittimata perché è il
sovrano stesso a tradire la sua legge.
Il governo, per avere efficacia e proteggersi dai germi della
corruzione, deve ricevere una consacrazione di tipo religioso,
che, da un lato, è fonte di rafforzamento dei valori comunitari
del popolo, e, dall’altro, si esprime attraverso l’acclamazione popolare del governo medesimo. L’osservazione acuta di Benjamin
sul capitalismo come religione si può riallacciare a questa osser-
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vazione e alla tensione che durante i mesi del Terrore spacca il
fronte giacobino in due schieramenti radicalmente contrapposti e
va letta anche attraverso la polarità sovranità - governo, che non
è solo una schermaglia di tipo politico-amministrativo, ma nella
stessa gestione della Rivoluzione acquista valenze imprescindibili per il tipo di governo dell’economia e della società. La Rivoluzione francese, che, peraltro, ha anche un riferimento diretto in
Benjamin, è un momento rilevante per il tema sovranità-governo
perché in essa si consuma uno dei fondamentali passaggi politici
dall’antico al moderno e, si può dire senza esitazioni, che essa costituisce un termine di paragone di ogni riflessione sulla politica,
e non solo sulla politica dall’inizio del XIX secolo in poi.
L’economia, da governo originario su uomini e cose per amministrare con cura l’ambiente domestico secondo le disposizioni padronali, diventa tecnica per affrontare situazioni di risorse
scarse. Il concetto di scarsità di mezzi ha la propria immagine
speculare nel concetto di bisogni illimitati, formati da un’avidità
smisurata e da desideri non placabili; i due concetti attivano forze
contrapposte che bisogna comporre in modo strumentale, cioè si
deve fare fronte al massimo di bisogni possibile col minimo uso
possibile dei mezzi scarsi. Proprio questi ultimi – la limitazione
nella disponibilità di tempo e nella dotazione di risorse – impongono scelte su come disporne per soddisfare molteplici bisogni,
e nel processo di scelta di quali e quanti bisogni soddisfare sotto
il vincolo di tempo e risorse limitate si trova un punto di equilibrio in cui possono essere soddisfatti solo certi bisogni a fronte
di desideri illimitati. La mentalità acquisitiva si forma e si radicalizza con il cambiamento di atteggiamento nei confronti dei
beni di lusso, che da oggetti futili per soddisfare una vanità cortigiana sono ammessi nel rango di “necessità e bisogni”, diventando così un caposaldo normativo dei desideri. L’opposizione
tra desideri e bisogni è un dualismo essenziale e persistente, già
individuato da Aristotele nell’opposizione fra crematistica naturale e innaturale, corrispondente a quella, rispettivamente, fra
economia del bisogno ed economia del desiderio; la percezione
di tale opposizione viene, però, a sfumare nel corso del XVII-XVIII secolo. Inizialmente i desideri sono considerati insaziabili e
incostanti, frutto di vanità e sregolatezza, mentre i bisogni sono
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virtuosamente definiti e stabili; in questo senso il bisogno era un
principio fondamentale di temperanza e naturalità per filosofi e
moralisti da Platone in poi, un parametro per non eccedere, né
in un senso né nell’altro. Tuttavia, con la rivoluzione dei costumi
indotta da una prorompente economia mercantile nel corso dei
secoli qui ricordati, i bisogni, tradizionalmente intesi, iniziano a
cambiar pelle per le classi alto borghesi e basso aristocratiche, che
nutrivano ambizioni di accedere ai ranghi più alti della società,
fino ad allora considerati sede di corruzione morale. L’assimilazione dei desideri ai bisogni fu un momento di una rivoluzione
più ampia dei costumi. Per le categorie nascenti dell’economia,
tale assimilazione influì sul senso di un distacco sempre più netto
dai valori morali tradizionali, perché anche i desideri – temperati
o smodati che fossero – potevano essere avvertiti e sentiti come
semplici manifestazioni di preferenze progressive in una società
che si civilizza togliendosi di dosso i panni della miseria (Berry
1994, 177; ed Elias 1992). Con la consapevolezza di una scarsità
di strumenti a fronte di finalità sfrenate, immoderate, iniziano a
definirsi comportamenti razionali e massimizzanti2.
Quel che qui interessa non è tanto ragionare sui fondamenti
dell’episteme dell’economia, quanto considerarlo in quella prospettiva che ne fa uno dei cardini della secolarizzazione. Il punto
di tensione e di rottura trova un vertice nella Rivoluzione francese,
nella quale giunge a compimento uno scontro che ha come origine
la moderna dottrina dell’economia politica intesa da un Dupont
de Nemours (De l’origine et des progrès d’une science nouvelle, 1768)
quale scienza «dell’ordine naturale», ordine illustrato da Quesnay
nel Tableau économique (1758). Governare significa seguire l’«ordine naturale» della società. Dupont de Nemours pone l’ordine naturale «tra il sovrano e la nazione» in un governo sospeso tra questi due termini, come elemento che li unifica3. Ogni alterazione di
tale ordine derivante dalle istituzioni umane genera la situazione
2
Sulla definizione di “economia” si rinvia alla nota tesi di Robbins (1932),
recentemente ripubblicate nel 2018.
3
Il passo seguente si riferisce proprio a questo e richiama il principio
fondamentale della teologia economica come governo del mondo: «La comunità
d’interessi tra il sovrano e la nazione, evidentemente stabilita per la divisione pro-
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di scompiglio, di caos dispotico. L’economia come nuova scienza
rintraccia sotto le sedimentazioni istituzionali della storia, le leggi
per riportare armonia, una volta estirpate le strutture di privilegio
e di restrizione alle libertà. L’ordine naturale governa il mondo
come un’organizzazione provvidenziale della società. Turgot nelle
Refléxions sur la formation et la distribution des richesses (1776), pubblicate nello stesso anno di An Inquiry into the Nature and Causes
of the Wealth of Nations di Smith, aveva individuato il problema
principale dell’economia nello scarto tra l’avarizia della natura e
i bisogni dell’uomo. I desideri, smisurati e innaturali, sono ormai
santificati e ammessi nel cuore dei bisogni, quindi, come espressione della vita naturale, affettiva e spirituale dell’uomo. L’istinto
che spinge l’uomo ad andare oltre il minimo necessario per sopravvivere, o del vivere “beato” dei moralisti, diventa propellente
per raggiungere il benessere. La ricerca del benessere è la nuova
formula che va a rimpiazzare il classico viver bene. Infatti, osserva
Turgot, «la natura non tratta affatto con lui [cioè con l’uomo] per
obbligarlo a contentarsi dell’assolutamente necessario» (Turgot
1844, t. 1, p. 11 [I § VII]).
La preghiera del “dacci oggi” resta un’invocazione senza possibilità di trattativa mercantile. Il bisogno non è negoziabile, è
necessità vitale, dono di vita. L’allontanamento della divinità dal
mondo costituisce l’altro importante tassello nella costruzione di
un’etica morale di laboriosità e di razionalità. La laboriosità comune del contadino e dell’artigiano non è una spinta naturalmente autopropulsiva. In una nota, Dupont de Nemours, a commento delle
posizioni di Turgot, aggiunge quanto sia importante abbandonarsi
alle disposizioni della natura per goderne dei vantaggi.
Le leggi di natura e la bontà della Provvidenza – osserva – lottano, di
solito con successo, contro le follie e anche contro i crimini degli uomini;
ne rimediano i tristi effetti. Cosa accadrà quando gli uomini diverranno
abbastanza illuminati per non opporre resistenze, se non debolmente,
alle leggi di natura, in modo da gioire in pace e con riconoscenza dei
benefici del cielo? (Dupont de Nemours 1844, t. 1, 71).
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porzionale del prodotto netto del territorio, è il garante più sicuro dell’osservanza
delle leggi dell’ordine naturale» (Dupont de Nemours (1768, 358 [§ XVIII]).
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Ma la natura richiede all’uomo di piegarsi alle dure necessità del lavoro. E l’uomo che riconosce nella natura l’operare
dell’ordine provvidenziale non deve opporvi resistenza. Era così
in un mondo in cui l’economia preindustriale e precapitalistica
costringeva l’uomo a estrarre mezzi di sussistenza con un lavoro
estenuante. Una volta fuori dall’Eden, la generosità della natura riversa i suoi doni solo con molta parsimonia. La liberazione
compiuta da Prometeo consegnando agli uomini il fuoco, ovvero
la tecnica, cambiava l’ordine delle cose: la natura continuava a
sembrare poco generosa solo perché i bisogni (nella versione di
“desideri”) erano diventati (artificiosamente) illimitati e inappagabili. L’operosità che rischiava di essere appannaggio di fanatici
stakanovisti, ritornava a essere spronata dalla concorrenza di tutti contro tutti per ottenere di più e di meglio.
Nel paradigma della teologia trinitaria, il solo regno dell’inoperosità è quello proprio della sovranità, mentre l’operosità è
relegata (e delegata) nella sfera dell’oikonomia, nella quale opera
la provvidenza e dove, appunto, si concilia «la trascendenza di
Dio con la creazione del mondo» (Agamben 2007, 81). Lo stesso
paradigma di separazione tra il regno e il governo si afferma soprattutto nel corso del XVIII secolo, con la teoria politica liberale
e con le prassi istituzionali relative, poi riassunte nel motto, forse
coniato da Thiers e ripreso da Schmitt, «il re regna, ma non governa». Motto, questo, che non si riferisce solo alla separazione
dei poteri, ma che ammicca, soprattutto, a un potere istituzionale
svuotato. La separazione fra regno e governo è simbolicamente rappresentata dal “trono vuoto”, in quanto il re ha delegato i
poteri amministrativi e di governo a una burocrazia permanente
di ausilio a governanti pro-tempore. Agamben (2007, 11, 211-2,
266-8) sottolinea, appunto, tale concetto con l’immagine del trono
vuoto quale simbolo della gloria e della sovranità che regna ma
non governa.
Ortega y Gasset associa significativamente l’imperium all’intrapresa. Si riferisce all’origine del comando assoluto in una società
ancora tribale come quella delle orde latine; per esse imperium e
imperare, era inteso nel senso di comando e comandare, una derivazione da im-parare, «cioè di “preparare tutto il necessario per
un’impresa, organizzare una impresa”. L’imparator è quindi qual-
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cosa di simile all’imprenditore» in una società senza un’organizzazione stabile con funzioni proprie di uno Stato, di un esercizio di
un potere pubblico (Ortega y Gasset 1978, 103-4). L’imperator è perciò imprenditore, uno che mette ordine, decide e dispone cosa fare;
è uno che comanda non di diritto, ma di fatto. Il passo successivo,
che spiega l’evoluzione istituzionale dell’organizzazione del potere e il superamento dei clan, è quello dell’insediamento di un rex, di
una regalità, cioè un «rettore, poiché regge o dirige i riti religiosi, i
sacrifici – rex sacrorum – […] l’insieme degli atti sacri». Il rex esercita
l’imperium, è capo permanente, generale dell’esercito, legislatore,
giudice supremo, perché ne ha diritto in quanto «il popolo crede
che gli dei lo vogliono», e per discendenza di sangue rende efficaci
i sacrifici, possiede una «grazia magica», ha il charisma, che in greco
designa la vicinanza agli dei, qualità indispensabile per proteggere
la comunità (Ortega y Gasset 1978, 116). A quel punto la distinzione tra un momento civile e un momento bellico diventava sempre
più netta e imperator era colui che prendeva il comando dell’esercito, aveva un potere assoluto e illimitato, anche di vita e di morte
sui militari in situazioni di emergenza, ma – come sottolineato da
Cesare nel libro III della Guerra civile – quel potere si contrappone
– proprio nella sua essenza – a quello del legato (legatus), che era
sottomesso a quanto gli era prescritto4.
Nella Roma antica l’imperator era tale per conferimento di un
potere eccezionale in tempo di guerra, senza però esercitare alcun
potere dentro l’urbe nella quale «regnava sola l’autorità, e l’autorità è […] la legge impersonale» e il depositario della legge era
«magis degli altri, era maggiorato, era magister e magistrato», a differenza dell’imperatore, e, in quanto magistrato, «l’uomo si tramutava in un automa della legalità», «la sua personalità umana
usciva dal suo corpo, e nel vuoto della sua persona si installava
l’entità anonima che è la legge» (Ortega y Gasset 1978, 72).
C’è un aspetto importante, confermato anche in questi passaggi di Ortega, e riguarda la posizione del sovrano, il rex, che
riceve un’investitura sacra. La consacrazione, il sacre, è la ceri-
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Come denotato dall’accezione originaria del termine legatus, participio
perfetto del verbo legare, esso svolge la funzione di delegato, cioè di incaricato da
un superiore a rappresentarlo per svolgere un compito specifico.
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monia dell’unzione con la quale la regalità si trasferisce nei re
di Francia a pieno titolo di successione (Bloch 1989). Quell’investitura discende da una «grazia magica». Il carisma nelle dottrine cristiane è una grazia divina, straordinaria: apporta i doni di
profetizzare, compiere miracoli, vincere battaglie in condizioni
di netta inferiorità, doni che conferiscono un potere speciale di
salvezza per l’intero popolo al seguito del suo capo. Mosè nella
teologia giudaico-cristiana è capo carismatico per eccellenza. Il
carisma è un concetto cardine nella teologia paolina della grazia5,
sulla quale lo stesso Max Weber costruisce la sua teoria del leader.
Il dominio carismatico è intermedio tra il dominio tradizionale e
quello legale-razionale. David Norman Smith (1998) chiarisce il
senso di questa medietà del dominio carismatico. Per Weber, il carisma non è una qualità personale ma uno status sociale, e come
tale non è permanente, ma, come una credenza o i costumi di
una tradizione, richiede un continuo riconoscimento sociale che
vincola il capo al gruppo dei seguaci e se quel vincolo si scioglie
viene meno anche la rilegittimazione come atto di riconferma, di
nuova “unzione” (Weber 1922, l, 239). La posizione dell’autorità
carismatica è pertanto precaria, sempre in bilico, non fa concessioni e non ricerca consensi, è riconosciuta per acclamazione. Il
riconoscimento avviene per rivelazione, ordalia, o simili procedure, comunque sempre attraverso scelte avvolte in un’aura ultramondana, numinosa, anche nel caso di designazione diretta di
un successore da parte del capo carismatico (Weber 1922, I, 244).
Sono aspetti questi, che Agamben tratta nella prospettiva
della teologia economica e dell’apparato rituale della Gloria, che
costituisce il dispositivo tradizionale attraverso il quale si rende
efficace l’azione del governo, persino nelle versioni moderne e
deviate di stretta osservanza laica come le parate pubbliche, le
feste popolari, i mass media, che non solo costituiscono lo sci-
Sul carisma S. Paolo, elenca nove facoltà o carismi in I Cor. (12, 11-30)
e cinque in Rom. (12, 6, 8). I primi sono: la parola della sapienza, la parola della
conoscenza, la fede, la grazia di dar la salute, la virtù dei miracoli, la profezia, la
discrezione o discernimento degli spiriti, la facoltà di parlare più lingue, l’interpretazione dei discorsi; ai quali si aggiungono quelli degli apostoli, dei profeti, dei
dottori, l’ausilio e il governo.
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volamento secolarizzato di forme rituali religiose, ma svolgono
la stessa sostanza di conferimento e, appunto, sacralizzazione di
un’autorità civile.
Sull’economia si misura in effetti tutta l’efficacia del dispositivo.
8.2. Le fragili fondamenta della comunità di mercato
Non è vero che sia prescritta una “libertà naturale” per le
attività economiche degli individui. Non esiste alcun patto o contratto che conferisca diritti perpetui a coloro che
posseggono o a coloro che acquistano. (Keynes 1925, 125-6)
Il funzionamento della concorrenza non solo richiede un’adeguata organizzazione di certe istituzioni come la moneta, i mercati, i mezzi d’informazione – alcuni dei quali non
possono mai essere soddisfacentemente garantiti dall’impresa privata – ma dipende soprattutto dall’esistenza di un
sistema giuridico appropriato, un sistema concepito sia per
preservare la concorrenza sia per renderla il più possibile
benefica. (Hayek 1944, cap. 3)
fede è sustanza di cose sperate | e argomento de le non
parventi (Dante, Paradiso, XXIV, 64-65)
Complementare al non governo del sovrano è la macchina burocratica e governamentale che gli Stati moderni costruiscono
pezzo su pezzo in forma di funzioni permanenti, professionali, la
quale è, a partire dal XVI-XVII secolo, posta alle dirette dipendenze dell’autorità statale, e non opera più attraverso appalto di servizi, come avveniva con le milizie mercenarie o con la riscossione
dei tributi in ancien régime. Riguardo ai “tempi”, Foucault, per il
versante della biopolitica6, e Agamben, per quello della teologia
economica, giungono a individuare genealogie quasi coincidenti,
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Foucault (2017a, 13) chiama biopotere «una serie di fenomeni di un certo rilievo, ovvero l’insieme dei meccanismi grazie ai quali i tratti biologici che
caratterizzano la specie umana diventano oggetto di una politica, di una strategia
politica, di una strategia generale di potere. In altri termini, si tratta di capire in
che modo la società, le società occidentali moderne, a partire dal XVIII secolo, si
siano fatte carico dei dati biologici essenziali per cui l’essere umano si costituisce
in specie umana. È il fenomeno che chiamo genericamente biopotere».
8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
199
se ci riferiamo a queste due visioni come a un doppio processo
di secolarizzazione, che si completa vicendevolmente in due sfere, le quali, fino ad allora, non si erano rese del tutto autonome,
anche se il governo economico poteva godere di una debole indipendenza. La costruzione delle fondamenta del mercato è un
processo che richiede numerosi passaggi, e minaccia sempre di
lasciare il mercato medesimo preda di una sua intrinseca fragilità.
La politica e l’economia adottano principi di razionalizzazione a
partire da quei secoli. La burocrazia professionale nel primo caso
(Richardson 2010), l’organizzazione di segnali e stimoli forniti ai
soggetti economici per competere sulle opportunità di scambio,
nel secondo, sono i principali pilastri su cui costruire l’architettura del mondo moderno. L’organizzazione dei traffici economici
su basi decentralizzate, impersonali e multilaterali si forma attraverso la presenza di una serie di istituti, senza i quali il castello
di relazioni mercantili crolla e travolge quanti vi prendono parte.
L’acquisto legittimo di un bene (con garanzia di evizione) è di
complemento al diritto di proprietà e alla prelazione per rendere
mobili i beni e svincolare le stesse terre da una serie di istituti che
le rendevano intrasferibili7. Keynes espresse con molta chiarezza
lo stesso concetto:
Alla fine del secolo XVII il diritto divino dei monarchi cedeva il posto
alla libertà naturale e al contratto, e al diritto divino della chiesa subentrava il principio della tolleranza e il concetto che una chiesa “è una società volontaria di uomini” i quali si riuniscono “in modo assolutamente
libero e spontaneo”. Cinquant’anni dopo, l’origine divina e la voce assoluta del dovere cedevano il posto ai calcoli dell’utilità. Nelle mani di
Locke e Hume queste dottrine originavano l’individualismo. Il contratto
presupponeva diritti nell’individuo; la nuova etica, in sostanza nulla di
più di uno studio scientifico delle conseguenze di un egoismo razionale,
poneva al centro l’individuo. […] Lo scopo dell’elevamento dell’indivi-
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Si veda, tra l’altro, il senso che Brunner (1983) attribuisce alle terrae
(Länder), distinte dai dominia (Herrschaften), che mantennero a lungo l’impronta
tribale originaria e disegnavano i limiti giurisdizionali e territoriali di una comunità locale (Landesgemeinde, Landschaft) vista come comunità pacifica del regno
germanico. Il dominus e la comunità erano soggetti a norme che facevano riferimento a un Recht trascendente esercitato dal signore con la propria comunità di
soggetti. Cfr. anche Bloch (1979).
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Parte II - Moneta e debito
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duo era di destituire il monarca e la chiesa; l’effetto – grazie al nuovo
significato etico attribuito al contratto – fu di rafforzare la proprietà e la
prescrizione (Keynes 1925, 109-10).
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La regolazione dei pagamenti in moneta fornisce ulteriori
certezze per la conclusione degli scambi. La creazione di luoghi
adibiti alle contrattazioni, sul tipo di forum, piazze, fiere e borse,
consente, a coloro che li frequentano per affari, di rendersi immediatamente conto della qualità dei beni. La standardizzazione
dei medesimi evita valutazioni e saggi dispendiosi di tempo e di
mezzi e, inoltre, evita eventuali frodi. Il passo successivo è la standardizzazione delle merci e il confronto simultaneo delle parti
contraenti. Tra i frequentatori più assidui vi sono ovviamente coloro che si presentano o per vendere o per comprare, ma in mezzo
ad essi stanno trader professionali, mercanti che intendono effettuare volumi d’affari molto più consistenti e che intervengono su
entrambi i lati del mercato, disposti a spostarsi sulla sponda delle
vendite o su quella degli acquisti a seconda che fiutino l’affare
da un lato o dall’altro. In questo modo emergono con una certa
trasparenza gli orientamenti che si stanno prefigurando per le future occasioni di fiera e di mercato, senza che nessuno, in linea di
principio, abbia un vantaggio nel formarsi aspettative sull’andamento delle contrattazioni correnti e future. Insomma, si crea un
teatro nel quale gli attori sono anche coloro che assistono alla rappresentazione. Il copione è stabilito come in una corsa di cavalli
di razza. In borsa tutto questo si perfeziona al massimo grado
attraverso una competizione multilaterale sulle compravendite
presenti o future.
Weber parla di «comunità di mercato» per intendere l’involucro sociale nel quale anche il mercato è necessariamente inglobato per costruzione collettiva autonoma e, al tempo stesso,
eterodiretta. Dunque nemmeno il mercato può prescindere da
una forma di organizzazione sociale e politica. I primi elementi
di eterodirezione sono la legge e la moneta, entrambe difficilmente sostenibili senza qualche autorità e legame comunitario.
Infatti, «l’utilizzo del denaro» permette un «agire comunitario
[…] solamente in riferimento all’agire potenziale degli altri»
(Weber 1922, II, cap. VI). Lo scambio, per realizzarsi, ha bisogno
8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
201
di un processo di socializzazione minimo, ma essenziale, per
rendere confidenti coloro che vanno sul mercato, con la convinzione di trarne vantaggio attraverso metodo e razionalità. Le
negoziazioni stesse, che preparano lo scambio, presuppongono
un’attività sociale. A differenza di altre forme sociali, le quali
sono il risultato di un patto, nel mercato il patto/contratto si
definisce con un passaggio di moneta tra due soggetti. Gli altri,
potenzialmente interessati al medesimo scambio, fanno parte,
in qualità di concorrenti, di quella stessa «comunità di mercato», definita da Weber, come «il più impersonale dei rapporti»
intersoggettivi, mediati da cose, dove non sussiste nessun altro
vincolo se non quello del puro scambio di merci o di attività
finanziarie. Come archetipo dell’agire razionale «il mercato –
osserva ancora Weber – […] conosce unicamente riguardi per
la cosa concreta, non per la persona, non conosce obblighi di
fratellanza o di pietà». Solo quando le altre forme di socialità
comunitarie sono abbandonate la razionalità può guidare l’azione umana. Nonostante l’antitesi del mercato rispetto alle altre
forme comunitarie, e l’isolamento dei singoli soggetti, lo «scambio monetario, non si orienta isolatamente in base all’agire della
controparte, bensì in base all’agire di tutti i potenziali interessati
allo scambio – e in misura tanto maggiore quanto più diventa
razionale e riflesso» (Weber 1922, 620 [II, cap. VI]). Weber ha qui
presente l’archetipo della Borsa, nella quale gli interessi entrano
in lotta tra loro, ma per interagire hanno bisogno di una lingua
comune, seppure composta di soli segni, e di regole prestabilite. Anche questa «nuda comunità di mercato» – per Weber – è
pur sempre una comunità, contrariamente alle tesi dei neoistituzionalisti (vedi anche la parte I, par. 5.6 e cap. 6) per i quali il
mercato è essenzialmente una rete di scambi, la cui meccanica di
auto-normatività e auto-organizzazione genera, di per sé, regole
e istituzioni. Sul modo di intendere il mercato c’è un dualismo
fondamentale tra quanti – come Weber e altri economisti del
suo tempo – considerano il mercato un’istituzione, un prodotto
comunitario, e i neoistituzionalisti di mainstream che si affannano a considerare il mercato un dispositivo astratto, cognitivo,
descrittivo di relazioni di scambio. In questo secondo caso, la
comunità di mercato porta a realizzazione un conflitto interper-
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sonale incruento, pacificato dallo scambio volontario ed equo,
«per la salvezza dell’anima» di ognuno. Nel mercato, in mancanza di rapporti personali, persino di conoscenza della controparte, tutto è posto in relazione all’assoluto raggiungimento del
medesimo fine di arricchimento. L’impersonalità dei rapporti è
consentita dall’eliminazione di rapporti comunitari – tipo quelli
di parentela e fratellanza – senza vincoli di norme etiche, ma
non per questo il mercato può completamente prescindere da
basi comunitarie minime: i) dal rispetto della legge contrattuale,
e ii) dai segni che le parti sono in grado di intendere, in mancanza della medesima cultura e lingua, e per mezzo dei quali
perfezionare la transazione in maniera pacifica. La tensione e
il conflitto si svolgono tra comparse immaginarie e per delega alle cose da parte di persone. La «nuda comunità di mercato» dispiega interessi e cose – prima che persone. Gli interessi
contrapposti per poter concorrere in modo razionale poggiano
sulla legalità, ovvero sull’«incrollabilità di quanto promesso».
La comunità di mercato è in fondo una comunità tenuta insieme da beni e da promesse, dove ogni promessa è un pegno, un
giuramento solenne. In questo consiste l’etica della comunità di
mercato. L’organizzazione della borsa controlla preventivamente coloro da ammettere nella schiera degli “eletti”, cioè di coloro
che onoreranno le promesse.
Weber aveva letto e, si può dire, “tradotto” il Nietzsche di
Genealogia della morale, secondo il quale la civilizzazione era un
processo di socializzazione per «[a]llevare un animale, cui sia consentito far delle promesse» (Nietzsche 1887, 45, [II, 1]). La promessa
in senso commerciale è buona se va a “buon fine”, cioè si risolve
per vera. Una digressione ci permette di comprendere il valore
della promessa. Holte invita a prestare attenzione al concetto di
άγαθόν, tradotta in latino con bonum. Nel linguaggio corrente della filosofia antica tale concetto era distinto dal bene morale, per il
quale si usava καλόν, cioè honestum. Il termine άγαθόν era riferito a tutte le cose che meritavano di essere ricercate, sia in senso materiale che spirituale. Degne di ricerca erano perciò le cose
“buone”. In cima a tutte le cose buone era posto il bene supremo,
cioè il summum bonum, degno di essere ricercato in sé, come fine
e non come mezzo, identificato col divino. Il concetto di summum
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8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
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bonum «diventa – osserva sempre Holte – interamente identico a
quello di finis boni o bonorum» (Holte 1962, 20). Se si lasciano le
vette eteree della filosofia e della teologia per concederci la profanazione del concetto di summum bonum in quel tempio del mercato che è la banca, notiamo che per essa il “buon fine” è diventato quello delle promesse adempiute. Il regolare adempimento di
un’obbligazione trova espressione nella clausola condizionale del
“salvo buon fine”, formula prudenziale con la quale un creditore o
una banca si premunisce annullando un’operazione nel caso non
si verifichino le premesse e le promesse in base alle quali era stata
concessa. La degradazione del concetto aristotelico e agostiniano
nel linguaggio commerciale non conduce però alla perdita del
senso implicito del bene sommo, il solo che adempie le promesse
di felicità totale, o beatitudine. Edouard Richard, in un’edizione
critica del trattato di Savary sul Perfetto mercante, osserva che la
«sintesi delle virtù necessarie all’esercizio del negozio in Savary è
espresso molto bene nella sentenza seguente: “La prima cosa che
si deve considerare nella personalità del mercante presso il quale
si mandano i figli per l’apprendistato, sono i buoni costumi (les
bonnes mœurs), che consistono nella pietà e nel timor di Dio, nella buona fede, nella giustizia e nell’equità di tutte le sue azioni»
(Richard 2011, 45)8. La buona fede, commercialmente parlando,
non è altro che la premessa, il presupposto, del buon fine: alfa e
omega delle regole da seguire per il successo. Del resto Derrida
osserva che «Tutto è atto di fede, fenomeno di credito o di prestito
[créance], di credenza e di autorità convenzionale. […] L’autorità è
costituita per l’accreditamento, […] nel senso della legittimazione
come effetto di fiducia o di credulità» (Derrida 1991, 126). La buona fede è, in definitiva, il cardine della buona condotta e del buon
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Savary (1622-1690) fece fortuna come mercante di mercerie a Parigi prima di essere nominato da Fouquet a capo dell’amministrazione del patrimonio
della corona. La prima edizione della sua opera uscì nel 1675 ed ebbe subito un
grosso successo, divenendo per circa due secoli un’autorità indiscussa in materia di diritto e giurisprudenza commerciale non solo in Francia ma anche nel
resto d’Europa. Due suoi figli, Jacques Savary des Bruslons (1657-1716) e Philémon-Louis Savary (1654-1727), aggiornarono l’opera del padre e contribuirono a
protrarne il successo con il loro altrettanto celebre Dictionnaire universel de commerce, d’histoire naturelle et d’arts et métiers (1720), tradotto in italiano nel 1771.
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funzionamento di ogni attività mercantile ed economica. La «dea
degli affari, la fides» precisa Richard è la «chiave immateriale del
successo» (Richard 2011, 51). La prima seria minaccia nei confronti
della fides – che fu anche, paradossalmente, causa di una sua crescita d’importanza – si presentò con quella che Richard definisce
«avanzata insidiosa dell’individualismo», a partire dalla fine del
medioevo, con la fondazione delle prime società per azioni (fenomeno ignorato da Savary, sebbene si sia occupato delle compagnie
privilegiate) (Richard 2011, 54). L’anonimato diventa la maschera
dietro la quale si nascondono tutte le insidie, che oggi si direbbero
conflitti d’interesse; anonimia presente nelle società in accomandita e, soprattutto, in quelle propriamente dette “anonime” con solo
nome collettivo. Le insidie maggiori sono proprio quelle che mettono a repentaglio i legami comunitari della solidarietà tra soci, i
quali sono amici prima di tutto, perché dalla loro amicizia, convivialità e buona intesa (amitié, déférence e bonne intelligence) dipende
per Savary il «bene comune della loro società», e la cui reciproca
fiducia è rinsaldata dall’amicizia e dal rispetto tra le rispettive famiglie, e, in primo luogo, tra le mogli, cosa notoriamente necessaria per evitare litigi (Savary 1720, II parte, libro I, cap. iv, p. 438
dell’originale e p. 700 dell’ed. critica di Richard 2011).
Un’altra notazione da fare è relativa allo svincolo dell’agire
umano da ogni altro valore etico, salvo la fede: il giusto si salva
per fede. Celebre la definizione paolina della fede che «è garanzia
delle cose sperate, prova per le realtà che non si vedono» (Eb 11,
1). Dante la rende più aderente al latino della Vulgata con «fede è
sustanza di cose sperate | e argomento de le non parventi» (Paradiso, XXIV, 64-65). Sostanza e argomento, garanzia e prova, sono
elementi che si ritrovano in ogni rapporto di credito commerciale
in relazione a quel che è oggetto di pegno per una promessa solo
apparente, fittizia, ma che pare realizzabile. Il valore della fede,
nel senso qui indicato, teologico ed economico, è ancor più chiaro
in un commento di Lutero alla quinta delle sette richieste presenti nel Pater noster, «e rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6, 12). Lutero sostiene che non
possono ottenere questa indulgenza né coloro che dimenticano
la propria colpa e ingrandiscono quella del prossimo, né soprattutto i fede-indegni, coloro che hanno uno «spirito più sottile»
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dei precedenti, e si chiamano «nella nostra lingua calunniatori,
in greco, diavoli, in latino diffamatori, in ebraico satanassi, in
poche parole sono una banda maledetta che sospetta, disprezza,
maledice ognuno, e tutto ciò sempre con l’apparenza di bontà»
(Lutero 2009, 262). Il riconoscimento del debito, e della colpa, il
farselo condonare dagli altri e rimetterlo agli altri, sono atti che
nelle spiegazioni di Lutero implicano un’onestà di fede e di fiducia tra le due parti e chi non tiene fede e semina sfiducia non può
attendersi remissione di debito, né di colpa.
Ritornando alla schiera degli eletti, questa è composta da coloro
che mantengono le promesse e sono perciò fededegni (cioè dicono
il vero9). Il mercato è però «in totale antitesi rispetto a tutte le altre
comunità» per aver tendenzialmente ridotto tutti i rapporti all’assoluta impersonalità (Weber 1922, cap. VI del t. 2). Ma così facendo,
si è introdotta nel mercato anche una contraddizione insanabile, a
causa del rinvio all’assoluto, che è la fede, come supporto e mezzo
di verificazione per ogni tipo di vincolo contrattuale. Il paradosso
appare evidente: l’immanenza di un sistema di organizzazione delle relazioni tra uomini e cose che però non può prescindere dall’alterità di una nozione che ha del trascendente. Dalla precedente
proposizione di Weber discende anche che il mercato sgretola ogni
altra dimensione comunitaria, avendo ripulito ogni rapporto sociale di principi etici e instaurato il cash nexus, ovvero ogni legame
è liquidato con pagamento in contanti. Ma così facendo, anche il
mercato diventa fragile, se si incrinano proprio i presupposti che
lo sorreggono. I puritani avevano fondato ogni rapporto commerciale sano sull’appartenenza alla comunità dei “santi”, all’interno
della quale la fede degli adepti era continuamente verificata. I loro
discendenti dovevano, invece, confidare tutto nella costruzione di
un meccanismo artificiale, il mercato “perfetto”, in cui le verifiche,
di «sostanza» e «argomento», fossero continue, sebbene in esso
– caratterizzato dalla anonimità, impersonalità e spontaneità – non
vi fossero “santi” controllori, e, quindi, sorgesse, per definizione, il
problema dell’assenza del verificatore.
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Il tema meriterebbe di essere trattato anche per le implicazioni economiche, ma si rinvia più in generale agli ultimi due corsi di Michel Foucault: v.
Foucault (2009) e (2011).
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Nel Capitale, Marx aveva trattato il dissolvimento dei vincoli
comunitari sotto il profilo dei processi storici che portano al capitalismo e sotto quello della teoria dello scambio. In economie
arcaiche, la divisione del lavoro interna alle comunità è fissata
«secondo un piano», e, come nel caso delle norme corporative,
la «corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da
parte del capitale mercantile» (Marx 1867, 437-9 [12, 4]). La rottura
dei legami comunitari causa l’indipendenza degli uni dagli altri
e l’apparizione di scambi di beni fra estranei, anziché di dono
reciproco fra appartenenti ad una comunità, familiare o di villaggio che fosse. «Lo scambio di merci comincia dove finiscono le
comunità» e – continua Marx (1867, 107 [I, 2]) – lo scambio diventa scambio tra estranei, come quello ai margini delle comunità e
deve trovare – come vedremo – dei dispositivi che rimpiazzino
gli impegni originari, i debiti che legano tra loro i membri delle
comunità. Il concetto weberiano di “comunità di mercato” rinvia
alla necessità di riprodurre in economie capitalistiche avanzate
un meccanismo di reciprocità obbligante, per superare gli inconvenienti di dover concludere tutti gli scambi con un semplice
cash nexus, quando un ritorno ai mezzi più fluidi del debt nexus
offrirebbe ben altre potenzialità per non restare invischiati nella continua ricerca di mezzi liquidi, o – peggio – nella rinuncia
a compravendite10. Ma su questo ritorneremo. Lo sgretolamento
dei rapporti comunitari da parte del mercato permetteva un’estensione delle attività di commercio oltre gli scambi originati ed
effettuati dentro una comunità coesa, la quale per tali scambi non
necessitava di ricorrere a prezzi e valutazioni di equità. Nelle comunità agricole tradizionali, dove i rapporti mercantili non erano
strettamente necessari e sviluppati con regolarità, gli scambi si
potevano effettuare in ricorrenze rituali come le feste, occasionali
rispetto alla vita ordinaria. Solo in un commercio evoluto tra comunità di estranei si sviluppano forme di scambio con contratti
“nudi”, ridotti ai minimi termini (ciò risulta evidente – come vedremo – dal confronto con i donativi, quali forme di scambio in-
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Sul guadagno di tempo nelle economie avanzate si veda il Gekaufte Zeit,
cioè “comprare il tempo”, titolo originale del libro di Streeck, modificato nella
traduzione italiana (2013).
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tracomunitarie), ma con abbondanza di merci esposte alla ricerca
di acquirenti. Nel perfezionamento del rapporto di scambio tutto
si articola, come detto, sulla garanzia di legalità, lealtà e fiducia,
altrimenti si scivola su una china pericolosa di incertezza fino
all’esito peggiore della violazione dei patti, di non mantenimento della parola data, in definitiva di una rottura dei rapporti che
trasferisce lo scontro, se tutto procede civilmente, sull’altro teatro,
quello dei tribunali fallimentari.
L’impersonalità sostanziale della comunità di mercato ha
un’implicazione rilevante sulla formazione dei prezzi, dato che
un mercato ben organizzato non attua alcun tipo di discriminazione. La multilateralità, cioè la pluralità di interessi in gioco,
garantisce in linea di principio una sorveglianza sulla correttezza dei rapporti e sull’assenza di trattamenti di favore, al pari di
truffe o di frodi ai danni dei soggetti “deboli”. Truffe e frodi, se si
formano, sono truffe e frodi “di massa” e non di singoli11.
Il mercato è perciò quella comunità di mercato weberiana che,
pur tenendosi fuori, in linea di principio, da appartenenze di corpo o di parti politiche, può creare un mercato ben organizzato.
Questo grazie ad imprese specializzate, come mercanti grossisti,
banchieri e altri operatori professionisti, che intervengono costantemente, incanalando ordini di acquisto e di vendita e che, grazie
anche ai loro interventi, trovano sempre un prezzo di “equilibrio”
al quale chiudere le posizioni rispettive. In questo senso specifico, il mercato è, tecnicamente, una costruzione sociale di imprese
specializzate che operano sul mercato medesimo, e che lo tengono in piedi, senza esporre troppo le loro “mani”, perciò “quasi invisibili”. «I monopolisti corporatori [di ceto] – infatti – affermano
il proprio potere opponendosi al mercato, delimitandolo, mentre
il monopolista economico razionale domina mediante il mercato»
(Weber 1922, 623)12. Forse, non si poteva esprimere in maniera più
concisa l’opposizione al mercato, l’alterità dell’impresa rispetto al
mercato (Coase 1937) e la posizione dell’impresa oligo-monopolista che sfrutta una posizione di mercato.
Incisivo il piccolo volume di Galbraith (2004).
Tra parentesi quadre è il termine ripreso dalla recente revisione del testo
weberiano, v. Weber (2005, 180).
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Un ulteriore aspetto riguarda l’ordine del mercato – Weber lo
chiama la «pace del mercato» – posto sotto la tutela degli stessi
operatori, che vigilano, come nelle sette puritane, sull’integrità
dei partecipanti e, se necessario – come spesso è –, cercano un’autorità “forte” che imponga regole e le faccia rispettare. «Molto
spesso la pace di mercato viene posta sotto la tutela del tempio,
ma un po’ per volta, il capo politico o il principe suole fare di questa tutela della pace una fonte di tasse» (Weber 1922, 624 [I, VI]).
L’anarchia assoluta degli scambi mercantili invoca, paradossalmente, la forza dello Stato “totale” (come vedremo nel paragrafo
successivo).
8.3. Uno Stato “forte” per un mercato “forte”
solo uno Stato forte è in grado di prendere le distanze da
ciò che non è statale. (Schmitt 2019, 7)
Per secoli il pensiero occidentale è stato dominato […] dalla
dicotomia giusnaturalistica tra stato di natura e stato civile.
(Bobbio 2007, 113)
Ci sono norme che non possono scriversi o non è opportuno che si scrivano; ce ne sono altre, che non possono determinarsi se non quando si verifica l’evenienza cui debbono
servire. (Romano 1990, vol. I, 364)
Per Max Weber, come già accennato nel paragrafo precedente, il
il mercato è il prodotto di una «comunità di mercato» e può operare in maniera efficiente solo se la comunità che lo ingloba segue
regole che rendono ordinate le transazioni e mantengono la base
fiduciaria. Questa base è la sola a tenere insieme individui che
non hanno altro rapporto interpersonale al di là dello scambio.
Dunque, nel mercato moderno, la fiducia non è più riposta in una
sorta di affinità elettive tra persone che danno per certi, o quasi,
i motivi sui quali, per esperienza, possono dirsi garantiti da violazione dei patti. Tutto riposa, in questo mercato, su meccanismi
istituzionali esterni al rapporto fra individui, e anzi, il sistema di
garanzie è solido nella misura in cui ciascun membro di tale comunità, che è sui generis, perché, appunto, priva di “affinità elettive”, si attiene al principio del self-interest, dell’“ognuno per sé,
Questo E-book appartiene a roffisimone.2000@gmail.
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Dio per tutti”. È appunto il “Dio per tutti” che tiene uniti soggetti
estranei per natura (i conflitti di interesse insorgono quando non
sussistono garanzie di “terzietà” nella separazione di compiti e
vesti istituzionali). Finché quel “Dio per tutti” era interpretato attraverso l’applicazione dell’etica calvinista, nelle versioni puritane, in cui vige la dittatura morale che reprime immediatamente le
deviazioni, le comunità di mercanti nei primi stadi di formazione
poterono avviarsi verso una qualche prosperità, operando senza
darsi ulteriori garanzie o pegni, in quanto tutto poteva restare
appeso alla parola data. La compattezza di comunità di quel genere era interna e fondata sulla chiusura verso gli appartenenti
ad altre sette o individui con altra “stoffa” morale (Weber 1906)13.
L’allargamento delle dimensioni “comunitarie” presupponeva –
oltre al mantenimento della possibilità di uno stretto controllo reciproco e di validazione della moralità su basi personali (denunce di sospetti, espulsioni, messa al bando) – il rafforzamento di
norme esterne, di tipo istituzionale, e interne, di interiorizzazione
di una religione secolare che rinviava agli stessi valori morali e,
fondamentalmente, a quel comune senso di colpa – richiamato da
Benjamin – riferito a una colpa incancellabile. È questa colpa che
spinge a un’instancabile ricerca di profitto, per convinzione intima di autorealizzazione o per i meccanismi indotti da punizioni,
premi e ricompense, attraverso i quali migliorare gli ingranaggi
della concorrenza. In quest’ultimo caso non c’è una via di redenzione, ma solo un dispositivo di colpevolizzazione di coloro che
non si trovano tra i “premiati”. Come vedremo, il capitalismo,
come religione fondata su quel senso di colpa individualizzato
nella forma di un’inesauribile brama di prestazione e di arricchimento, è vulnerabile per corruzione interna (Quid non mortalia
pectora cogis, | Auri sacra fames; A cosa spingi i cuori mortali, o
miserabile fame dell’oro; Eneide 3, 56-57) e per le difficoltà – come
sottolinea bene Schmitt, come vedremo tra poco – a tenere sepa-
13
Il saggio su Le sette e lo spirito del capitalismo si apre con l’osservazione
che negli Stati Uniti vige da tempo la separazione tra Stato e Chiesa, applicata
con severità al punto che, un secolo fa, non era tenuta alcuna statistica ufficiale
delle confessioni religiose. Tuttavia gli uomini d’affari al loro primo approccio si
domandavano a quale Chiesa ognuno di loro appartenesse (p. 61).
Parte II - Moneta e debito
210
rato l’ambito della competizione economica dai vari livelli istituzionali, quando anche questi diventano terra di conquista14.
Molti studiosi insistono, nello spiegare la formazione storica del mercato in senso moderno, sul processo di espansione di
ambiti propriamente privati e della loro autonomizzazione dalla
sfera politica, che avrebbe consentito di realizzare scambi economici equi e sorvegliati (Prodi 2009). Questa secolarizzazione – nel
senso di una separazione dalle sfere della politica e della morale
religiosa – che investe la sfera economica ha però poco a che vedere con l’impostazione della teologia economica. Quest’ultima
sarebbe, in questo caso, intesa solo in un senso molto riduttivo di
mantenimento di semplici formule lessicali, del tutto esteriori e,
appunto, secolarizzate, che finiscono per significare qualcosa di
profondamente diverso dal loro senso originario. Ma siamo sicuri
che le formule, una volta secolarizzate, abbiano davvero perduto
il loro antico senso originario? La fides tradotta in fiducia e l’onore inteso come solvibilità, sono davvero, nel mondo contemporaneo, parole del tutto staccate dal loro significato primigenio e
dalle formule sacrali che rappresentavano?15
La questione di un’impronta teologica che permane e residua è propria di un meccanismo di unione e, nel contempo, separazione della sovranità e del governo (simile al meccanismo
teologico trinitario dell’Uno e Trino)16, e tale separazione mantiene un’efficacia operativa proprio perché sussiste una tensione
interna ai paradigmi di teologia politica e di teologia economica.
Su ciò si veda anche Stiglitz (2001). Significative le seguenti considerazioni: «Sfortunatamente, il mito dell’economia auto-regolantesi, sia nella vecchia
foggia del laissez-faire o nelle nuove vesti del Washington consensus, non rappresenta un bilanciamento di queste libertà» (p. xvi); e ancora: «Una cosiddetta
economia di mercato auto-regolantesi evolve in un Mafia capitalism – e in un sistema politico mafioso – un fatto preoccupante che, sfortunatamente, sta diventando
una realtà troppo evidente in diverse parti del mondo» (p. xv).
15
L’origine sacrale di tali termini è sottolineata in Benveniste (1976, I, 7680 e 85-90 per fede e fedeltà; e II, 316 e 322 per l’onore).
16
Agamben sottolinea la doppia struttura della “macchina governamentale”, che si articola fra Regno e Governo e «fra oikonomia e Gloria, fra il potere come
governo e gestione efficace e il potere come regalità cerimoniale e liturgica, due
aspetti che sono rimasti curiosamente trascurati tanto dai filosofi della politica che
dai politologi» (Agamben 2007, 10).
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Tutto questo appare più chiaro se si esamina un breve scritto di
Carl Schmitt riguardante i rapporti tra Stato ed economia. In una
conferenza del 1932, Schmitt si occupò del tema e, per quanto egli
si riferisse principalmente alla crisi finale della repubblica di Weimar, inquadrò quei problemi in una prospettiva più ampia, ed è
questa che merita riconsiderare.
Schmitt condivide e commenta l’idea, emersa nella conferenza,
che «solo uno Stato forte è in grado di prendere le distanze da ciò
che non è statale»17. La proposizione non fa altro che esprimere il
compito che uno Stato ha ‒ e che deve sempre perseguire ‒ di tenersi separato dal resto della società. La sovranità dello Stato può
essere tale solo se non sottomessa alla sovranità del mercato (che,
per inciso, è cosa molto diversa dalla “sovranità del consumatore”)18. Solo uno Stato forte può realizzare tale compito mediante
quel che Schmitt intende per spoliticizzazione della società civile.
Il concetto hegeliano di società civile separata dallo Stato non è
richiamato espressamente da Schmitt in questo breve intervento,
anche se sembra faccia riferimento ad esso quando contrappone
lo Stato “totale” allo «Stato federale dei partiti». Occorre precisare
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Il testo a cui si fa riferimento è ora in italiano: Schmitt (2019, 7).
Lo Stato “debole” è, perciò, uno Stato in cui gruppi privati organizzati,
in partiti o associazioni, occupano posti chiave e svolgono funzioni come quelle di
esperti economici e finanziari (v. Schmitt 2018, 126). Nella visione di ordoliberali,
come Eucken, lo Stato “debole” è invece uno Stato economico che si è sostituito
al meccanismo della concorrenza e interviene per guidare lo sviluppo economico;
Bonefeld (2017, 45n.). Sul tema di Stato totale e Stato neutrale in Schmitt anche
Rabault (2011, 715-8). La differenza tra Schmitt e l’ordoliberalismo è radicale in
quanto per «l’ordoliberalismo […] non è assolutamente indifferente quale contenuto assuma la decisione globale politico-ordinamentale e quale procedimento
venga seguito dal sovrano, dal momento che l’unica costituzione economica della
tradizione occidentale che essi [ordoliberali] ritengono conforme ai principi dello
Stato di diritto democratico è quella dell’economia di mercato», così Miccù (1996,
261). Mesini respinge l’assimilazione di Streeck (2013) tra la soluzione autoritaria
di Schmitt e quella ordoliberale, evidenziandone, invece, le differenze proprio rispetto alla funzione che questi ultimi assegnano allo Stato come Stato economico e
«per la costituzionalizzazione del mercato e della concorrenza» (Mesini 2019, 64),
anche se Mesini non sembra cogliere il fondamento dell’implicita e sottile critica
schmittiana al paradosso implicito nel “totalitarismo” economico degli ordoliberali, la cui costituzione economica finisce per rendere lo Stato “debole”, nel senso
ben colto da Schmitt, in quanto sottomesso alla “sovranità del mercato”.
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Parte II - Moneta e debito
che lo Stato “totale” per Schmitt non è lo Stato totalitario. Schmitt,
infatti, usa il termine di “Stato totale” per indicare lo Stato del XX
secolo, democratico, interventista, che elimina «tutte le neutralizzazioni e le spoliticizzazioni tipiche del XIX secolo liberale» (Schmitt
1932, 106). In particolare, introduce alcune differenze distinte per
epoche storiche: «finché lo Stato ha il monopolio del “politico”» è
uno Stato che «si contrappone […] ai gruppi e agli affari non statali
e perciò anche “non politici”», è cioè lo Stato che «non riconosceva come controparte nessuna “società” (come nel XVIII secolo)».
Mentre lo Stato del XIX secolo si pone come separato dalla società
(Schmitt 1932, 105), nelle società democratiche del XX secolo «settori fino a quel momento “neutrali” – religione, cultura, educazione,
economia – cessano di essere “neutrali” nel senso di non-statali e
non-politici» e compare allora lo Stato totale, «identità fra Stato e
società, mai disinteressato di fronte a nessun settore della realtà e
potenzialmente comprensivo di tutti» (Schmitt 1932, 105 e v. 106-8).
Schmitt precisa tuttavia che la «teoria sistematica del liberalismo
riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello
Stato […], per ostacolare e controllare questo potere dello Stato in
difesa della libertà individuale e della proprietà privata, per ridurre
lo Stato ad un “compromesso”» (Schmitt 1932, 156). La tendenza
verso lo Stato totale è di carattere amministrativo (Id. 1958, 215).
Come preciserà anni dopo, il concetto di totalità è distinto da quello
di totalitarismo, dove, nel primo caso, il popolo si impone come
totalità (Schmitt 1969, 86-7), e aggiungerà: «La mia [dottrina della
costituzione] è un sistema della costituzione di tipo liberal-democratico ottocentesco», che, però, è differente dall’impostazione anglo-americana, come sosterrà nel 1982 rinviando a un suo saggio
del 1924 (v. l’intervista con Lanchester in Schmitt 1982, 172-3).
La definizione di «Stato totale» data da Schmitt ne Il concetto di
‘politico’, la cui prima versione risale al 1932 (pp. 105-6), precisava
che «l’equiparazione di ‘statale’ e ‘politico’ è scorretta ed erronea
nella stessa misura in cui Stato e società si compenetrano a vicenda e tutti gli affari fino allora statali diventano sociali e viceversa tutti gli affari fino allora “solo” sociali diventano statali, come
accade necessariamente in una comunità organizzata in modo
democratico. Allora tutti i settori fino a quel momento “neutrali” ‒ religione, cultura, educazione, economia ‒ cessano di essere
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“neutrali” nel senso di non-statali e non-politici. Come concetto
polemicamente contrapposto a tali neutralizzazioni e spoliticizzazioni di settori importanti della realtà, compare lo Stato totale proprio dell’identità fra Stato e società, mai disinteressato di fronte a
nessun settore della realtà e potenzialmente comprensivo di tutti.
Di conseguenza, in esso, tutto è politico, almeno virtualmente, e il
riferimento allo Stato non basta più a fondare un carattere distintivo specifico del ‘politico’». Galli (1996, 639 e 641) precisa che lo
“Stato totale” è il concetto che descrive la soluzione post liberale,
di uno Stato di pluralità di soggetti che impediscono il raggiungimento di un compromesso ed esprimono le situazioni di stallo
e di crisi nella repubblica di Weimar. Infatti, «lo “Stato totale” in
quanto Stato dei partiti, non è altro che l’incontrollato proliferare
di una politicità diffusa che non può essere più trattata attraverso
gli strumenti e le ideologie della tradizione liberale-parlamentare
e del formalismo positivistico» (Galli 1996, 644).
La nozione di Stato totale in Schmitt risulta più chiara se accostata alla definizione data da Foucault del totalitarismo come
Stato con «governamentalità di partito» (Foucault 2017b, 158)19.
Ciò porta Foucault a fare un’osservazione sulla quale, forse, si potrebbe rinvenire una certa coincidenza con Schmitt, se quest’ultimo avesse sviluppato il proprio giudizio storico in maniera conseguente per una situazione politica che, quando scriveva, era
solo imminente. Per Foucault il nazismo coincide con «il declino
dello stato», non con una crescita indefinita del suo potere, anzi
«nel nazismo lo stato risulta screditato» proprio per essere uno
Stato inglobato nella macchina di partito (Foucault 2017b, 103);
inoltre – e qui pare trasparire la stessa idea schmittiana di separazione tra la dimensione statale e quella economica – dal XIX
secolo e anche prima, l’ambito dei fenomeni sociali non economici erano definiti «in opposizione all’economia, o in ogni caso
in rapporto complementare all’economia» (Foucault 2017b, 195).
Nella conferenza di Schmitt del 1932, lo Stato in mano ai partiti
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Foucault distingue lo Stato totalitario da quello dispotico o di polizia
del XVIII secolo e lo considera come fenomeno del tutto nuovo del XX secolo.
Non sappiamo se Foucault abbia in mente l’articolo qui discusso o altri scritti di
Schmitt, ma le due definizioni ci sembrano particolarmente aderenti.
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è la degenerazione della repubblica di Weimar, occupata da una
serie di poteri che si sono costituiti in organizzazioni sociali e politiche (in sindacati e partiti) per sottrarre di fatto sovranità allo
Stato, con la conseguente commistione della sfera degli interessi
economici con quella della politica. La sfera politica sublima gli
interessi economici in una dimensione più alta, in cui il cittadino
è universale, rispetto a quella particolare e privata del borghese
o di altre figure sociali20. L’epoca dell’ancien régime, in particolare
quella dei corpi intermedi, aveva portato, secondo la concezione
schmittiana, allo svuotamento dell’autorità imperiale e, alla fine
aveva portato alla rovina la stessa capacità dello Stato nazione,
come archetipo uscito dalla pace di Vestfalia, di guidare quell’opera di centralizzazione faticosamente avviata in precedenza.
Le considerazioni di Schmitt partono dai poteri delle corporazioni feudali, per evidenziarne le differenze con i poteri dei
“corpi” moderni. In primo luogo, l’autonomia che le corporazioni cittadine godevano nei confronti dei poteri regi o signorili non
tendeva a porsi come volontà statuale unitaria. Inoltre, l’espressione degli interessi interni a ciascun corpo non avveniva secondo le forme moderne di rappresentazione della volontà popolare
e, soprattutto, senza che la volontà espressa da un singolo corpo
venisse messa in minoranza da quella degli altri corpi professionali. E, in definitiva, non sussisteva alcuna pratica simile alle «nostre concezioni aritmetiche della maggioranza del 51 per cento,
che mette l’altro 49 per cento con le spalle al muro»; un’unanimità
d’intenti era raggiunta «senza stratagemmi procedurali, in una
maniera incomprensibile per noi, gente corrotta»; così Schmitt21.
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Schmitt (2019, 9). Schmitt, in questo scritto, non pare tracci una precisa
distinzione tra la nozione di “Stato totale”, che riprende, senza citarlo, da Jünger,
e definisce in base alla qualità ed energia dell’azione, e la nozione di “Stato totalitario” fascista (v. p. 11) sulla quale aveva dedicato il saggio “Essenza e divenire
dello Stato fascista (1929)”, in Schmitt (2007, 177-86).
21
Schmitt (2019, 19). L’argomento che – secondo Schmitt – inficia il principio di elezione a maggioranza è espresso in maniera ironica e graffiante nella
frase: «Se ciascun ramo professionale ha una quota fissa e il suo peso in termini di
voti è fissato una volta per tutte, il risultato si può calcolare in anticipo; in questi
casi una decisione a maggioranza è in realtà priva di senso. Si avrebbero infatti decisioni a maggioranza in cui una coalizione di calzolai e fornai mette in minoranza
8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
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Questo E-book appartiene a roffisimone
In epoca contemporanea, ma con germi presenti fin dal XVIII secolo, lo “Stato totale” è l’espressione moderna di uno Stato nel
quale società e Stato «si compenetrano a vicenda» (Schmitt 1932,
105). Il vecchio ordine era venuto meno, non tanto per forze interne disgregatrici ma, principalmente, ad opera del liberalismo
e dell’incapacità di «distinguere amico e nemico»22. Ciò comportava anche un’idea di spoliticizzazione intesa come svuotamento
di ogni potere decisionale della sovranità politica per assegnarlo
a un’autorità “non-politica” orientata, ovviamente, ad assumere
soluzioni “tecniche”, o spacciate per tali (Schmitt 2019, 11). Lo
«Stato di totale debolezza» – altro concetto schmittiano – è uno
Stato la cui azione è stretta entro la presa a tenaglia dell’occupazione del potere da parte di partiti di massa e che è sottomesso
all’autorità della tecnica, con una confusione estrema tra la sfera
statale e la sfera dell’economia. In realtà, lo Stato liberal-democratico è considerato da Schmitt quello che, pur nella separazione
dei poteri secondo i principi di Montesquieu, non tiene affatto
separate le due sfere, ma le confonde e – come vedremo meglio in
che modo – trasferisce i propri poteri su corpi e gruppi esterni che
lo conquistano e lo aggiogano.
Schmitt non fa riferimento, nel discorso del 1932, alle istituzioni scolastiche tra i compiti dello Stato moderno. Secondo la
tradizione prussiana, egli assegna la funzione educativa ai valori guerrieri e alla leva obbligatoria per raddrizzare i legni storti delle personalità indipendenti mediante le regole ferree della
disciplina militare (Schmitt 2019, 15 e 21). Si comprende che la
sua preoccupazione di tenere distinta la sfera della sovranità dal
resto, essenzialmente dall’ambito dell’economia, ha il compito di
garantire una libertà incondizionata nelle scelte che riguardano il
soddisfacimento dei bisogni. La società in quanto tale è inglobata dentro lo “Stato totale” non per sopprimerla né per soffocarla, ma per fornire uno spazio di libertà autonomo all’economia.
Nel saggio dello stesso anno (1932), Schmitt precisa il senso della
i battellieri, o – come pure è accaduto in passato – in cui un conflitto d’interesse tra
ferro e carbone è deciso dai musicisti».
22
Ricordiamo che per Schmitt l’essenza del “politico” è proprio la distinzione “amico-nemico”.
Parte II - Moneta e debito
216
totalità statale e dello spazio economico: «è lo Stato totale, che
non conosce più nulla di assolutamente “non-politico”, che deve
allontanare le spoliticizzazioni del XIX secolo e particolarmente deve por termine all’assioma dell’economia libera dallo Stato (non politica) e dello Stato che non si occupa dell’economia»
(Schmitt 1932, 108). Per Schmitt, lo Stato interviene nell’economia
per esercitare essenzialmente le proprie prerogative in materia di
trasporti e comunicazioni. Tra la sfera statale e quella puramente
privata del «libero imprenditore individuale» Schmitt introduce,
in quella conferenza, una terza sfera, definita pubblica, ma non
statale, e destinata all’autogestione economica in forme associative: camere dell’industria e del commercio, associazioni e monopoli (Schmitt 2019, 16-7). Come afferma Carlo Galli: «lo Stato
totale non solo è “Stato dei partiti” ma è anche “Stato economico”
(Wirtschaftsstaat); al pluralismo politico si affianca e si sovrappone quello degli interessi economici» (Galli 1996, 650). Una volta
colmata la distanza tra Stato e società, anche lo spazio dell’individualismo liberale, classicamente inteso, viene meno e con esso la
pretesa che gli interessi economici possano trovare una qualche
ricomposizione attraverso la concorrenza e le forme della rappresentanza parlamentare (Galli 1996, 650). Schmitt contrappone il
liberalismo alla democrazia, specialmente nel passo seguente, nel
quale la politica liberale è vista
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come contrapposizione polemica a limitazioni della libertà individuale
da parte dello Stato, della Chiesa o di altre entità, come nel caso della
politica commerciale, della politica ecclesiastica o della scuola, della politica culturale, ma non vi è una politica liberale in sé, bensì solo sempre
una critica liberale della politica. La teoria sistematica del liberalismo riguarda quasi soltanto la lotta politica interna contro il potere dello Stato
e produce una serie di metodi per ostacolare e controllare questo potere
dello Stato in difesa della libertà individuale e della proprietà privata,
per ridurre lo Stato ad un “compromesso” e le istituzioni statali ad una
“valvola di sicurezza” e inoltre per “bilanciare” la monarchia con la democrazia e quest’ultima con la monarchia (Schmitt 1932, 156).
La proprietà privata nella concezione liberale sta collocata
al centro tra le sfere dell’etica e dell’economia; il liberalismo la
concepisce come autonoma dalla politica, percepita, anzi, come
«violenza conquistatrice», e considera proprio uno Stato liberale
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8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
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come estintore di quella violenza. Per la difesa della proprietà privata dalla politica e dallo Stato illiberale, secondo il liberalismo,
occorreva affermare una piena autonomia dell’economia, che necessariamente seguiva proprie leggi del tutto indipendenti dall’etica, dalla religione e, appunto, dalla politica. Tutto ciò era, come
osserva Schmitt, «uno dei pochi dogmi realmente indiscutibili e
indubitabili dell’epoca liberale» (Schmitt 1932, 159). Per questo, la
politica e l’ideologia liberale rappresentano essenzialmente una
lotta contro la “violenza” dello Stato, la violenza della politica
che interferisce nella sfera e nelle leggi dell’economia. Schmitt
negli anni ’20 aveva espresso lodi verso la Russia sovietica e il
fascismo italiano per la loro capacità di superare lo Stato liberale
classico, anche se quei cambiamenti erano avvenuti per mezzo di
un governo dell’economia verso il quale non mancava, invece, di
avanzare riserve. Il corporativismo, o il collettivismo, erano perciò soluzioni della crisi dello Stato liberale realizzate con forme di
intervento nell’economia: «il fascismo – conclude Carlo Galli – è
“Stato totale”, nel senso di Schmitt, solo se e in quanto non ingloba tutto il sociale, ma lo spoliticizza e lo governa politicamente, senza essere passivamente attraversato da partiti e interessi»
(Galli 1996, 680).
Ora, a ben guardare, a parte il tentativo di definire quali siano i componenti appartenenti alla sfera intermedia dell’economia
pubblica e quali siano le forme di governance che consentirebbero
ad essa di essere espressione autonoma di interessi senza interferire sui “beni pubblici”23, Schmitt, sempre nel breve intervento
del 1932, si riferisce a un’idea di economia nazionale (sebbene il
termine non compaia) distinta dal concetto che hanno pensatori
nazionalisti di quel periodo. Questi ultimi esaltano, generalmente, l’importanza della tecnica e dell’efficienza produttiva (Conti 2019); Schmitt pare invece del tutto in linea con il paradigma
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Schmitt, quando parla della sfera “pubblica”, non entra nel merito con
un’analisi più dettagliata, ma si limita a fornire alcune indicazioni di massima
quali la sottolineatura della capacità del popolo tedesco di auto-organizzarsi
come era successo durante la prima guerra mondiale con la mobilitazione o nelle
condizioni economiche e sociali post-belliche. In termini economici si potrebbe
dire che sta parlando appunto di “beni pubblici” o di beni collettivi.
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classico di oikonomia. In particolare, egli si differenzia anche in
maniera significativa dall’ordoliberalismo della coeva scuola di
Friburgo; essa rappresenta una versione teutonica di neoliberalismo, i cui esponenti prendono, almeno in alcuni casi, le distanze
dal regime nazista, ma solo per concepire e fornire strumenti di
coercizione e di disciplinamento dei comportamenti economici
individuali in ogni sfera della vita privata e pubblica e per conseguire un’efficiente organizzazione imprenditoriale modellata su
quella di una moderna macchina da guerra tecnologica e industriale. Secondo tale scuola, gli individui, solo se messi continuamente in una condizione di precarietà esistenziale, tirano fuori i
propri talenti imprenditoriali. La palestra della concorrenza è essenziale per allevare imprenditori di razza e selezionare i migliori
e per scartare la massa di tutti gli altri, da destinare ai lavori più
umili e subordinati.
Su neo e ordoliberalismo ritorneremo più avanti (III parte),
quel che qui interessa sottolineare è la divaricazione tra le posizioni di Schmitt e quelle degli ordoliberali. Ciò è chiaro se si mette
a confronto il testo di Schmitt con uno scritto, sempre del 1932,
di Walter Eucken, intitolato Trasformazioni strutturali dello Stato e
crisi del capitalismo24. Eucken, già all’epoca uno dei maggiori esponenti e teorici dell’ordoliberalismo, si preoccupa delle debolezze
dell’economia capitalistica e di come superarle. Innanzitutto, le
individua nella mancanza di vigore e di iniziativa imprenditoriale. Si domanda «se oggi esistano ancora, come un tempo, degli
imprenditori che possiedono la volontà e le capacità di fungere
da guide dello sviluppo» (Eucken 2019, 23). L’intento è retorico,
ma gli serve per introdurre la risposta che consisterebbe nel far
uso della “frusta della concorrenza” per smuovere gli spiriti animali addormentati e impigriti: «Qui, dove manca la frusta della
concorrenza, si provoca effettivamente l’irrigidimento o la feudalizzazione dell’imprenditore» (Eucken 2019, 24). Non ci può essere imprenditore senza concorrenza, anche solo potenziale. Senza
concorrenza si ricade in una società di corporazioni, che si ac-
Entrambi sono presenti in traduzione italiana nello stesso numero della
rivista Filosofia politica dell’aprile 2019.
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8 - Stato e mercato: una grande dicotomia moderna
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cordano su produzioni e prezzi, oppure in presenza di uno Stato
che soffoca la proprietà. Compito delle autorità pubbliche è perciò quello di creare un ambiente concorrenziale, che lo sviluppo
del capitalismo moderno ha castigato e penalizzato, specialmente
dopo la prima guerra mondiale, con l’espansione delle dimensioni della sfera pubblica, delle spese statali, della tassazione e del
debito, che hanno contribuito a opprimere la libera impresa e lo
spirito d’iniziativa. Lo Stato doveva così essere “leggero” per essere efficiente ed impugnare con decisione la frusta della concorrenza, ossia assegnare premi e incentivi, a basso regime di spesa,
per disciplinare e dirigere l’economia verso lo sviluppo nazionale25. La frusta più efficace – come vedremo nella Parte III – è tirare
la cinghia del risparmio, tenendo il lavoro “flessibile”, precario,
incerto.
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Si veda l’importante ricostruzione delle radici e dei principi dell’ordoliberalismo in Tribe (1995).
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Capitolo 9
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CREDITO, PEGNO E MONETA
(PEGNO ARCAICO DI FIDUCIA)
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9.1. Due paradigmi conservatori, non liberali
Non ci si copre con un velo quando non ci si vergogna
della propria nudità: perché a quei tempi [nella Bibbia] si
sarebbe dovuto arrossire nel nominare i genitali, se quando
qualcuno faceva una promessa a qualcun’altro gli toccava,
appunto, i genitali? (Voltaire 1981, 163)
La differenza di approccio che emerge tra due conservatori, cioè
tra il fondatore dell’ordoliberalismo, Eucken, e un giurista-filosofo, Schmitt, non sta solo nelle diverse sensibilità culturali. Si tratta
di due modi diametralmente opposti di concepire l’ordine. A separarli è fondamentalmente la differenza fra il paradigma moderno
dell’economia e quello classico di oikonomia, o in altri termini una
visione produttivistica della società versus quella che concepisce la
società nella quale siano almeno tutelati ambiti di “vita beata”. La
preoccupazione principale di Eucken è che il vecchio liberalismo
abbia perso mordente, l’economia di mercato di laissez faire ottocentesco sia fallita nella sua missione di armonizzare la società, e
che, per ricreare ordine, occorra recuperare quella responsabilità
di comportamenti che solo la proprietà privata infonde, poiché
spinge chi la possiede a trarne vantaggi e a preservarla; perciò lo
sprone della concorrenza tra imprenditori, e tra quelli che devono
agire come se lo fossero (cioè lavoratori, consumatori e risparmiatori), è la sola forza che può trascinare tutti i componenti di una
società a gravitare verso obiettivi comuni di produttività. La società moderna si identifica con un’economia industriale a elevato
contenuto tecnologico. Essa impone un’integrazione dentro una
a
Esiste il liberale come esiste il collerico. È insomma una
dualità del carattere, una forma antropologica. Io sono un
uomo liberale; non ne conosco uno migliore anche nella
mia tolleranza, è così … (Schmitt 1982, 172)
Parte II - Moneta e debito
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concezione di sistema, almeno nazionale. L’Ordnung è il termine
tedesco per designare un ordine creato attraverso la disciplina,
una disciplina amministrativa e militare, che ha le sue regole e
le segue per disporre e organizzare la vita sociale in funzione del
sistema economico e produttivo. Nell’ordoliberalismo, la disciplina militare e della fabbrica integrata moderna creano l’olismo
organizzato per incanalare le scelte individuali in una strategia
unitaria, che lascia liberi, ma solo formalmente, i singoli, i quali,
di fatto, sono resi responsabilmente ubbidienti dagli stimoli interni che la disciplina di proprietà-responsabilità loro impone o
da quelli esterni surrogati dallo Stato. In particolare, è la crisi dello spirito imprenditoriale – spirito che, invece, dovrebbe essere
sempre presente in ognuno – a far correre il rischio di una eclissi
dell’economia di mercato, e a far approdare il sistema economico
verso un’economia mista di corporativismo o di collettivizzazione1. Un liberalismo completamente nuovo deve evitare il disastro
del gigantismo statale e far perno sull’organizzazione della tecnica e della produzione industriale da parte di imprese private, le
sole legittimate e in grado di pianificare il complesso dell’economia nazionale con le loro scelte d’investimento2. A cittadini resi
tutti imprenditori, o almeno imprenditori di se stessi, nel senso di
responsabilizzati per le proprie azioni, spetta di agire economicamente, sotto l’indirizzo strategico e la sorveglianza dello Stato,
nell’intento di scongiurare il conflitto sociale.
Invece, la preoccupazione del conservatorismo radicale di
Schmitt non è affatto la produzione, né l’economia nazionale;
il suo conservatorismo è anti-neoliberale e anti-ordoliberale, e i
suoi timori non riguardano certo la possibilità di una perdita di
efficienza e di produttività, né la possibilità che non si realizzi
un’organizzazione della società secondo principi dell’economia
moderna. La sua idea di Stato totale e forte è quella mandata in
rovina dal liberalismo moderno, quello della tecnica, che ha portato alla pericolosa commistione tra spazio pubblico e privato.
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Sulla “rovina” storica dell’ordine liberale e capitalistico è importante anche il pensiero di un altro ordoliberale come Wilhelm Röpke; cfr. Fèvre (2015, 153-4).
2
Laval parla, a questo proposito, del liberalismo di Eucken come un «liberalismo organizzatore», contrario al liberalismo «manchesteriano» (Laval 2007, 403-5).
1
9 - Credito, pegno e moneta
223
Dunque non si tratta tanto di rimettere in piedi uno Stato servitore dell’economia, bensì di riaffermare il primato della politica.
Il concetto di Stato è quel che separa Eucken da Schmitt. Qui, Carl
Schmitt eredita da Hobbes il pessimismo antropologico, ma con
una differenza. In Hobbes lo Stato pone fine alla guerra di tutti
contro tutti, consentendo così di uscire dallo stato di natura; in
Schmitt la neutralizzazione della politica per mezzo della tecnica ha compromesso i fondamenti del mondo occidentale e messo
fuori gioco il ruolo dello Stato. Come sottolinea Cristina Micieli,
«[i]l sogno utopico del liberalismo è di trasformare i conflitti politici in controversie morali o in concorrenza economica», ma, per
Schmitt, un mondo del genere sarebbe completamente inumano e
sarebbe un mondo di «macchine senza emozioni»3. Anche Eucken
e gli ordoliberali concepiscono il primato della politica, ma solo in
funzione di ricostituire, attraverso il potere dello Stato, un ordine
economico e industriale; l’Ordnung pensato dagli ordoliberali è un
ordine comandato dal mercato che viene posto a base dello Stato
medesimo, per rendere gli individui completamente soggetti alle
esigenze e al comando delle macchine, delle ragioni e delle regole
dell’economia modernamente intesa4. Le due visioni sono perciò
del tutto antitetiche. L’economia in Schmitt non è il fine della politica, ma è, piuttosto, uno strumento come lo era per gli antichi.
Questo E
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9.2. Le ambigue affinità del dono e dello scambio
Per un animo nobile | i doni più ricchi perdono tutto il loro
valore |se i donatori |non gli sono più amici (Shakespeare,
Amleto, III, i, 100)
Perciò rifornisci la borsa. Se proprio vuoi dannarti fallo in
modo più delicato che annegandoti. Raccatta tutto il denaro che puoi. (Shakespeare, Otello, I, iii, 353)
I passi sono una traduzione dal saggio di Micieli (2002, 117-8).
Sulla questione e sugli sviluppi tecnologici più recenti si rinvia a Demichelis (2015) e alla Postfazione di Bazzicalupo alla stessa opera. Demichelis parla
della globalizzazione neoliberale come processo di «totalizzazione mediante organizzazione» (p. 203) che rende gli individui appendici e ingranaggi di un sistema produttivo integrato su larga scala.
3
4
224
Parte II - Moneta e debito
concedete che non sia mai così cretino, | da fidarmi
dell’uomo e delle sue promesse (Shakespeare, Timone
d’Atene, I, ii, 64)
Benveniste, nella sua genealogia lessicale dello scambio e del
dono, mostra le continue intersezioni tra i due termini e fornisce
indicazioni sul concetto di compravendita, com’è intesa in epoca
moderna e per come si precisa nel corso dei secoli quale trasformazione di uno scambio che era «un circuito di doni piuttosto
che un’operazione commerciale» (Benveniste 1976, 47; ed. orig.:
1969, 66). La costante e comune radice linguistica, nell’insieme
delle lingue di matrice indoeuropea, conferma le tesi di Mauss
della dominanza del dono nelle economie precapitalistiche, quale
forma primordiale di scambi prevalentemente non utilitaristici,
senza precise equivalenze di valore né riferimenti a principi di
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equità. Perciò i beni erano trasferiti senza misura -dibvalore
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uestoche giustificasseQsegnali
espressione di un prezzo, ossia senza
ro la convenienza delle scelte pregresse e prefigurassero quelle
da fare. La dominanza del dono, e delle relazioni fondate su di
esso, riguarda economie arcaiche (ma in parte anche classiche5 e
moderne6), per poi perdere d’importanza e di regolarità con l’affermarsi e l’estendersi dell’economia di mercato, con l’avvento
del capitalismo moderno, che aggiunge, ai mercati dei prodotti,
i mercati per la terra, per il capitale e per il lavoro. Gli scambi di
mercato, da angusti e limitati, diventano progressivamente pervasivi nell’intera società, con tutto quello che ciò comporta, compresa l’affermazione di una visione molto diversa della vita e del
mondo e dei comportamenti da tenere nei rapporti intersoggettivi, anche fuori dalla stessa sfera economica.
5
Osserva Veyne (1976, 16): nell’antichità greco-romana il «dono aveva
un’importanza quantitativa considerevole: non si riduceva a un piccolo regalo o
a un’elemosina, a una medicazione simbolica o a un gesto morale. Edifici caratteristici del genio dei Romani come gli anfiteatri sono ancora, ai giorni nostri, la
traccia materiale dell’importanza del dono».
6
Godbout (1992) analizza le continuità tra il dono nelle società arcaiche e in
quelle contemporanee per mostrare il radicamento anche in queste ultime di scambi
di doni. Amartya Sen (1979) sostiene che la razionalità strumentale e utilitaristica
riguarda solo una parte dei comportamenti umani e non tiene conto del fatto che si
allacciano rapporti anche per simpatia e altruismo. Cfr. anche Godbout (2000).
9 - Credito, pegno e moneta
225
Qu
Quel che ci interessa non è tanto esaminare tesi molto discusse in un’ampia letteratura antropologica e storica, quanto
piuttosto sciogliere alcuni nodi del rapporto tra dono e debito –
suggeriti in vari studi, ma non sufficientemente sottolineati nelle
loro implicazioni logico-storiche – per favorire la comprensione
di quel passaggio verso la modernità che ha comportato l’abbandono dell’etica della vita “beata”, buona e bella, per un’etica degli affari totalizzante, che non lascia altri spazi di vita. Vedremo
meglio in cosa si contrappongono i due stili di vita e come uno
di essi sia stato soffocato dall’altro con l’avanzare di quella che è
definita modernità. Per ora basti intendere per “bella vita” quel
far «fluire il tempo senza pensieri come nell’età dell’oro» («fleet
the time carelessly as they did in the golden world»), come la qualifica
Shakespeare, in Come vi piace (I, i, 110-1). Si tratta dunque di esaminare la questione da un altro punto di osservazione rispetto a
quello considerato da Max Weber e da altri.
Weber accosta il lusso all’ozio nel commento al noto detto di
Benjamin Franklin «il tempo è denaro», il cui evidente significato
è che ogni ora persa è perciò sottratta al lavoro e anche al servizio
della gloria di Dio. Il passo evangelico a cui allude Franklin è il
seguente: «Dobbiamo operare le opere di Colui che mi ha mandato finché è giorno. Viene la notte, quando nessuno può più operare» (Gv 9, 4) (Weber 1904-05, 217). I puritani ammettevano un certo godimento estetico o agonistico purché senza costo, tutto era
perciò rivolto a ridurre i consumi di lusso, e comunque i consumi in generale. «Il pensiero – osserva ancora Weber – dell’obbligo
dell’uomo nei confronti della proprietà affidatagli, a cui subordinarsi alla stregua di un servizievole amministratore o addirittura
di una “macchina per guadagnare”, pone sulla vita il suo gelido
peso» (Weber 1904-05, 229).
Il tema del lusso fu oggetto di un vasto dibattito nel corso del
XVII e XVIII secolo. Le vivaci polemiche sollevate su tale tema possono però essere viste da due angolature diverse. Da una parte,
rientrano nella polemica contro un uso irrazionale della proprietà,
che viene spogliata e avariata dagli sprechi e dal lusso, violando
così l’obbligo religioso di amministrare giudiziosamente e far fruttare la proprietà, con lo scopo di affermare in tal modo uno stile
di vita sobrio, non fastoso, sebbene confortevole. Dall’altra parte,
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226
Parte II - Moneta e debito
Questo E-
però la tematizzazione del lusso si può considerare come l’ultimo
strappo nell’etica tradizionale, che porta a rovesciare completamente l’atteggiamento etico nei confronti della cupidigia e dell’ostentazione di ricchezza, che, da vizio e inclinazione morbosa quali
erano considerate, iniziano a essere tollerate e accettate. Ciascuno
è perciò legittimato a compiere responsabilmente scelte seguendo
soltanto il proprio sistema di preferenze, di per sé non più censurabile e, dunque, ogni desiderio espresso secondo tale sistema è da
accogliere alla stregua di un qualunque altro bisogno da soddisfare.
Il bisogno non è più qualcosa di definibile in un modo valido per
tutti, ma dipende dalle legittime inclinazioni di ciascuno. L’individualismo, come esaltazione delle autonomie di scelta del singolo,
rende relativa la scala degli interessi e persino quella dei valori. I
bisogni non riguardano più quei beni necessari alla sopravvivenza, o a una vita semplice, povera ma decorosa. Ognuno è libero di
scegliere lo stile di vita che preferisce per soddisfare i propri “bisogni”, potenzialmente inappagabili, come lo sono gli eccessi del lusso e i piaceri, frenati solo dal vincolo delle personali disponibilità di
spesa. L’assennatezza richiesta è quella di saper valutare il bilancio
personale delle entrate e delle uscite. La virtù del borghese è la prudenza, intesa come equilibrio contabile e parsimonia, che previene
i rovesci della vita. Il borghese sta agli antipodi di Sileno, vecchio
dio rustico, vinificatore e amante del vino, dotato di saggezza straordinaria e di arti divinatorie, amico di re Mida, che da lui era stato
iniziato ai riti orgiastici (Ovidio, Metamorfosi, XI, 89-99), così ricorda
anche Nietzsche, con osservazioni che val la pena di riprendere. In
La nascita della tragedia (1872, par. 3) Nietzsche fa appunto riferimento al mito di re Mida che insegue nella foresta Sileno. Una volta
che Sileno è stato raggiunto, Mida gli domanda «quale fosse la cosa
migliore e più desiderabile per l’uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in
queste parole: “Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della
pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo
non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non
essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo
migliore per te è – morire presto”» (Nietzsche 1872, 31-2). Contro
la risposta nichilista di Sileno, il borghese erge ripari individuali
effimeri ma basati sull’accumulazione di ricchezze e denaro.
9 - Credito, pegno e moneta
227
Con l’affermazione del paradigma dell’individualismo, il
modello di consumo è svincolato da (pre)giudizi morali sul tipo
di scelte e sul tipo di stile di vita. Non ci sono più ragioni per
censurare chicchessia, avaro o prodigo. L’affermazione dell’autonomia individuale e della responsabilità di scelta comporta anche
la sospensione del soccorso e la revisione della virtù della carità e
dei principi delle opere di carità. L’indifferenza verso l’indigente
si giustifica, prima di tutto, perché ognuno è responsabile delle
proprie azioni e, dunque, nessuno può sentirsi in colpa o coinvolto emotivamente se un’altra persona si trova in tale condizione,
dipendendo tutto ciò da comportamenti soggettivi insindacabili;
inoltre, c’è l’ulteriore motivazione che cercare di alleviare le pene
indurrebbe il beneficiato alla pigrizia, rendendolo ancor più infingardo e incapace a darsi una spinta per risollevarsi. Non resta
perciò altro da fare; meglio è lasciare che ciascuno si lecchi le proprie piaghe che, quasi certamente, si è procurato da solo a causa
della propria incoscienza. Lo scarso impegno e l’irresponsabilità
sul lavoro condannano l’incapace o lo sciagurato alle pene che
merita. Se però quelle pene coinvolgono un certo numero di persone e diventano, quindi, una questione sociale, allora si giustificano interventi per evitarne le deplorevoli conseguenze, con forme di punizione nei casi estremi e di educazione negli altri casi.
Pene e rieducazione hanno lo scopo di inculcare comportamenti
assennati di previdenza e di assicurazione dai rischi economici
dipendenti da perdita di reddito, malattia e vecchiaia (vedremo
ancora la questione sotto altri profili nella III parte). Gli interventi di questo tipo – che siano per infliggere una pena oppure per
redimere ‒ sono entrambi costosi, ma socialmente giustificabili
come forme collettive di assicurazione contro i rischi esterni provocati da soggetti devianti.
L’organizzazione di forme di repressione o, anche, di formazione e rieducazione si intensificarono soprattutto dalla fine
del XVIII secolo. Nel secondo caso, per esempio, in materia di
comportamenti economici basilari, si agisce con l’educazione al
risparmio attraverso istituti di credito per moralizzare il povero.
Le saving banks furono le prime istituzioni del genere e, quasi un
secolo dopo, gli interventi sociali si estesero con l’introduzione,
prima nella Germania guglielmina poi altrove, delle prime forme
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228
Parte II - Moneta e debito
di sicurezza sociale. L’individualismo utilitarista sembrava, quindi, accogliere forme di assistenza verso poveri e bisognosi, ma,
più ancora, tale accoglienza corrispondeva al tornaconto borghese di estirpare i semi di rivolta e il pericolo di rivoluzione sociale.
9.3. Alle origini dello scambio: il dono, il contratto e la moneta in mezzo
Inveisce proprio dove più si radunano i mercanti, contro di
me, i miei affari, il mio ben meritato profitto, che lui chiama
interesse. (Shakespeare, Il mercante di Venezia, I, iii, 45)
le sue cambiali sono scadute e la fiducia che ho avuto nelle
sue promesse non mantenute ha danneggiato il mio credito. (Shakespeare, Timone d’Atene, II, ii, 20)
Oro? Giallo, splendente, prezioso oro? […] Questo giallo
verme | unirà e sfalderà religioni, benedirà | i maledetti,
farà adorare la lebbra | canuta, premierà i ladri con titoli,
[…] Vieni, pezzo di terra | dannata, tu puttana dell’umanità | che getti discordia tra la feccia delle nazioni. (Shakespeare, Timone d’Atene, IV, iii)
Altro importante dispositivo di pace sociale e di coesione interna
a una comunità, e ai rapporti di questa con stranieri e popoli vicini, è rappresentata dal dono. Nel Saggio sul dono (1923-24) Mauss
analizza l’anatomia socio-antropologica del groviglio di relazioni che si annodano negli scambi di doni. Essi costituiscono uno
dei principali fondamenti della vita nelle società tribali, alcune
delle quali sopravvissute nel corso dei millenni, testimonianze
residue di un mondo ancestrale, del quale si potevano osservare
in maniera sistematica, ancora nella seconda metà del XIX secolo, i comportamenti sociali senza doverli dedurre attraverso resti
archeologici. Attraverso un metodo storico e comparato, Mauss
delinea come, per innesti successivi, risalenti ai primi passi del
diritto romano e di quello germanico, si sprigioni il contratto inteso in senso moderno, finalmente sfrondato delle antiche forme
rituali e magiche che originariamente caratterizzavano gli scambi
(Platon 1902, 18-23; e Kano 2018, 51-68).
A differenza degli economisti precedenti a Mauss e di quelli
che, a partire da Carl Menger in poi, hanno stilizzato la storia
monetaria come sequenza evolutiva degli scambi, dal baratto alla
9 - Credito, pegno e moneta
229
moneta e infine al credito, in altri termini un’evoluzione da economie primitive senza moneta a economie monetarie sempre più
raffinate e complesse, per Mauss il baratto non è affatto la condizione originaria semplice e “naturale”, ma, sulla base di molti
studi di etnologi e antropologi, egli può stabilire che si tratta solo
di un termine comodo e riduttivo di definire transazioni “teoricamente” non monetarie.
Dai primi anni ’60 del secolo scorso, gli studi di Robert
Clower hanno dimostrato, anche sul piano strettamente logico,
l’impossibilità del baratto “puro” e ridotto lo scambio di beni di
valore equivalente (dunque espresso in un numerario monetario
convenzionale)
di fatto molto raro in società priQauun
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mitive e, invece, frequente
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finanziariamente molto
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vati sono regolate non in moneta, se non perrtsomme
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ma, in gran parte ricorrendo a cessioni di attività finanziarie
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7
beni capitali . In un saggio del 1964, Clower aveva posto in esergo
.
la seguente frase di Knut Wicksell: «Noi economisti siamo essenzialmente solo dei dilettanti nel campo della ricerca storica, con
tutti i difetti tipici del dilettantismo: conclusioni troppo avventate, insufficiente critica delle fonti, addobbo tendenzioso dei fatti,
e anche, all’occasione, fabbricazione istintiva dei medesimi»8. Prima che Carl Menger scrivesse il suo influente saggio sulle origini
della moneta9, riferimento imprescindibile per larghissima parte
7
Si vedano i saggi in Clower (1969) e in Id. (1984). In traduzione italiana
la raccolta di saggi in Clower (1972).
8
La frase è tratta dal saggio Ends and Means in Economics, tradotto nel
1958 dall’articolo pubblicato nel 1904, e comparso nella raccolta a cura di Erik
Lindahl in Wicksell (1904). Il saggio di Clower (1964) è una lunga recensione alla
storia monetaria di Milton Friedman e Anna J. Schwartz del 1963.
9
Il riferimento è a Menger (1892), dove, peraltro, nella rivista il nome è
erroneamente riportato con Karl, figlio di Carl (non ancora nato e che divenne
un celebre matematico). La traduzione italiana più recente è in Menger (2013).
Nel saggio introduttivo di Aguirre e Infantino (pp. 5-54) si avvalora la tesi mengeriana delle origini e della teoria quantitativa della moneta. Come molti filosofi, e sociologi, essi continuano a distinguere tra “denaro” e “moneta” per designare, con il primo termine, il concetto economico e, in senso stretto, la moneta
convertibile o l’oro e, con il secondo, il mezzo di pagamento specifico e generico
(moneta metallica, cartacea ecc.). In altri casi la distinzione terminologica è tra
Parte II - Moneta e debito
iene a
Questo E-book appart
230
degli economisti e soprattutto base quasi esclusiva per introdurre comodamente le funzioni della moneta nei principali manuali
di economia e di economia monetaria, Jevons aveva già dimostrato la quasi impossibilità del baratto per “doppia coincidenza
dei bisogni” (Jevons 1972, 23-6). Infatti, numerosi sono gli ostacoli logici e pratici: i) per concludere uno scambio sotto forma di
baratto occorre raccogliere informazioni (le inserzioni su giornali
specializzati o in rubriche apposite si erano diffuse nel XIX secolo
anche per offrire possibilità di baratto di oggetti usati, ma più
spesso gli scambi erano da regolare con pagamenti in contanti);
ii) il raffronto di equivalenza è estremamente laborioso, allunga
le trattative, impone calcoli che senza numerario restano indeterminati; iii) un listino completo dei prezzi sarebbe eccessivamente
lungo (su appena 100 articoli i rapporti di cambio sono non meno
di 4950, ossia [n×(n-1)]/2); iv) infine, l’ulteriore ostacolo sta nella
limitata divisibilità dei beni: i buoi di Omero non erano una moneta “comoda” in molte transazioni (De Bonis e Vangelisti 2019).
L’“invenzione della moneta” quale “tecnologia di pagamento” è
una sorta di mitologia economica moderna, utile e sbrigativa per
afferrare immediatamente le funzioni della moneta, ma comple-
un astratto e un concreto, ma su questo si rinvia al recente volume di Condello,
Ferraris e Searle (2019; versione aggiornata di Searle e Ferraris 2018). Searle non
entra nelle distinzioni terminologiche che ancora appassionano i filosofi italiani
e “continentali” tra “moneta” e “denaro”, ormai abbandonate nel mondo anglosassone, dove denarius si riferisce solo all’antica moneta romana in argento
(da cui deriva il corrispondente francese argent). In inglese vige solo il termine
“money” (v. anche il titolo del saggio di Searle [2017] di cui [Searle 2018] è una
versione accresciuta, con “denaro” nel titolo). Sulle ambiguità linguistiche richiama l’attenzione anche Menger (2013, 171-2 e 208-9). La duplicità terminologica in molta parte della letteratura economica fino a oltre la seconda metà del
XIX secolo, e nelle altre scienze sociali anche dopo, può essere fatta risalire al
fatto che la moneta fa sempre riferimento a un supporto (metallico o scritturale)
mentre il denaro fa diretto riferimento all’istituzione sociale, politica, morale del
supporto; su questo de Blic e Lazarus (2007, 5). Per Benveniste (1976, I, 146-7)
il “denaro” (argent) indica «probabilmente la materia e non la moneta», la denominazione è fatta risalire molto indietro a termini che significano “bianco” e
“brillante”. Non c’è, forse, cosa con più nomi con i quali si distingue più chi ne
parla che non l’oggetto: i “soldi” designano il lessico corrente, popolare, gli economisti studiano la teoria monetaria e gli altri, chi la filosofia, chi la sociologia,
del denaro (talora, anche “moneta”).
9 - Credito, pegno e moneta
231
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Que
tamente distorta per quanto riguarda le origini e la natura della
moneta medesima10. Clower fa l’ipotesi di un arcipelago abitato
da Robinsoniani, ognuno dei quali risiede in un’isola e si specializza nella produzione di un bene, ma è costretto a sacrificare
tempo di lavoro contro tempo di ricerca dell’occasione di scambio
a lui favorevole. Il baratto è perciò teoricamente possibile come
ipotesi, ma non risulta mai efficiente (Clower 1972, 12). Il baratto
immaginato nella forma “pura” è un baratto isolato, e il baratto
su basi comunitarie è, in realtà, d’impedimento alle transazioni
che non possono svilupparsi finché non interviene la moneta, anche nella sola funzione di unità di misura. Contrariamente alla
tesi di Menger, per Clower le caratteristiche merceologiche dei
beni scelti come moneta hanno un’importanza economica minima per risolvere gli inconvenienti teorici del baratto. Da «un punto di vista logico, infatti, le caratteristiche fisiche dei beni-moneta
non sono più rilevanti per l’istituzione della moneta, di quanto le
diverse forme di corteggiamento siano rilevanti per l’istituzione
del matrimonio» (Clower 1972, 13). Per Clower sono le istituzioni
sociali a permettere agli individui di organizzare gli scambi attraverso regole condivise o imposte perché: «la moneta acquista i
beni, i beni acquistano la moneta; ma i beni non acquistano beni»
(Money buys goods, and goods buy money; but goods do not buy goods;
Clower 1967, 183). Clower porta così a compimento la demolizione della tesi di un baratto originario nell’evoluzione storica verso
un’economia monetaria.
L’influenza di Menger anche presso gli storici era stata nel
frattempo accreditata da un altro austriaco, il medievista Alfons
Dopsch, con un’opera sul passaggio dall’economia “naturale” a
quella monetaria (Dopsch 1949). Ma sul fronte degli economisti è
la lezione di John Hicks a indebolire l’influenza di Menger con i
suoi Critical Essays in Monetary Theory del 1967 (Hicks 1971), in cui
fornisce, forse, uno dei contributi più significativi non solo per
la teoria della moneta, ma anche per aver mostrato l’importanza
della storia monetaria per ogni avanzamento teorico-economico.
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Una discussione di questi temi in Giannini (2004).
one.
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10
Parte II - Moneta e debito
232
Una delle cose principali che la teoria monetaria dovrebbe spiegare è
l’evoluzione della moneta. Se riusciremo a ridurre le linee essenziali di
quella evoluzione ad un modello logico, non solo avremo chiarito la storia, ma avremo anche approfondito la nostra comprensione della moneta
stessa, anche della moneta in epoca moderna (Hicks 1971, 8).
Quest
o E-bo
E in un altro passo ribadisce ulteriormente il concetto:
Il cambiamento nello strumento moneta da moneta “sonante” a banconote ed assegni, non è che una parte di un più ampio sviluppo, lo sviluppo di un sistema finanziario. Ciò ha preso l’aspetto dello sviluppo degli
istituti finanziari e non solo delle banche ma anche di “intermediari finanziari”: tutto ciò ha portato con sé un cambiamento fondamentale nelle attività finanziarie dei governi. Con l’evolversi di questi mutamenti, si
è verificato un cambiamento nell’intero carattere del sistema monetario:
in un mondo di banche e di compagnie assicurative, di mercati valutari e di scambi di merci, la moneta è diventata una cosa completamente
diversa da quella che era prima che tutti questi istituti cominciassero ad
esistere (Hicks 1967a, 128).
Il cambiamento fondamentale per Hicks è dunque l’avvento
della banca moderna; è quello
il momento in cui i depositi presso le banche, depositi suscettibili di essere ritirati, diventano trasferibili: o mediante chèque, che è un ordine
alla banca di effettuare il trasferimento di un deposito in essere, o con un
biglietto, che in effetti è uno chèque pagabile al portatore, che è assistito
dalla garanzia della banca, senza riferimento al depositante a fronte del
deposito del quale esso fu originariamente emesso. Questo è essenziale;
poiché è a questo punto che la banca diviene in grado di creare ciò che è
in effetti moneta. Quando essa effettua un prestito, non è tenuta a consegnare la vecchia moneta “piena”; tutto quello che essa fa è di scambiare
diritti di esigere. A fronte dell’obbligo del mutuatario, di rimborsare a
una determinata scadenza, essa fornisce un proprio obbligo, che è trasferibile a domanda, e per questa ragione ha la qualità di moneta. La
moneta che la banca presta è moneta che essa stessa crea (Hicks 1969,
95-6; e nella trad. it. a p. 110).
Si deve osservare che Hicks compie un doppio superamento delle visioni tradizionali. Da un lato, sposta la propria argomentazione dal solco segnato dal contributo di Menger e dei
suoi epigoni, nel senso che la moneta bancaria è posta fuori dal
sentiero evolutivo dell’economia monetaria. Non è più nella pro-
ok
9 - Credito, pegno e moneta
233
spettiva evoluzionistica mengeriana che può essere compreso il
complesso percorso della storia monetaria11. Dall’altro, inquadra
quest’ultima dentro un alveo completamente diverso che è quello
del credito: la banca è in grado di creare moneta quando eroga un
prestito, e non si mette più in condizione di rimborsare la “vecchia moneta” a pieno titolo metallico, ma si impegna a scambiare
un’obbligazione con un’altra obbligazione («di scambiare diritti
di esigere»)12.
Quel che un banchiere compie con il credito – osserva anche
Schumpeter – è dovuto al fatto che «non esiste alcun altro caso in
cui il titolo che dà diritto a una cosa può, entro certi limiti, servire
come la cosa stessa: non si può cavalcare il titolo che dà diritto
a un cavallo, ma si può pagare con il titolo che dà diritto a una
somma di denaro»13. La moneta è dunque un titolo che dà diritto,
in ultima istanza, a liquidare una qualunque obbligazione. Hicks,
tiene forse conto dell’osservazione di Schumpeter, ma compie un
passo ulteriore sulla scia anche del Rapporto Radcliffe pubblicato
nel 195914.
Anche Clower (1977, 206) riconosce il merito dei contributi fondamentali di Hicks in materia di teoria monetaria.
12
In questo stesso senso si può leggere la frase lapidaria di Samuelson
(1972, 299) sulle conclusioni del Rapporto Radcliffe: «la moneta, come tale, non ha
importanza».
13
La versione originale è la seguente: «there is no other case in which a claim
to a thing can, within limits to be sure, serve the same purpose as the thing itself: you
cannot ride on a claim to a horse, but you can pay with a claim to money» (Schumpeter
1954, 305; per la trad. it.: 1990, 392 [parte II, cap. 6, par. 5.a]). Sul calco della frase
di Schumpeter, Clower conia la sua, sopra ricordata, che una merce non acquista
altre merci ecc.
14
Il Rapporto porta il nome del presidente del Committee on the Working of
the Monetary System incaricato nel maggio del 1957, a seguito della crisi di Suez
e delle difficoltà di stabilizzare le condizioni monetarie interne e nei confronti
dell’estero, di indagare sulle politiche condotte dalla Banca d’Inghilterra negli
anni precedenti e sulle quali erano state sollevate varie critiche. I membri del comitato, tra cui due economisti (i professori A. K. Cairncross e R. S. Sayers), due
banchieri, due sindacalisti, e due uomini d’affari, giunsero a conclusioni unanimemente condivise e controcorrente, dato che mettevano in discussione il principio
che una banca centrale dovesse limitarsi esclusivamente a un controllo dell’offerta
di moneta. Sulle conclusioni influirono le audizioni, i numerosi memoranda e, in
particolare, il contributo di Lord Kahn. Cfr. Katz (1960).
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Capitolo 10
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IL PROBLEMA DELLE ORIGINI DELLA MONETA
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10.1. L’inizio della fine della mitologia monetaria
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Gli scienziati annunceranno che i ragazzi sono soggetti ad
un ciclo di diarrea-stitichezza dovuto, essi aggiungeranno,
al tempo oppure ad alternative di ottimismo e di pessimismo fra i membri della famiglia. […] i parenti si divideranno nel partito del bismuto e nel partito dell’olio di
ricino, uno dei quali, impressionato dagli orrori della diarrea, rinuncerà all’olio di ricino e l’altro, commosso dalla
depressione della stitichezza, abiurerà il bismuto. (Keynes
1930, cap. 31)
Abita nella banca che ci vizia in qualche luogo l’oro,| in familiarità con le migliaia. Ma quel cieco, il mendico,| anche
al soldo di rame è come un luogo perso,| come sotto l’armadio l’angolo polveroso (Rilke 1990, Sonetti a Orfeo, XIX)
Per il capitale privato ottocentesco […] valevano ancora i
principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei
quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi
come osceno […] in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas
Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel
[…] Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo
il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale. (Kurz
1997, 76-7)
Il Rapporto Radcliffe rappresentò per molti versi il culmine dei
dibattiti monetari e delle inchieste parlamentari condotte in Inghilterra dall’inizio del XIX secolo, durante e dopo le guerre contro la Francia, ai quali avevano preso parte i maggiori economisti
e pensatori dell’epoca, dando vita a una lunga e continua controversia sulla natura della moneta e sui modi per governarla e,
attraverso di essa, anche sulle relazioni della moneta con prezzi,
tassi d’interesse, debito pubblico e debito privato; in altri termini,
da quei dibattiti, la politica monetaria emerge come lo strumento
per un controllo del credito e delle forme di finanziamento dell’e-
Parte II - Moneta e debito
236
conomia (vedi anche il cap. 13). Il Rapporto indicava nei crediti
bancari, piuttosto che nei depositi a vista, la variabile cruciale per
poter influire sulle spese, e dunque sul livello della domanda aggregata. In altri termini, la domanda di moneta, comunque la si
voglia definire, con o senza forme di depositi a vista e a termine,
viene individuata come soltanto una componente della liquidità
complessiva presente nel sistema, una liquidità dipendente dai
flussi di finanziamento, secondo i molteplici canali istituzionali
messi in opera in ogni economia avanzata. Inoltre, veniva osservato che la facilità di convertire un’attività finanziaria in un’altra,
per effetto di una crescente permeabilità e integrazione tra i mercati del credito e dei capitali, rendeva sempre più problematico
affidare al controllo della moneta l’intera trasmissione della politica monetaria su tutta la gamma dei finanziamenti verso l’economia e influire sulla massa complessiva di attività che avevano un
legame diretto con la spesa aggregata. Inoltre il ruolo principale
della politica monetaria era individuato nella possibilità di intervento sulla struttura dei tassi d’interesse, per esercitare effetti
concreti sulla domanda di beni capitali modificando la disponibilità di risorse liquide delle istituzioni finanziarie e degli operatori
privati. Molte delle tesi del Rapporto erano state concepite dalla
prima scuola di economisti keynesiani. Un influente contributo
era venuto, fin dai primi anni ’50, da Robert V. Roosa, un economista che ricoprì alte cariche nella Federal Reserve e quella di
sottosegretario al Tesoro sotto l’amministrazione Kennedy1. Un
altro influente economista era Richard Sayers, membro tra l’altro
del Comitato Radcliffe2.
Le idee di fondo erano uno sviluppo di quelle del Treatise di
Keynes, dove si afferma, appunto, che «il regolatore di tutto il
sistema è il tasso di sconto» (Keynes 1930, cap. 31.1; nella trad. it.:
1979, II, 415) e che il credito è regolato «dalle necessità degli affari
Un suo contributo importante di politica monetaria è il saggio di Roosa
(1951). All’epoca in cui lo scrisse e lo firmò il suo cognome era Rosa, la scelta di aggiungervi una “o” era motivata dall’assonanza col cognome del mitico presidente
della Grande depressione, F.D. Roosevelt.
2
Cfr., tra l’altro, il saggio di Sayers (1949). Secondo Cairncross, Sayers fu
colui che scrisse in gran parte il Rapporto (Cairncross 1996, 51).
1
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10 - Il problema delle origini della moneta
237
da una parte, ma anche dallo stato delle loro riserve [di liquidità] dall’altra» (Keynes 1930, cap. 31.2; 1979, II, 420). Hicks, più di
trent’anni dopo la pubblicazione dell’opera, invitò a rimetterla in
circolazione, precisando che uno studioso aveva bisogno di accostarsi ad essa come a un libro scritto in lingua straniera (Hicks
1967b, 150). Keynes, nel capitolo 31 dedicato al problema della
politica monetaria, opta per una posizione intermedia tra le due
estreme, una definita dei “banchieri”, l’altra degli “eretici” monetari. I primi sono i guardiani dell’ortodossia e delle tradizioni,
ossia difendono la posizione di una banca centrale relativamente
impotente che non può creare moneta dal nulla né, soprattutto, a
propria discrezione. Anche in un sistema senza convertibilità aurea o metallica, i vincoli nella creazione di moneta sono posti dalle riserve valutarie, sensibili alle posizioni verso l’estero dell’intera economia e al saldo della bilancia dei pagamenti. Gli “eretici”
invece sostengono la tesi opposta, quella di una sovranità piena,
che i banchieri centrali possono esercitare a discrezione, creando
deflazioni e depressioni economiche, ma anche incoraggiando il
finanziamento degli investimenti attraverso la concessione di credito alle banche e la fissazione del tasso di sconto; inoltre, anche
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attraverso politiche cosiddette di “mercato
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nendo sul mercato monetario
debito pubblico a breve scadenza per influire così sul loro corso e,
di conseguenza, sul loro rendimento effettivo. Per Keynes, la sovranità monetaria della banca centrale e della nazione è dunque
una conquista che deve essere continuamente difesa, e, anzi, rafforzata: infatti, «la forza effettiva di una banca centrale dipende
interamente, in pratica, dall’eccedenza delle sue riserve» (Keynes
1930 [1979], I, 456). Il mondo a cui Keynes si riferisce è quello
delle interrelazioni tra Stati e fra economie nazionali. L’ordine internazionale, politico o monetario, non è concepito a partire da
una comunità globale, universale a priori, di cittadini del mondo,
bensì quella che si forma a partire dagli Stati nazionali, ognuno
dei quali esercita la propria sovranità sullo spazio composito di
lingua, territorio, ovvero una cittadinanza di tradizioni culturali
e religiose, un ordine che ricalca quello creato, alle soglie della
modernità politica, da Vestfalia in poi, dissolto solo dal neoliberalismo contemporaneo e dalla globalizzazione (sulle posizioni di
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Keynes e sul neoliberalismo v. 14.3). Non è, forse, del tutto fuori
luogo accostare la lucidità con cui sia Keynes che Carl Schmitt
vivevano le contraddizioni della propria epoca dopo la fine della
Grande guerra e la ripresa di un’altra e più disastrosa guerra. Entrambi avevano guardato alle conseguenze rovinose del trattato
di Versailles e vissuto quegli anni come testimoni del tramonto
di un’epoca e della dissoluzione di un ordine europeo, del quale
erano, in forme diverse, entrambi strenui difensori, e per il quale
entrambi tentavano di proporre rimedi. Tuttavia, se per Keynes
era ancora realistico rifondare e rimettere in piedi il sistema sulle
medesime basi, per Schmitt, non restava invece che ripiegare su
una denuncia amara di profondo pessimismo vedendone ormai
distrutte le fondamenta giuridiche3.
Tornando al Rapporto Radcliffe, è interessante ricordare
come furono accolte le sue conclusioni, non del tutto consone a
una visione tradizionale della moneta. Su di esse, intervennero
a caldo due economisti, Nicholas Kaldor e John G. Gurley. Kaldor sferrò un attacco alla teoria quantitativa della moneta che
era generalmente condivisa dai banchieri centrali, come uno dei
postulati sino ad allora ritenuti «sacrosanti», specialmente dai
monetaristi. L’altra critica la rivolse nei riguardi della tesi che le
“istituzioni finanziarie non-monetarie”, a differenza delle banche di deposito, non avessero voce in capitolo nella “creazione”
di moneta, ritenendo invece importante il loro ruolo nella «creazione di liquidità»4. Il contributo di Gurley uscì a pochi mesi di
distanza, ma, diversamente da Kaldor, giudicava le conclusioni
del Rapporto deboli e confuse, spesso esagerate, per quanto riconoscesse un certo coraggio nell’avanzare una «visione macrocosmica che il Rapporto dà del mondo della finanza [con la quale] mette a disagio molti teorici monetari e policymakers nel loro
autoimposto esilio in un angolo angusto» (Gurley, 1960, 699700). La presa di distanza dal Rapporto da parte di Gurley è per
molti versi singolare, se si considera che nello stesso anno uscì
anche il suo libro Money in a theory of finance, scritto insieme a
Su Schmitt si veda l’inquadramento storico in Haggenmacher (2017, 3-13).
Kaldor (1960, 18 e 19). Sul Rapporto, Kaldor ritornava in alcune lezioni
poi pubblicate; v. la versione italiana in Kaldor (1984).
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Parte II - Moneta e debito
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10 - Il problema delle origini della moneta
239
Edward S. Shaw, e nel quale si tenevano insieme una teoria della
moneta e una teoria delle istituzioni bancarie e finanziarie nel
loro complesso, proprio per render conto delle nuove condizioni ridisegnate da un sistema di fiat money5, in cui anche il ruolo
delle banche cambiava sensibilmente rispetto a prima (Gurley
e Shaw 1960). Secondo Gurley (1960, 700), il Rapporto poteva
essere tuttavia giudicato un honorable failure. Onorevole – così
scrive – nello stesso senso usato da Zarathustra quando ricordava il funambolo morto per esser stato distratto da un grido,
anche se non può esserci colpa in colui che chiamandolo lo ha,
di fatto, messo in pericolo, per quanto sia proprio quel grido a
lasciare amarezza per quello che ha involontariamente causato.
Gurley stesso si dichiarava deluso dall’impotenza e da quella
che stimava una perdita di sovranità monetaria.
Ma il contributo più interessante fu, forse, quello di John Hicks che, nel 1962, pubblicò il saggio dal titolo significativo di Liquidity (Hicks 1962). Hicks condusse un’attenta analisi filologica
del seguente passo del Treatise di Keynes (che riportiamo in originale per scioglierne il senso attraverso i commenti di Hicks): «Bills and call loans are more liquid than investments, i.e., more certainly
realisable at short notice without loss, and investments are more liquid
Per fiat money si intende la moneta fiduciaria, cartacea o in pezzi metallici. Si basa sul principio che la moneta sia governata da una banca centrale
(per questo si dice anche managed money). Le banconote fiduciarie emesse in
un sistema di convertibilità aurea circolavano su basi fiduciarie e la fiducia era
conferita dalla garanzia delle riserve della banca emittente. Se dichiarate, per
legge, moneta “legale” non potevano essere rifiutate in pagamento, ma restava
la possibilità di poterle convertire in metallo presentandole alla banca emittente.
In casi eccezionali, come nelle crisi finanziarie, nei panici bancari o in caso di
dichiarazione di guerra, il governo poteva accordare alla banca di emissione il
corso forzoso. In quel caso i biglietti circolavano senza possibilità di essere convertiti in oro. Il corso forzoso permetteva alla banca d’emissione di intervenire
come prestatore di ultima istanza nei confronti delle banche in difficoltà concedendo loro credito, oppure fornire anticipazioni al Tesoro impegnato in spese
straordinarie come quelle di difesa nazionale. Le monete attuali, specialmente
dopo l’annuncio di Nixon del 1971 dell’abbandono del sistema di Bretton Woods (v. anche il par. 14.1), hanno seguito l’esempio del dollaro e sono divenute
monete inconvertibili, da legali che erano già. Oggi, si può dire, vige un sistema
di fiat money.
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Parte II - Moneta e debito
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than advances»6. La sua analisi comincia da quel “senza perdita”
(without loss) per suggerire, al di là dell’implicita comparazione
con altre attività, che anche un breve preavviso (short notice) non
ha alcun effetto sul prezzo a cui l’attività finanziaria può essere
venduta. Quell’attività è perciò un «marketable asset», cioè ha un
alto grado di “commerciabilità”, perché ha mercati ben organizzati sui quali può essere negoziata (Hicks 1962, 790). La tempestività con cui l’operazione normalmente può essere portata a termine
senza rischi di perdite di valore è fondamentale per qualificare la
nozione di liquidità. L’interpretazione di Hicks tiene conto della
nozione di preferenza per la liquidità keynesiana non solo come
scelta tra moneta e titoli, bensì come disponibilità a sacrificare
qualcosa in termini di valore medio al fine di ridurre la variabilità del valore atteso sull’intero portafoglio di attività detenuto
(Hicks 1962, 792). La liquidità si riferisce alla valutazione di una
“certezza” posta in relativa contrapposizione ad un’“aspettativa”
e traccia una linea di confine mobile tra una gamma di attività
assimilabili alla moneta e altre sulle quali, invece, permangono
rischi di significative fluttuazioni di valore.
Diversi anni dopo, Anna Schwartz sferrò un duro attacco
all’impianto teorico del Rapporto. Il Rapporto demoliva la teoria quantitativa della moneta come strumento utile per la politica
monetaria, perché le variazioni della moneta della banca centrale
non erano né il principale né il più efficace strumento per influire sulle variazioni del reddito. Schwartz cercò perciò una difesa
dei principi dal monetarismo, riaffermando la centralità del ruolo
della moneta e della politica monetaria, ribadendo che solo l’offerta di moneta emessa dalla banca centrale costituiva il perno
più efficace per il controllo del credito e per la stabilità finanziaria
in un sistema di libere scelte decentrate. In definitiva il Rapporto
avrebbe messo in serio pericolo proprio la libertà d’impresa attraverso principi che prefiguravano una regolazione amministrativa
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«Cambiali e crediti a vista sono più liquidi degli investimenti in titoli,
cioè certamente più facilmente realizzabili con breve preavviso e senza perdite,
e gli investimenti in titoli più liquidi delle anticipazioni» (il passo così tradotto
riprende, con alcune modifiche, quello in Keynes 1930 cap. 25, ii [1979, II, 312). Cfr.
anche Hicks (1962, 789).
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10 - Il problema delle origini della moneta
241
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e discrezionale dell’economia tramite una gamma di meccanismi
monetari e finanziari. Lo Stato, per raggiungere obiettivi di politica economica, avrebbe non solo messo a rischio l’autonomia della
banca centrale ma anche quella dei consigli d’amministrazione
delle banche e delle istituzioni finanziarie7.
In ogni caso, il Rapporto Radcliffe segnava un punto di svolta
nella stagione postbellica per la consapevolezza teorica e politica
della necessità di trovare nuovi metodi e strumenti, al fine di esercitare una politica monetaria efficace in termini di controllo sulle
dinamiche del credito e delle altre attività finanziarie; necessità
più stringente ora che la moneta era uscita dai cardini tradizionali e la moneta fiduciaria poteva trovarsi sempre più disancorata dalla principale valuta di riferimento internazionale e, per
tramite di questa, dall’oro. Va infatti ricordato che le indagini del
comitato Radcliffe avvennero anche in contemporanea di importanti cambiamenti nei rapporti finanziari internazionali che vedevano la fiat money, la moneta inconvertibile e creata per atto
sovrano, in balia di soggetti privati che contendevano, di fatto e
di diritto, alle autorità politiche il principio e il fondamento stesso
della sovranità; ciò accadeva sia attraverso la stessa creazione dei
depositi da parte delle banche private, sia con l’avvio, verso la
fine degli anni ’50, dello sviluppo dei mercati internazionali dei
capitali, sfruttando l’abbondanza di dollari in circolazione fuori
dagli Stati Uniti e dal controllo della banca centrale americana.
L’espansione dei mercati finanziari internazionali coincise,
all’incirca, con l’avvio ufficiale del sistema di parità valutarie
stabilito con gli accordi di Bretton Woods. Nel 1958 i principali paesi europei adottarono la piena convertibilità delle proprie
monete per l’insieme delle transazioni internazionali. Questo
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Schwartz (1987, 167-82). A pagina 175 Schwartz chiarisce le proprie
motivazioni critiche al Rapporto Radcliffe e la propria posizione di difesa di
un doppio canale di trasmissione degli impulsi monetari e di quelli finanziari:
«L’analisi monetaria alternativa che è stata rimpiazzata dal Rapporto Radcliffe è
basata sull’evidenza che un cambiamento nella quantità di moneta è seguito da
cambiamenti sia nei prezzi che nella produzione. I cambiamenti dei prezzi sono
un canale di aggiustamento della quantità reale della moneta al cambiamento nella quantità nominale. Altri canali riguardano i cambiamenti del tasso di interesse
e i cambiamenti nel prodotto reale».
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Parte II - Moneta e debito
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evento si intrecciò ad un altro, meno eclatante, che finì però per
rendere più difficile garantire la convertibilità secondo i criteri
del sistema di Bretton Woods, in base ai quali la stabilità delle
parità da parte delle autorità monetarie nazionali dipendeva
dalle possibilità che queste avevano nell’esercitare controlli efficaci sui movimenti di capitali a breve scadenza verso l’estero.
L’evento in questione consisteva in alcune innovazioni finanziarie, riguardanti le grandi banche e i mercati internazionali dei
capitali, promotrici di una lenta azione corrosiva sulle politiche
monetarie in grado di controllare la liquidità monetaria nazionale e internazionale. Tutto dipese dal fatto che il sistema di Bretton Woods conferiva agli Stati Uniti la possibilità di emettere la
sola valuta di riserva monetaria internazionale, col solo vincolo
– reso molto teorico in periodo di “guerra fredda” – che i paesi
nei quali erano affluiti i dollari avrebbero potuto richiedere alla
Federal Reserve la loro conversione in oro. Le cose cambiarono
soprattutto dopo l’invasione dell’Ungheria nel 1956, quando le
autorità sovietiche, temendo un embargo e un congelamento dei
propri fondi in dollari, decisero di spostarli su banche commerciali della City di Londra e su altre banche europee, francesi in
particolare, attraverso una banca a tutti gli effetti inglese ma sotto il controllo diretto del principale paese comunista. In questo
modo era aggirato ogni pericolo di confisca o congelamento: le
autorità monetarie americane non potevano interferire su banche
europee che detenevano dollari, da allora detti eurodollari, e tali
banche potevano prestarli e riceverli in deposito a condizioni sulle quali nemmeno le banche centrali europee avevano dominio8.
8
Eichengreen (2008, 132). Fu l’Economist a dar conto del nuovo fenomeno
finanziario nel luglio del 1959; il Rapporto Radcliffe ne fece menzione ma senza usare la parola di eurodollari per le banche londinesi, che per depositi di grosso taglio
offrivano un tasso d’interesse tra il 3 e il 3,25% e concedevano prestiti al 4%, estremamente competitivi rispetto a quelli concessi dalle banche americane obbligate, in
patria, a rispettare i limiti posti dai Banking Acts del 1933 e del 1935 sui tassi d’interesse che le banche potevano corrispondere sui depositi a vista e a tempo, nonché
vincoli di riserva obbligatoria sui depositi; v. Higonnet (1985, 29-30); Swoboda (1968,
32). L’espansione del mercato degli eurodollari era tale che, a nemmeno di dieci anni
di distanza, il volume di depositi così denominati e il loro giro d’affari erano stimati
un multiplo dei mercati tradizionali sulla sola piazza londinese, Einzig (1971, 135).
10 - Il problema delle origini della moneta
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Era il “piede di porco” per scardinare i mercati monetari nazionali e aprire un varco sempre più ampio per operazioni bancarie
e finanziarie transnazionali. Quindi, le innovazioni finanziarie
in questione furono, almeno in principio, la conseguenza della
guerra fredda. Alcune banche internazionali promossero un’innovazione che negli anni seguenti fu la base del cosiddetto mercato degli eurodollari e, nei decenni successivi, degli odierni mercati internazionali dei capitali. Le sedi all’estero di grandi banche
americane e le grandi istituzioni di credito europee, accettando
depositi in dollari e concedendo prestiti nella stessa valuta, si tenevano fuori da ogni controllo sull’espansione delle loro attività
da parte delle banche centrali, dato che nessuna di queste poteva
esigere vincoli di riserva obbligatoria in eurodollari o in eurovalute. Le multinazionali erano le principali società a beneficiare
di tali operazioni, con il plauso dei governi e di enti pubblici che
vedevano un’opportunità in più per accedere a emissioni di titoli
a condizioni inizialmente più vantaggiose rispetto alle emissioni sull’interno, derogando così ai vincoli di cambio e di riserve
valutarie. Tuttavia, va però segnalato che, se il comportamento
sovietico dettato dalla guerra fredda fu l’innesco, la spinta fondamentale allo sviluppo delle transazioni sui mercati delle eurovalute venne comunque dalle multinazionali e dalle grandi banche,
che non tardarono a profittare delle opportunità che si aprivano. La conseguenza fu la crescita di una struttura finanziaria del
tutto fuori da ogni controllo da parte di autorità monetarie e di
politiche monetarie nazionali. L’offerta di moneta a livello mondiale cominciava ad essere indipendente dalle politiche nazionali
e dallo stesso regime di cambi fissi di Bretton Woods, governato sulla base delle relative autonomie delle sovranità nazionali.
Nel contempo anche le politiche monetarie nazionali perdevano il pieno controllo sull’offerta di moneta interna a causa della
maggior libertà e flessibilità delle banche nazionali aperte verso
l’estero (Arrighi 2010, 310). Andrew Walter ha visto nella crescita rapida ed esponenziale degli euromercati il seme originario
della «rivoluzione finanziaria globale»: essa ricevette una spinta,
dopo la fine di Bretton Woods, dalla volatilità dei cambi, dagli
alti tassi reali d’interesse, dalle innovazioni finanziarie della securitization, dalla crescente liquidità sui mercati finanziari interna-
244
Parte II - Moneta e debito
zionali generata anche dall’ampliarsi dei deficit delle bilance dei
pagamenti e dall’innalzamento dei debiti pubblici, e, poi, furono
le liberalizzazioni, dopo gli anni 1980, a decretare pienamente il
successo di un nuovo ordine monetario e finanziario internazionale (Walter 1991, 200-8).
Le trasformazioni del mondo monetario, divenute sempre
più imponenti con la rilevanza acquisita dai movimenti internazionali dei capitali e dalle innovazioni finanziarie conseguenti ad
essi, richiedevano una comprensione che andasse aldilà della visione tradizionale della moneta.
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10.2. L’antico problema della sovranità sullaomoneta
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Una delle cose principali che la teoria monetaria dovrebbe
spiegare è l’evoluzione della moneta. (Hicks 1971, 8)
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non esiste alcun altro caso in cui il titolo che dà diritto a
una cosa può, entro certi limiti, servire come la cosa stessa:
non si può cavalcare il titolo che dà diritto a un cavallo, ma
si può pagare con il titolo che dà diritto a una somma di
denaro. (Schumpeter 1954 [1990, 392])
il sovrano sta fuori dell’ordine giuridico normalmente valido e, tuttavia, appartiene ad esso, perché è responsabile
per la decisione se la costituzione possa essere sospesa in
toto. (Schmitt 1922, 13)
Da più di due secoli a questa parte si era formato una sorta di prisma deformante attraverso il quale guardare la moneta, i fenomeni monetari e la loro stessa evoluzione; ne risultava una visione
deformata rispetto a ciò che la moneta moderna era in realtà divenuta, e in più si generava l’illusoria supposizione che essa continuasse a rimanere per lungo tempo in quell’involucro particolare
che la visione deformata non cessava erroneamente di mostrare.
La moneta fiduciaria, che dopo la seconda guerra mondiale perdeva e dissolveva le ultime vestigia del suo precedente stile, dava
la possibilità di riconsiderare la vera natura della moneta, ora che
era passato quel periodo di tempo relativamente limitato in cui,
in forza di regole e restrizioni, era circolata come moneta-merce,
rappresentativa di quantità d’oro, sempre convertibile in metallo
lucente e prezioso. L’abbandono della lente deformante non era,
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10 - Il problema delle origini della moneta
245
per i moderni, né facile né scontato perché, in quel caso, erano
piuttosto loro che dovevano fare una rivoluzione copernicana
alla rovescia, ristabilendo la vera natura originaria della moneta,
con un nuovo cannocchiale capace di rimettere a fuoco una prospettiva per essi troppo lontana nel tempo. La moneta modernamente intesa trovava espressione compiuta specialmente dopo la
Rivoluzione francese, quando culminò quel percorso di ricerca
di una base oggettiva e scientifica attraverso un sistema unico
di pesi e di misure, un sistema “razionale” nel quale includere
la moneta stessa come conio in metallo prezioso9. Stabilire nuove misure era sì un principio di razionalizzazione, ma anche un
modo per affermare e riconoscere il nuovo potere rivoluzionario,
che forniva così la propria bilancia di giustizia per dirimere in
partenza incomprensioni e controversie, secondo il principio di
una misura invariante, non ingannevole. Era un tentativo di uscire, con i lumi della ragione, dalla babele di monete, che era fonte
di disordini, inganni, approssimazioni per instaurare un sistema
dei pagamenti equo ed efficiente. La moneta era parte integrante
della riforma dei pesi e delle misure di cui i cahiers de doléances
del 1789 invocavano l’unificazione, dopo gli insuccessi dei ministri delle finanze Turgot e Necker. Era il segno tangibile di tempi
nuovi secondo il principio «un roi, une loi, un poids et une mesure»,
divenuto uno degli slogan della Rivoluzione10. La fiducia doveva
però trovare un’arcaica certezza in un sistema monetario rifondato sulla concretezza splendente di un metallo solare e, al più, di
uno lunare11. L’oro era come la luce della caverna platonica, che
9
Un primo decreto di un sistema uniforme di pesi e misure fu emanato
dalla Convenzione Nazionale il 1 agosto 1793 a conclusione di lavori avviati nel
1790 dall’Assemblea costituente, per iniziativa di Talleyrand, e proposta di Condorcet, riprendendo il “metro” di Tito Livio Burattini del 1675 e di John Wilkins
del 1668 (Moreau 1975, 21-2).
10
Witold Kula (1987, 17) sottolinea il fatto che le misure sono «attributo di
potere» e che l’unificazione delle misure fu un processo lungo e complesso in cui,
secondo l’avvocato parigino Jacquet, i sabotatori dei tentativi regi di procedere
all’unificazione erano gli stessi mercanti per «malizia» e avidità (idem, 190).
11
Cfr. il bel libro di Bernstein (2004). Bernstein ricorda come l’oro fu per
gli ebrei il mezzo della loro liberazione dall’Egitto, come, nella disperazione del
deserto, fecero dell’oro il segno della loro temporanea divinità e, infine, come, una
volta giunti nella Terra promessa, resero ancora l’oro oggetto di accumulazione
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246
Parte II - Moneta e debito
rende intelligibili le ombre del mondo delle merci, le quali trovano così la loro giusta misura. Arnaud Manas ha spiegato come,
per caratteristiche fisico-chimiche, le monete coniate in oro sono
di difficile contraffazione per la loro facile riconoscibilità, appunto, come “oro sonante”12.
La moneta degli Stati nazionali era stata voluta, e parzialmente realizzata, prima ancora che per la sua funzione di circolante,
per la sua funzione di bene che realizzasse un ideale di numerario,
di misura di valore quasi invariante, merce “superiore” ed estranea (“esterna” per gli economisti Gurley e Shaw) alle altre merci,
come un dio mercuriale capace di intervenire per risolvere le difficili negoziazioni mercantili e, al tempo stesso, uscirne per mostrarsi arbitro indifferente ai piccoli attriti risolvibili contrattualmente. Per adempiere al compito così arduo di stare nel contempo
“dentro” e “fuori” dal mondo delle merci, occorreva comunque
agganciare la moneta in qualche modo a un metallo nobile, per tenerla con i piedi per terra, saldamente stabilizzata, senza perdersi
nell’astrazione da cui proveniva. Un tale equilibrismo era stato
avviato dopo la formazione degli Stati nazionali, i quali avevano
reclamato la propria sovranità sulla moneta ancora prima che sul
territorio. Ciò aveva, da una parte, dato sicurezza alle “monete”
private, deboli perché da sempre fiduciarie. Infatti, in tal modo le
cambiali, e tutta la rete di operazioni di credito e debito che intesseva gli scambi commerciali, trovavano un rifugio di valore a garanzia statale. Dall’altra parte, però, la prerogativa sovrana dello
Stato sulla moneta era sì acclamata dal mondo mercantile e bancario ma ad una condizione: che si estendesse al dominio monetario lo stesso limite posto nel dominio politico alla monarchia con
la costituzione, e cioè a condizione di defiscalizzare l’uso delle
monete in conio che servivano per la massa di piccoli pagamenti.
(p. 14); per gli egiziani Horus dorato era segno della luce di dio (p. 18); nella Lidia
Cibele era la dea delle montagne e custode delle miniere e dei metalli (p. 33); per
i greci l’oro rendeva degni di fede le cose inanimate, e Fidia rivestì di un mantello
dorato la dea Atena (p. 46). V. anche Rossi (2018).
12
Manas (2015). Mentre invece è del tutto un’invenzione hollywoodiana, ripresa dall’Isola del tesoro nella sua trasposizione cinematografica, quella del
riconoscimento dell’autenticità delle monete d’oro mediante il morso; v. Manas
(2018).
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10 - Il problema delle origini della moneta
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Infatti, fino ad allora, esse erano sottoposte anche all’arbitrio dei
principi, che potevano alterare le equivalenze in metalli preziosi
in modo da indurre una doppia illusione, monetaria e fiscale, in
chi le usava e deteneva, purché le alterazioni, messe in atto dai
principi, fossero fatte con una certa astuzia, discernimento e tatto, per non suscitare allarme, turbare la confidenza e ritardare la
presa di coscienza dell’avvenuta alterazione. Dunque il “patto”
costitutivo della nuova sovranità monetaria doveva servire a dar
certezza nel saldare, in ultima istanza, le pendenze finanziarie,
per poterle liquidare senza necessariamente dover rinnovare le
posizioni, oppure, peggio, entrare nelle strettoie rischiose, soprattutto per i creditori, di esecuzioni fallimentari nei confronti dei
debitori. Evitare i pericoli insiti nel dominio monetario dello Stato
era possibile, perché a gestire la moneta di Stato era una banca,
una banca privata con privilegio di emettere, nel XVIII e XIX secolo e per quasi metà del XX, una moneta anch’essa privata, per
quanto sotto l’egida di uno Stato nazionale. Le monete di Stato
erano poi le specie in conio, in tagli esigui, per servire nei piccoli
pagamenti, mentre la moneta della banca d’emissione privata –
per nazionalizzarla occorrerà generalmente attendere la fine della
seconda guerra mondiale – era fiduciaria, in tagli elevati, con obbligo di convertibilità in metallo, secondo una gestione a riserva
frazionaria (cioè un limite massimo di emissione generalmente
calcolato su un quoziente di riserva metallica). L’architettura che
si veniva così ad erigere dava alla banca facoltà di concedere allo
Stato crediti in forma di anticipazioni a tassi d’interesse di favore
e crediti a operatori commerciali e bancari, più o meno alle stesse condizioni. La banca d’emissione imponeva, col tempo, il suo
ruolo di vera banca centrale, a condizione di essere in grado di
proporre alle altre banche servizi in qualche modo “assicurativi”,
sia come prestatore di ultima istanza (cioè quando nessun altro
operatore trovava conveniente fare credito), sia perché serviva da
banca delle banche quando queste ultime trovarono conveniente
depositarvi le proprie eccedenze di liquidità. In questo modo, un
sistema così concepito dava alla banca centrale un doppio controllo potenziale, indiretto, sia sul debito dei privati che su quello
dello Stato. Un potere enorme, quindi, per la banca centrale: quello sul credito-debito di una intera società, sia nella sfera privata
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che pubblica. Enorme, poiché sappiamo che il credito-debito è dai
tempi arcaici il fondamento (sacro) della società medesima e della
sua evoluzione economica.
La moneta così riformata aveva di fatto un doppio livello di
circolazione: quello delle monete divisionarie, in conio a pieno
titolo metallico, e quello delle monete fiduciarie, convertibili in
barre di metallo o in specie, se si considera che anche le banche
avevano un obbligo di convertibilità dei loro depositi a vista,
generalmente in carta (convertibile) della banca centrale. Le monete in conio conoscevano un’innovazione istituzionale importante con il marchio di valore impresso su una faccia, in modo
da sigillare ogni surrettizia politica di alterazione monetaria,
operata dai sovrani con intenti fiscali sia in epoca medievale che
moderna. Il nuovo marchio che incideva sulla moneta il proprio
nome e il proprio valore, corrispondente a quanto stabilito nella
legge monetaria, diventava il sigillo più rilevante e innovativo:
andava a sormontare i due tradizionali, che erano sul recto, o
“testa”, l’effige del sovrano, e sul verso, o “croce”, in cui, di solito, cominciava a trovare spazio, tra i simboli delle armi materiali
e spirituali, il marchio del valore facciale della moneta13. L’impronta col valore nominale forniva l’immediata informazione
del corrispettivo importo di imposte e tasse che quella moneta
poteva pagare e, inoltre, ora il nome della moneta era espresso
appunto in unità di conto ufficiali, e non più in denominazioni
del conio, ad es. ducati, fiorini, grossi, ecc. i cui conti si rapportavano, dopo la riforma carolingia in Europa, alla moneta
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Le molte mostre e rassegne di monete coniate nel corso del tempo sembrano sorvolare questo cambiamento silenziosamente rivoluzionario, che ha il
punto di svolta più evidente, come sopra detto, nella riforma monetaria e dei
pesi e delle misure attuata durante gli anni del Terrore della Rivoluzione francese, cambiamenti che non tarderanno a diffondersi nel resto d’Europa, sebbene
anche con sporadici tentativi di ritorno all’antico regime delle monetazioni negli
anni immediatamente successivi alla Restaurazione. Ciò è evidente scorrendo le
immagini del catalogo della mostra sulle monete metalliche antiche e moderne organizzata dalla Banca d’Italia nel 2003 (in Balbi de Caro 2003, 169-82 per le monete
coniate sotto Gioacchino Murat e con il ritorno dei Borbone). Per un altro esempio
si veda il catalogo di una mostra del 1997 organizzata dal British Museum in Williams (1997).
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immaginaria “lira”, “livre”, “pound” e altra denominazione che
la moneta di conto assumeva secondo le varie lingue nazionali14.
Con la punzonatura del valore facciale sulle monete si compie la riunificazione delle monete in conio con gli altri strumenti
monetari in circolazione, come i biglietti di banca o le cambiali, sui
quali l’iscrizione di unità di moneta di conto era imprescindibile.
Grierson afferma che «[o]ggi le monete, per dirla con le parole di
un economista moderno, sono essenzialmente delle banconote
stampate su metallo: il loro valore nominale è conferito dagli Stati
ed è abbastanza scollegato da quello del loro contenuto metallico» (Grierson 1984, 62)15. Circa l’origine delle iscrizioni del valore nominale impresse sui conii, Grierson (1984, 118) nota che solo
dall’epoca moderna, affinché «fossero intese da tutti», si diffonde
in maniera lenta e irregolare l’uso di iscrizioni precise, ma quelle a cui fa espressamente riferimento, come i grossi pragenses e i
burgensis fortis di Luigi IV di Francia, hanno impresso soltanto il
Si ricordi quel che comportava inventariare una cassa di monete anche
soltanto in termini di identificazione delle denominazioni. Una classica descrizione è ne L’isola del tesoro (cap. 34): «Era una curiosa collezione, simile a quella
di Billy Bones, per la varietà dei conii, ma talmente più ricca e abbondante che io
provai un immenso piacere ad assortirli. Monete inglesi, francesi, spagnole, portoghesi; giorgi e luigi, dobloni e doppie ghinee, moidori e zecchini con le effigie di
tutti i re d’Europa degli ultimi cent’anni; bizzarri pezzi orientali impressi di segni
che somigliavano a fili di cordicelle o brani di tele di ragno; pezzi rotondi e pezzi
quadri e pezzi forati nel mezzo, quasi medaglie da portare al collo: tutte le varietà
di monete del mondo figuravano, credo, in quella raccolta; e quanto al loro numero penso che uguagliassero le foglie dell’autunno». Altro classico è il conteggio
finale di un altro tesoro in Lo scarabeo d’oro di E.A. Poe: «La cassa era stata riempita
fino all’orlo e passammo tutta la giornata e gran parte della notte seguente a fare
l’inventario del contenuto. Non vi era ordine né metodo, tutto di tutto vi era stato
ammassato alla rinfusa. Dopo aver catalogato tutto con cura, ci trovammo in possesso di una fortuna che superava ogni ipotesi precedentemente fatta. Si trattava
di 450.000 dollari in monete, secondo i valori monetari dell’epoca. Nessun pezzo
d’argento: tutto era d’oro di vecchia data e di vario tipo: monete francesi, spagnole
e tedesche, ghinee inglesi e monete di origine a noi sconosciuta. Vari pezzi erano
grosse monete, molto pesanti, ma così consumate che ci fu impossibile decifrarne
le iscrizioni. Nessuna moneta era americana».
15
Con alcune differenze nella traduzione, v. Grierson (1975, 37-8). Sull’importante figura di Grierson, come studioso di numismatica e di storia della moneta, v. Travaini (2006).
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Parte II - Moneta e debito
nome della moneta e non il valore nominale16. La questione, che
qui interessa espressamente, dell’entrata in vigore, non solo in uso,
dell’impressione del valore nominale non pare aver attirato molto
l’attenzione degli storici numismatici. Nell’antichità, Agostino è attento alle iscrizioni sul valore reale o nominale delle monete, ma
la sua attenzione è rivolta a una questione di legittimità di monete
non emesse dall’autorità riconosciuta e da soggetti che abusavano
del nome del sovrano legittimo (Radici Colace 2007, 21-2). In quel
caso la probatio, cioè un esame puramente formale di conformità,
dipendeva dall’aderenza della moneta in conio a quanto prescritto
nella legge monetaria. In altri termini, la moneta circolava in nome
di un’autorità. La probatio era, peraltro, un termine teologico col
quale si indicava che il battesimo, quando somministrato da laici,
profani e addirittura infedeli, purché avvenuto in nome dell’autorità – secondo il rito dell’infusione e della formula trinitaria – non
necessitava di essere ripetuto (rebaptismum), dunque, per analogia,
nel caso della moneta, indicava che essa non necessitava di riconio.
Un caso, non isolato, questo di aderenza delle pratiche monetarie
a concetti teologici e prassi liturgiche. Travaini (2007, 32, 36, 54)
mette in rilievo l’importanza della bellezza del conio e della leggibilità su entrambe le facce delle legende, principalmente, per i
segni dell’autorità. Erano queste le iscrizioni che dovevano essere
ben leggibili e riconoscibili per l’autenticità dell’emittente e del conio. Il valore della moneta era accertabile tramite le prassi, le leggi,
e vari altri segni oggettivi, come mostra gran parte della pittura e
iconografia d’epoca moderna, olandese e nordeuropea.
A tal proposito, nel celebre quadro di Quentin Metsys, Il banchiere (o il cambiavalute) e sua moglie del 1514, il banchiere ivi rappresentato identifica, conta e pesa monete di vari paesi, in vari
metalli, di conii recenti o di molti anni addietro (Revel 1995, 35 e
passim). Nell’incisione di Dürer, Melancholia I, dello stesso anno,
– già commentata nella parte I par. 4.3 – l’angelo è disorientato in
un caotico assortimento di oggetti regolari o meno, senza unità di
L’altro riferimento che si trova in Grierson (1984) riguardo alle iscrizioni
è a p. 139 dove si legge: «Per quanto riguarda le monete moderne è consuetudine
dare priorità sugli anni ai [valori] nominali», senza che riscontri regolarità nelle
serie delle emissioni, né, dunque, nei tempi.
16
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misura universale e immerso in uno scorrimento di tempi disarmonici. Entrambi esprimono un’epoca di mancanza di punti fermi, assoluti. Fanno quasi parte di una stessa denuncia, non solo
metafisica, ma anche molto concreta. Metsys inaugurò una raffigurazione di genere, di coppie intente alla stessa o analoga occupazione, nel chiuso della loro stanza, quasi in una loro intimità
domestica, se non fosse per lo specchio convesso che riflette una
terza persona che assiste e osserva la scena. Anche quella di Metsys è la denuncia da parte di un orgoglio borghese nei confronti
del disordine monetario del tempo, attribuito ai principi che confondono, scompaginano le emissioni, imbrogliano pesi e misure,
mettendo in circolazione specie monetarie difficili da identificare,
con impronte non rispondenti spesso al vero. Ma qui il mercante propone la via da seguire. Egli non accetta le monete in base
al loro valore legale stabilito dalle leggi dei principi, ma previa
verifica del valore intrinseco, del peso effettivo della moneta. Si
tratta di una misura “naturale”: l’inequivocabile segno di equità
è la bilancina da orefice, ma anche il libro delle ore, evocazione
di un mondo spirituale e cristiano, sfogliato dalla moglie mentre osserva i denari17. Il libro di devozione fa da giustificazione
morale: la lealtà e correttezza nel mondo degli affari è premiata
anche nel mondo dell’aldilà. L’immagine sacra, sulla pagina del
libro aperto, porta la scritta: «statura justa et aequa sint pondere»,
dal passo: «abbiate una bilancia giusta, pesi giusti» (Lv 19, 36).
Simbologie sacre rinviano alla sacralità dello scambio, che la triade di persone che stanno nel quadro confermerebbe, e soprattutto
alla soluzione di avvalersi di valori di scambio che non fanno riferimento alle tariffe monetarie di principi e sovrani, bensì ai valori
“naturali” contrattualmente, e pacificamente, stabiliti18. Il riferi-
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Una delle monete disposte sul tavolo, con l’aquila d’oro ad ali spiegate
è un augustale di Federico II; sulla cui mistica cfr. Kantorowicz (1957, 507) e sulla
moneta la voce di Lucia Travaini in Federico II. Enciclopedia fridericiana, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2005.
18
Col termine di “tariffa monetaria” si intende qui riprendere il lessico con
cui le leggi monetarie stabilivano il prezzo (ufficiale, o nominale) delle monete
d’oro e d’argento coniate nel regno e negli Stati esteri. I manuali di mercatura davano anche l’indicazione del peso in grani di fino secondo le indicazioni di zecca
o dei saggi per le monete in circolazione. La “tariffa” è descritta da Beccaria (1770,
Parte II - Moneta e debito
252
mento al peso e al valore del metallo monetato è la posizione che
anche i trattatisti dei secoli successivi difendono nella polemica
contro l’auctoritas delle tariffe. La legittimità delle medesime viene posta in dubbio. La legge che non dà più una protezione non
merita obbedienza. I mercanti sono i primi, in materia monetaria,
a disobbedire. E un banchiere del papa, Girolamo Belloni (1757),
è solo uno degli ultimi a svelare la natura della moneta immaginaria, primo a chiamare con questo nome la moneta di conto nei
rapporti con le relative monete metalliche19. La politica di rigore
monetario che Salvioli (1889, 59-60) attribuisce al papato fin dal
medioevo, con la stessa distribuzione di regalie a città e signori,
pare giustificata dal fatto che la Chiesa era uno dei principali, se
non il principale, centro di afflusso di specie monetarie metalliche
di ogni genere attraverso l’obolo di San Pietro, quindi una delle
ragioni, piuttosto venali, per difendere il principio di un diritto
naturale contro gli arbitrii dei principi della terra.
Riguardo alle vecchie monete a pieno titolo, il detentore poteva “convertirle” in moneta del proprio paese, cioè portarle alla
zecca per fonderle e col metallo prezioso contenuto farsi coniare
monete spendibili più facilmente in patria (con qualche spesa e
diritto di zecca da pagare). La moneta cartacea aveva, come le
cambiali, solo l’impegno, fino al 1914 e, in minor misura fino al
1931, di convertirsi a vista e al portatore nel corrispondente valore di metallo, secondo il prezzo fissato dalla legge monetaria che,
giuridicamente, regolava tutto il sistema dei pagamenti fissando
il valore dell’oro, e/o dell’argento, in moneta di conto. La banca
centrale divenne, in qualche modo, una sorta di tempio di giurisdizione, garante dell’equità del valore stampato sulla carta che
veniva, fiduciariamente o legalmente, messa in circolazione, con
la clausola di convertibilità immediata in equivalenti monete in
conio o in barre del metallo monetario, di cui la banconota si presentava come rappresentazione e comoda sostituzione.
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400 [parte I]) dove appare, in materia monetaria, un provvedimento analogo a
quello delle “grida” in Manzoni.
19
Sulla questione si rinvia alla versione teorica di Einaudi (1936), discussa,
in riferimento alla storiografia più recente, da Lane (1984). La tesi di Einaudi è
ripresa recentemente in un interessante saggio di Kregel (2019).
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Ora tutta questa imponente costruzione, quasi metafisica,
aveva i suoi teologi negli economisti che promuovevano il credo
(del tutto simile a quello del simbolo niceno costantinopolitano)
in un’unica unità di valore onnipotente, creatrice di valore in coeli
et terrae, che acquista ogni cosa tangibile e intangibile, da ora e per
sempre. Come un credo religioso, quello monetario è stato così
resistente che si è dissolto solo gradualmente con il disancoraggio
della moneta dal metallo. Solo a quel punto sono emersi i dubbi.
Alcuni tradizionalisti pensarono che occorresse fare come se nulla fosse successo, cioè che si potesse fare a meno dell’oro purché
lo si sostituisse con un oro immaginario e si governasse la moneta
in modo da continuare a renderla “neutra” e protetta da interferenze fiscali, vale a dire protetta contro la possibilità di creazione
di moneta per finanziare il Tesoro pubblico e la dipendenza da
una superiore sovranità statale. Il radicalismo anarco-liberista di
Hayek giunse nel 1976 alla proposta estrema di privatizzare la
moneta, ossia dare a ciascuno la possibilità di emettere la propria
moneta; di fatto la moneta non era più moneta ma ritornava così
a essere molto più simile alla vecchia lettera di cambio: la moneta
dei mercanti del medioevo (v. Hayek 1976). Il futuro monetario,
per Hayek, stava alle nostre spalle. La “denazionalizzazione” della moneta era una completa privatizzazione di un bene pubblico:
la stabilità monetaria, come quella della certificazione dei pesi e
misure, erano funzioni che potevano essere lasciate alle trattative private. Di fatto e di diritto, la moneta non era altro che un
debito di privati che circolava tra privati, nulla di più, nulla di
meno. Così la fiducia pura sarebbe stata restituita al “popolo”
sovrano, ma di fatto si sarebbe ceduto la sovranità ai clan-imprese e clan-banche che facevano da capi tribali di quel popolo non
protetto da altri diritti, se non quelli della nuda proprietà e della
nuda libertà contrattuale senza freni.
L’utopia metallista di avere una circolazione monetaria formata di sole monete d’oro o d’argento, o al più a convertibilità metallica, parzialmente realizzata fino alla Grande guerra, risaliva al patto
postvestfaliano di fornire a quello Stato moderno, espressione di
unità di popolo, territorio e religione, anche un’unità di e sovranità
su una moneta solida e stabile. Ciò presupponeva la quadratura del
cerchio perché, da un lato, non poteva essere sottratto allo Stato un
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Parte II - Moneta e debito
potere sovrano sulla moneta, ma, dall’altro, occorreva che lo Stato
moderno non utilizzasse più la moneta a fini fiscali, con deprezzamenti di valore e inflazione dei prezzi, per finanziare guerre e spese
straordinarie. Di quella quadratura si fecero principali promotori e
artefici Locke e Newton, con l’intento di limitare il potere politico
sulla creazione di moneta e di renderla un’effettiva misura di valore, una bilancia negli equilibri delle transazioni private e pubbliche, una garanzia fondamentale nei rapporti di credito e debito. Il
mezzo utilizzato fu riformare la moneta e coniare buone monete
a pieno titolo aureo (o argenteo). Di fatto la sovranità fu almeno
parzialmente detronizzata nel suo potere di creazione monetaria,
poiché la moneta nazionale in specie coniate o in carta convertibile doveva mantenere una parità permanente con un certo peso
d’oro (e d’argento)20. La conseguenza era quella suddetta: la moneta splendente di riflessi aurei (e argentei), dopo l’epoca dei lumi
creava un effetto ottico di distorsione che si riverberava sull’intera
storia monetaria precedente (e di quella successiva, dopo la metà
del XX secolo) e cioè introduceva una distorsione da trompe-l’oeil,
nel senso che la “vera” moneta si reputava fosse quella con il più
limitato grado di potere sovrano. L’operazione di Locke e Newton
mirava a ridurre o abolire il potere di signoraggio del sovrano, cioè
quello che essi consideravano un’usurpazione di potere, consistente nell’attribuire alle monete un valore legale superiore al valore
effettivo corrispondente a quello del metallo in esse contenuto21.
20
Chissà che quando Isaac Newton, da maestro della Zecca, nel 1717 fissò
il prezzo ufficiale dell’oro a 3.17.10 e ½ sterline, cioè a tre pound, 17 scellini e 10,5
penny, per 9 once troy di fino, egli non abbia dedotto quel valore da un complesso calcolo astrologico, più aggiornato di quelli che Laum, per il rapporto tra oro
e argento nell’antichità (mantenutosi, secondo Laum, sorprendentemente stabile
dall’antichità fino all’era moderna ad un rapporto 1:13,5), riteneva da riferirsi ai cicli
astronomici tra sole e luna? Sul rapporto mistico della moneta con i cicli degli astri si
rinvia a Brown (1986, 310); per le scelte tecniche di Newton alla Zecca reale a Belenkiy (2013). Il valore stabilito nel 1717 per l’oro rimase in vigore fino al 1931, quando
la sterlina abbandonò definitivamente il gold standard (Kindleberger 1987, 83).
21
Locke aveva chiaro il concetto di cosa si debba intendere per moneta. Nella versione a cura di Francesco Pagnini e Angelo Tavanti dei trattati sull’interesse
e sulla moneta si legge: «Il Coniare l’Argento, o far d’esso Moneta, non è altro che
assicurare gli Uomini, che debbon riceverlo, della di lui Quantità, mediante un contrassegno pubblico, a fine di renderlo per un tal mezzo maggiormente comodo per
10 - Il problema delle origini della moneta
255
Sorgeva allora una visione mitizzata della natura della moneta,
di una moneta-merce, che gli studi antropologici per primi hanno
contribuito a demolire. Ma era soprattutto Marcel Mauss – come
già accennato in precedenza – a rompere finalmente l’incantesimo
in un saggio, che non riguardava direttamente la moneta e la sua
origine, e ciò giustifica, almeno in parte, perché le sue riflessioni
critiche non abbiano avuto molta risonanza, né la dovuta attenzione
da parte degli studiosi di cose monetarie22.
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10.3. Libera nos a debitis
il debito lasciato alle spalle, e il pensiero spaventoso della
colpa che non hanno la forza di sopportare, è allora che
bisogna procurarsi un capro espiatorio e metterlo a morte!
(Strindberg 1978, 113)
Non prendere e non dare a prestito del denaro, perché
spesso ci si perde e il prestito e l’amico. (Shakespeare,
Amleto, I, iii, 75)
Chi promette in debito si mette. (Selene 2004)
il Commercio» (Locke 1751, II, 8), che più oltre precisa: «dunque l’Argento è l’unica
cosa che si ricerca nelle Monete, e meglio servirebbe di misura del Commercio se
fusse puro e senza mistura di più bassi Metalli» (idem, 10). La questione viene ribadita più avanti: «il fine, e l’uso della pubblica impronta si è d’accertare gli Uomini
della Quantità d’Argento contenuta nella Moneta, che essi contrattano e che il grave
torto, che per lo tosare riceve la pubblica Fede, aggrava talmente il furto, che lo
fa divenire delitto di lesa Maestà» (idem, 15). Infine, l’identità della moneta con la
merce è garanzia fondamentale per il commercio: «Mercanzie si chiamano tutte le
cose mobili, e valutabili per mezzo della Moneta, come loro misura comune. Ma con
tutto che l’Oro non sia moneta universale del Mondo, né la misura del Commercio,
né sia a proposito per divenirla; pure affinché gl’Uomini possin esser sicuri e del suo
peso e della sua finezza, ei può, ed anzi dee essere monetato. Ed egli è non meno
suscettibile di un prezzo determinato, che di quell’Effigie, che gli viene impressa
dall’Autorità Pubblica, pur che la valuta importagli non ecceda quella, che se gli
assegna e dai Mercanti, e dalla Piazza: Perché i pezzi, che d’esso si formano con tal
acquisto, divengono una Mercanzia tanto buona e tanto corrente, quanto lo sono i
pezzi, o sia la Moneta d’Argento, poco variando di pregio tra loro» (idem, 44).
22
In Mauss (1947) c’è un breve paragrafo (cap. 6) dedicato alla moneta, nel
quale Mauss si richiama essenzialmente, ma senza aggiungere molto, al saggio di
Simiand (1934), e al dibattito che suscitò all’Institut français de sociologie (idem,
59-86).
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Parte II - Moneta e debito
Occorre ritornare all’analisi del dono compiuta da Mauss per
comprendere meglio come quel tipo di scambio getti luce sulla
stessa moneta e indichi un diverso modo di intendere le origini
della moneta, che confuta l’illusione mengeriana di un darwinismo economico e monetario. Il dono è anzitutto un rapporto
obbligatorio originario molto complesso, fuori dalla logica utilitaristica dello scambio di mercato e largamente diffuso in società con una presenza molto marginale e rarefatta di forme di
proprietà privata (Mauss 1923-24, 191). Mauss chiama il dono un
«fatto sociale totale», crocevia di rapporti non strettamente economici e fortemente carichi di significati sociali, religiosi e politici. In un’importante introduzione all’opera e al pensiero di
Mauss, Claude Lévi-Strauss precisò il senso del concetto di «fatto
sociale totale» che vede rivolto a identificare gli elementi costitutivi di una realtà sociale: «il sociale – osserva Lévi-Strauss – è
reale solo se è integrato in un sistema» e se finisce per incarnarsi
anche in «esperienza individuale»23. È in questa prospettiva che
Lévi-Strauss vi vede una valenza tridimensionale composta da
aspetti sincronici, diacronici e di relazione fisio-psicologica (Lévi-Strauss 2000, xxx e le precisazioni ulteriori alle pp. xxxi-xxxiii).
La nozione della totalità di un fatto sociale come il dono rinvia a
un sistema di relazioni nel quale si ricompongono fenomeni tra
loro apparentemente distanti e con finalità distinte. Il dono arcaico non ha pertanto una sola dimensione. Come rapporto obbligatorio impegna un’intera collettività o, per essa, impegna il
suo capo a dare, a ricevere e a ricambiare (Mauss 1923-24, 217).
Proietta così quelle transazioni in una prospettiva di scambio intertemporale che tende a replicarsi indefinitamente (Mauss 192324, 210). Gli scambi di doni non hanno un saldo, non si estinguono, e presuppongono un ricominciare sempre da capo: il ciclo del
dono implica una serie di sovrapposizioni di doni e contro-doni
accavallati nel tempo. Mauss parla di «una serie di potlàc ricambiati all’infinito» (Mauss 1923-24, 209). È proprio questo carattere
a contraddistinguere il medesimo fondamento su cui poggiano il
23
ralismo.
Claude Lévi-Strauss (2000, xxix e xxx), opera fondatrice dello struttu-
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10 - Il problema delle origini della moneta
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dono e le relazioni di credito-debito. Il dono è una sorta di credito
che obbliga il ricevente a essere in debito e perciò a ricambiarlo e
a rimborsarlo, ma nel ricambiare si riaccende il credito-dono appena estinto; insomma, una prima forma arcaica di rollover credit,
o di debt-rollover ricorsivo.
Sini (2015, 62) chiarisce la natura del dono in termini lapidari:
«un indebitamento reciproco generalizzato e perpetuo». Indebitamento reciproco, perché ha un carattere sacrale e di consacrazione
di legami interpersonali; generalizzato in quanto l’indebitamento
coinvolge un’intera comunità, o i rapporti tra comunità e popoli;
perpetuo, perché la ricorrenza rituale evita la risoluzione, la fine
del ciclo dono-contro-dono, che aprirebbe un conflitto insanabile.
È perciò un rapporto simbolico tra persone, non un mero scambio di cose, e senza alcuna equivalenza e nessuna equità. È un
segno di fedeltà e riconoscimento che si rinnova. La sacralità del
dono e la sua ricorsività trova espressione precisa nella preghiera
solenne che re Davide formula, mentre sta compiendo le offerte
per il primo Tempio di Gerusalemme: «E chi sono io e chi è il mio
popolo, per essere in grado di offrirti questi doni volontari? Tutto
proviene da te e, dopo averlo ricevuto dalla tua mano, te l’abbiamo ridato» (1Cr 29, 14). Sini mette in luce la dinamica di doni
in eccedenza, di un continuo sentirsi in debito, un debito perpetuo incancellabile (Sini 2015, 63). Questo giustifica la sequenza
del dono e del contro-dono. L’altro aspetto importante sottolineato da Mauss, e ripreso da Sini nella sua sintesi genealogica del
dono, è il rapporto che gli uomini instaurano attraverso il dono
con la divinità. Il dono è un sacrificio di eccedenze, per la vita
ricevuta, per la vita protetta dal superiore, o dal sovrano, o dai
sacerdoti intercessori verso le divinità. La vita che continua e non
si perde è un dono che esige ringraziamento. La storia di Abramo, che offre il primogenito Isacco in sacrificio, va letta, secondo
Sini, nell’ottica di un contro-dono. Nello stesso senso va inteso il
sacrificio di Ifigenia, anche lei primogenita e vergine, per propiziare la conquista di Troia; e dal mito discende il calco di azioni
di sacrificio-dono, dimostrazione di magnificenza e di virtù, di
sentirsi in debito, in perpetuo, senza possibilità di cancellazione.
Sempre per Sini la «relazione di dono» va intesa come «l’evento
costitutivo stesso della humanitas» la cui condizione è quella di
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«essere in debito, e dell’essere in colpa» (Sini 2015, 61). Debito e
colpa – si ricordi l’identità lessicale nelle lingue germaniche (già
sottolineata da Nietzsche; v. Stimilli 2011, 208-13; e 2015) – derivano da un’originaria perdita – e successiva assenza – della condizione divina: una perdita di eternità, una imposizione di una
condizione di castigo, e una esposizione all’usura del tempo, che
nelle culture arcaiche e nei culti religiosi originari è attribuita a
una ribellione umana (la hybris dei greci), alla colpa del peccato
originale con la conseguente cacciata dal paradiso terrestre (Sini
2015, 55-6, 61).
Le tre Norne, fate della tradizione mitologica germanica, sono
donne possenti, anziane e sagge. Le tre fate, che emergono dalla
fonte nei pressi dell’albero cosmico Yggdrasil, filano i destini degli uomini. Sono le stesse richiamate nel ciclo wagneriano dell’Anello del Reno. Gimbutas (2005, 262) associa ai loro nomi di Urđ,
Verđandi e Skuld i rispettivi significati del “mutare” e del “divenire” per le prime due, e per Skuld quelli di “dovere”, “obbligo”,
“debito”, nel senso di morale, legge e destino. Ancora ai tempi del
poeta islandese Snorri Sturluson, nel XIII secolo della nostra era
e fino a tempi recenti, le credenze popolari attribuivano alle tre
Norne il potere misterioso di avere in mano i destini di ciascuno.
E ciascuno aveva un debito da saldare col proprio destino.
Come vedremo, la questione del debito originario sta alla
base dell’antropologia del dono, ma è anche uno snodo importante nella genealogia del credito e della moneta su cui ritorneremo
più avanti. Agamben (2012, 120-1) attribuisce al teologo gesuita
Francisco Suárez di aver sviluppato il tema della religio-virtù, soltanto sfiorato da Tommaso d’Aquino nella Summa. Nel trattato
Opus de virtute, et statu religionis (1608) di Suárez, il concetto di
debitum è posto al centro della definizione stessa di religione. Lo
statuto della religione è rendere a Dio il culto che gli è dovuto.
Per questo l’uomo è in debito. Il debito da rendere è il moto che
spinge l’uomo a onorare Dio e la religione stabilisce e consacra il
legame obbligatorio, in senso anche giuridico, che lo vincola alla
divinità. L’uomo virtuoso è pertanto quello che riconosce il debito e lo riconosce rendendo l’onore dovuto. La giustizia è appunto
rendere quanto dovuto. In questa ottica, il “rimetti a noi i nostri
debiti” è l’invocazione per esser tolti da una condizione di perdita
10 - Il problema delle origini della moneta
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e di essere ammessi alla pienezza di un’esistenza finalmente libera. «Nell’idea di un essere che si risolve integralmente – afferma
Agamben (2012, 122) – in un debito, in un aver da essere, diritto
e religione coincidono necessariamente». Per Suárez il dovere religioso è un «debito infinito», distinto dalla giustizia umana nella
quale il debito è estinguibile (Agamben 2012, 123). Se il debito è
inestinguibile, la virtù è un ideale irraggiungibile, inappagabile,
un dovere permanente e perpetuo che trova nell’imperativo categorico kantiano la più compiuta espressione filosofica.
L’etica concepita secondo doveri e non virtù era stata espressa
da Pufendorf, in De iure naturae et gentium (1672), «per dirigere e
temperare la libertà delle azioni umane volontarie e conferire alla
vita umana ordine e decoro» (cit. in Agamben 2012, 126). L’officium è perciò l’uniformazione dell’azione umana alle prescrizioni
della legge e della virtù, e il debito, il sentirsi in debito, è il dispositivo per rendere operativa l’azione del rispetto delle obbligazioni e dei precetti sociali da osservare. In questo senso, va inteso il
far promesse, il giurare: «il giuramento – come afferma Agamben
(2012, 137) –, forse il più antico degli istituti giuridico-religiosi,
implica un verbo all’imperativo».
Altre indicazioni importanti, che emergendo dall’archeologia
religiosa e dalla teologia della virtù permettono di comprendere
meglio la genealogia del debito e quella della moneta e del valore,
vengono da Yan Thomas (1943-2008), giurista francese e celebre
storico del diritto romano e moderno. Di lui Agamben, nel saggio
premessa a Il valore delle cose, sottolinea la profonda diffidenza
«verso quella concezione moderna del diritto che tende ostinatamente a confondere il piano del diritto e quello della vita, la
persona giuridica e l’individuo naturale» (Agamben 2015b, 10).
La tradizione giuridica occidentale – osserva ancora Agamben –
riposa sulla distinzione di fondo tra realtà giuridica e realtà naturale, la persona e la sua maschera giuridica. La dualità di anima e
corpo è un’acquisizione dell’elaborazione della teologia cristiana
del V secolo (Fortin 1959). La presenza nella persona umana di
due sostanze distinte, corpo e anima, una parte materiale contenitore di un’essenza spirituale, si ripropone nella tradizione
giuridica occidentale, nella quale il diritto si distingue dalla realtà naturale per dar consistenza e corpo a una realtà di sacro e
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profano, di pubblico e privato, in cui il valore e il prezzo – come
precisa Yan Thomas – dipendono dalla convenzione che ha fissato le «cose» (Thomas 2015, 72), e affinché le cose siano «valutabili, appropriabili e disponibili» devono, paradossalmente, essere
«escluse dall’area dell’appropriazione e dello scambio» per trovare destinazione in quella della tesaurizzazione, da cui possono
essere sottratte (Thomas 2015, 23).
Si ripropone un mondo duale nell’immagine e nella realtà
processuale, come era stato colto anche da Marx per la sostanza della merce: «cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza
metafisica e di capricci teologici» non appena si presenta come
valore, «cosa sensibilmente sovrasensibile» (1867, 86-7 [1.4]). I
capricci teologici sono, tra l’altro, quelli tra prezzo e valore, nel
cui passaggio «la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale,
trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale» che Marx
chiama «transustanziazione» e spiega con l’esempio di quel che
avviene, in un solo senso, tra «un’oncia d’oro, [che] è scambiabile
immediatamente con ferro, ma, in nessun modo, per il fatto inverso che il ferro sia da parte sua scambiabile immediatamente
con oro» (1867, 125 [3.1]; la stessa metafora la ripropone per il lavoro a p. 131 [3.2]). Marx aveva forse presente un passo di Hume
nel quale il termine di transustanziazione ritorna – come esamineremo meglio più avanti – per le promesse.
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Definiamo dono ogni prestazione di beni o servizi effettuata, senza garanzia di restituzione, al fine di creare, alimentare o ricreare il legame sociale tra le persone. (Godbout
1992, 30)
la signora Dulcinea del Toboso vi manda a chiedere quei
sei reali e il pegno è buono, evidentemente, non c’è che
da darglieli, che certamente deve trovarsi in brutte acque.
(Cervantes, Don Chisciotte della Mancia, II parte, cap. 23)
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20 braccia di stoffa hanno il valore di 3 soldi pisani e 42
rotoli di cotone valgono ugualmente 5 soldi pisani; si deve
cercare quanti rotoli di cotone sarebbero dovuti per 50
bracci di stoffa. (Fibonacci 2003, 180)
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10.4. L’antropologia del dono e le origini della moneta
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Il dono ha configurazioni tipiche nel potlàc praticato dalle tribù del Nordamerica occidentale studiate attraverso le ricerche
condotte da Franz Boas e John Reed Swanton, e nel kula praticato nelle isole Trobriand e analizzato da Bronisław Malinowski,
oltre che nelle forme di scambi rituali di altre popolazioni delle
isole del Pacifico. Mauss si rende conto dell’inadeguatezza lessicale e delle difficoltà di ricondurre le pratiche di dono entro le
categorie moderne dello scambio, specialmente entro quelle di
un utilitarismo sommario e riduttivo24. Il potlàc è un cerimoniale di dono competitivo nel quale la dissipazione e distruzione
di ricchezza hanno la funzione di far guadagnare prestigio al
donatore attraverso la sovrabbondanza di cose riversate sul beneficiario in modo da farlo sentire indebitato25. Ma c’è di più. Il
rapporto di dono e contro-dono obbligatorio è, al tempo stesso, liberale, nel senso che la controprestazione non è pattuita
né sempre esercitata, si perfeziona senza alcun prezzo, né calcolo preciso di pesi e misure, non c’è contrattazione nelle forme
commerciali consuete. Come scambio rituale, il dono coinvolge
– come detto – una collettività tribale e la vincola in maniera irrevocabile (Mauss 1923-24, 261). L’obbligatorietà dipende direttamente dall’istanza religiosa e magica che si celebra nel dare, ricevere e ricambiare26, perché l’oggetto donato incorpora l’anima
del donatore e chi lo riceve si sente anzitutto in obbligo verso gli
dèi, ha maturato un vincolo che solo il sacrificio può sciogliere e
liberare per allontanare gli spiriti (Mauss 1923-24, 178)27. Il dono
Falcioni (2018) entra in tutte le ambiguità e le contraddizioni relazionali
del dono partendo da un acuto commento del romanzo di J.M. Coetzee, Slow man.
25
Sull’aspetto competitivo del dono cfr. Seneca (in I benefici - De beneficiis,
I, 4) rivolto a Ebuzio Liberale dice: «mostrami come gareggino l’animo di chi fa
il beneficio e di chi lo riceve, sicché chi ha dato dimentichi e chi è in debito se ne
ricordi sempre».
26
Michéa (2012, 44) annota come gli obblighi del dono («dare, ricevere e
rendere») appaiono del tutto già invertiti al tempo delle corti dell’ancien régime,
come emerge dalla definizione ironica che Beaumarchais (Le nozze di Figaro, atto
II, scena III) dà della pratica dei cortigiani suoi contemporanei come sottoposta al
triplice «obbligo» del «ricevere, prendere e chiedere».
27
Presso i Maori lo hau è lo spirito delle cose e veicola il mana, ossia la
forza magica (Mauss 1923-24, 168-9). Una critica a Mauss su questo punto è proprio da parte di Lévi-Strauss laddove sostiene: «Mauss si ostina a ricostruire un
24
262
Parte II - Moneta e debito
ha perciò un doppio carattere, da un lato, quello di legame sociale e, dall’altro, quello di rivalità. Lévi-Strauss ha documentato che in molte società primitive lo scambio delle donne era considerato il “dono supremo”, in particolare quello delle mogli era
alla base di sistemi parentali e forme di rafforzamento dei rapporti comunitari28. La rivalità che si sviluppa con l’atto del dono
ha un carattere magico, che va oltre il mero fenomeno giuridico,
per dar significato a un rito religioso e sciamanico. Il dono è un
rito ambivalente. Nel dono e contro-dono si stabiliscono tra le
parti una reciprocità e un antagonismo. L’antagonismo non è
tanto nell’accumulo di ricchezza e nell’ostentazione della medesima, quanto nel mostrare sia di averne così tanta che di poterne fare a meno. Le molle della rivalità e reciprocità sono quelle
che conferiscono al dono la dimensione intertemporale, che è
costitutiva delle relazioni comunitarie e intercomunitarie come
quelle di “buon vicinato”29. Ma quello che qui maggiormente
importa notare è che il ciclo del dono «dare, ricevere e rendere»
implica una dimensione temporale, per la quale, negli intervalli
fra il dare, il ricevere e il rendere, prendono forma simbolica i
sentimenti dell’essere in colpa o in debito (che motivano i gesti
del dono e della resa del contro-dono) oppure della temporanea remissione di quest’ultimo ovvero nell’essere momentaneamente in credito (sia dopo il dono che dopo la restituzione del
contro-dono). Va inoltre annotato che il ciclo del dono e dei suoi
sentimenti simbolici è in realtà sempre asimmetrico, nel senso
che l’inizio del ciclo, il dono, non è un credito come, per analo-
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tutto con delle parti» e si domanda «Non ci troviamo qui davanti a uno di quei
casi (che non sono rari) in cui l’etnologo si lascia mistificare dall’indigeno?», ma
qualche pagina prima aveva anche detto che «i simboli sono più reali delle cose
che rappresentano, il significante precede e determina il significato», riferendosi
proprio al mana (Lévi-Strauss 2000, xlii e xxxvi, rispettivamente). Cfr. Appadurai
(1986, 5), dove osserva che le cose «si animano» (enliven) attraverso la loro trasmissione, acquistano di significato quando muovendosi fanno luce sul contesto
umano e sociale.
28
Il capo tribù dei Tupi-Kawahib nel Brasile gode del privilegio della poligamia e della possibilità di prestare le sue donne a compagni e stranieri;
Lévi-Strauss (2008, 373 [VIII, cap. XXXIV]). Sugli scambi di donne Lévi-Strauss
parla anche in La pensée sauvage, cap. IV (idem, 672-3).
29
Cfr. la raccolta di “classici” in Komter (1996) e v. Komter (2005).
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gia, si potrebbe pensare, ma è solo un momento di remissione
temporanea del debito originario (che è il motivo innescante del
ciclo), che ritorna presto ad essere interamente presente e gravante al momento della ricezione del contro-dono e che allora
richiede subito un nuovo alleggerimento attraverso la resa di un
altro dono. Tuttavia questa considerazione non significa che sia
sempre il debito che genera il credito, sebbene questa sia la sua
originaria relazione. Possiamo vedere, per analogia, il ciclo del
dono G-C-G’, cioè dono (gift) - contro-dono - dono per rendere il
contro-dono, come il ciclo marxiano dello scambio tradizionale
M-D-M’, che, a un certo punto della storia, il capitalista, trasforma in D-M-D’; in questo caso, l’analogia sta a significare che,
a un certo punto della storia, qualcuno (un potere già formato
come la casta sacerdotale o un “corpo” di usurai-banchieri) trasforma il dono iniziale, non in una propria remissione di colpa,
ma in una intenzionale creazione di colpa per il ricevente che
costituisce anche una creazione di potere sul medesimo.
Quindi, il carattere intertemporale del dono si lega strettamente a quello di credito e debito. Nelle comunità arcaiche il
dono, configurandosi anche come pegno, stabilisce un rapporto
creditizio improprio, com’è improprio lo scambio che si realizza col dono. L’economia del pegno dipende, anche in origine, da
quella del deposito, cioè del creare riserve di beni. Queste riserve
avevano due scopi: i) prevenire i tempi difficili delle carestie; ii)
utilizzare a fini strategici le disponibilità di merci per poter esercitare un controllo sul mercato o evitare di dipendere dalle eventuali
sfavorevoli condizioni contingenti del medesimo. Dai tempi mitici di Giuseppe e di Faraone i magazzini rivestono un’importanza
strategica per far fronte ai periodi di vacche magre. Per i mercanti
le scorte svolgono la stessa funzione e, quando sono in molti a
operare con scorte e disponibilità rilevanti di depositi merci o valori, i mercati traggono slancio nel senso di dar regolarità alle attività di scambio, profondità alle transazioni, rappresentatività ai
prezzi. Con una presenza costante di operatori professionisti che
intervengono non solo per vendere tutto quanto hanno nelle loro
disponibilità di offerta, ma attendono occasioni migliori, mettono
da parte, speculano, è raro che ci siano situazioni limite di domanda insoddisfatta o di un’offerta senza controparte: il mercato
264
Parte II - Moneta e debito
mantiene una sua liquidità30. Paolo Napoli (2014, 114-22) ha, poi,
individuato la genealogia del deposito nella pastorale paolina dei
primi cristiani e nelle dottrine giuridiche, sia per la conservazione
della fede che per il rafforzamento della fiducia31. La moneta, nei
vari involucri fisici in cui si concretizza di volta in volta – sia in
bestiame, collane, token, o metalli non coniati e coniati –, dà mobilità a un pegno che è ceduto a garanzia di un credito32. Nell’Inghilterra vittoriana anche le commodities devono possedere – ed
essere anche immagine – di liquidità e mobilità (portability) tra un
continente e la madrepatria e possedere un valore libero di trasferirsi su una piazza di mercato divenuta mondiale33. Anche quan-
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In Conti (2011) si discute dei problemi di formazione di mercati ampi e
robusti sulla scorta delle analisi di Hicks (1992).
31
All’inizio del I secolo d.C. Filone d’Alessandria affermò che «il deposito
è il più sacro atto istituzionale della vita sociale […] perché riposa sulla buona
fede del depositario». Commenta Napoli: «Non tradire la fiducia altrui è ovviamene un requisito fondamentale del buon ordine sociale. Tuttavia ciò non basta a
giustificare i toni enfatici di Filone, che invece insistono su un altro aspetto: contrariamente agli altri crediti contrattuali, per es. il prestito, che sono documentati
oppure confermati da testimoni, il deposito si svolge nella riservatezza delle parti,
mentre l’unico testimone che sancisce l’accordo tra depositante e depositario è
Dio» (Napoli 2014, 116). Nel diritto romano il depositum è uno degli atti produttivi
di debito, attraverso l’affidamento di una res in custodia presso un depositario,
obbligato a conservarla e a restituirla, e la datio pignoris è il trasferimento di una
cosa a un creditore a titolo di pignus (Guarino 1981, 284). La questione del deposito così intesa è qui rilevante per i fondamenti del pegno senza i quali il credito,
quando vengono meno i vincoli comunitari e fiduciari più stringenti, può essere
scarso, richiedere condizioni esose, essere sottoposto a forti restrizioni per non incorrere in rischi crescenti. La questione del deposito può essere accostata a quella
della “cosa pubblica” di cui si vedranno le implicazioni a partire dalle riflessioni
di Mauss e Yan Thomas.
32
È interessante notare le pratiche nel pagamento dei salari nelle quali –
secondo Isidoro di Siviglia – la moneta si pesa e non si conta: «Stipendio è, invece,
vocabolo derivato dall’espressione stipem pendere, che significa pesare la moneta:
gli antichi, infatti, erano soliti soppesare il denaro, piuttosto che contarlo. Il nome
moneta deriva dal verbo monere, che significa ammonire, riferito alla proibizione di
ingannare sul metallo o sul peso. Il nomisma è un solido d’oro, d’argento o di rame,
così chiamato in quanto riporta il nome e l’effigie dei prìncipi» in Isidoro (2013,
[libro XVI, XVIII, 9-10]). Emerge da qui il segno e il senso di moneta-pegno.
33
La dimensione culturale del trasferimento delle proprietà è descritta
mirabilmente in Plotz (2008, 41-4). Pertinenti anche le osservazioni di Appadurai sulle dimensioni culturali della mercificazione dei beni. Egli parte dalla
10 - Il problema delle origini della moneta
265
do il segno monetario è ceduto per regolare una compravendita e
tale cessione sembrerebbe, ad occhi moderni, chiudere il rapporto
– infatti oggi il pagamento estingue immediatamente ogni altro
tipo di obbligazione –, invece, ab origine resta e viene trasferito
un pegno che ha la proprietà di serrare in sé lo spirito di chi lo ha
ceduto e costui farà in modo di riprenderselo34. È un pegno che,
secolarizzandosi, tutti sono disposti a prendersi nella fiducia che
altri lo faranno in futuro, anche solo per abitudine. Mauss, quasi
di passaggio, fa un’osservazione molto rilevante sulle origini della moneta. Egli considera la moneta una specie di pegno tenuto in
garanzia da chi cede dei beni a credito: «Il carattere religioso delle
cose scambiate è evidente, in particolare quello della moneta, del
modo in cui essa rimunera i canti, le donne, l’amore, i servizi;
come alle Trobriand, essa è una specie di pegno» (Mauss 192324, 204)35. L’intuizione non viene sviluppata, ma come nel caso
Questo
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«gabbia d’acciaio», ossia dall’etica del capitalismo contemporaneo, e osserva,
infatti, che Max Weber «vede il mondo moderno svilupparsi come una gabbia
d’acciaio, e ha previsto che lo sviluppo dell’immaginazione sarebbe stato arrestato dalle forze del consumismo [forces of commoditization], del capitalismo
industriale e dalle forme di controllo generalizzato [generalized regimentation] e
di secolarizzazione del mondo» (Appadurai 2007; ma dalla vers. orig. del 1996,
p. 6, per le integrazioni nella citazione).
34
Un esempio della funzione di pegno è quello del wampum utilizzato
anche dai coloni olandesi e poi inglesi come moneta fino al XVIII secolo e, per
alcuni periodi, persino come moneta legale (Davies 2002, 41). Il wampum era una
cintura di conchiglie che le tribù indigene della costa atlantica del nord America
riservavano per fini cerimoniali e di socialità, come lo scambio di doni, i riti religiosi e per siglare accordi importanti. I coloni giunti dall’Europa non attribuivano,
ovviamente, lo stesso valore magico, ma compresero presto che per gli scambi di
pelli e di altri beni con le tribù indiane, quell’oggetto aveva il valore di un pegno e
l’indiano che lo aveva ceduto, in cambio di beni forniti dai coloni, avrebbe fatto di
tutto per riottenerlo in una successiva transazione. In mancanza di specie monetarie in circolazione, per le stesse proibizioni poste dall’Inghilterra a istituire una
zecca nelle colonie, il wampum divenne un mezzo monetario anche per gli scambi
interni alle comunità puritane. Ciò mostra bene come il valore magico-sacrale attribuito a un oggetto, di per sé di scarso valore, possa fungere da ottimo pegno
e servire a regolare pagamenti anche tra coloro che lo considerano un semplice
cimelio barbarico. Sulle funzioni magico-monetarie del wampum v. Mellor (2019,
39-41); Einzig (1966, 165-6); Gregory (1996, 200). Cfr. anche par. 12.3.
35
Mauss introduce inoltre il concetto di «moneta di rinomanza» per tutti
quei beni fondamentali per un dignitoso potlàc (Mauss 1923-24, 233-9).
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Parte II - Moneta e debito
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del dono anche il pegno ha insito una sorta di controprestazione.
La moneta è il pegno che, invece di ritornare a chi ha donato,
può cominciare a passare da una mano all’altra per la fiducia che
difficilmente verrà disprezzata. Infatti, in economie pervase di
elementi magico-religiosi «la moneta – sottolinea Mauss – ha ancora un potere magico ed è ancora legata al clan o all’individuo»
(Mauss 1923-24, 278). Tutto avviene senza prezzo, ma secondo
un’etichetta rituale scrupolosa, e non nelle forme prosaiche del
mercato «dove, oggettivamente, si ha una cosa in cambio di un
prezzo» (Mauss 1923-24, 261).
Da Galiani a Beccaria si riscontrano definizioni analoghe di
una moneta metallica che è pegno di valore. In Galiani la moneta
«apprezza» le cose, per compiere «questo uffizio» non può che
essere reale. Galiani porta a compimento il concetto di moneta
metallica non alterabile per decreto sovrano, pena di pagarne tutte le conseguenze in termini di potere d’acquisto diminuito. Ma la
definizione di moneta che egli postula resta ancora ambigua, nel
senso che si richiama ancora alla moneta intesa sempre come pegno sovrano. La definizione seguente lascia pochi dubbi: «Moneta
sono pezzi di metallo, per autorità pubblica fatto dividere in parti
o eguali o proporzionali fra loro, i quali si danno e si prendono
sicuramente da tutti come un pegno e una sicurezza perpetua di
dover avere da altri, quandoché sia, un equivalente a quello che
fu dato per aver questi pezzi di metallo». Ma, significativamente,
con la frase seguente Galiani si preoccupa di ristabilire il senso
della sua affermazione per ribadire il carattere “non sovrano”,
impolitico, della moneta: «Abbastanza mi par chiara questa definizione, né credo che ad alcuno potrà nascere difficoltà, riguardando a quelle compre in cui vi è frode o inganno: perché bisogna
pensare che i prezzi e i contratti si valutano in moneta ideale e si
eseguiscono in reale; laonde gli errori cadono sempre nel misurar
male una cosa sulla sua comune misura, che è la moneta ideale:
non cadono sulla reale» (Galiani 1750, 60 [libro I, capo iv])36. AlSul Della moneta di Galiani la letteratura è ampia, ma si rinvia specialmente a Giocoli (1999, 70) che osserva come in Galiani: «La moneta è essa stessa
una merce, essendo coniata in metalli che possiedono altri utilizzi» e «il valore dei
metalli preziosi è regolato dai principi generali della teoria del valore». Cfr. anche
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tri pensatori italiani del periodo mantengono ancora il medesimo
doppio registro: da una parte, par di capire, non c’è moneta senza
impronta di sovranità, dall’altra, quell’impronta vale solo se c’è
corrispondenza con l’intrinseco. Anche Pompeo Neri sviluppa il
concetto in questi termini: «La Moneta non è pura misura, o rappresentazione del valore, il che può farsi anco della carta, ma è, e
deve essere insieme pegno dello stesso valore» (Neri 1751, 38 [V,
5]). Neri sta quindi sottoscrivendo quasi alla lettera la seguente
definizione di Nicolas Dutot: «La Moneta d’oro o d’argento è non
solo una misura comune; è anche un baratto o un pegno, che ha
un valore reale come le altre Merci». Dutot aggiunge il senso e il
compito dei Lumi in materia monetaria: «Il Popolo poco illuminato ha bisogno di un tale pegno, per garantirlo contro l’autorità, almeno finché non veda che non ha più nulla da temere da
quella parte» (Dutot 1738, I, 234-5 [ch. I, art. x]). Qualche anno
dopo anche Beccaria ribadiva il concetto inquadrato nell’ambito
delle obbligazioni commerciali. Nelle edizioni moderne di Dei delitti e delle pene, il capitolo 34, dedicato a “Dei debitori”, esordisce
con la constatazione che il legislatore è costretto a intervenire per
dar sicurezza alla «buona fede dei contratti». Lo fa distinguendo
il fallimento in due fattispecie: semplice e fraudolento, per non
confondere chi fallisce con onore e chi fa bancarotta per frode.
Beccaria assimila quest’ultima fattispecie alla stessa falsificazione
di monete «poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è
un pegno delle obbligazioni de’ Cittadini, non è maggior delitto,
che il falsificare le obbligazioni stesse» (Beccaria 1764, 89). Anche Beccaria sottolinea nella moneta la proprietà di essere pegno
di parola data. Alla moneta, in conio, egli attribuisce la funzione
speciale di strumento di misura del valore, come la libbra e l’oncia per il peso, il piede e il braccio per la lunghezza. Con qualcosa «di più» perché «sono le monete come un pubblico pegno per
chi le riceve di avere da altri l’equivalente di quel che ha dato;
né sono puramente misure, come la libbra e il braccio, cioè nude
e mere rappresentazioni, ma bensì sono misure inerenti ad una
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il fasc. 3 di «History of Economic Ideas», 9, 2001, con saggi dedicati al pensiero
monetario di Galiani e, inoltre, Cesarano (1976) e Costabile (2016).
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Parte II - Moneta e debito
mercanzia divenuta la base del commercio» (Beccaria 1770, 398,
corsivo in originale [parte I]). Beccaria ritorna sull’equivalenza
moneta-pegno in altre parti e scritti, per ribadire che la moneta, in
quanto «pegno e sicurezza di ottenere una determinata quantità
di cose necessarie o desiderate» (Beccaria 1822, 241 [parte iv]),
debba mantener fede alla sua qualità di bene “pubblico”, senza il
quale i privati difficilmente darebbero consistenza alla loro “buona fede”. La dicotomia privato/pubblico nelle questioni monetarie pare risolversi ad anello: il mondo privato esige dal pubblico
che stabilisca la fiducia, e l’autorità pubblica è “costretta” (è il verbo usato da Beccaria) a servire, altrimenti il privato non potrebbe
assolvere il compito gravoso di dar fede a se stesso. La fede e la
fiducia si stabiliscono in una relazione e non hanno molto senso
al di fuori di essa.
La moneta è dunque pegno e misura di fiducia. Rispetto a
quest’ultima definizione della moneta, non va trascurato quanto
nella letteratura di archeologia monetaria si sia insistito, giustamente, sulla nozione della certificazione. A riguardo è essenziale
rinviare al saggio di Grierson (2001) sulle origini della moneta37.
Mauss insiste sulla attribuzione originaria di un potere magico – il mana dei melanesiani, equivalente al dzó degli indigeni
del Togo – agli oggetti-moneta. La moneta anche nella sua evoluzione successiva si porta dietro il requisito sacro assegnato,
nelle tribù dei Kwakiutl del nordovest americano, al logwa ossia
al talismano, rappresentato dai beni parafernali dei clan, usato come moneta nei potlàc tra tribù diverse38. La moneta, anche
in epoche molto più recenti, trattenne quei poteri magici che le
conferivano lo statuto di garanzia speciale negli scambi di beni e
negli scambi di doni, per divenire anche misura di valore, indipendentemente dal tipo di oggetti trasferibili e accettati da tutti,
in cui si concretizzava l’essenza della moneta. Tutto deriva dal
mana, che nelle popolazioni della Malesia, Melanesia e Poline-
37
Sulla questione anche Parise (2000) e il saggio, breve ma incisivo, di
Ciocca e Travaini (2010).
38
Il saggio di Mauss (1914) uscì tra i Comptes-rendus des séances dell’Institut français d’anthropologie, in trad. it. Le origini della nozione di moneta, in Granet e Mauss (2001, 49-55; per i riferimenti nel testo a 51-2).
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sia, «designa non soltanto il potere delle sostanze e degli
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magici, ma anche l’autorità degli uomini» (Mauss [in Granet eene
Mauss 2001, 54]) e sono gli oggetti a cui è attribuito il mana ad
avere un potere di comando su altri uomini e altri oggetti. Là
dove il credito non garantito è meno sicuro del pegno, il pegno
in moneta di metallo prezioso svolge un ruolo essenziale per
portare comunque a compimento la transazione. «Gli uomini –
osserva Mauss – hanno impegnato il loro onore e il loro nome
molto prima di saper firmare» (Mauss 1923-24, 216). E l’oro e
l’argento, per la convenzione delle loro qualità magiche e valoriali, hanno permesso di disimpegnare le parti da più complesse
transazioni intertemporali.
L’articolo di Mauss del 1914, molto breve e occasionale,
sull’origine della nozione di moneta, avanza intuizioni che, altrettanto fuggevolmente ma in maniera incisiva, sono riprese e
rielaborate nel saggio sul dono di circa dieci anni successivo,
dove l’autore precisa ulteriormente le caratteristiche del vincolo
dono-moneta. La moneta discende dal dono per il carattere di
vincolo e di pegno, di simbolo che nella vita sociale tiene insieme gli individui dentro una comunità e li mantiene in pace con
le comunità limitrofe, attraverso un rapporto rituale di dare e
avere, un rapporto che non è mai unilaterale e prescrive sempre
un ritorno in senso inverso. Il pegno monetario esprime questo
ciclo di andata e ritorno e, quando dal dono si trasferisce nelle relazioni contrattuali, anche in queste la moneta mantiene la
forza di pegno fiduciario col quale poter comprare tutto, prima
ancora di concretizzarsi in metalli preziosi ricercati e di valore
magico, come ci ricorda anche Bernstein (2008). Quando i traffici
aumentano di intensità e distanze, i contatti tra popolazioni diverse diventano spesso più sporadici e, mancando le occasioni
per rafforzare su un piano fiduciario i loro rapporti, il ruolo di
intermediario ricoperto dal pegno risulta necessario, per quanto esso debba comunque condividere qualche segno comune
di culture magiche peraltro diverse, al fine di poter adempiere
pienamente alla regolazione immediata e definitiva dei rapporti
reciproci di scambio. Lo scambio di un pegno-moneta diventa
allora il nudo e crudo mezzo di transazione di beni conosciuto
nella teoria economica moderna.
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Parte II - Moneta e debito
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In un altro passaggio, incluso in una lunga nota sulla “nozione di moneta”, la critica di Mauss è rivolta a Malinowski39, il
quale, anche nei suoi Argonauts (1922), aveva ritenuto un abuso
l’utilizzo del termine di moneta quando essa non serve da misura
di valore ma solo da mezzo di scambio. A parte ciò, Mauss precisa
che, in società senza coniazioni di monete, un equivalente di moneta è attribuito a oggetti essenziali per «scambi-obbligazioni»,
infatti:
ci sono state altre cose, pietre, conchiglie, metalli preziosi in particolare,
che sono stati usati e sono serviti da mezzo di scambio e di pagamento;
presso società che ancora ci circondano, funziona di fatto questo sistema.
Continua:
È vero che tali oggetti preziosi differiscono da quelli che noi abbiamo
l’abitudine di considerare mezzi liberatori […] essi hanno piuttosto un
carattere magico e sono soprattutto dei talismani: life-givers […] hanno
sì una circolazione vastissima all’interno di una società ed anche tra
le società; ma sono ancora legati a persone o a clan (le prime monete
romane erano coniate da gentes), all’individualità dei loro antichi proprietari
e prosegue:
Il loro valore è ancora soggettivo e personale. Per esempio, le monete di
conchiglie infilate, in Melanesia, vengono ancora misurate col palmo del
donatore. […] È vero altresì che questi valori sono instabili e che mancano del carattere proprio del campione, della misura: per esempio, il loro
prezzo cresce e decresce secondo il numero e la grandezza delle transazioni in cui sono stati utilizzati. Malinowski paragona molto graziosamente i vaygu’a delle Trobriand [gli oggetti di scambio che per Mauss
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Mauss (1923-24, 198n.) fa riferimento a un articolo: Primitive Currency, in
«Economic Journal», del 1923, mai comparso in quella rivista con quel titolo. Egli
si riferisce di certo all’articolo di due anni prima, col titolo di Primitive Economics,
nel quale si parla anche di «primitive money» riguardo a segni (tokens) di ricchezza, con importanti considerazioni da parte di Malinowski (1921, 13) quando
precisa che è «evidente che “moneta” nel nostro senso non può esistere presso i
trobriandiani», e nemmeno la «parola [moneta] circolante (currency) – diversa da
“moneta” per quello che è un oggetto d’uso così come mezzo di scambio – non ci
aiuta molto in questo caso».
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10 - Il problema delle origini della moneta
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sono «una specie di moneta»], che acquistano prestigio nel corso dei loro
spostamenti, con i gioielli della corona. Anche gli oggetti di rame con
blasoni del Nord-ovest americano e le stuoie delle Samoa aumentano di
valore ad ogni potlàk, ad ogni scambio» (Mauss 1923-24, 189n.)40.
Con maggior precisione, Mauss aggiunge, appunto, che «il
dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito» conosciuta dalle società arcaiche (Mauss 1923-24, 211). Sebbene
Mauss lasci sospeso il concetto, che legherebbe dono e credito,
uno sviluppo sul tema lo si rintraccia in una nota dove afferma:
«Secondo noi, l’umanità ha brancolato per lungo tempo. Innanzitutto, in una prima fase, ha scoperto che certe cose, quasi tutte magiche e preziose, non venivano distrutte dall’uso, e le ha
dotate di potere d’acquisto» (Mauss 1923-24, 190n.). Un potere
d’acquisto derivato da quel potere magico che le quasi-monete
avevano nel potlàk quando erano pegno di dono e contro-dono,
ed erano ancora cariche di un’eredità di virtù extra-materiali
quando sono poi servite a far circolare le cose fuori dalla tribù,
fino a che, in uno stadio successivo che Mauss fa risalire alle
società semitiche, quelle quasi-monete si sono staccate del tutto
dai gruppi e dalle persone originarie, perdendo il carattere animistico per diventare «strumenti permanenti di misura di valore» (Mauss 1923-24, 190n.).
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Sulle monete primitive v. Dalton (1965).
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Capitolo 11
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IL DEBITO ORIGINARIO
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11.1. La moneta merce tra merci e la sua mitologia evolutiva
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A prima vista una merce sembra una cosa triviale e ovvia.
Dalla sua analisi risulta invece che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezze metafisiche e capricci teologici.
(Marx 1867, 86-7 [1.4])
la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale, trasformarsi da oro soltanto rappresentato in oro reale, benché
questa transustanziazione le possa riuscire più “aspra” di
quanto riesca al “concetto” hegeliano la transizione dalla
necessità alla libertà. (Marx 1867, 125 [3.1])
La dea [Dike] mi accolse benevolmente […] Non è un potere maligno quello che ti ha condotto per questa via […],
ma un divino comando e la giustizia. Bisogna che tu impari
a conoscere ogni cosa, sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità. (Parmenide, Sulla natura, I, corsivi
nostri)
Se si torna a leggere il breve saggio sulle origini della nozione di
moneta scritto da Mauss nel 1914, ci si rende conto che, per quanto appena abbozzato in forma di conferenza, esso rappresenta
una replica alla versione mengeriana delle origini della moneta1.
Per Mauss la moneta «non è per nulla un fatto materiale e fisico,
è essenzialmente un fatto sociale; il suo valore è quello della sua
forza d’acquisto, ed è il metro della fiducia che in essa si ripone»
(Mauss 1914 [in Granet e Mauss 2001, 49]).
La diatriba sulle origini della moneta ha animato il dibattito di fine Ottocento e, a più riprese, quello dei decenni successi-
Mauss non cita Menger, ma era a conoscenza del modello evolutivo
– dal baratto alla moneta per finire al credito – affermatosi ormai da decenni tra i
teorici dell’economia, anche attraverso molti altri contributi di economisti prima e
dopo quello più sistematico di Carl Menger.
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Parte II - Moneta e debito
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vi2. Per la scuola neoclassica di Carl Menger, la moneta emerge
dalle spontanee trattative commerciali per facilitare gli scambi e
superare le difficoltà del baratto. La moneta, essendo una merce
come tutte le altre, si impone come mezzo di scambio universale
solo perché è una tecnologia di pagamento, un mezzo appunto,
per ottimizzare la facilità di trasferire valore a compensazione di
altri valori. In altre parole la moneta è quella merce selezionata
per ridurre i costi di transazione. La sequenza logica-storica di
Menger, che va dal baratto alla moneta e, poi, al credito, segue un
percorso dal semplice al complesso. Soltanto che, di fatto e anche
in teoria, il baratto non è affatto la forma più semplice di scambio,
semmai è la più complessa e soprattutto la più difficile da realizzare senza una misura di valore, ossia una moneta. Quel che
interessava a Menger era spoliticizzare la moneta, toglierla dalla
disponibilità di interventi di autorità che potevano solo alterarne
il valore. Lasciata invece alla spontaneità delle transazioni di mercato (l’«ordine spontaneo del mercato» di Hayek e della scuola
austriaca di economia) la moneta, sub specie merceologica o metallica, esibiva un prezzo che rifletteva solo l’inverso del valore delle
altre merci (ossia il potere di acquisto della moneta, o del metallo
che la concretizzava), e un prezzo determinato dal confronto tra
offerta e domanda, sia del metallo monetato che, per riflesso, del
“paniere” di beni e servizi rappresentativo3. In questo modo la società non ha istituzioni sociali, ma «strumenti» e la moneta è uno
strumento. Le «istituzioni organiche» di Menger non sono altro
che strumenti tecnici per risolvere problemi, non vivono di vita
propria e sussistono finché vige l’accordo che le ha rese possibili4.
2
Importante, e di segno opposto all’impostazione di Menger, l’opera del
1905 di Knapp (1924).
3
Questo è quanto emerge nel saggio dell’allievo di Menger, Ludwig von
Mises (1923, t. 164, 2a parte).
4
Occorre precisare che quando Menger parla di istituzioni sociali intende
le istituzioni «organiche», nate non per progetto ma spontaneamente; cfr. ad es.
il passo seguente: «Il denaro non è una creazione della legge. Nella sua origine, è
un’istituzione sociale e non statale. La sanzione da parte dell’autorità dello Stato
è estranea a esso. E tuttavia, attraverso il riconoscimento e la regolazione da parte
dello Stato, l’istituzione sociale del denaro è stata perfezionata e adattata ai molteplici e vari bisogni di un commercio in evoluzione, esattamente come il diritto
Q
11 - Il debito originario
275
Hayek esprime chiaramente lo stesso concetto: «Gli strumenti
base della civiltà – linguaggio, morale, diritto e moneta – sono
tutti il risultato di uno sviluppo spontaneo e non di un progetto
intenzionale; il potere organizzato si è impadronito degli ultimi
due e li ha totalmente corrotti» (Hayek 1973-79, 542). Lo “sviluppo spontaneo” non è altro che l’«ordine spontaneo del mercato»,
di un mercato inteso non come un’istituzione, ma elemento primordiale e fondativo delle relazioni sociali, che non ha bisogno
di essere spiegato, né in un senso logico né, tantomeno, in senso
storico5. Il mercato non ha origine, perché lo scambio è – come
in Smith – connaturato e istintivo nell’uomo, perciò si può dire
solennemente “in principio era il mercato”. Poche pagine prima
Hayek si contraddice6, quando spiega che la società “aperta” per
affermarsi aveva bisogno di infrangere «alcune regole innate»,
cioè liberarsi da non meglio precisate «strutture innate» di regole, che per giustificare il senso della liberazione dovevano essere
necessariamente regole di carattere autoritario (Hayek 1973-79,
538-9). Questo, Hayek non lo dice esplicitamente, ma è quanto
lascia trasparire dal passo seguente in cui l’uomo «membro di
quella piccola tribù a cui doveva aderire per sopravvivere, […]
consuetudinario è stato perfezionato e adattato dalla legge emanata dal potere
pubblico» in Menger (2013, 215). Quel che Menger chiama processo «organico»
è l’evoluzione naturale della moneta selezionata attraverso scambi di merci e per
scoperta progressiva, inintenzionale e senza progetto, né interventi di autorità, di
quella merce che più di altre ha la caratteristica di essere «commerciabile» (marketable) (idem, 209).
5
Un critico del ricorso a metafore biologico-naturalistiche è Nietzsche.
In Al di là del bene e del male (1886, § 22) Nietzsche afferma: «da vecchio filologo,
non posso fare a meno di mettere il dito sulle cattive arti interpretative: ma quella
“conformità a legge della natura”, di cui voi fisici parlate con tanta fierezza – quasi
che sussistesse soltanto grazie alla vostra interpretazione e cattiva “filologia” –
non è uno stato di fatto, non è un “testo”, ma solo un accomodamento ingenuamente umanitario e una distorsione di senso».
6
Sulle numerose contraddizioni logiche del neoliberalismo hayekiano e
dell’intero impianto della sua teoria del diritto, e – possiamo aggiungere – anche
della lingua e della moneta, è fondamentale il prezioso e puntuale libro di Pecora
(2002). A p. 65 osserva: «A volerla mettere sotto forma di dilemma, potremmo dire
così: quando la soluzione di Hayek è coerente è inefficace, e quando è efficace è
incoerente» e a p. 66: «le contraddizioni di Hayek mettono a repentaglio le sorti di
una società libera».
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era tutto tranne che libero»; la sua liberazione esce fuori dal nulla,
spontaneamente l’uomo rompe il guscio sottile della condizione
tribale e di servitù (Hayek 1973-79, 542)7. Infatti, la frase seguente
ha il sapore e la sostanza di una petizione di principio: «La libertà
fu resa possibile dall’evoluzione graduale della disciplina della
civiltà che è allo stesso tempo la disciplina della libertà» (Hayek
1973-79, 543, il corsivo presente nell’originale è stato tolto). Le
regole della libertà si impongono, paradossalmente, grazie alle
regole dell’oppressione: «dobbiamo la nostra libertà alle limitazioni della libertà» (Hayek 1973-79, 543 e cfr. p. 120 per «la legge
della libertà»). Insomma, le regole del mercato come quelle della
libertà (intese spesso come sinonimi) sono, per Hayek, innate nel
senso – se vogliamo interpretarlo in un modo che sia emendativo
della sua contraddizione – che sono inscritte nella natura che si
evolve, come prima lo erano le regole opprimenti. Nel racconto
biblico della fuga dall’Egitto, la via della liberazione era più spinosa di quanto possa concepire Hayek, e la sua religione dell’«in
origine era il mercato», come anti-Logos, è del tutto autosussistente come – appunto – una generazione spontanea. Due naturalisti italiani, Francesco Redi (1626-1697) e Lazzaro Spallanzani
(1729-1799), sconfessarono, nella nascente biologia moderna, la
credenza, fino ad allora molto diffusa, che la vita potesse sorgere
spontaneamente da sostanze inanimate (Agnoli e Pennetta 2012,
21-2). Nelle scienze umane, e specialmente in economia, pare che,
invece, – secondo Hayek – da una condizione di autorità tribale possano emergere operatori indipendenti, spiriti liberi e liberi
pensatori, come nel retaggio del mito del “buon selvaggio” del
XVIII secolo (Rangel 1980). In Hayek ritorna ancora l’idea di tale
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Non si capisce, né Hayek sembra molto preoccuparsene, come società
“chiuse” diventano “aperte”. L’ordine naturale è spesso considerato il mondo
degli animali. Freud (1913 [1980, vol. 7], 145 [4, 2, b-c]) e, soprattutto, nel saggio
sulla psicologia collettiva (1921, par. 2) paragona il meccanismo di selezione del
capo negli animali che vivono in branchi, mediante sfide e dimostrazioni di forza
e di capacità di leadership, alla vita e alle relazioni in comunità umane tribali, ma
ciò non comporta, né in un caso né nell’altro, una “rivoluzione” e un sovvertimento dell’organizzazione della vita in branco negli animali e della vita in tribù
negli umani. Acemoglu e Robinson (2006 e 2013). Cfr. le critiche di Jared Diamond
(2012) e le repliche.
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spontaneità, quando ammette che in un mondo di schiavi germogli il seme della libertà e che istituzioni, linguaggio, diritto e
moneta siano da considerare, almeno in un originario stato di natura, prodotti di interazione non intenzionale tra individui “liberi”, senza protezioni e garanzie esterne; ma così pensando, Hayek
non pare preoccuparsi troppo delle garanzie per la libertà lesa da
coloro che se ne sono presa troppa, garanzie che sono la peculiarità dei cosiddetti Stati di diritto e del principio kantiano che la
libertà di ciascuno finisce là dove comincia la libertà degli altri.
Su questi aspetti della teoria del diritto – inteso come istituzione “spontanea” – che, in Hayek, fanno continuo riferimento alle
altre due istituzioni “spontanee” della lingua e della moneta, Gaetano Pecora sottolinea aspetti importanti del fondamentale attacco
di Hayek alla sovranità (Pecora 2002, 20-4). Secondo Hayek, in una
società liberale, o meglio neoliberale, «non c’è posto per un organo sovrano» (Hayek 1973-79, 496). Quel che sottintende Hayek è
che il mercato deve essere sovrano e permeare ogni anfratto della
società e soprattutto del potere. Pecora, rinviando a Kelsen, precisa però quello che è il concetto di sovranità nel pensiero liberale
classico: «i sistemi liberali, i quali in quanto sistemi conservano lo
stigma della sovranità e in quanto liberali organizzano siffatta sovranità distribuendola tra organi diversi, magari gelosi gli uni degli
altri e quindi tra loro tendenzialmente in conflitto; quel conflitto
che, come nell’urto delle pietre dure, tiene viva la scintilla della
libertà» (Pecora 2002, 29). Hayek ha sempre in mente la formazione
dei prezzi e, cosa essenziale, pensa al meccanismo che li genera, la
mutevolezza delle aspettative che ognuno formula riguardo alle
aspettative che si presume abbiano le controparti in un teatro di
mercato, dove le contrattazioni si svolgono nell’anonimato, come
in una borsa valori o merci, ma, al contrario che nei mercati istituiti,
senza notai né agenti di cambio (v. Hayek 1937; 1945). Hayek contrappone il proprio liberalismo (che Pecora, benevolmente, definisce «anomalo», ma con conseguenze tiranniche8) a quello di Kelsen
ed è ancora Pecora che coglie la differenza abissale tra i due:
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In conclusione del lavoro, Pecora (2002, 131) ribalta i continui attacchi hayekiani alla tradizione liberale classica per giudicare il (neo)liberalismo di
Hayek un liberalismo che «organizza la tirannide».
Parte II - Moneta e debito
278
Per Hayek, al contrario [di Kelsen], tra il diritto “esterno” [le norme morali stabilite “a maggioranza” di suffragi d’opinione] e il diritto interno
non corrono differenze di sorta; diritto è l’uno e diritto è l’altro; giuridiche sono le norme create dal legislatore e giuridiche sono le norme trovate
nella società; le une hanno la stessa natura delle altre (Pecora 2002, 36 e
v. il commento di p. 44).
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Per Hayek l’autorità sovrana non ha altra fonte che quella
dell’«opinione prevalente» (Hayek 1973-79, 118), quel che per i
greci era la doxa, che non offre nessuna garanzia di validità e che
Platone pone in mezzo tra ignoranza e conoscenza9. È questa
della doxa una questione cruciale della filosofia e della teologia,
perché marca uno dei due lati di un dualismo antico, l’altro essendo la giustizia e la verità: Platone verso Aristotele, Parmenide
verso i sofisti, con Socrate a fare da intermediario, Hegel verso
Hume. Per Platone, c’è opposizione tra l’opinione e la verità come
tra l’uomo che ama le cose belle (opinione) e colui che ama la
bellezza (aletheia, la verità); le ombre che gli uomini imprigionati
nella caverna credono vere, non sono altro che opinioni. Non a
caso Parmenide, nel suo Poema sulla natura, dove sostiene la realtà
dell’Essere, dell’Uno in opposizione all’illusorietà del molteplice
e del divenire, viaggia fino alla casa di Dike (dea della Giustizia),
la cui porta ruotante sui bronzei assi, di cui essa tiene le chiavi,
divide i sentieri della Notte e del Giorno. Alla Giustizia è affidata, da un lato, la guida del filosofo verso la Verità che conduce
alla sapienza e all’Essere e, dall’altro, la messa in guardia verso
l’opinione che conduce all’apparenza e all’inganno. Non si tratta
però solo dell’opposizione, già presente nella filosofia antica, fra
una conoscenza incerta, rappresentata dalla doxa, e la conoscenza scientifica, rappresentata dall’epistème, ma si tratta anche di
un’opposizione nella visione antropologica ed etica. Per il sofista
e, poi, per lo scettico fino a Hume e ai sensisti, l’unica verità è
l’opinione che l’individuo, con i suoi sensi, si forma, individuo
che ritiene se stesso unico criterio di valutazione etica rispetto a
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Platone afferma che l’opinione non è «né l’ignoranza, né la conoscenza»
ma «è un intermedio tra queste due realtà», in Repubblica (2009, 629 [libro V, 478
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ciò che è giusto o ingiusto; nulla vi può essere di “essenziale”,
di “universale”, di “vero”, tutto è appunto “opinabile”. Socrate
aggiunge ordine a questo individualismo relativista perorato dai
sofisti in tutti i campi, in cui il criterio di verità è l’uomo, introducendo il dialogo come non-violenta ricerca di un accordo fra
opinioni che evolvono sempre. Dal momento però che la natura
viene considerata manifestazione immanente del divino, il mondo sensibile viene rivalutato e così anche l’opinione: il pensiero
cristiano, in generale e, poi, soprattutto, nelle sue forme rinascimentali, rivaluta l’opinione. Non desta, quindi, sorpresa l’idiosincrasia neo-ordo-liberale per il termine giustizia, più o meno
intesa come giustizia sociale. Perché dove c’è opinione, non può
esservi giustizia, come spiega Dike a Parmenide. Come non destano sorpresa né la dura opposizione del filosofo della società
‘aperta’, Popper, a Platone, né la giustificazione dello Stato liberale e il rimedio alla sua crisi che appare nelle odierne riprese socratiche del dialogo e dell’azione comunicativa dei filosofi liberali
contemporanei (Gadamer, Habermas, ecc.). Tutti costoro rappresentano, per dirla ovviamente in modo semplificato, il medesimo
lato (quello dell’opinione-inganno) dell’antica dicotomia (giustizia-verità versus opinione-inganno).
Il perno dell’opinione è sovrano sul mercato e anche in questioni di giustizia sociale. È contro quest’ultima che si muove l’intera critica di Hayek. Come osserva Pecora «Volete il mercato?
Sembra dire Hayek; e allora non dovete lasciarvi commuovere
dalle istanze della giustizia sociale. Volete la giustizia sociale? E
allora vi sarà destino abbandonare il mercato» (Pecora 2002, 97)10.
L’ordine di mercato, come lo intende Hayek, liberato da ogni
forma di controllo e regolazione, «non produce una stretta corrispondenza fra i meriti soggettivi o i bisogni individuali e le remunerazioni», il mercato opera in base a «un gioco combinato di
abilità e caso», per cui i risultati ottenuti da ogni individuo sono
assolutamente fuori controllo rispetto a ogni principio di giusti-
ffisimone.
Ciò assomiglia molto al paradosso della globalizzazione di Dani Rodrik
(2011), secondo cui non è possibile perseguire i tre obiettivi della globalizzazione,
della democrazia e della sovranità monetaria; almeno uno di essi va abbandonato
se si vogliono salvare gli altri due.
10
Parte II - Moneta e debito
280
zia, né il mercato rende giustizia al merito (Hayek 1973-79, 314)11.
Il mercato pacifica, il merito introduce crepe insanabili all’interno
della società. Se ciascuno fosse remunerato secondo i propri meriti si aprirebbero controversie e scontri sociali fino a una guerra
civile, perché nessuno riterrebbe di meritare meno di un altro,
e l’ordine sociale finirebbe per saltare12. Come sottolinea Pecora:
Solo in un caso sarebbero scongiurati i rischi della dissoluzione sociale;
solo se gli uomini abdicassero alla loro autonomia di giudizio per consegnarla alla insondabile discrezionalità di un intelletto superiore. Il quale
intelletto, dall’alto della sua insindacabile saggezza, provvederebbe a dislocare gli uomini e i gruppi lungo la scala dei ruoli sociali, e a ciascun
ruolo farebbe corrispondere una remunerazione così e così determinata
(Pecora 2002, 99 e cfr. p. 129).
Per Hayek non ha perciò alcun senso valutare l’allocazione
delle risorse effettuata dal mercato né, soprattutto, misurare col
metro della giustizia i modi con cui il mercato distribuisce i redditi tra le persone. Il mercato è un sovrano assoluto e assolutamente inappellabile. La distribuzione secondo meriti può, in Hayek,
V. i commenti di Pecora (2002, 97-8).
Va notato però che, qui, il concetto di merito va precisato. Infatti, la società borghese finge di basarsi sul riconoscimento del “merito” come valore etico
– ipocrisia ideologica peraltro spietatamente smentita, come abbiamo visto, da
Hayek proprio quando parla del mercato che è la cifra della società borghese – e
fa della “meritocrazia” l’alternativa ideale sia all’ancien régime coi suoi privilegi
castali, sia alla democrazia con le sue scelte politiche potenzialmente diverse da
quelle del mercato. La scienza economica neoclassica costruisce una teoria della
distribuzione del reddito fra lavoratori e capitalisti esattamente opposta a quella basata sulla teoria dello sfruttamento di Marx. La teoria neoclassica racconta
che i lavoratori non sono sfruttati, ma sono remunerati esattamente per quanto
meritano, ovvero per quanto è la loro produttività. Ma è in quest’ultima affermazione che si svela il significato del “merito” per la società borghese: si “merita”
per quanto si “produce”. Il “merito” non è un “valore” ideale ma la misura di una
produttività. Ma, oltretutto, questo merito-produttività non si valuta in condizioni astratte e paritarie di lavoro (il che potrebbe essere allora un criterio di merito
magari condivisibile secondo un qualche criterio etico produttivistico, tipo stakanovismo), bensì sotto le regole del mercato capitalistico, per definizione non eque
perché imposte dai rapporti di forza economici e proprietari. Sotto questo aspetto,
Hayek sta quindi parlando, in modo quasi cinico, del mercato che non riconosce
il merito inteso come valore etico (e non come indice di produttività).
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corrispondere a quell’«insindacabile saggezza», di cui parla Pecora, solo dentro l’organizzazione gerarchica delle imprese che,
piccole o giganti che siano, sono virgulti spuntati sul terreno del
mercato, indipendentemente dal fatto che poi si trasformino, col
crescere, in piante infestanti che sottraggono nutrimento ai potenziali concorrenti e stravolgano profondamente la fisionomia
del mercato stesso.
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11.2. Prima il dono-debito e poi l’“invenzione” della moneta
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con tale fiducia ti dirò che il desiderio che mi tormenta,
caro Lotario, è di sapere se Camilla, mia moglie, è così buona e così perfetta come io penso; e non posso esser certo di
questa verità se non sperimentandola in modo tale che il
saggio indichi i carati della sua virtù, così come il fuoco indica quelli dell’oro. (Cervantes, Don Chisciotte della Mancia,
I parte, cap. 33)
il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito. (Mauss 1923-24, 211)
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Questo modo di “fare economia” ha le sue origini nella
speculazione filosofica dove il concetto, da Platone a Hegel,
è definito come “l’universale che è nella cosa”. Al concetto
della speculazione filosofica corrisponde, in economia, la
“forma-denaro” che, staccata da ogni traccia di lavoro e da
ogni rapporto con la merce, consente la “speculazione finanziaria”. (Galimberti 1998, 182)
La spontaneità coltivata nella serra del mercato è improntata in
Hayek dallo stesso darwinismo economico (volgare) anticipato
da Menger. In entrambi, la formazione di un sistema istituzionale è il risultato lento e progressivo di una costruzione che, passo
dopo passo, si sviluppa tramite gli effetti non intenzionali dell’azione “egoista” di agenti ignoranti (cioè secondo un medesimo
«ordine spontaneo») e, come avviene per la moneta, essa è frutto dell’interazione tra gli interessi. La moneta è strappata via da
ogni marchio e vizio di potere, dalle ascendenze magico religiose
delle società arcaiche o dal machiavellismo, o dal realismo giuridico-statalista di un Georg Friedrich Knapp, per il quale la moneta «è una creatura della legge», e una «teoria della moneta deve
perciò occuparsi di storia del diritto» (1924, 1).
282
Parte II - Moneta e debito
Per David Hume, il potere del denaro (money) sta nel fatto
che «consente di procurarsi tutti i piaceri e le comodità della vita»
(Hume 1739, 627 [lib. II, p. I, sez. x]). L’avaro che lo mette da parte, tuttavia, «immagina» che sia così mentre si priva di verificare;
la sua è una «illusione della fantasia», e l’essenza di quel potere «consiste nella probabilità del suo esercizio» (idem). Il denaro
– specifica ulteriormente – «implica una specie di rappresentazione» (Hume 1739, 713 [lib. II, p. II, sez. v]). Il concetto è, forse, ancor meglio chiarito nella sez. v su L’obbligo delle promesse, dove la
promessa, come potere di mantenere un impegno, è considerata
una convenzione umana e non un prodotto di natura:
Questo E-book appartiene a rof
Che la regola della morale, che prescrive di mantenere le promesse, non
sia naturale, risulterà sufficientemente evidente da queste due proposizioni, che sto per provare: una promessa non è intelligibile, se non viene
stabilita dalle convenzioni umane; e anche se fosse intelligibile, non sarebbe accompagnata da alcun obbligo morale. (Hume 1739, 1021 [lib. III, p. II, sez. v],
corsivo nell’originale)
Hume aggiunge anche una considerazione simile a quella che
abbiamo già incontrato in Marx riguardo ai capricci teologici della
merce e del valore. Per Hume, l’atto di promettere è una pronuncia di obbligazione che sorge dalla volontà, cioè «si tratta – ammette – di una delle operazioni più misteriose e incomprensibili
che si possano immaginare, paragonabile alla transustanziazione o
agli ordini sacri, in cui una certa forma verbale, unita a una certa
intenzione, cambia del tutto la natura di un oggetto esterno, e anche di una creatura umana» (Hume 1739, 1037 [lib. III, p. II, sez.
v] i corsivi nell’originale). Quel che qui interessa sottolineare è il
carattere fiduciario connaturato in un potere d’acquisto, come in
una promessa, da cui discende lo slittamento su quel termine teologico di transustanziazione per esprimere un mistero («una delle
operazioni più misteriose e incomprensibili che si possano immaginare»), un mistero che sposta l’analisi della promessa e, aggiungiamo, della moneta, sul terreno del sacro, al limine col profano.
La moneta è mero segno, come il diritto, è una costruzione
di potere, dipende da rapporti di potere e di forza; per essa non
può valere nessuna pretesa di neutralità, di naturalità, non può
essere un arbitro nei giochi del mercato. Insomma, l’illusione di
11 - Il debito originario
283
una mitologia monetaria “neutralista” – tipo quella costruita della scuola austriaca – risulta creata ad immagine della costruzione
monetaria messa in piedi dopo Vestfalia, per porre finalmente la
moneta nel suo preteso stato naturale e ridotta a mezzo tecnico
neutrale per poterla consegnare alle tre funzioni a cui è deputata: misura, intermediario, riserva, al riparo da ogni dominio
di autorità politiche. Il progetto era utopico e investiva non solo
la moneta, ma tutto l’assetto istituzionale di una società uscita
dall’epoca dei Lumi con vestigia ritenute ancora di stampo medievale. Lo Stato di diritto moderno era una di queste istituzioni
e, nel pensiero neoliberale (come vedremo meglio nella III parte), la riforma doveva estendersi anche ad esso. In questo modo,
come il tema della moneta, che aveva (al contrario delle tasse o
delle imposte) un suo mercato, anche il tema delle istituzioni poteva essere affrontato con la stessa meccanica dell’utilitarismo e
dell’ottimizzazione economica (quello che nell’Ottocento veniva
chiamato “economicismo”13). In tal modo, la moneta è demistificata, sconsacrata, privata dell’alone magico nel quale si voleva
avvolta nei secoli senza Lumi. Ma, dopo i Lumi, occorreva portare alle estreme conseguenze l’operazione già avviata per ridurre
la moneta da istituzione a merce, o, al più, a tecnologia di pagamento, per riconquistare così uno dei cardini dell’economia,
riportando la moneta dentro al paradigma che voleva intendere
l’economia come una scienza. Qualsiasi istituzione sociale poteva così essere spiegata senza avvalersi di concetti politici, anzi
la stessa azione politica era, ed è, ridotta ad azione economica
giocata su altro “mercato”: quello delle ambizioni di potere. L’imperialismo della “scienza economica” è divenuto poi il cavallo di
battaglia della scuola di Chicago, e l’invasione di tale “scienza”
nei campi delle istituzioni sociali e politiche avviene, principalmente, con la scuola della “public choice” che, con James Buchanan, avvia una sistematica distruzione dei fondamenti teorici del
ruolo dello Stato nell’economia, per cui ogni scelta da politica di-
13
Cfr. Polanyi (1983, 27-41); e Caillé e Laville (2008, 45-69). Essi considerano la lettura dell’economia fatta da Polanyi nel solco dell’eredità di Marx e di
Weber e in antitesi alle posizioni della scuola austriaca di economia.
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venta scelta mercantile14. Il successo della storia della moneta mitizzata (e secolarizzata) da Menger, tributato particolarmente in
ambito economico, dipese, come in molti altri casi, da semplicità
e immediatezza di spiegazione e di narrazione, e per avversione
allo Stato quando entrava in faccende economiche e monetarie;
inoltre, trovò larga accoglienza in altri ambienti, seminò dubbi tra
gli scienziati sociali solitamente più inclini alla verifica attraverso evidenze empiriche, e finì per costituire un solido giacimento
ideologico difficile da scalfire15. Fugit irreparabile tempus: disperde
le tracce delle promesse e lascia i depositi di gettoni in metalli
preziosi o meno; e questo contribuisce non poco a produrre una
“distorsione documentale” (v. in 12.4) che il metodo genealogico
deve sottoporre a critica (Graeber 2012, 28-32 e 290-2).
Menger, come altri economisti neoclassici, sono partiti dal loro
mondo contemporaneo e dal loro habitus mentale e concettuale per
trasferirlo indietro nel tempo alla ricerca di origini. Come spesso
capita in questo tipo di ricerche di origini, essi cercavano però solo
quel che avevano già in mente di voler trovare. Si erano posti su
false piste con metodi difettosi. Erano incappati in errori di anacronismo per un’attrazione fatale verso il capitalismo e un’idealizzazione della stessa economia di mercato. Un qualche confronto tra
i concetti loro più familiari e quelli che invece erano familiari tra i
contemporanei dei tempi andati, è un esercizio al quale gli storici e
gli antropologi storici non si sottraggono. Il senso della ricerca genealogica implica questo confronto continuo tra passato e presente.
Con un taglio giuridico, ma attento alle implicazioni delle proposte di
rimozione di una “dicotomia”, non solo di diritto ma anche di società, v. Pupolizio
(2013b; e 2013a); e, infine, Somma (2018).
15
L’antropologo Maurice Godelier (2008) vede nella meccanica del dono-contro-dono la stessa del debito ma non sembra cogliere le intuizioni di Mauss
sul debito-moneta (pp. 68-9, o 97-8 ed. francese). A p. 102n. osserva: «la moneta
è, in qualche modo, un sostituto sia di oggetti sacri che preziosi che, originariamente, sono essi stessi sostituti degli dei, i primi, e degli uomini, i secondi»; in
tutto ciò «c’è l’idea di un capitale di vita e di benessere verso il quale l’individuo
è in debito, fin dalla nascita, nei confronti di una tesoreria, una sorta di banca con
due conti, uno celeste, l’altro infernale, e che gestisce i rapporti degli umani con
gli spiriti e gli dei». Sul caso del sale come moneta, Godelier ritorna poi a p. 194,
ma per accostarlo a forme di baratto. In particolare si veda, poi, il commento di
Godelier alla tesi di Mauss sulla moneta “immaginaria” (p. 232 e le pp. 287-9).
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Mauss, prima di altri, predispose un bagaglio di conoscenze e
di pensiero critico per avviare la demolizione della mitizzazione
mengeriana delle origini della moneta. Nel Saggio sul dono, Mauss
coglieva molto lucidamente un aspetto rilevante della genealogia
del dono-credito-moneta, rovesciando l’intera sequenza evolutiva mengeriana:
il dono si porta dietro necessariamente la nozione di credito. L’evoluzione non ha fatto passare il diritto dall’economia del baratto alla vendita,
e la vendita da quella in contanti a quella a termine. È da un sistema di
doni, dati e ricambiati a termine, che sono sorti, invece, da una parte, il
baratto, per semplice avvicinamento di tempi separati, e dall’altra, l’acquisto e la vendita, quest’ultima a termine ed in contanti, ed anche il
prestito (Mauss 1923-24, 211).
In società arcaiche, la nozione di credito si congiunge a quella
di onore per «la natura peculiare del dono [che] è quella di obbligare nel tempo» (Mauss 1923-24, 210). Ciò è presente, in modo
precipuo, nelle società senza sistemi di scrittura per dare sicurezza a una transazione di credito o di potlàk. Gli uomini arcaici non
hanno, infatti, altro segno trasmissibile oltre quello del proprio
onore e su quello devono farsi garanti (Mauss 1923-24, 216)16. L’onore è l’altro aspetto che rende cogente un rapporto. Riferendosi
alle popolazioni tribali della Polinesia e della Melanesia, Mauss
sottolinea che l’onore, come considerazione personale codificata
socialmente, è nozione diffusa al pari della magia e lo stesso mana
polinesiano è la forza magica che uno possiede e, nel contempo, anche il suo onore, inteso dunque come autorità e ricchezza
(Mauss 1923-24, 215). L’obbligo di ricambiare il potlàc è impera-
Per dare sicurezza alla transazione, nel potlàc di alcune tribù di indiani
canadesi tutto si svolge pubblicamente alla luce del sole. Su ciò Mauss fa un lungo
riferimento a uno scritto di Boas, dicendo che sul «potlàc, Boas non ha scritto niente di meglio della pagina seguente» nella quale descrive il sistema di transazioni
senza scritturazioni e in cui viene data la seguente definizione: «Contrarre debiti
da una parte, pagare debiti dall’altra, questo è il potlàc» e prosegue: «Coloro i quali ricevono regali in questa festa, li ricevono come prestiti da utilizzare nelle loro
attuali iniziative e da restituire, dopo un intervallo di qualche anno, insieme con
gli interessi, al donatore o al suo erede». Per Boas il potlàc si riduce a una forma di
erogazione di credito con tanto di interessi (Boas 1898, 54-5).
16
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tivo, pena perdita dell’onore e della dignità fino alla sanzione,
almeno presso alcune popolazioni, della riduzione in schiavitù
per debiti (Mauss 1923-24, 225). La pratica è assimilata all’istituto
del nexum nel diritto romano, codificato nelle Leggi delle XII tavole17, come obbligazione che vincola il debitore con la garanzia
di sottomettersi come schiavo in caso di insolvenza. Il nexum era
un contratto per aes et libram in cui il debitore, alla presenza di testimoni, si rendeva obbligato al suo creditore in base, appunto, a
un peso di metallo, inizialmente effettivo, in seguito solo fittizio,
come avveniva per lo stesso atto della mancipatio nell’acquisto,
per aes et libram, di una determinata proprietà18. Il nexus metteva
il creditore in condizione di esercitare un potere di esecuzione
direttamente sulla persona senza passare per alcun giudizio19.
Shylock, ne Il mercante di Venezia, chiede ad Antonio una medesima garanzia corporale e avrebbe dato esecuzione al patto, se la
causa non si fosse risolta in altro modo per un’astuzia giuridica di
Porzia, nelle mentite vesti d’avvocato.
Il linguista Benveniste suggerisce che, per meglio tradurre letteralmente fidĕs, occorre sostituire “credito” a “fiducia”, cioè per
i latini la fidĕs stabilisce una relazione inversa tra le parti rispetto
alla nozione odierna di “fiducia” (confidence)20. Questa più antica
accezione si sviluppa in una nozione più soggettiva, «non più la
fiducia che uno risveglia in qualcuno, ma la fiducia che si mette in
qualcuno» e la fidĕs si lega a diciŏ, cioè alla «facoltà di disporre di
qualcuno» (Benveniste 1976, I, 88). L’originario senso progredisce
Le leggi delle XII tavole rappresentano una tra le prime codificazioni
scritte del diritto romano (pubblico e privato), compilato nel 451-450 a.C., sotto
la spinta, secondo gli antichi storici romani, dei plebei che chiedevano, fra l’altro,
un’attenuazione delle leggi contro i debitori insolventi, e che diventeranno un
punto di riferimento quasi sacrale per gli sviluppi successivi del diritto romano.
18
La mancipatio era uno dei sistemi più diffusi per alienare beni dotali. L’operazione avveniva alla presenza di un libripens (portatore di bilancia) che pesava
l’aes rude (cioè il bronzo non coniato) per dar luogo alla transazione (v. Guarino
1981, 130).
19
Sulla questione si rinvia a Manfredini (2013) e a Girard (1911, 198, 246 e
n., 287-8, 417-8, 432-6). Per un’accurata sintesi storica v. Bernard (2016).
20
Infatti, precisa Benveniste (1976, I, 87): la «traduzione letterale di fides
mihi est apud aliquem diventa “ho credito presso qualcuno”; che è proprio l’equivalente di “gli ispiro fiducia” o “ha fiducia in me”».
17
11 - Il debito originario
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cioè verso una disparità tra i contraenti. «Colui che detiene la fidĕs
messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere. Ecco
perché fidĕs diventa quasi sinonimo di potestăs e diciŏ» (Benveniste
1976, I, 88 con una ns. variante nella traduzione). Le forme più
antiche esprimevano relazioni di reciprocità e «mettere la propria
fidĕs in qualcuno procurava in cambio la sua garanzia e il suo appoggio. Ma proprio questo fatto sottolinea l’ineguaglianza delle
condizioni. È dunque un’autorità che si esercita contemporaneamente a una protezione su colui che vi si sottomette, in cambio
e nella misura della sua sottomissione. Questa relazione implica
potere di obbligare da una parte, obbedienza dall’altra» (Benveniste 1976, I, 88). Nell’erogazione di un credito il debitore si sottomette, nel senso che si impegna a obbedire all’obbligo che gli viene imposto con l’erogazione del credito: di adempiere al servizio
e al rimborso del debito, nel senso di assolvere la promessa resa
(absolvĕre), con la quale si libera e scioglie il rapporto. Agamben
commenta che la «fidĕs è, dunque, un atto verbale, accompagnato
di regola da un giuramento, col quale ci si abbandona totalmente
alla “fiducia” di un altro e si ottiene, in cambio, la sua protezione.
L’oggetto della fidĕs è, in ogni caso, come nel giuramento, la conformità fra le parole e le azioni delle parti» (Agamben 2008a, 34).
La parola vale se c’è confidence. In mancanza di confidence,
deve allora subentrare un collaterale. Ricorda sempre Benveniste
che «affidare qualche cosa (uno degli usi di crĕdo), vuol dire dare
a un altro, senza considerazione di rischio, qualche cosa che ci appartiene, che non si offre in regalo, […] con la certezza di ritrovare
la cosa affidata. È lo stesso meccanismo che entra in azione sia per
una fede propriamente religiosa sia per la fiducia in un uomo, che
l’impegno sia di parole, di promesse, o di denaro» (Benveniste
1976, I, 134). In questo sta «il fondamento della nozione laicizzata
di credito, fiducia, qualunque sia la cosa affidata o data in pegno»
(Benveniste 1976, I, 134). In tutto ciò si esprime una rivalità primitiva, di potere e di competizione tra clan, come avveniva nel
dono. Anche il dare in cambio, reso con il termine latino di mŭnus,
è accostato da Benveniste ad altri termini che esprimono nozioni
di carattere sociale, come pignus, pegno, e altre. Nella Roma antica il pignus è fatto risalire in origine all’istituto del pignoris capio, del sequestro extragiudiziario. Il mŭnus è però anche il dono
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Parte II - Moneta e debito
288
che obbliga a uno scambio e alla restituzione, e immŭnis è colui
che non restituisce e che non tiene fede all’obbligo del dono21. Il
commento ulteriore di Benveniste è il seguente: «commŭnis non
significa ‘chi condivide le cariche’, ma propriamente ‘chi ha in comune dei mŭnia’. Ora, quando questo sistema di compensazione
gioca all’interno di una stessa cerchia determina una ‘comunità’,
un insieme di uomini uniti da questo legame di reciprocità» (Benveniste 1976, I, 71)22.
L’estinzione del debito e del beneficio ricevuto strappa dal
pegno-moneta la natura ciclica e ripetitiva della relazione, che nel
dono presuppone il contro-dono e nel credito il riconoscimento,
da parte di chi l’ottiene, dell’essere in debito. Se questo riconoscimento non c’è, il pegno può considerarsi perduto da parte di
chi lo ha ceduto23. Ciò è evidente nel dono-contro-dono, specialmente quando il ricevente si sente in condizione, per senso di
estraneità, palese o sopraggiunta, di rompere il patto implicito.
La mancanza di reciprocità, che era attesa e che invece non è stata
concessa, costituisce una potenziale dichiarazione di ostilità che
può diventare insanabile. In una fase in cui i rapporti tra creditori
e debitori hanno perso molte delle ritualità e sacralità presenti nel
dono, anche il codice del pegno vede esaurirsi la rappresentativi-
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Interessante la critica rivolta da Salvioli (2014, 203) ai sostenitori di un
«“umanesimo dell’indipendenza” che si rovescia inevitabilmente in una società
dell’im-munitas, ossia della non-donazione, che riflette il desiderio di tutelarsi dal
potenziale lesivo della relazione interpersonale attraverso quella forma di relazione – lo scambio di equivalenti – che paradossalmente si afferma negandosi».
22
Sul termine si vedano anche le considerazioni di Esposito (2006); alcune
sono esaminate nel successivo par. 11.3.
23
Per il Devoto-Oli l’etimo di pegno è da pignus -ŏris, derivazione di pingĕre ossia “dipingere” per segnare e per ricordare un impegno preso. Il pegno
è una “segnatura”, nel senso di Agamben (2008b, 37-40 e, sull’obbligo della parola, p. 76), e – come diremo più oltre – la moneta è pegno e dunque segnatura.
Agamben (2008a) risale alle legislazioni arcaiche e alle fonti antiche per mostrare
come il «sacramento del linguaggio», cioè la capacità e volontà di impegnarsi con
la parola, mettendo in gioco l’esistenza, è costitutivo del sacramento del potere.
Su quest’ultimo si veda il volume di Prodi (1992). Nella tradizione pagana e poi
cristiana «[l]’uomo spergiuro – osserva Prodi – è un cadavere ambulante, un’anima morta» e, aggiunge, il «problema quindi diventa politico anche nel senso che
colui che possiede il potere di provocare questa “magna necessitas”, di esigere il
giuramento o provocarlo corre lo stesso rischio di chi spergiura» (Prodi 1992, 55).
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tà di segno che impegna ad atti di pura reciprocità (seppure nelle
forme competitive e antagonistiche che rendono ambivalente il
dono e il contro-dono). Rispetto ai rapporti originari, nei nuovi
rapporti tra debitori e creditori subentrano sentimenti e ragioni
di una certa sfiducia; allora, per questo motivo, il pegno deve
possedere un valore estrinseco per il creditore e per il debitore,
in modo che quest’ultimo senta una necessità impellente di ritornarne in possesso24. Si rifletta, a tal proposito, alle ragioni che
portano comunità mercantili a stabilire rapporti reciproci di credito e debito mediante scritture private, nelle quali il beneficiario,
per esempio, di una lettera di credito ha, di fatto, in mano solo un
pezzo di carta sul quale sta scritto il nome del traente, quello del
beneficiario e la firma del trattario-debitore. Se questo valeva in
comunità di mercanti legati da codici d’onore (caso del prestito
sulla fiducia), l’onore non aveva più alcun ruolo nel caso di un
creditore che concedeva un credito per la metà del valore di un
pegno sottratto dalle disponibilità del debitore (caso del prestito
garantito)25. Lo stesso modello relazionale era presente nel mutuo
ipotecario. L’ipoteca o mort-gage, si assimilava a un pegno – nel
senso letterale di “pegno morto” – relativo a un immobile sulla
quale era iscritta per un valore solitamente doppio, o comunque
superiore, del credito concesso. Il termine era in uso nell’antico
diritto francese e nel resto del diritto comune europeo per indicare i frutti del pegno che il creditore non poteva appropriarsi. Perciò, per convenzione, gli interessi non si imputavano sul debito,
ma appartenevano al creditore ed erano detti mort-gage, ammessi
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Dodd (2014) parla di monetary networks nei quali la circolazione di strumenti monetari e creditizi si affida ai circuiti di informazioni, per esempio quelli
dei sistemi sociali di controllo sull’onore e sulla lealtà; quando però tali circuiti
si interrompono o le informazioni diventano costose e i controlli deboli, allora le
transazioni ricorrono alla regolazione in moneta. La moneta non ha bisogno di fiducia, è sostenuta da una fiducia generalizzata, è «fiducia nel sistema» e come tale
più vulnerabile (Luhmann 2002, 77-8). Non è forse per questo che Keynes insiste
sul ruolo significativo dello «state of confidence», sull’importanza di garantire la
fiducia?
25
Muldrew (1998) mette in evidenza che verso la fine del XVI secolo uno
scrittore aveva espresso l’importanza della ricchezza e del patrimonio in questi
termini: «di solito nessun uomo è considerato degno di molto onore, o meritevole
di grande fiducia e credito, a meno che non sia ricco» (idem, 153).
290
Parte II - Moneta e debito
con qualche riserva per il carattere usurario che tentavano di celare. All’opposto del mort-gage, talora si faceva uso del termine di
vif-gage per il pegno ordinario.
La garanzia dipende dunque dal tipo di rapporto fiduciario
che si instaura: più la fiducia è sostenuta da codici di onore e di
sacralità e più simbolico è il “pegno” che obbliga il debitore (che
si è così “in-pegnato”).
Nel saggio “Il valore delle cose”, uscito nelle Annales nel
2002, Yan Thomas introduce importanti considerazioni che non
riguardano solo la tradizione giuridica. La formula romanistica
res in commercio comprende tutti i beni valutati che rientrano in
quella categoria di carattere patrimoniale «per contrasto al regime di indisponibilità da cui esse sono eccezionalmente colpite [forgiate] tanto nel diritto sacro quanto nel diritto pubblico»
(Thomas 2015, 22-3). La natura giuridica delle cose valutabili,
appropriabili e disponibili dipende dal fatto di essere state sottratte ed escluse dal novero di quelle «destinate agli dèi o alla
città» (Thomas 2015, 23). Nel mondo antico, il modo comune di
investire e tesaurizzare era perciò quello di assegnare beni al patrimonio collettivo, che nella giurisprudenza d’epoca imperiale
trovava la sua concettualizzazione nella formula «paradossale»
di res nullius in bonis, cioè di «cose appartenenti a un patrimonio che non appartiene a nessuno» (idem). Anche in epoca molto
più antica, almeno dal III secolo a.C., le cose sono designate col
termine di pecunia, e il debito stesso con pecunia constituta, che,
oltre ad essere una somma di denaro, era anche qualunque altra
cosa oggetto di una promessa o di un contratto (Thomas 2015,
59). Lo stesso concetto di prezzo (pretium) poteva indicare tanto
il valore delle cose, quanto la res che, attraverso il processo civile, era sottoposta a stima pecuniaria per dar valore a garanzie
che erano alla base di operazioni creditizie (Thomas 2015, 60-3).
Il prezzo, determinato attraverso un procedimento giudiziario
per stabilire gli effetti di un danno e valutare un indennizzo, richiama alla nozione di pegno, che è stata già chiarita da Mauss.
Yan Thomas individua gli oggetti di pegno negli oggetti di voto,
che legano a un’obbligazione o a un giuramento, e che da cose
consacrate possono essere trasformate in cose sciolte dalle disponibilità del santuario ed essere quindi rese appropriabili e
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vendibili26 (Thomas 2015, 46-7). Nell’excursus genealogico di
Sini (2015, 76-7, 84-5) riguardo al debito, i templi sono all’origine delle prime dinamiche di indebitamento attraverso la custodia e l’immagazzinamento – da loro predisposte – dei surplus
di produzione, che avrebbero dovuto così essere resi disponibili
nelle annate cattive. Yan Thomas riporta un parere del giureconsulto Paolo, recepito nel Digesto, per mostrare l’importanza del
circuito dal sacro al profano – e viceversa – nei rapporti commerciali e, specialmente – aggiungiamo – in quelli creditizi per i
valori in pegno. Il testo di Paolo è il seguente:
Mi faccio vanamente promettere una cosa sacra, benché essa possa essere
resa profana; poiché, allorquando una persona ha promesso una cosa profana, questa è liberata dalla sua promessa nello stesso momento in cui,
senza che ciò dipenda da lei, la cosa è divenuta sacra; e il promettente non
è richiamato all’obbligazione che aveva contratto se, in seguito a una legge qualsiasi, questa stessa cosa è restituita al suo stato profano anteriore
(cit. in Thomas 2015, 51, corsivi suoi].
Il commento di Thomas che qui interessa è il seguente: «Il
sacro, dal momento che apparteneva agli dèi, aveva per contropartita il religioso, ciò che era interdetto agli uomini»; la stessa
circolarità è fatta propria anche dal diritto pontificale, per il quale togliere una cosa dall’interdetto permetteva di comprarla e di
venderla (Thomas 2015, 52)27. La “santuarizzazione” esclude le
cose dal commercio. La moneta entra ed esce da tale condizione,
sta dentro e fuori dagli ambiti del sacro e del profano; essa è cosa
che serve da pegno proprio perché ha un’essenza di bene pubblico, di cosa sacra e che è desacralizzata per consentire di essere oggetto intermediario e di misura di valore nei traffici commercia-
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Il processo di uscita di una cosa dall’ambito sacro prende il nome di
profanare e l’uscita di essa per entrare nell’ambito umano quello di profanazione,
come ci ricorda Agamben: «E se consacrare (sacrare) era il termine che designava
l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso
restituire al libero uso degli uomini. “Profano”, poteva scrivere così il grande giurista Trebazio, “si dice in senso proprio ciò che, da sacro o religioso che era, viene
restituito all’uso e alla proprietà degli uomini”» (Agamben 2006, 27).
27
Sulla sacralità e sul sacrificio all’origine della moneta v. anche i saggi in
Parise (1997).
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li28. In definitiva, il «valore delle cose» dipende strettamente
da cose che sono, di per se stesse, sottratte ai giudizi di valore.
Mentre le cose prive di valore commerciale, non valutate e non
valutabili, sono quelle che non sono appropriabili, sono i «beni
di nessuno», quelli incamerati nelle casse del sovrano. Si tratta
della nozione stessa di fiscus e dell’analogia insolita che, in età
medievale, confronta Cristo con il fisco, per designare beni patrimoniali che non devono essere alienati perché nessuno ne ha
proprietà (su questo Kantorowicz 2005, 178-9, 181 e 183). Non
solo, Thomas ricorda anche che i depositi monetari presso i templi facevano di questi ultimi una sorta di banche, di depositerie
e di magazzini, che potevano prestare moneta o beni perché solo
i templi erano depositari della fede (Thomas 2015, 44-5). La moneta stessa ha quelle caratteristiche di “cose” depositate, rese
sacre perché «sottratte in quanto tali alla proprietà individuale»
(idem, 45), in grado di conferire fiducia e di trasmetterla nei rapporti tra creditori e debitori. La moneta ha pertanto la valenza
di un bene pubblico; per meglio dire, ricordando il dualismo
che oppone le res publicae alle res privatae, la moneta svolge una
funzione di bene soglia tra le une e le altre: la moneta “esce”
dall’appartenenza alle prime per costituirsi come pegno e consentire così agli scambi privati di “chiudersi”, di liquidare debiti
e obbligazioni, regolare pagamenti in via definitiva. Nel suo carattere astratto la moneta è una sorta di quelle res nullius che nel
diritto divino – come ricorda ancora Kantorowicz (2005, 184-5)
– non appartengono a nessuno, una res quasi sacra per il simulacro di idolatria che si trascina dietro. Sini (2015, 69-71, 118,
120-1) aggiunge a tutto questo un’osservazione fondamentale
per il credito e per il suo sviluppo, che è quella dell’importanza
decisiva della scrittura, della contabilizzazione, come documen-
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Si tenga presente anche quanto osserva Salvioli, secondo cui il principio
in età moderna era che il principe conferisse valore e prezzo alla moneta e, di conseguenza, alle cose venali: «la moneta dovrà servire soltanto a formare il prezzo
delle cose, essere pretium et mensura e non merx né mensuratum»; per questo «i
giuristi non si piegarono alle dimostrazioni degli economisti, e tennero all’antico
concetto della impositio valoris, che dominava assoluto nella pratica monetaria di
tutti gli Stati» in età moderna, oltre che antica (Salvioli 1889, 73 e 74).
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tazione della memoria e delle promesse che sono state fatte e
che devono essere mantenute.
Paolo Prodi (2007) ha mostrato il processo di desacralizzazione che ha interessato il forum, quale luogo d’incontro, mercato su
cui si determina il valore delle cose, e che, nell’Europa dei primi
secoli dopo il 1000, perde, ma non del tutto, quel carattere di essere anche sede del potere politico e giudiziario, non solo luogo mercantile. Paolo Grossi (1992, 15) ha parlato di una «nuova
antropologia» che rovescia l’antico rapporto degli uomini con le
cose e introduce il concetto moderno di proprietà, di distinzione
tra privato e pubblico. In particolare, dalla seconda metà del XIV
secolo, i teologi elaborano un diritto dei contratti e delle obbligazioni fondato su principi naturali, che richiamano i cristiani
all’onestà e alla responsabilità morale come prescrizioni di comportamento corretto e giusto, e su principi da cui far dipendere la
giusta determinazione dei prezzi sul mercato (Prodi 2007, 168-9).
La modernità della moneta, superato il rapporto originario del
dono, ma anche quello della rotazione dei crediti-debiti reciproci,
sta appunto nella sua capacità di essere momento e strumento di
estinzione dell’obbligazione contratta. Essa è il pegno nobilitato di
valore intrinseco, quando ha perso il segno estrinseco dell’onore e
della sacralità dell’onore, cioè di integrità e onestà, costume soggettivo ma di valore socialmente oggettivo. Il legame sociale connaturato alle relazioni sia del dono che del debito è espresso bene da
Seneca: «Al malvagio getterò il beneficio, al buono lo restituirò: a
quest’ultimo perché sono in debito con lui, al primo per non essere
più in debito con lui» (Seneca 2000, 481 [VII, 17, 2]).
Il crescente individualismo nelle società moderne e mercantili
comporta un aumento degli scambi e, in un ambiente spietatamente competitivo, con crescenti volumi di transazioni a credito,
allora la moneta rende dei servizi che l’onore non può più concedere (Wolfhal 2000)29.
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Si rifletta a tal proposito sulle considerazioni di Thomas Hobbes nel Leviatano riguardo all’onore, al quale assegna valore se inserito in un rapporto di potere,
in un esercizio di volontà sovrana: onorare «è segno che pensiamo che [un altro]
abbia potere di aiutarci», perciò obbedire «è onorare, perché nessuno obbedisce a chi
ritiene che non abbia il potere di aiutarlo o di fargli del male» (2001, 145 [I, X, 19-20]).
11.3. Il nexum
Una volta abolite la pena di morte e la schiavitù, non restò
altra punizione per il debitore che l’arresto per insolvenza; e dio solo sa se, da allora – dai creditori di quei tempi
lontani sino a quelli di oggi – i suddetti signori hanno fatto
ampio uso della legge di Giulio Cesare. (Balzac 1827, 66)
Freud, equiparando il denaro alle feci, ha individuato in
chi accumula denaro i tratti di una tipologia anale. Chi non
vuol riconoscersi in questo contesto un po’ maleodorante
può rifarsi a Marx e apprendere che, accumulando denaro,
accumula qualcosa di molto simile ai valori dello spirito.
(Galimberti 1998, 183)
Il nome di una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se
so che un uomo si chiama Jacopo, io non so nulla dell’uomo. Così nei nomi di denaro, lira sterlina, tallero, franco,
ducato ecc. scompare ogni traccia del rapporto di valore.
La confusione riguardo al significato arcano di questi segni
cabalistici è tanto più grande, per il fatto che i nomi di denaro esprimono insieme il valore delle merci e anche parti
aliquote d’un peso di metallo” (Marx 1867, 123 I, 3.1])
In una digressione (“passaggio”) Roberto Esposito insiste sui fondamenti di teologia economica rintracciabili nella pratica dell’imprigionamento e messa in schiavitù del debitore insolvente, previsto nel diritto arcaico del nexum romano e del wadium germanico,
quest’ultimo, secondo Huvelin (1905-06, 28-9), un pegno più simbolico che di valore, se non affettivo. L’arresto personale era previsto nel codice civile napoleonico e nel 1865 recepito anche nell’analogo del Regno d’Italia (Esposito 2013, 149). Il corpo del debitore
era, per tradizione, entrato nelle leggi quale pegno per il creditore
e difesa ultima della proprietà privata, di quella proprietà che il
credito rappresentava30. La libertà stessa del debitore è soppressa
nel caso in cui manchi la sua remissione del debito. L’antica legge
delle XII tavole dava al debitore, sottoposto a giudizio di una corte, un certo tempo per rimediare al suo debito, dopodiché veniva
esposto al pubblico ludibrio sulla piazza di mercato, infine messo
a disposizione del creditore e, se i creditori fossero stati più di uno,
Per una storia giuridica generale dei rapporti tra creditori e debitori cfr.
Manfredini (2013).
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il suo corpo poteva persino essere fatto a pezzi per accontentare in
parte tutti, come ne Il mercante di Venezia (Esposito 2013, 151). Già
da prima dell’introduzione delle XII tabulae, attorno al 450 a.C.,
nel sistema dello ius Quiritium – secondo Guarino (1981, 141) – il
credito non aveva particolari riconoscimenti giuridici e le prestazioni si basavano sulla fides. L’introduzione dell’espediente del
nexum servì perciò a rafforzare i rapporti di credito. Il debitore si
sottoponeva all’alienazione della propria persona fino al giorno in
cui era in grado di riscattare l’impegno preso e liberarsi dal debito,
altrimenti era ridotto in schiavitù.
Mauss esamina la sopravvivenza dei principi del dono arcaico nel diritto e nell’economia antica. Da tali principi fa discendere
la distinzione, netta nel diritto moderno, tra persone e cose (diritti reali e diritti personali). Sulla scorta degli studi di Huvelin31,
Mauss considera la «sanzione magica» conseguenza del carattere
spirituale della cosa data in pegno; i pegni sono, «più che pegni di
vita», trasferimenti di un potere magico. I «pegni di vita» alludono al nexum, all’alienazione del proprio corpo per essere garanzia
di un debito.
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La cosa data in pegno – aggiunge – è ordinariamente senza valore: per
esempio i bastoni scambiati, la stips nella stipulazione del diritto romano
e la festuca notata nella stipulazione germanica; anche le arre, di origine semitica, sono più che degli anticipi. Sono cose, animate esse stesse.
Soprattutto, sono residui degli antichi doni obbligatori, reciprocamente
dovuti e da cui i contraenti sono vincolati (Mauss 1923-24, 242)32.
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V. specialmente Huvelin (1905-06; e 1900, 77-83). Mauss dichiara di concordare pienamente con le analisi di Huvelin, ma aggiunge un’osservazione complementare riguardante la teoria del nexum e la clausola dell’ingiuria teorizzata
dal medesimo. Huvelin (1903, 57-9) considera l’ingiuria verbale un rituale magico-religioso, talora messo a disposizione dei creditori per ottenere soddisfacimento da debitori recalcitranti (v. anche Guarino 1981, 144). Tale clausola per Mauss
non ha solo un carattere magico ma deriva, è un «avanzo», dei diritti antichi del
potlàc, che attribuivano una superiorità al creditore ponendolo in grado di insultare l’obbligato nel caso di una controversia; v. Mauss (1923-24, 241n.).
32
Nella tradizione germanica la festuca, così come nel diritto romano, è un
fuscello o un bastoncino col quale toccare gli oggetti trasmessi in una compravendita per significare l’equità e il raggiunto accordo, la perfezione di un contratto. Le
arre sono oggetti simbolici che svolgono le medesime funzioni.
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Con stips si intende una moneta piccola, un obolo e, forse,
Mauss – da Huvelin – si riferisce al gr. ὀβελóς, spiedo, da cui
ὀβολóς, bastoncino in metallo usato come moneta per fare elemosina nell’etimologia di Isidoro di Siviglia33. Anche nel diritto
romano, nella stipulazione di contratti la festuca, un fuscello di
paglia, era il mezzo per affermare la proprietà e ritualizzare la
conclusione di una negoziazione (Mantello 2012, 115). Rispetto
al sistema analogo delle arre, Huvelin ne aveva mostrato il carattere obbligatorio e vincolante34. Nell’aes flatum, prima ancora
della comparsa di conii monetali antichi, verghe pesate o pezzi
di rame modellati, le raffigurazioni di bestiame erano la testimonianza che la compravendita vincolava le parti a una cessione di
bestiame (Mauss 1923-24, 243n.).
Il nexum, già nel diritto romano più antico, è un contratto che
ha perso i caratteri di impegni collettivi come quelli dei meccanismi rituali dei doni. Il distacco dal dono è spiegato da Mauss con
la distinzione tra diritti personali e diritti reali. In tal modo si va a
separare la compravendita dal dono, i riti dai diritti e dagli interessi che:
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con una autentica, grande e rispettabile rivoluzione hanno superato tutta questa morale invecchiata e l’economia del dono troppo arrischiata,
troppo dispendiosa e troppo suntuaria, ingombra di considerazioni riguardanti le persone, incompatibile con uno sviluppo del mercato, del
commercio e della produzione e, in fondo, all’epoca, antieconomica.
(Mauss 1923-24, 251)
33
Cfr. Isidoro di Siviglia (2013, Libro XVI, XXV, 10); Huvelin (1906). Nel
saggio su «Magie et droit individuel», Huvelin (1905-06, 33-4) mostra come
la stipulazione presso i popoli germanici si rende obbligatoria attraverso rune
iscritte su un’arma o su un bastoncino segnato (la festuca notata) e formulando
giuramenti solenni nei quali il debitore tiene in mano il bastoncino e lo getta
poi al creditore in segno di esecrazione all’obbligo a cui si sottomette, o lo consegna semplicemente al creditore come pegno. Su questo ritorna Mauss (192324, 266).
34
Attraverso la donazione di arre – secondo Huvelin (1905-06, 32-3n.) –
si stipula un contratto reale degenerato, ossia le arre servono da pegno, una
sorta di moneta sacrificata alla divinità a garanzia di un giuramento, mezzo
di prova, e di accettazione della sottomissione a una maledizione in caso di
ripudio.
11 - Il debito originario
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La ricchezza non è più fatta per essere elargita. In alcuni testi
del brahmanesimo i riti della carità e dell’ospitalità hanno il potere di conferire saggezza, sapienza, merito in chi li osserva e cibo,
proprietà, bestiame non sono distrutti ma rigenerati nuovamente.
«L’avarizia interrompe il circolo del diritto, dei meriti, degli alimenti che rinascono gli uni dagli altri» osserva Mauss (1923-24,
257). La prodigalità e lo spreco erano invece la «molla dell’interesse» che in quelle civiltà precapitalistiche
funziona diversamene che da noi. Si tesaurizza, ma allo scopo di spendere, di “obbligare”, di disporre di “uomini ligi”. Si effettuano scambi,
ma di oggetti di lusso, di ornamenti, di vestiario, o di cose che vengono
immediatamente consumate, di banchetti. Si ricambia ad usura, ma per
umiliare colui che ha donato o scambiato per primo, non soltanto per ricompensarlo della perdita che gli procura un “consumo differito”. Esiste
un interesse, ma questo interesse è solo analogo a quello che, a quanto si
dice, ci guida. (Mauss 1923-24, 282-3)
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11.4. L’accumulazione del denaro come metamorfosi del sacro
capire l’economia e il denaro moderni significa comprenderne il rapporto con l’economia e il denaro arcaici. Ma
tale atteggiamento storico, e quindi anche filosofico, nei
confronti del denaro, è proprio ciò che manca alla teoria
economica moderna in tutte le sue manifestazioni. (Brown,
1986, 274).
Le proprietà magiche che la casta sacerdotale egiziana ha
infuso nell’antichità al metallo giallo non sono mai scomparse del tutto. (Keynes 1930, II, 467-8 [cap. 35.i]).
Nell’uomo moderno, la colpa è aumentata al punto che
non è più possibile espiarla con le annuali cerimonie di
rigenerazione […] la categoria della colpa cumulativa rende possibile l’economia dell’interesse composto. (Brown
1986, 312).
Se il racconto della formazione della società, dell’economia e della moneta narrato dagli economisti liberali classici e neoliberali
moderni si sviluppa pianamente lungo linee evolutive “naturali”,
tuttavia, una più profonda analisi genealogica e interdisciplinare
di tali formazioni rivela fondamenti e processi inattesi, che risul-
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terebbero invisibili e, forse, persino incomprensibili, usando solo
la lente degli storici e degli economisti tradizionali.
Secondo Norman Brown (1986), va del tutto invertita la
descrizione storica e antropologica dell’origine degli scambi,
del mercato e del capitalismo, portata avanti pressoché unanimemente dai classici della teoria economica. Infatti, il loro ragionamento si basa su un assioma dal quale poi parte tutta la
deduzione della nascita e crescita della società e dell’economia.
L’assioma recita che l’attività economica è intrinsecamente razionale, cioè sempre governata dal calcolo economico, quindi lo
è da sempre, fin dalla preistoria. Allora, secondo questo assioma,
l’economia avrebbe addirittura rappresentato, fin dall’inizio dei
tempi, un seme di luce razionale immerso in un oscuro contesto
irrazionale (religioso, superstizioso, cognitivamente primitivo).
Da questa luce razionale sarebbero derivati storicamente i processi evolutivi sociali e le istituzioni sociali: la divisione del lavoro con la corrispondente istituzione del mercato, l’istituzione
della proprietà, e soprattutto l’istituzione del denaro che, in connessione col mercato, fornisce sia il mezzo di scambio che la misura del valore. Invece, sostiene Brown, le conoscenze dell’antropologia smentiscono del tutto l’assioma dell’economia come
seme di luce razionale oggi liberatasi dall’involucro dell’irrazionale arcaico: all’origine, l’economia arcaica non ha nulla a che
vedere con la razionalità del calcolo economico, anzi è del tutto
elemento cruciale, se non fondante, di una visione del mondo e
della società antitetica a quella moderna. E questo non è altro
che ciò che sostiene anche Karl Polanyi, quando sottolinea che
se c’è una cosa che mette d’accordo tutti gli etnografi è proprio
il fatto che l’economia arcaica non ha nulla a che vedere col calcolo economico e con l’homo oeconomicus:
È su questo solo punto negativo che i moderni etnografi sono d’accordo:
l’assenza del motivo del guadagno; l’assenza del principio di lavorare
per un compenso; l’assenza del principio del minimo sforzo; e soprattutto l’assenza di qualsiasi istituzione separata e distinta basata su motivi
economici (Polanyi, 1944, 47).
Quale ruolo svolge il denaro nell’economia arcaica? Questo
ruolo è diverso da quello svolto nell’economia moderna? Può
11 - Il debito originario
299
questo ruolo arcaico indicarci qualcosa di importante su come interpretare più profondamente anche il ruolo moderno?
Se è vero che nell’economia arcaica, data la pochezza degli
scambi, al denaro non possono essere attribuite, al contrario che
nell’economia moderna, le importanti funzioni di mezzo di scambio e di misura del valore delle merci, tuttavia al denaro – o alla
tipologia di oggetti che lo rappresentano – deve essere attribuita
l’importante funzione di mezzo per raccogliere e accumulare ricchezza. Questa specifica funzione del denaro arcaico è anche una
indicazione per rivalutare la medesima funzione del denaro moderno, per rispondere alle questioni che la moneta implica nella
moderna scienza economica:
Se lo studio dell’economia arcaica mostra che, almeno in senso storico,
la funzione primaria del denaro consiste nella raccolta e nella accumulazione della ricchezza, esso spinge la moderna teoria economica a rivedere l’importanza attribuita tradizionalmente alla funzione del denaro
in quanto mezzo di scambio. La teoria economica moderna, con i suoi
problemi insoluti a proposito della teoria del denaro e dell’interesse, potrebbe trar giovamento da questa indicazione (Brown 1986, 276).
Verrebbe subito da domandarsi, con la moderna mentalità
economica, come sia possibile che pietre, conchiglie, piume, denti, ovvero la moneta arcaica, oggetti senza valore d’uso, possano
essere tesaurizzati e accumulati come ricchezza.
Gli antropologi hanno rilevato come questo denaro arcaico
ha il ruolo di conferire prestigio35 sociale a chi lo possiede. Ma, sia
il valore dell’inutile pietra che il prestigio da essa conferito, sono
palesemente di origine magico-religiosa, quindi appartenenti
all’ambito del sacro36.
Questo
E
L’etimologia del termine prestigio riporta al significato di illusione, inganno e persino a quello di “restare attoniti e abbagliati”, insomma qualcosa che
ha a che fare con la presenza del magico o del numinoso.
36
È ovvio osservare che in tale ambito il significato del valore non può avere
nulla a che vedere con il risultato di una massimizzazione vincolata di una funzione
di utilità, costruita sulla base di assunzioni estremamente restrittive e scarsamente
plausibili, che costituisce il fondamento del valore delle cose secondo la scienza
economica odierna. Sembrano, quindi, quello arcaico in cui si dà valore a una pietra
e quello odierno in cui si dà valore al calcolo ingegneristico di una immaginaria
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Parte II - Moneta e debito
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Questo
Per Brown la comparsa del privilegio e del potere non si ha
nel passaggio da una società arcaica collettivista (per lui, il comunismo primitivo è una lettura errata dell’economia arcaica) alla
proprietà privata, ma in quello davvero iniziale del passaggio da
scimmia a uomo.
Per esempio Brown ricorda che è stato dimostrato i) che il
noto fatto secondo cui in Omero il bestiame serve da moneta deriva non tanto dal bestiame in quanto bene di consumo, quanto
dal significato sacro del bestiame nel sacrificio e nel pasto cerimoniale, ii) che i primi mercati erano mercati sacri, che le prime
banche erano i templi, e che i primi a battere moneta furono sacerdoti o re-sacerdoti. Sarebbe quindi una “deformazione” degli
economisti moderni ritenere la moneta, il mercato o la banca, istituzioni economiche “razionali”, originariamente sorte per caso, o
meglio per evoluzione spontanea, in un contesto religioso, e non,
invece, istituzioni intrinsecamente sacre e quindi non razionali.
Ma sarebbe altrettanto un errore spiegare le moderne istituzioni
economiche come il risultato di un fenomeno di “laicizzazione”
di istituzioni anticamente religiose, quando invece si tratta ancora del sacro metamorfizzato: «In origine il potere era sacro, ed
esso rimane tale nel mondo moderno. Ancora una volta non dobbiamo lasciarci trarre in inganno, e non dobbiamo considerare
“laicizzazione” ciò che è solamente una metamorfosi del sacro»
(Brown 1986, 284). Pertanto, una prima correzione e demistificazione va condotta, secondo Brown, anche rispetto a chi, come
Keynes, riconosce senza alcun dubbio l’origine sacra del denaro,
postulando però la visione moderna del denaro come una “laicizzazione” tout court del medesimo, che semplicemente lo spoglia,
in un mondo moderno razionale, dei pregiudizi religiosi che paludavano la sua origine, rendendolo così “razionale”.
Quali sono i simboli del denaro, sia antico che moderno, che
ne evidenziano con pochi dubbi la “irrazionale” marchiatura del
sacro? Brown ce ne elenca almeno tre: i) la copertura aurea; ii)
E-book
massaia, due ambiti irrelati e incommensurabili, di cui, peraltro, sarebbe difficile
dire quale abbia maggior senso. Tuttavia, nel caso della moneta, come anche dell’interesse o del lavoro o di altre istituzioni centrali nella scienza economica, lo sguardo
dell’“archeologo” può rivelare relazioni sorprendenti fra i due ambiti.
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l’interesse sul denaro; iii) il valore “immaginario” attribuito all’oro e all’argento, valore, peraltro, che, se misurato in termini di
utilità, non supera quello delle conchiglie o delle pietre dei tempi
premoderni.
Brown fa rilevare come il problema del denaro sia stato affrontato già con un piede paradossalmente sbagliato. Per confermare questo, basta osservare come esso venga correntemente
considerato: il denaro è visto come cosa sommamente razionale.
Anzi, di più, come cosa che consente alla razionalità di esplicarsi
nel mondo sociale ed economico. Ancora di più, come cosa necessaria alla esplicazione di quella razionalità. Quest’ultimo punto
appare evidente nella affermazione di von Mises, secondo la quale in una società socialista priva di denaro verrebbero necessariamente meno le condizioni per il calcolo razionale dell’economia37,
e quest’ultima sarebbe semplicemente irrazionale38:
Anche Frank Knight, che pure sarà co-fondatore con von Mises della
Mont Pèlerin society (vedi parte III), liquida in modo piuttosto netto la “scoperta”
di von Mises, riconoscendo che una società pianificata potrebbe raggiungere tutti
i risultati che volesse, incluso i medesimi risultati di quella americana, l’unica
obiezione essendo magari la spietata dittatura, secondo lui, necessaria gemella
della pianificazione: «la “scoperta”, del professor Ludwig von Mises, che un’economia collettivistica in pace non è in grado di organizzare e calcolare l’organizzazione della produzione. È vero che il professor Mises ha sostenuto questa “impossibilità”, ma la posizione è indifendibile. Il fatto essenziale è che il governo di uno
stato collettivista farebbe qualsiasi cosa gli piacesse, entro i limiti della possibilità
fisica e umana, cioè politica, e delle proprie competenze. Potrebbe “teoricamente”
gestire la società economica sostanzialmente nel modo in cui, diciamo, gli Stati
Uniti d’America sono gestiti oggi, per quanto riguarda le attività degli uomini
e i loro risultati, collettivi e individuali. […] Le autorità di uno stato collettivista
dovrebbero avere potere illimitato e sicurezza di possesso e dovrebbero esercitare
il loro potere spietatamente per mantenere in funzione le macchine di produzione e distribuzione organizzate. Dovrebbero far rispettare gli ordini senza pietà e
sopprimere ogni disputa e argomento sulle politiche; e, come condizione per la
minima efficienza, dovrebbero anche fare tutto il possibile per rimuovere i motivi
della differenza di opinione, dando alla gente le “informazioni” appropriate e il
condizionamento degli atteggiamenti, cioè “propaganda”» (Knight 1938, 867-8).
Una critica analoga anche in Schumpeter (1942, 179 [cap. XVI]).
38
Brown rileva come, a suo avviso tristemente, la risposta “socialista” di
Dobb (1955) invece di costruire un nuovo modello di razionalità che possa liquidare l’homo oeconomicus in quanto semplicemente irrazionale, abbia piuttosto cercato
di dimostrare che il socialismo non è incompatibile con il «calcolo economico-ra37
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Parte II - Moneta e debito
Proprio perché nessuna merce diventerà oggetto di scambio, sarà impossibile determinarne il valore monetario […] In uno Stato socialista il
denaro non potrebbe mai svolgere la funzione che esso svolge in una società capitalistica per la determinazione del valore delle merci. Saranno
impossibili i calcoli in termini di denaro […] Non ci sarebbero mezzi per
determinare cosa è razionale, ed è quindi ovvio che la produzione non
potrebbe mai essere diretta da considerazioni economiche (Mises cit. in
Brown 1986, 270).
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zionale» e col principio dell’economicità, magari mitigato da una sottomissione
del calcolo economico alla considerazione del «benessere sociale». Si osservi che
le tesi di Mises, sul calcolo economico nelle economie pianificate, non convinsero
neppure il suo suo protégé Friedrich Hayek che, – come sostengono Mirowski e
Nik-Khah (2017, 62) – abbandonò «la curiosa insistenza di Mises che qualsiasi
“calcolo” sarebbe impossibile in un’economia socialista, per rimpiazzare quella
proposizione con un’altra apparentemente più credibile che sarebbe impossibile
collazionare e dispiegare tutta la conoscenza necessaria per coordinare l’economia
con lo stesso successo che può realizzare il mercato».
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Anche sociologi come Pareto e Durkheim, sebbene abbiano
istituito l’antitesi fra sacro e profano per arrivare ad affermare
che la società deve sempre essere considerata una sovrastruttura
profana su una base sacra, hanno mantenuto il denaro nell’ambito del profano e quindi, data la comune posizione razionalista
che equipara il razionale a tutto ciò che non è sacro (inteso come
non religioso), nell’ambito della razionalità. Invece, per Brown e
per la sua visione psicoanalitica (freudiana) della storia, il denaro
ha la struttura fondamentale della religione o, se si vuole, della
negazione della religione, cioè il demoniaco, e al problema del
denaro si devono invece attribuire i paradossi della irrazionalità e
della sacralità, ribaltandone così la visione “razionalista” ed “economicista” del tutto dominante da sempre; paradossi di cui già
il Marx dei Manoscritti economico-filosofici aveva avuto intuizione,
descrivendo come due forme di alienazione umana il complesso
del denaro paragonato al complesso religioso, e mostrando anche
di aver intuito come dietro al lavoro alienato obbligatorio vi fosse
alle origini (quando la produzione principale era quella dei templi) il servizio agli dei (che, come dice Brown, significherebbe ammettere, in termini psicoanalitici, che il lavoro alienato non è che
una necessità psicologica interiore dell’uomo, ma questo Marx
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non lo riconosce per attribuire invece a una forza, la proprietà del
capitale, l’alienazione ed espropriazione del lavoro umano). Questa osservazione introduce a una più profonda dicotomia nell’analisi dei rapporti sociali: è la forza esterna che istituisce il potere
dell’uomo sull’uomo, o è una manifestazione psicologica interna
che incatena l’uomo al lavoro alienato ed espropriato?39
già Lutero aveva visto nel denaro l’essenza del profano e quindi del demoniaco. Il complesso del denaro è il demoniaco, e il demoniaco è la
simia Dei; il complesso del denaro è quindi l’erede del complesso religioso, un tentativo di trovare Dio nelle cose […] il denaro è, nelle parole di
Shakespeare, “il Dio visibile”; nelle parole di Lutero, “il Dio di questo
mondo” (Brown 1986, 272).
Sebbene Marx studi il capitalismo all’interno del paradigma
del calcolo economico ed erediti la cornice categoriale dell’economia politica classica, per cui il denaro nasce nel mercato come
mezzo di scambio e misura del valore delle merci, egli scopre
subito che nelle metamorfosi della merce ‒ da bene in vendita
a bene in acquisto ‒ durante la circolazione (M-D-M’) esiste il
momento in cui la moneta, da semplice lubrificante dello scambio come avrebbe detto Mill, diventa denaro, da liquido che si
dilegua diventa immobile tesoro. È un richiamo primigenio che
spinge a vendere il più possibile per acquistare il meno possibile, in modo che il denaro si accumuli: «Col primo svilupparsi
della stessa circolazione delle merci si sviluppa la necessità e la
passione di fissare il prodotto della prima metamorfosi, la figura
trasformata della merce, ossia la sua crisalide d’oro» (Marx 1867,
158 [cap. 3.a)]).
Alcuni grandi studiosi del ‘900 hanno in generale dimostrato
che l’economia arcaica non obbedisce al calcolo economico. Po«Se la causa del male fosse la forza, basterebbe “espropriare gli espropriatori”. Ma se non è stata la forza a instaurare il dominio del padrone, forse allora lo schiavo è in qualche modo innamorato delle proprie catene. […] Ammesso
che ci sia una classe che non ha niente da perdere se non le sue catene, le catene
che la costringono sono autoimposte, sono obblighi sacri che appaiono come fatti
oggettivi con tutta la forza di un delirio nevrotico. La scoperta che la lotta di classe
si fonda su dei miti sta alla base delle classiche Riflessioni sulla violenza di Sorel»
(Brown 1986, 274, 284).
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lanyi ha sostenuto che in generale i principi essenziali della società arcaica sono basati su reciprocità, ridistribuzione e autarchia
familiare40, mentre Malinowski (1921) – in un articolo sull’Economic Journal – scopre come l’incentivo al lavoro e la divisione
del lavoro siano sostenuti da un complicato sistema obbligatorio
di scambi di doni, e Mauss sistematizza la teoria antropologica
facendo di quel sistema del dono il paradigma interpretativo
dell’intera economia arcaica.
Ma, secondo Brown, sarebbe riduttivo ed alla fine errato credere, con Mauss, che lo scambio dei doni corrisponda ad una
forma arcaica di solidarietà sociale (come ricordato, anche per
Mauss il meccanismo dono e ritorno di contro-dono è più complesso e non esauribile nel solo vincolo solidale, che è sempre
parte di una tensione di conflitto-pacificazione; in questo senso,
Brown pare aver accentuato la propria vis polemica proponendo
un’osservazione che pare del tutto in linea con l’analisi di Mauss).
La proprietà magica dello scambio di doni di cui parla Mauss, sarebbe, vista in questa ottica, il potere di spartire il senso di colpa.
All’opposto dell’uomo egoista e utilitarista, l’uomo arcaico «dona
perché vuole perdere; la sua non è una psicologia egoistica ma di
autosacrificio; donde l’intrinseco nesso con il sacro. Gli dèi esistono per ricevere doni, cioè sacrifici; gli dèi esistono per dare una
struttura al bisogno umano di autosacrificio» (Brown 1986, 298).
L’uomo arcaico rinuncia al godimento e si rende prono al lavoro
coatto per creare quel surplus economico necessario, in quel contesto, per poter avere beni da donare.
Quindi, qui, si va aldilà del riconoscere alla base del comportamento umano il principio del piacere o della felicità, come
postulato da Durkheim e Freud, per introdurne uno dettato dalla colpa e dal debito primigenio. Non entriamo qui nelle ipotesi
sull’origine di tale colpa, fossero i fatti, supposti reali da Freud,
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«L’economia dell’uomo è di regola immersa nelle sue relazioni sociali.
Egli non agisce in modo da salvaguardare il suo interesse individuale con il possesso di beni materiali; egli agisce in modo da salvaguardare la sua condizione
sociale, le sue pretese sociali, i suoi vantaggi sociali. Egli apprezza i beni materiali
solo nella misura in cui servono a questo scopo […] Il sistema economico sarà
mosso da motivazioni non economiche» (Polanyi 1944, 46).
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del parricidio compiuto dall’orda primitiva, o quello “religiosamente” rivelato della caduta nel peccato di Adamo, né sulla ipotesi, avanzata da Brown, che abbandonando il principio comportamentale del piacere, la psicologia dell’economia si collochi in
un altro ambito, più oscuro e più incombente, quello dell’istinto
di morte41, ma evidenziamo soltanto che l’intera economia si basa
su una logica tutta interna al senso della colpa ‒ come mirabilmente mostrato da Nietzsche con i nessi semantici di “colpa”
e “debito” nel termine tedesco Schuld, e dall’economia classica
con la teoria del valore-lavoro ‒ e che l’accumulazione del denaro sia una accumulazione di colpa. L’evoluzione della coscienza
umana fino alla cruciale riforma protestante è responsabile della
trasformazione dall’economia arcaica, immersa nell’aspetto sacro-religioso, all’economia moderna completamente laica, dove
in quest’ultima si sostituisce la passione ‘acquisitiva’ dell’homo
oeconomicus a quella del dono dell’uomo arcaico. Ma, come dicevamo, sarebbe un errore vedere nell’economia moderna il risultato della “laicizzazione” e “razionalizzazione” di quella arcaica.
Quindi, non sarebbero né Pacioli né l’illuminismo deista e ateo i
vettori dell’economia moderna. Piuttosto va sottolineato il fatto
che, mentre nell’ economia arcaica c’è ancora la speranza della
mitigazione, della spartizione, della remissione del debito e della
colpa in un ambiente pervaso dal sacro e popolato da dei, nell’economia moderna, il peso della colpa non è più estinguibile, dal
momento che le opere non salvano più, come dice Lutero, e la
fede in Cristo salvatore – che avrebbe realmente rimesso i debiti
per tutti – svanisce con la diffusione del “laicismo”. Rimane solo
il lavoro come autopunizione, la rinuncia al godimento e l’accu-
«In Al di là del principio di piacere Freud ha affermato l’esistenza, nell’apparato psichico, di una funzione indipendente dal principio di piacere, più primitiva di esso, che sembra porre all’organismo umano “un altro compito, che deve
essere risolto prima che possa instaurarsi il dominio del principio di piacere” […].
Il suo studio scoprì molti elementi: l’angoscia, la coazione a ripetere, il sadismo
e il masochismo, la colpa, l’istinto di morte. Secondo Freud tutti questi aspetti
erano in relazione tra loro, e in ultima analisi li si doveva considerare tutti come
manifestazioni della pulsione di morte. Noi avanziamo l’ipotesi che la psicologia
dell’economia si trovi in questo ambito, l’ambito dell’istinto di morte» (Brown
1986, 298-9).
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mulazione della colpa ovvero del denaro. Marx si avvicina a questa interpretazione, quando tratta, nel Libro primo del Capitale,
del fenomeno della tesaurizzazione:
Per tener fermo l’oro come denaro […] gli si deve impedire di circolare,
ossia di risolversi come mezzo di acquisto in mezzi di consumo. Quindi il
tesaurizzatore sacrifica i suoi piaceri carnali al feticcio oro. Egli prende
sul serio il vangelo della rinuncia. […] Quindi le sue virtù cardinali sono:
laboriosità, parsimonia e avarizia, poiché la somma della sua economia
politica è: vender molto, comprar poco. (Marx 1867, 161 [cap. 3.3 a)])
All’economia moderna basata sull’accumulazione costante di denaro ha contribuito anche l’irruzione del tempo lineare
giudaico-cristiano, venuto a rimpiazzare quello ciclico arcaico.
Col tempo lineare, l’espiazione ciclica della colpa è preclusa; la
colpa può solo essere accumulata e la storia non può che essere
la storia dell’accumulazione di denaro42, e, inoltre, come osserva
acutamente Brown, l’accumulazione della colpa permette e trova
il suo corrispettivo nella forma dell’interesse composto. Qui ritorna visibile un possibile senso di motti come “il tempo è denaro”
oppure di teorie come “l’interesse dipende dal tempo”: nel tempo lineare, l’accumularsi del tempo è l’accumularsi della colpa, e
l’accumularsi della colpa è l’accumularsi del denaro:
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Nell’uomo moderno, la colpa è aumentata al punto che non è più possibile espiarla con le annuali cerimonie di rigenerazione. La colpa è dunque cumulativa, e quindi il tempo è cumulativo. L’espiazione annuale
della colpa, come mostra Eliade, comprova che la società arcaica non
aveva storia. La colpa cumulativa impone un destino storico alle società
moderne; i peccati dei padri sono puniti nei figli fino alla terza e alla
quarta generazione. E la categoria della colpa cumulativa rende possibile l’economia dell’interesse composto. Il tempo faustiano e il denaro
faustiano, per usare la metafora di Spengler, sono il tempo e il denaro di
chi è irredimibilmente dannato (Brown 1986, 312).
Ci viene in mente, qui, la teoria di Braudel (1981) che il capitalismo e
l’accumulazione di capitale siano esistiti, seppur sotto forme cangianti e proteiformi, da sempre, siano quindi l’invariante della storia, e non il frutto moderno
di una certa evoluzione dei rapporti economici e politici, come vogliono le maggiori interpretazioni storiche e sociologiche, da Marx alla storiografia liberale e
a Weber.
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Anche rispetto al tema della moderna metamorfosi del sacro espressasi in accumulazione infinita della colpa e del denaro,
Marx sembra presagire tale metamorfosi; definendo l’illimitatezza come la proprietà qualitativa del denaro, contrapposta alla
limitatezza del potere d’acquisto di una quantità concreta di denaro, Marx caratterizza la brama verso la “crisalide aurea” della
merce, che emerge già nella elementare circolazione delle merci,
come il mito di Sisifo, una condanna ad un accumulo infinito senza possibilità di uscita: «Questa contraddizione fra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre
il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell’accumulazione» (Marx
1867, 161 [cap. 3.3 a)]).
In conclusione, una volta ammessa, da vari indizi e connessioni genealogiche, la plausibilità dell’accumulazione del denaro
nel capitalismo come una metamorfosi del sacro, potremmo concordare con Brown, che, da questo punto di vista, la storia della
moneta è ancora tutta da scrivere e, anche, che le indicazioni che
potrebbe fornire alla moderna teoria economica potrebbero essere rilevanti.
la rupia […] è praticamente un biglietto di banca stampato
su un pezzo d’argento. (Keynes 1913a, 26 [ch. III])
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I coni erano sempre emessi al valore nominale eccedente
il loro valore intrinseco e l’ammontare dell’eccedenza era
costantemente variabile. (Mitchell Innes 1913)
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11.5. Sulle origini della moneta dal debito
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una moneta unità di conto nasce con i debiti, che sono contratti di pagamento differito. (Keynes 1930, I, 3)
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Nel va e vieni dei rapporti tra donatore e beneficiario, come in
quelli tra creditore e debitore, c’è l’impegno di mantenere salda la
reciprocità tra contraenti, un impegno sulla finzione di non confondere né le cose, né le anime, per farle ritornare indietro a colui che le aveva cedute, insieme ad altre cose e, soprattutto, per
consolidare il rapporto e confermare le promesse. Nel passo sopra
citato di Mauss sui “bastoni scambiati”, o sulla stips, il riferimento
è ai token studiati da Alfred Mitchell Innes (1864-1950), un diplo-
Parte II - Moneta e debito
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matico britannico, con una formazione giuridica, appassionato di
storia dell’economia. Il suo contributo è stato recentemente ripreso dall’antropologo Graeber (2012, 44-5), ma soprattutto rivalorizzato da Randall Wray43. Tra il 1913 e il 1914, Mitchell Innes scrisse
due saggi, che andavano a scavare nella storia antica e moderna
della moneta e delle forme creditizie nel mondo occidentale. Il
primo, su “cos’è la moneta?”, non sfuggì a Keynes, che lo recensì
sull’Economic Journal a seguire di un’altra recensione dell’opera di
von Mises sulla moneta (Keynes 1914a e b). Fin dalle prime righe,
Keynes (1914a) espresse seri dubbi su quella che riteneva una «fallacy» teorica del saggio e cioè il suo fondamento su una teoria sviluppata da Henry Dunning Macleod (1889-91), che implicava la
filiazione della moneta dal credito. Sebbene Keynes non insistesse
più di tanto sul punto specifico, quei dubbi finirono per riflettersi
in una prudente valutazione della intera ricerca storica di Mitchell
Innes. Il discredito di Keynes rispetto alla teoria di Macleod può
essere spiegato attraverso Schumpeter. Schumpeter, che per molti
versi poteva essere sensibile alle idee di Macleod, lo ritenne un
economista «dai molti meriti», senza la fortuna «di esser preso
sul serio» per la «sua incapacità di esprimere molto buone idee
in una forma professionalmente accettabile» (Schumpeter 1954,
1115n. [parte IV, ch. 8, 7]). La critica di Keynes gettava un’ombra
sul lavoro storico di Mitchell Innes, a causa dell’accenno ai deboli
fondamenti teorici del suo approccio44, sebbene in Indian Currency
del 1913 avesse espresso il medesimo concetto di Innes riguardo
alla rupia indiana, cioè di non essere altro che «un biglietto di banca stampato su un pezzo d’argento» (Keynes 1913a, 26 [ch. III])45.
Keynes resta comunque colpito dall’idea che la moneta premoderna fosse una moneta «inconvertibile» e, pertanto, non solo in
India, ma anche nella storia europea, antica e moderna, la moneta
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Mitchell Innes nel 1913 e 1914 pubblicò due importanti saggi nella rivista The Banking Law Journal, senza molta risonanza e influenza sugli studi successivi. Graeber (2012) riprende le conclusioni di Mitchell Innes nei capitoli iniziali.
44
Si vedano anche i commenti di Wray e Bell (2004, 1-2) alla recensione di
Keynes.
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L’originale è «the rupee, being a token coin, is virtually a note printed on
silver». Il “token coin” è, letteralmente, un buono, o contrassegno, coniato.
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mostrasse un’intrinseca natura fiduciaria e di prodotto poco “neutrale”, quindi non un espediente tecnico, ma, invece, un dispositivo storicamente determinato da decisioni politiche e istituzionali.
La frase di Mitchell Innes, che Keynes riporta e commenta, è significativa: «non c’è mai stato, fino a un’epoca a noi molto recente,
un rapporto fisso tra un’unità monetaria e un qualsiasi metallo,
cioè, di fatto, non c’è mai stato un qualcosa come uno standard di
valore metallico». Inoltre, le monete di conto erano fissate o per
convenzione o dalle autorità, e quelle coniate altro non erano che
gettoni metallici in leghe con metalli preziosi senza corrispondenza stretta e fissa tra valore facciale e valore intrinseco. Mitchell Innes era molto chiaro su questo punto:
I coni erano sempre emessi al valore nominale eccedente il loro valore
intrinseco e l’ammontare dell’eccedenza era costantemente variabile. Il
valore nominale delle monete d’oro non recava alcun rapporto fisso con
le monete d’argento, così gli storici che hanno cercato di calcolare il ratio
vigente tra oro e argento sono giunti a risultati sorprendenti. […] Il fatto
è che i valori ufficiali erano puramente arbitrari e non avevano nulla a
che fare con il valore intrinseco delle monete. Infatti quando i re desideravano ridurre le loro monete al valore nominale più basso possibile
emettevano editti che sarebbero state accettate solo al loro valore metallico. A volte c’erano molti editti in vigore che si riferivano a cambiamenti
di valore delle monete che nemmeno un esperto poteva dire quali fossero i valori delle varie monete di diverso conio finendo per diventare beni
altamente speculativi (Mitchell Innes 1913, 14-49, al § 3).
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Queste conclusioni erano suffragate da una serie di evidenze
sia su epoche antiche che moderne, dalle quali emergeva nettamente che l’uso del credito era più antico di quello della moneta
e la moneta non era altro che un mezzo per rappresentarlo, come
avveniva con i token, cioè un buono di credito e segno di valore.
Nella recensione, Keynes riporta lunghe frasi dal saggio per
giungere, in coerenza con l’attacco iniziale, a una sospensione di
giudizio: «è difficile accertare tali affermazioni [le tesi del saggio]
o esser certi che esse non contengano qualche elemento di esagerazione» (così a p. 421), ma, alla fine spezza comunque una lancia
in favore di Mitchell Innes, ritenendo che molti «scrittori siano
stati eccessivamente influenzati dai dogmi del XIX secolo sulla
“sana moneta circolante” (sound currency)».
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A fronte di un giudizio così misurato e prudente sul saggio di
Mitchell Innes, Keynes non si mostrava altrettanto benevolo nella
recensione su un’opera destinata a diventare o a creare il mainstream della visione neoclassica sulla moneta, ovvero il libro di von
Mises del 1912. Su tale libro il giudizio di Keynes è pungente e severo. Il lavoro – osserva – «è critico più che costruttivo, dialettico
e non originale […]. Uno chiude il libro, quindi, con un senso di
disappunto che un autore così intelligente, così candido, e, dopo
tutto, così facile da leggere, sia così poco di aiuto a chiarire e a
fornire una comprensione costruttiva sui fondamenti del suo oggetto di studio» (Keynes 1914b, 417), dunque sia inutile rispetto ai
fondamenti teorici della moneta e dei mezzi di pagamento.
Keynes, negli anni successivi, approfondì le proprie conoscenze sui sistemi monetari antichi attraverso la letteratura antropologica e storica (Keynes 1982, per il cap 2: “Keynes and Ancient
Currencies”, pp. 223-94). Quindici anni dopo la recensione sopra
discussa, le sue posizioni erano diventate quelle di Mitchell Innes. Nel 1930 Keynes ha un’idea molto chiara sull’origine e sulla
natura della moneta e l’esprime fin dal secondo capoverso del
suo Trattato sulla moneta:
una moneta unità di conto [money of account] nasce con i debiti, che sono
contratti di pagamento differito, e con i listini dei prezzi, che sono offerte
di contratti per la vendita o l’acquisto. Debiti e listini prezzi, che siano
registrati per ordine verbale o per iscritto su piastrelle di terracotta o in
documenti cartacei, possono essere espressi solo in termini di una moneta di conto» (Keynes 1930, I, 3)46.
E prosegue:
La moneta stessa, vale a dire quella che con la sua consegna estingue
contratti di debito e commesse a prezzo predeterminato, e quella che
è detenuta come riserva di potere d’acquisto, deriva il suo carattere dal
rapporto con la moneta di conto, poiché debiti e prezzi devono prima
di tutto essere espressi in tale unità. Talvolta può essere accostata alla
moneta [circolante] per i pagamenti in contanti [on the spot] quando è
semplicemente usata come un comodo tramite di scambio nella misura
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La versione proposta differisce dalla trad. it. (Keynes 1930 [1979], I, 17).
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La natura creditizia (debitoria) della moneta si riscontra anche in Galiani, ma sembra più intesa quale residuo di dottrine
giuridico filosofiche, per dare un’immediata «certezza del debito», al fine anche di far dipendere la moneta da un valore intrinseco, fuori da ogni controllo statale, secondo il principio che anche
tale autorità deve rispettare e soggiacere al valore del metallo, alla
sua “legge di natura”:
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in cui può rappresentare un mezzo di riserva di generale potere d’acquisto (Keynes 1930, I, 3).
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Le rappresentazioni della moneta altro non sono che manifestazioni d’un
debito. Dalla difficile imitazione nasce la loro sicurezza; dalla fede e virtù
del debitore la loro accettazione. È perciò il loro valore composto dalla
certezza del debito, dalla puntualità del debitore, e dalla veracità del segno che si ha in mano. Quando tutti i tre sopraddetti requisiti sono al
sommo grado sicuri, la rappresentazione eguaglia il valore della cosa
rappresentata; giacché gli uomini tanto stimano il presente, quanto il futuro, che certamente ad ogni atto di volontà divenga presente. Perciò tali
rappresentazioni, trovando agevolmente chi le prenda, diventano monete, che si potriano dire in tutto eguali alle vere, se non fosse ch’elle divengono cattive e false subito che perdono alcuno de’ sopraddetti attributi,
i quali non essendo intrinsechi alla natura loro, non vi stanno così fermi
addosso come la bellezza e lo splendore a’ metalli componenti la vera
moneta. (Galiani 1750, 266 [libro IV, capo iv])
L’imitazione funziona alla perfezione se il segno autentico
possiede la triplice qualità di certezza, esatta solvibilità e veridicità, in sostanza, se quasi non c’è, paradossalmente, esigenza di
quel dover dar fiducia che, dall’età dei Lumi, si crede possibile e
abbia consistenza materiale in quei metalli sui quali stanno «fermi addosso […] la bellezza e lo splendore».
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Capitolo 12
LA DESOVRANIZZAZIONE DELLA MONETA
12.1. Debito, colpa, morale e regolazione della vita sociale
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Alla fine, che cos’è un debito? Un debito è solo la perversione di una promessa. È una promessa corrotta dalla matematica e dalla violenza. (Graeber 2012, 379)
credi per capire. Prima viene la fede, segue l’intelligenza,
(Agostino, Discorso 118, 1)
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Maledetta quella rete mortale di debiti che non può fare
a meno dei libri mastri. Sarei libero come l’aria, e invece
sono segnato nei libri di tutto il mondo. (Melville 1976, 394
[cap. 108])
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Per Keynes la moneta, che è anzitutto mezzo per far funzionare
un sistema di contabilità sociale1, affonda dunque le sue radici
nel debito. L’origine della moneta è posta sotto un’altra luce, se
considerata attraverso le note pagine di Nietzsche sull’antropologia in Genealogia della morale. L’incipit della seconda dissertazione
(par. 1) è significativo: «Allevare un animale, cui sia consentito fare
delle promesse – non è forse esattamente questo il compito paradossale impostosi dalla natura per quanto riguarda l’uomo? non
è questo il vero e proprio problema dell’uomo?» (Nietzsche 1887,
45 [II dissertazione, 1], i corsivi sono nel testo)2.
L’“animale” in questione è solitamente «oblioso» perché la
forza del dimenticare è «una forma di vigorosa salute», ma, nonostante ciò, l’uomo ha plasmato la facoltà antitetica della memoria, come sospensione dell’oblio, per mettersi in condizione «di
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1
Alle stesse conclusioni giunse, con un altro percorso intellettuale, e
all’incirca negli stessi anni, Schumpeter (1990 e 1996). La non pubblicazione e incompletezza del trattato schumpeteriano è giustificata dall’uscita del Treatise keynesiano che spinse Schumpeter a lasciare nel cassetto il proprio lavoro.
2
Cfr. anche Scapolo (2015, 103-24) e Stimilli (2011 e 2015).
314
Parte II - Moneta e debito
fare una promessa» (Nietzsche 1887, 46 [II, 1]). Nella Ricchezza
delle Nazioni di Adam Smith, il legame sociale fondamentale è lo
scambio, che avviene per istinto naturale, per quella «particolare
inclinazione della natura umana […] a trafficare, a barattare e a
scambiare una cosa con l’altra» (Smith, 1776, libro I, ii). Lo scambio è dunque solido cemento di socialità, di pacificazione delle
passioni, perché con esso avviene il riconoscimento dell’interdipendenza degli interessi di ciascuno. Nietzsche rovescia la questione per affermare un altro fondamento teorico, che collima con
le evidenze empiriche e logiche di larga parte dell’antropologia.
La memoria è la facoltà che emerge da un apprendimento «per
disporre anticipatamente del futuro» in modo tale da ipotecare
la parola (è il verbo preciso usato da Nietzsche) e dar consistenza
alla «memoria della volontà». Per far ciò l’uomo
deve aver prima imparato a separare l’accadimento necessario da quello
casuale, a pensare secondo causalità, a vedere e ad anticipare il lontano
come presente, a saper stabilire con sicurezza e calcolare e valutare in
generale quel che è scopo e quel che è mezzo in tal senso – quando, a
questo fine, deve prima essere divenuto, l’uomo stesso, calcolabile, regolare, necessario, facendo altresì di se stesso la sua propria rappresentazione,
per potere alla fine rispondere di sé come avvenire, allo stesso modo di
uno che fa promessa! (Nietzsche 1887, 46 [II, 1])
Sedgwick (2007, 61) sottolinea che la promessa sul futuro e la
responsabilizzazione da carico debitorio conferiscono il sentimento di osservanza della tradizione. La promessa guarda in avanti,
ma è credibile se dietro di essa si conferma l’identificazione con
una tradizione. Senza tradizione la promessa cadrebbe nel vuoto. E
le promesse mantenute danno, implicitamente, un riconoscimento
delle tradizioni. Le promesse guardano perciò al futuro, ma cercano validazione nel passato. Rendere l’uomo calcolabile, conforme
a norma e conseguente «è la lunga storia dell’origine della responsabilità» (Nietzsche 1887, 46 [II, 2]), della possibilità di fare promesse.
Fa parte di un processo di civilizzazione, di creazione di costumi,
di morale, di creazione d’identità. L’uomo giunge così a esercitare
una «signoria sovra di sé» e «sulle circostanze, sulla natura e su
tutte le creature di volontà più labile e insicura»; l’uomo con una
durevole volontà di promettere è «sovrano», gode di potenza e li-
Questo E-b
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12 - La desovranizzazione della moneta
315
bertà (Nietzsche 1887, 47 [II, 2]). La possibilità di farsi garanti di se
stessi realizza le condizioni per la fiducia, dà all’uomo la «superba
cognizione dello straordinario privilegio della responsabilità», cioè
di quella che Nietzsche ribadisce essere una potenza sovrana che
oltrepassa chi la esprime e dà coscienza di poter «farsi mallevadori
di se stessi» (Nietzsche 1887, 48 [II, 2 e 3])3.
Fare promesse presuppone «fabbricare una memoria», è far
uso di una «mnemotecnica» (Nietzsche 1887, rispettivamente 52
e 49 [II, 5 e 3])4 che si sviluppa sull’amministrazione della contabilità delle pene. Le leggi penali riconoscono le colpe e stabiliscono
le compensazioni in termini di sanzioni, castighi e forme di espiazione. La contabilità sociale inizia perciò dalla misura dei delitti
e delle pene. È la bilancia della giustizia che tenta di riequilibrare
i rapporti sociali, riportarli su un piano di pacificazione, per placare le liti, ristabilire concordia e fiducia. I due piatti della bilancia della giustizia dovranno attendere il frate matematico Luca
Pacioli per portare a perfezione pratiche mercantili di corretta e
razionale tenuta dei conti (la Summa de arithmetica, geometria, proportioni e proportionalità è del 1494).
Il calcolo del debito è un calcolo antico di dare e avere, di
memoria e di registrazione, di controllo e verifica dei rapporti sociali che si annodano e si sciolgono. Le Goff, quando propone una
“storia dei valori”, cioè di idee che sono anche principi morali
e di azione per una società, precisa un’importante questione di
metodo nell’indagine dei comportamenti individuali e collettivi,
con lo scopo di identificarne le motivazioni attraverso una filologia dell’epoca a cui lo storico o l’antropologo si riferiscono. E se
la parola – il concetto – non esprime alcuna sensibilità valoriale,
allora devono sorgere dubbi sull’esistenza stessa della cosa, dato
che non si trova adeguata rappresentazione nelle immagini verbali o figurative, metaforiche e non, della medesima. Insomma, se
La nozione di sovranità è richiamata più volte: «individuo sovrano»,
«istinto dominante», «uomo sovrano» e altre espressioni di potere. Il “principio
della responsabilità”, ricorda Sini (2015, 94-5), sta nella dialettica del riconoscimento tra i poli di dovere e potere.
4
Cfr. anche il commento di questi passi di Nietzsche in Deleuze e Guattari (1975, 160-1 e 207-9 e sull’antropologia nietzschiana 213-4).
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La precisazione di metodo è ripresa da Le Goff (1996, XVI), ma è comune
agli storici delle Annales che, fin dagli esordi della rivista, hanno insistito per non
cadere nella trappola di usare solo criteri di giudizio del tutto esterni a epoche
precedenti. Le Goff sottoscrive perciò l’idea di Clavero (1996) che, siccome nel
medioevo la nozione di “economia” non circolava nemmeno, quel che si intende
oggi con quel concetto non può essere trasferito all’indietro sic et simpliciter.
6
Si ricordi anche che per Nietzsche (1882, 124 [libro III, § 116]) «La moralità è l’istinto del gregge nel singolo».
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non esiste la parola per denotarla, non esiste neanche la cosa5. La
genealogia nietzschiana della morale introduce e segue lo stesso
principio di metodo quando afferma: «Il sentimento di colpa […]
ha avuto la sua origine nel più antico e originario rapporto tra
persone che esista, nel rapporto tra compratore e venditore, creditore e debitore» (Nietzsche 1887, 58 [II, 8]). La misurazione stessa
delle transazioni di compravendita è misura di crediti e debiti,
che hanno origine da quei rapporti e che li compensano, rimettendo al futuro memoria e possibilità di replica di quanto avvenuto in precedenza. Quelle transazioni originarie possono usare
lo stesso metro che misura le colpe e mette in debito il colpevole,
come l’acquirente che ha solo una promessa da dare in cambio.
La seguente precisazione, sempre di Nietzsche, mette in evidenza il legame comunitario di colpa-debito: «Sempre misurata sul
metro dei primordi […] anche la comunità sta coi suoi membri in
quell’importante, fondamentale rapporto che è proprio del creditore verso i suoi debitori. Si vive in una comunità, si godono
i vantaggi di una comunità […], si abita protetti, ben trattati, in
pace e fiducia, tranquilli relativamente a certi danneggiamenti e
ostilità ai quali l’uomo al di fuori, il “proscritto”, è esposto» (Nietzsche 1887, 59-60 [II, 19]). La comunità è una societas di creditori e
debitori, dove «il delinquente è soprattutto un “violatore”, uno
che ha trasgredito al contratto alla parola nei confronti del tutto, per
quanto riguarda tutti i beni e le comodità della vita comunitaria,
di cui fino a quel momento ha partecipato. Il delinquente è un
debitore che non soltanto non rifonde le utilità e gli anticipi a lui
corrisposti, ma addirittura mette le mani addosso al suo creditore» e la «collera del creditore danneggiato, della comunità, lo restituisce allo stato selvaggio ed eslege da cui fino a quel momento
era stato preservato» (Nietzsche 1887, 60 [II, 9])6.
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Parte II - Moneta e debito
316
Recentemente, in riferimento alle odierne politiche neo-ordoliberali della Germania, si è insistito molto sul doppio significato di
debito e colpa nella parola Schuld, sulle cui implicazioni si intrattiene anche Nietzsche, laddove dove afferma che «quel basilare
concetto morale di “colpa” [Schuld] ha preso origine dal concetto
molto materiale di “debiti” [Schulden]» (Nietzsche 1887, 51 [II, 4];
abbiamo corretto il singolare col plurale dell’originale) e che c’è
una sorta di accumulazione di colpa all’interno di una determinata tribù o comunità, originata sempre da quel «rapporto di diritto
privato tra il debitore e il suo creditore» trasferito e trasmesso nel
rapporto «intercorrente tra i contemporanei e i loro progenitori». Qui
il debito sussiste nei confronti dei sacrifici e delle opere degli antenati che «devono essere ripagati loro con sacrifici e opere: si riconosce, quindi, un debito [Schuld] che continua a crescere costantemente per il fatto che questi avi, perpetuando la loro esistenza come
spiriti possenti, non cessano di assicurare alla specie nuovi vantaggi e prestiti da parte della loro forza» (Nietzsche 1887, 78-9 [II,
19]). Debito e senso di colpa e necessità di riconoscenza non sono
astrazioni lontane dalla materialità dei rapporti di credito-debito,
ma sono le forze che disciplinano gli stessi rapporti sociali.
Riemerge in questo modo la questione del sacrificio e del pegno, richiamati precedentemente quali dispositivi che reggono la
rete di rapporti creditizi, in quanto rapporti sociali, prima ancora
che emerga una nozione di moneta come mezzo di scambio. Non
è affatto singolare che gli economisti del XIX secolo abbiano salutato la moneta come un cash nexus liberatorio, che finalmente
ripulisce i rapporti reciproci da ogni coinvolgimento personale
o comunitario, libera perciò l’individuo e lo lascia padrone delle
proprie scelte, senza più obblighi residui che, come nel dono e
contro-dono, potevano trascinarsi a lungo7.
Il concetto è presente in Jevons (1972, 23-6). Ma si tenga poi conto delle
riflessioni del giovane Marx: «E se il denaro è il vincolo che mi unisce alla vita
umana, che unisce a me la società, che mi collega con la natura e gli uomini, non
è il denaro forse il vincolo di tutti i vincoli? Non può esso sciogliere e stringere
ogni vincolo? E quindi non è forse anche il dissolvitore universale? Esso è tanto la
vera moneta spicciola quanto il vero cemento, la forza galvano-chimica della società»
(Marx 1973, 154 [Terzo manoscritto Denaro, XLII]). Ancora più chiaramente il concetto libertà-moneta è espresso da Georg Simmel (1900, parte Analitica, cap. I, III,
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Parte II - Moneta e debito
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Il pegno, come sottolinea anche Mauss, è lo strumento tecnico-giuridico che risolve i deficit di fiducia, intersoggettiva e sociale, per conferire certezza di prova e di valore alla tessitura di
rapporti creditizi; questo già prima ancora che una forma molto
particolare di pegno diventasse un pegno universale, cioè nascesse la moneta come mezzo di scambio, per poter liquidare i pagamenti e liberare il debitore, redimerlo dal senso di colpa.
12.2. La genealogia della moneta (e la questione della sovranità)
A partire dalla fine del XIV secolo, gli archivi di Francesco
di Marco Datini, mercante di Prato, registrano un andirivieni di cambiali tra le città italiane ed i punti caldi del
capitalismo europeo: Barcellona, Montpellier, Avignone,
Parigi, Londra, Bruges […] Ma si tratta di giochi altrettanto
estranei alla vita dei comuni mortali, quanto lo sono oggi le
decisioni ultra segrete della Banque des règlements internationaux, a Basilea. (Braudel 1977, 61)
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Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto possano aver
aspetto miserabile o per quanto possano aver cattivo odore, sono in fede e in verità denaro, sono giudei intimamente
circoncisi e, per di più, mezzi taumaturgici per far del denaro più denaro. (Marx 1867, 187 [4.1])
Sembra dunque che si arrivi in un vicolo cieco: o si dà per
assunto il valore, facendo così sparire la moneta, oppure
si presuppone la moneta stessa, e allora non si può capire
come essa sia causa di crisi e di intensi cambiamenti storici
[…] Una soluzione esiste: consiste nel mettere come punto
di partenza della società mercantile la violenza. (Aglietta e
Orléan 1982, 17)
La capacità di promettere è sia una fonte di sovranità, cioè del
diritto di poter disporre di cose, che di comando, cioè il potere di
entrarne effettivamente in possesso, e tutto ciò è possibile se gli
6 “Analisi dell’essenza del denaro”) in questi termini: «Il denaro, non potendo
mai venire direttamente goduto […] si sottrae pertanto ad ogni rapporto soggettivo; ciò che sta al di là del soggetto e che è rappresentato dalle transazioni economiche, è oggettivato nel denaro, il quale ha quindi sviluppato in sé gli usi più
concreti, più logici, le norme puramente matematiche, l’assoluta libertà di fronte
a tutto ciò che vi è di personale».
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uomini si creano e si mantengono un ambiente stabile di misure
per calcolare, prevedere e gettare un ponte sul futuro, attraverso
attese ragionevolmente verificabili e conformi. In questo senso
la moneta è quell’«anello (link) fra il presente e il futuro», quel
«sottile espediente (subtle device) per legare il presente al futuro»
(Keynes 1936, 485 e 486 [cap. 21, I]). Questa definizione di Keynes della moneta come anello e come dispositivo, si richiama a
quella della moneta come strumento avente origine dal credito
data nel Treatise, a causa della sua dimensione intertemporale. La
genealogia della moneta è in definitiva la genealogia del credito,
di un’azione per metter su un castello di promesse e cercare di
non farlo cadere e, proprio per questo, il dispositivo monetario
acquista ruolo e importanza8. La genealogia monetaria e creditizia non è solo l’esercizio di rintracciare segni in un passato arcaico
e lontano per dar ragione di eredità successive. Riguarda anche
epoche più recenti, nelle quali le pratiche monetarie continuano
a svolgersi secondo i caratteri della matrice originaria o, invece,
iniziano a deviare da essa. È, dunque, un procedimento di scavo
in profondità, per individuare diversi strati di sedimentazione
di pratiche, rappresentazioni e idee, allo scopo di poter valutare
meglio gli slittamenti e i movimenti, lenti oppure improvvisi e
rapidi, che danno luogo alle successive formazioni sedimentarie.
Riportare a coerenza l’insieme è propriamente un compito storico-archeologico. Nella storia della moneta, che è poi anche la
storia dell’idea di moneta, così com’è stata consacrata almeno dal
XIX secolo in poi, si richiedono non poche precisazioni, tutte nel
rispetto di un metodo genealogico che ristabilisca un ordine, che
rintracci un percorso, che sgombri il campo da mitologie e ideologie.
La genealogia sul credito e sulla moneta si contrappone anche
metodologicamente alla versione mengeriana della storia monetaria convenzionale, che è ivi rappresentata come una storia evolutiva che dal baratto procede verso la finanza moderna per successivi
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Augusto Graziani (1996, 21-4 in particolare), che evita le spinose questioni genealogiche sulla moneta, risolve la questione contrapponendo l’economia
monetaria all’economia di credito, sulla linea di Wicksell e Keynes. Cfr. Realfonzo
(1996).
8
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affinamenti tecnologici. La costruzione mengeriana, ricordiamolo,
ha le seguenti aporie principali: 1) la moneta non è definita in sé,
ma per le tre funzioni essenziali, di unità di conto, mezzo di scambio e riserva di valore, 2) la sequenza logica è di tipo retrospettivo:
la moneta delle economie avanzate è l’evoluzione naturale di una
specie che doveva giungere a maturazione e perfezionarsi in quel
modo, e, infine, 3) nel concetto di moneta si passa così, senza soluzioni di continuità, dall’elementare e semplice cellula dello scambio
e del baratto al sistema finanziario complesso, nel quale la moneta
resta sempre quel congegno essenziale per adempiere pienamente
alle tre funzioni che la caratterizzano. I punti essenziali, che pregiudicano l’intera costruzione della storia convenzionale della moneta e ne svelano l’impronta mitologica, e ideologica, riguardano
difetti di evidenza empirica e di costruzione logica, essenzialmente
riconducibili a tre problemi: a) l’impossibilità del baratto, b) i primordiali scambi di beni senza moneta (né, ovviamente, baratto), c)
l’ancestralità del credito, e la sequenza genealogica del cash nexus
che, in realtà, segue un percorso inverso rispetto a quello finora
ritenuto convenzionale. L’opera di revisione critica ha i suoi principali esecutori, talora indiretti (nel senso che non si sono occupati
specificatamente né di moneta né di finanza), in Nietzsche, la cui
genealogia della morale è anche una genealogia di memoria e di
credito e debito, in Mauss, per l’analisi del meccanismo di scambio
dono-contro-dono, in Mitchell Innes, per l’insistenza sul persistente iato tra valore facciale, ufficiale, e valore intrinseco delle monete
coniate e, soprattutto, in Keynes, per lo sviluppo di un’idea di una
moneta creditizia, originata da rapporti di credito-debito e fiducia.
Questa è la costellazione di pensiero che può essere considerata
essenziale per i problemi di credito e moneta in una prospettiva
storico-genealogica e per stabilire così un perimetro ideale di concetti guida, dentro i quali si collocano anche altri contributi che
hanno seguito linee di sviluppo originali o costruito sopra tali basi.
Nietzsche, come visto, stabilisce un nesso tra debito-colpa originario, sacrificio, morale e fiducia nella costruzione dei rapporti sociali. Mauss indaga sul fondamento dei rapporti sociali a partire dal
meccanismo di relazioni del dono, del sacrificio e del pegno. Infine,
Keynes individua l’importanza della fiducia, del credito e dell’intendere la moneta soprattutto come contabilità sociale e come fon-
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Ques
Parte II - Moneta e debito
12 - La desovranizzazione della moneta
321
do e riserva di valore, come quel ponte tra presente e futuro, prima
ancora che come mezzo di scambio sul quale il pensiero economico
neoclassico ha tanto insistito. Non occorre dire che tali autori sono,
per molti versi, assai distanti tra loro e due di essi non possono
nemmeno essere qualificati come studiosi di moneta. Uno solo di
loro è un autentico teorico della moneta e del credito. Nondimeno,
gli snodi tematici che essi rappresentano sono qui considerati essenziali per rintracciare una genealogia alternativa al darwinismo
economico della moneta, cioè alla mitologia convenzionale sulla
moneta, che ha inteso stendere un velo sulla natura della stessa,
per delle ragioni che riprenderemo anche più avanti.
La moneta è una costruzione sociale poliedrica – spettrale in
senso ottico-fisico – di «pietra angolare di opposti», secondo l’immagine di Angela Condello (2019, 61); opposti come astratto e
concreto; privato e pubblico; neutrale e attivo; ingranaggio del
credito e liquidazione, estinzione del debito; agente di razionalizzazione e immagine mistica del valore; e si potrebbe continuare.
Si potrebbe ricordare qui la mitologia di re Mida, già incontrato
all’inseguimento di Sileno. Ora si comprende meglio il mito stesso di re Mida, re della Frigia, noto per le straordinarie ricchezze,
e desideroso di continuare ad accumularne toccando tutto ciò che
gli veniva a portata di mano, amico di Sileno, del quale però non
ascolta i saggi insegnamenti. La mitologia del contrasto Mida-Sileno esprime l’insieme delle opposizioni e delle contraddizioni
che si possono riscontrare nella dicotomia brama di ricchezza/
brama di saggezza. Gli stessi processi storici della moneta e del
credito sono contraddistinti da tali opposizioni.
Un economista come Karl Marx, le cui posizioni in materia
di teoria monetaria sono spesso, dagli interpreti, fatte oscillare
tra quelle della scuola bancaria (banking school) e quelle della
scuola monetaria (currency school)9, scuole tra loro contrapposte
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Le controversie monetarie inglesi ebbero due occasioni: iniziarono a
causa delle conseguenze monetarie delle guerre contro la Francia all’inizio del
XIX secolo e si riaccesero, in forma diversa, in occasione del cosiddetto Peel Act
del 1844, anche detto Bank Charter Act, con il quale si riformava lo statuto e l’operatività della Banca d’Inghilterra. In tale controversia, si contrapposero due
scuole di pensiero politico. Una “monetaria” riteneva che l’eccessiva circolazione
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negli anni in cui scriveva, esprime un concetto molto chiaro, e
mediano tra le due anime della teoria monetaria classica, quando
osserva che la «funzione del denaro come mezzo di pagamento
implica una contraddizione immediata» e, infatti, «[f]inché i pagamenti si compensano, il denaro funziona solo idealmente, come
denaro di conto, ossia misura dei valori. Appena si debbono compiere pagamenti reali, il denaro non si presenta come mezzo di
circolazione, come forma del ricambio organico destinata solo
a far da mediatore e a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del
valore di scambio, merce assoluta» (Marx 1867, 166 [sez. I, cap.
3, 3b]). I pagamenti rinviati a scadenze future definite possono
avvenire senza interventi di mezzi effettivi di pagamento, senza
“pagamenti reali”, e per compensazione. Il «processo a catena
continua dei pagamenti e un sistema artificiale per la loro compensazione» Marx (1867, 166-7 [sez. I, cap. 3, 3b]) lo concepisce
solo per le economie molto evolute, nelle quali funziona un sistema di stanze di compensazione con chiusure di conti, saldo tra
monetaria fosse la causa degli aumenti dei prezzi e per questo occorresse regolare
l’emissione di carta moneta sulla base di un’equivalente riserva d’oro, ritenendo
che in questo modo anche il credito delle banche private sarebbe stato regolato.
I sostenitori di tali posizioni avevano come predecessori i “bullionisti” di alcuni decenni prima che attribuivano l’inflazione e il deprezzamento della sterlina
durante le guerre napoleoniche all’emissione di banconote da parte della Banca
d’Inghilterra. Per i sostenitori della scuola opposta, invece, il sistema creditizio
funzionava secondo il banking principle. In sostanza il credito bancario non avrebbe potuto eccedere i bisogni del commercio e la domanda di sconto delle cambiali
“reali” (secondo la dottrina del real bill of exchange) regolava l’offerta di biglietti
delle banche di emissione. Marx fu un critico della legge Peel e condivise le ragioni di Tooke contro il provvedimento che impediva alla Banca d’Inghilterra di
intervenire durante le crisi per sostenere la domanda di credito. Ma per quel che
riguarda la moneta, la sua posizione era molto vicina a quella di Ricardo, cioè di
una moneta-merce per la quale valeva (o doveva valere) la teoria del valore-lavoro. La teoria monetaria e creditizia di Marx rimase incompiuta e l’ambivalenza tra
Ricardo e Tooke, che essa sembra mostrare, è stata oggetto di continui dibattiti.
Sulla questione della teoria monetaria di Marx si rinvia a Moseley (2005, 1-18);
Nelson (2005, 65-77); e de Brunhoff (2005, 209-21). Una discussione aggiornata,
nella prospettiva di una teoria monetaria della produzione, in Veronese Passarella
(2015, 67-78). V. anche il successivo par. 13.1. dove la questione è ripresa e sviluppata più ampiamente.
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12 - La desovranizzazione della moneta
323
posizioni creditorie e debitorie e riaperture delle medesime, con
transazioni solo dal passato al futuro che nel presente lasciano
solo tracce in scritture contabili, che si rinnovano di continuo.
Per molti versi, ciò era quanto succedeva nelle isole di Yap, le cui
enormi monete di pietra, a forma di grandi ruote intrasportabili,
costituivano un sistema di contabilità sociale, e di scritturazione
senza alfabeti, che Milton Friedman ha giudicato più moderno
del sistema monetario internazionale a base aurea, compreso il
sistema di Bretton Woods nel quale l’oro monetario, per quanto
non circolasse più per i pagamenti tra privati, continuava a essere tenuto in riserva dalle banche centrali. A Yap, anche quando
una grossa ruota monetaria fu dispersa nell’oceano (secondo la
memoria storica degli isolani), la ricchezza incorporata in quella
moneta di pietra non andò perduta10 e con quella moneta si continuarono le transazioni tra gli indigeni (Friedman 1992, 15-8)11.
L’uso di monete così ingombranti può sembrare una stravaganza
di primitivi. In realtà rispondeva a un’esigenza estremamente logica, quella cioè di i) regolare i pagamenti solo tra gli isolani, ii)
impedire l’esportazione di capitali da un’isola all’altra, iii) riconoscere sempre che il trasferimento di diritti fosse riconoscibile
dentro la comunità, iv) avere un controllo, indiretto, sui pagamenti col resto del mondo12.
Il «denaro contante», riprende Marx, interviene quando il
meccanismo delle compensazioni e del credito «a catena» si interrompe per l’insorgere di una crisi finanziaria. Allora la «figura
solo ideale della moneta di conto» ha bisogno di ritrovare la concretezza del «denaro contante». Le «merci profane» non trovano
10
Come nota Brown, può essere tracciata una immaginifica similitudine
fra l’oro oggi sepolto nei sotterranei di Fort Knox e quelle grandi ruote di pietra
dell’isola di Yap nei tempi arcaici sepolte nel fondo del mare, che, come ci dicono
gli antropologi, anche da laggiù continuavano a essere simboli di valore.
11
Il breve articolo di Friedman fa solo riferimento a William Henry Furness III, che nel 1910 aveva descritto il sistema monetario isolano. Si era occupato
del caso anche Keynes, che aveva pubblicato in modo anonimo un intervento con
lo stesso titolo (in Keynes 1915).
12
L’idea è suggerita da Searle, il quale ricorda che a Sparta la moneta era
in grosse barre di ferro perché le autorità non volevano che uscisse dal circuito dei
pagamenti cittadini (Searle 2018, 25).
324
Parte II - Moneta e debito
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più un corrispettivo nella moneta astratta, immaginaria, gli operatori economici avvertono una “carestia” monetaria, epifenomeno della rarefazione del credito. «Nella crisi, l’opposizione fra la
merce e la sua figura di valore, il denaro, viene fatta salire fino
alla contraddizione assoluta. […] La carestia di denaro rimane la
stessa, sia che i pagamenti debbano esser fatti in oro o moneta
di credito, per es. banconote» (Marx 1867, 167 [libro I, sez. I, cap.
3, 3b]. Il linguaggio della dialettica hegeliana che Marx utilizza,
specialmente quando parla di moneta (alias denaro), si contorce
in continue immagini teologiche e concetti che sono immersi in
un labirinto di specchi, dove l’astratto e il concreto continuano a
confondersi, come avviene nella realtà attraverso lo scambio di
cause con effetti e viceversa. In fondo, è il lessico della teologia
stessa che fornisce rappresentazione ideale e sostanza reale alle
cose del mondo dell’economia, ma, in quel lessico, coloro che lo
praticano vi si perdono e ne restano impigliati, senza capacità di
riuscire a comprendere più il senso di quel che succede nel gioco
di specchi tra la parola e la cosa. Un esempio di ciò è proprio richiamato nel passo appena citato, nel quale Marx si prende gioco
della «presunzione illuministica» degli uomini d’affari per i quali
«il denaro è vuota illusione» e «[s]olo la merce è denaro», in tempi normali; ma non appena le cose si mettono male «sul mercato
mondiale rintrona il grido: “Solo il denaro è merce!” Come il cervo mugghia in cerca d’acqua corrente, così la sua anima [del borghese] invoca denaro, l’unica ricchezza» (Marx 1867, 167 [libro I,
sez. I, cap. 3, 3b]).
Un altro passo chiarisce ulteriormente la sottile differenza tra
credito e moneta:
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Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio
essenzialmente protestante. The Scotch hate gold. Come carta l’esistenza
monetaria delle merci ha soltanto una esistenza sociale. È la fede che
rende beati. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito,
la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi. Ma come il protestantesimo non
riesce a emanciparsi dai principî del cattolicesimo, così il sistema creditizio non si emancipa dalla base del sistema monetario (Marx 1894,
810 [cap. 35, II]).
12 - La desovranizzazione della moneta
325
Possiamo tentare di sciogliere queste metafore teologiche nel
modo seguente13. La moneta ha un’esistenza (quasi) indipendente dalla fiducia, ha le sue autorità terrene che ne impongono il
catechismo, ne interpretano i segni e li mettono in circolazione. Il
credito è del tutto indipendente da principi di autorità, si fonda
sulla volontà dei singoli e circola in perfetta liberalità, lasciando a
ciascuno l’interpretazione della solvibilità, ma è proprio su questo punto che l’emancipazione da una solida autorità diventa più
difficile14. Come sopra accennato, la fragilità del sistema richiede
ancore di salvezza e punti fermi, che possono venire solo dall’esterno. In altri termini, la fiat money che i privati possono crearsi
da sé, per loro volontà e comando, può sprofondare o, altrettanto
improvvisamente, espandersi, senza un equivalente che mantenga un potere d’acquisto relativamente costante col mondo delle
merci, per soddisfare un bisogno di certezza15.
Marx aveva posto l’attenzione sulla trama dinamica del credito che, dal medioevo, si era sviluppata nella forma di credito
commerciale per lettera di cambio, prima ancora di sostenersi su
una vera e propria base monetaria, solida come quella che venne
creata con la costituzione delle banche di emissione, cioè dopo
che, nel 1694, la Banca d’Inghilterra (v. par. 12.4) divenne istituzione e simbolo di moneta sana e di un sistema finanziario robusto. Quando Marx afferma che le «cambiali circolano […] come
mezzo di pagamento; ed esse costituiscono il vero e proprio denaro del commercio», e «[i]n quanto si annullano, compensando
definitivamente debito e credito, esse funzionano integralmente
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Cfr. Dussel (2018, 86-8, 110-2), che a p. 87n. osserva: «dove appare il denaro come garanzia dell’individuo di fronte alla specie» si genera il rovesciamento,
il feticismo del denaro, chiarito con la citazione da Moses Hess, filosofo e amico di
Marx: «Ciò che è Dio per la vita teorica, lo è il Denaro per la vita pratica del mondo
rovesciato». Su Hess si vedano: Bravo (1971); Vaccaro (1981); e Delmaire (1989).
14
La frase di Marx citata riprende, forse, per analogia quella di Smith
(v. oltre il par. 13.1) sulla diversità delle strade rappresentate dalla moneta e dal
credito, l’una, quella delle monete d’oro e d’argento, considerata «strada maestra», sulla quale far circolare i beni, e l’altra, quella del credito bancario, una «specie di strada carreggiabile attraverso l’aria», in grado di aumentare notevolmente
gli scambi e le produzioni (Smith 1776, 316 [libro II, ii]).
15
«La moneta […] è un bene che soddisfa il bisogno di certezza»: osserva
Federici (1941, 20).
Parte II - Moneta e debito
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come denaro» (Marx 1894, 551 [libro III, cap. 25]), non fa altro
che tirare le conseguenze di una storia europea, che, a partire dal
medioevo, aveva conosciuto una rivoluzione finanziaria con la
riscoperta di uno strumento creditizio – la cambiale – che permetteva di effettuare pagamenti anche su lunghe distanze. E, specialmente con la regolarizzazione degli scambi in fiera, la cambiale aveva risolto i problemi di compensazioni multilaterali e
di riavvio della catena di crediti, evitando dannose interruzioni,
permettendo il superamento di vari ostacoli quali una mancanza
cronica di metalli preziosi, il disordine delle monete in circolazione e i divieti sull’usura. Mercanti e banchieri crearono la loro
moneta come moneta fiduciaria molto prima che la cartamoneta
in biglietti di banca divenisse moneta corrente. Infatti, aggiunge
ancora Marx, «questi anticipi reciproci dei produttori e dei commercianti costituiscono la base reale del credito, così il loro strumento di circolazione, la cambiale, costituisce la base della effettiva moneta di credito, delle banconote, ecc. Queste non si fondano
sulla circolazione monetaria, sia essa moneta metallica o moneta
cartacea statale, ma sulla circolazione delle cambiali» (Marx 1894,
552 [libro III, cap. 25]). Credito, e cambiali come suo strumento,
danno ragione della stessa circolazione monetaria.
La spiegazione logica ed economica la fornisce Hicks:
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La moneta metallica – osserva – è un modo costoso con cui realizzare
una funzione semplice; perché sprecare risorse e estrarre oro dalle miniere quando i pezzi di carta o semplici voci contabili possono servire
altrettanto bene? Questa è la causa della crescita del sistema creditizio:
fornisce un mezzo di scambio ad un costo di molto inferiore. Ma dall’altra parte vi è il costo rappresentato dalla instabilità del sistema creditizio. Questo sistema è basato sulla fiducia e se la fiducia viene meno,
avvizzisce. Ed è pure instabile nell’altra direzione: quando vi è troppa
“fiducia” o ottimismo, può esplodere in scoppi di speculazione. Quindi,
affinché un sistema creditizio operi con regolarità, occorre un sistema
istituzionale che per un verso lo contenga e per l’altro lo sostenga (Hicks
1967a, 128).
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Riassumiamo i concetti qui espressi: 1) un sistema creditizio
è meno costoso e più facile da mettere in piedi di un sistema dei
pagamenti fondato su una moneta non di credito, 2) il costo per
tenere fluida una rete di debiti consiste nel creare dei dispositivi
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istituzionali al fine di evitare instabilità per eccesso di credito o al
fine di incoraggiare il credito quando langue.
Il problema finanziario principale dei traffici commerciali era
quello di evitare che la trama di crediti e debiti non si allentasse.
Fallimenti e improvvise riduzioni dei flussi di merci rendevano
fragile l’intera architettura finanziaria e i grandi mercanti avevano solo le ricchezze accumulate negli anni per fronteggiare le
cattive annate e resistere ai crediti incagliati, in attesa di tempi
migliori. I rischi principali, a parte quelli di trasporto, erano rappresentati da impreviste fluttuazioni dei prezzi. Sebbene sia noto
che, in via di principio, le inflazioni favoriscono i debitori a scapito dei creditori, soprattutto le deflazioni erano, paradossalmente,
temibili per i creditori. Se violente e prolungate, esse avrebbero
sicuramente mandato in rovina i debitori e, nonostante le vie giudiziarie intraprese dai creditori, un effetto domino avrebbe fatto
cadere anche questi ultimi, o almeno quelli più deboli, a causa
della perdita di valore delle garanzie e dell’impossibilità di rivenderle a prezzi ragionevoli per ricoprire l’ammontare dei prestiti.
A catena, anche i creditori più solidi, in qualche modo legati alla
stessa trama e ragnatela di crediti e debiti, avrebbero finito per
pagarne le conseguenze. Allora, nelle deflazioni accade un fatto
che potrebbe apparire paradossale, dato il conflitto intrinseco fra
chi ha dato e chi ha ricevuto un prestito: quel che nelle situazioni ordinarie contrappone debitori e creditori, nelle situazioni di
crisi, per quanto i loro rapporti diventino ancora più conflittuali,
il salvataggio dei debitori è un vantaggio per i creditori. Le loro
posizioni sono paradossalmente accomunate. Per fronteggiare i
rischi di mercato, mercanti e banchieri disponevano solo del proprio patrimonio, che consentiva loro di tirare più a lungo, in una
fase di cattivo andamento degli affari e di debitori in mora. In definitiva, alla mappa geografica dei traffici commerciali per mare
e per terra, se ne sovrapponeva un’altra costituita dai rapporti di
credito e debito, i quali, purché tutto fosse fluito regolarmente,
si sarebbero rinnovati con la consegna e vendita delle merci e la
ripresa dei viaggi e degli acquisti.
Per compiere tutte queste complesse operazioni era necessario
un’unità di conto. La lira introdotta da Carlo Magno era il supporto
contabile essenziale. La lira, come ha mostrato Einaudi, era solo
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Parte II - Moneta e debito
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un’unità «di conto od immaginaria o numeraria o ideale» (Einaudi
1936, 7)16. La contabilità e i rapporti creditizi erano perciò tenuti
in lire, e solo per piccoli pagamenti, per saldi di conti, chiusura di
posizioni e compensazioni varie, intervenivano monete effettive,
reali, coniate in oro, argento, o in varie leghe con intrinseco privo
di valore. L’Europa medievale e moderna nel suo complesso soffriva cronicamente di scarsi mezzi di circolazione, per cui, anche
per questa ragione, crediti e debiti permettevano vendite e acquisti.
12.3. “Come, non si fanno pegni? È questa la prima volta?”
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Il Pagamento in Contanti è diventato il solo nexus tra uomo
e uomo […] ma ci sono molte cose che il contante non pagherà mai! Il contante è un grande miracolo; anche se non
ha tutto il potere in Cielo, e nemmeno in Terra. (Carlyle
2015 [Chartism])
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E se tu forse credi ch’io t’inganni, | fatti ver lei, e fatti far
credenza | con le tue mani al lembo de’ tuoi panni. (Dante,
Purgatorio, canto XXVII, 28-30)
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chiedendogli, fra l’altro, se non avesse con sé qualche prova documentaria o qualche pezzo di carta che dimostrasse come la sua non fosse una finzione. (Melville 1998, 17
[cap. 3])
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Con lo sviluppo del capitalismo mercantile cominciarono a sorgere le prime frizioni tra una sfera privata e una sfera pubblica che,on
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Il termine di moneta immaginaria era stato introdotto da Girolamo
Belloni in un suo volume del 1757. Belloni era un ricco mercante e banchiere,
ben introdotto nei palazzi della curia romana; la sua dissertazione sulla moneta
immaginaria suscitò interessi anche fuori d’Italia e pare attrasse l’attenzione di
D’Argenson. La tesi di Belloni è poi quella divenuta canonica: «il Commercio, che
riguarda, e valuta solamente l’intrinseco [della moneta], nulla curando il numerario [il valore ufficiale, legale], e camminando sempre sulla traccia della Moneta
Reale, riduce, e ragguaglia mediante l’uso della Moneta Immaginaria, ogni sorta
di Moneta al calibro della Reale medesima, con esiger quel tanto di più, che venga
a compensare il valore di quella: procurando ciascuno di vendere in modo le sue
merci, che quel di meno, che riceve nel peso, venga compensato col numero maggiore de’ pezzi leggieri; stante le denominazioni delle Monete essendo arbitrarie,
non influiscono in parte alcuna sulla valuta delle medesime, né le voci, ed i suoni
aggiungono peso all’Oro, ed Argento» (Belloni 1757, 141).
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12 - La desovranizzazione della moneta
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fino ad allora, erano relativamente indipendenti. L’allargamento
e l’integrazione dei mercati seguì uno schema fiducia-credito-pegno, ma accanto a tale sistema creditizio privatistico si integrò
e si incastrò un sistema monetario e finanziario che faceva capo
alle finanze degli Stati moderni in via di formazione all’incirca
dal XVII-XVIII secolo e, con maggior vigore, dopo la Rivoluzione
francese. Abbiamo già ampiamente mostrato che la fiducia, come
affinità elettiva, cementa relazioni di credito-debito su basi comunitarie, in forme talora complesse di risoluzione delle tensioni e
dei conflitti che il debito può generare. Quando però le dimensioni e le relazioni di scambio travalicano gli ambiti comunitari,
i mercanti devono preoccuparsi che siano rese possibili tali intermediazioni fiduciarie per organizzare i traffici commerciali e
per stabilire le relazioni di credito inter-comunitarie necessarie a
saldare i deficit di partite correnti attraverso crediti. L’esclamazione «Come, non si fanno pegni?» è l’indignata meraviglia rivolta
al creditore usuraio Pantalone da Sandra, che – nella commedia
goldoniana Il geloso avaro del 1753 (atto III, i)17 – non capisce le
ragioni che inducono il suo aguzzino a non concedere credito.
Per il credito internazionale occorrono garanzie e forme di coercizioni supplementari rispetto ai rapporti infra-comunitari, che
generalmente si stabiliscono tramite le forze fiduciarie che legano
i soggetti attraverso vincoli parentali, identitari, di lingua, religione, cultura e norme di supporto. Nelle relazioni intercomunitarie e internazionali, la stessa semplice lingua costituisce una
barriera che i mercanti devono superare18. La barriera identitaria,
che disegna i confini tra comunità diverse, indebolisce i rapporti fiduciari che, tra “stranieri”, sono superabili attraverso il pe-
Sulla formazione di giurista e la pratica attività forense di Carlo Goldoni
cfr. Santarelli (2009).
18
Un tentativo di uno studio dell’evoluzione storica dei rapporti creditizi e
finanziari, a partire dalla dimensione internazionale che tiene conto della priorità e
originarietà del credito piuttosto che della moneta, sta in Conti e Schisani (2017, 1-80
e 281-356). Ciò è motivato dall’esigenza di superare la narrazione convenzionale, storicamente troppo “debole”, di vedere come originari gli Stati (simil nazionali) con le
loro monete (già ben evolute) che stabiliscono “naturalmente” rapporti commerciali
regolati secondo il cambio tra una moneta e un’altra. Tale visione molto schematica
tradisce l’importanza del credito nei rapporti interni e in quelli internazionali.
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gno. Il pegno interviene per estendere il credito verso coloro che
hanno poco merito per riceverlo, dato che il creditore ha poche
informazioni e poche possibilità per indurre il debitore a mantener fede alla promessa. Perciò il creditore chiede una garanzia
per compensare rapporti commerciali squilibrati. A quel punto il
credito, non più personale e strettamente fiduciario, ma garantito, ha comunque una consistenza, anche solo documentale, che il
creditore può usare, sia se non ha altri mezzi coercitivi sia se può
far affidamento sugli strumenti giuridico-coercitivi che le istituzioni gli garantiscono, altrimenti ricorre a un pegno materiale.
Nell’antichità, persino la schiavitù del debitore o di sua moglie
costituivano materia di garanzia. Le istituzioni che intervengono
nelle questioni dei crediti non riscossi possono dipendere dalle
autorità del paese di provenienza del creditore o da quelle locali,
per l’interesse “pubblico” a continuare i rapporti di scambio fino
ad allora intessuti. Le autorità hanno interesse a intervenire perché, come mostra Manfredini (2013), disordini, tumulti e rivolte
hanno origine nelle tensioni tra creditori e debitori.
C’è anche un’altra considerazione da fare. Le istituzioni “pubbliche” possono essere latitanti o deboli, e in tali casi i mercanti
devono risolvere da soli le proprie faccende. Il pegno deve “parlare la stessa lingua” dei contraenti, meglio è se è una lingua muta
come quella di oggetti a cui debitore e creditori attribuiscono un
certo valore, che può essere anche, e non necessariamente, un valore di mercato. Nelle colonie americane del XVII e XVIII secolo
(come visto anche nel par. 10.4) i wampum, cinture di conchiglie di
valore religioso e rituale per le comunità indigene, servirono a regolare gli scambi con i coloni a cui la madrepatria aveva impedito
di coniare ed emettere monete proprie per superare la carenza di
monete inglesi. In quel caso venne eletto a moneta un qualcosa che
per i coloni inglesi rappresentava un semplice cimelio, per quanto
artistico, ma sapevano che per le tribù indiane rappresentava un
pegno sacrale, di valore religioso e rituale, e che, per questo motivo, esse erano disposte a riprendersi indietro i wampum contro
pellicce a cui i coloni erano interessati. In oggetti-moneta del genere, finché non si crea con i medesimi un vero e proprio mercato,
regolare e organizzato con scambi densi e con prezzi relativamente stabili, coesistono i caratteri di «documentalità» sottolineati da
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Searle (2010) e, specialmente, da Ferraris (2009), ma anche di sacralità, di un «sacramento di linguaggio» per il quale si rinvia alle
considerazioni di Agamben (2008a). Il caso del wampum mostra
come anche tra comunità con fedi religiose molto diverse, persino
nel caso che anche solo per una di esse l’oggetto-moneta fosse considerato sacro, quest’ultimo poteva diventare pegno nei rapporti
creditizi e nelle semplici regolazioni degli scambi; quindi, il pegno
sotto forma di oggetto-moneta valeva anche per gli appartenenti
a una collettività di persone completamente miscredenti rispetto
a quell’oggetto. Ciò spiega molto bene le evidenze riportate da
Mitchell Innes riguardo a monete senza, o con scarso, valore intrinseco che, di fatto, avevano natura e origine di pegno.
Lo stesso dispositivo di pegno, che i privati mettono in opera
per consentire l’estensione fuori dai “confini” fiduciari e per protrarre le relazioni creditizie fra di loro, si replica quando c’è la necessità di colmare un altro deficit fiduciario, molto più profondo,
quello dei rapporti finanziari dei privati con le autorità e i poteri
statali. Gli Stati moderni, che si impongono attraverso un crescente accentramento del potere e per disgregazione delle forze del
particolarismo medievale, manifestano, fin dagli albori, bisogni finanziari crescenti per i costi della guerra (con eserciti permanenti
e armi da fuoco) e per un’amministrazione burocratica in continua espansione. Per soddisfarli, i sistemi di tassazione tradizionali
risultano inadeguati e insufficienti. I creditori, ricchi mercanti e
banchieri, hanno interesse a trattare con le amministrazioni pubbliche, ma il rapporto non è ovviamente di parità. Gli Stati d’ancien régime risolvevano i loro problemi di solvibilità con frequenti ripudi parziali o totali dei debiti19. Gli Stati debitori pagavano
interessi elevati e garantivano buoni affari e, nonostante gli alti
rischi di default, i grossi finanziatori, essendo anche fornitori d’opera, non si tiravano indietro. L’accentramento e l’assolutismo dei
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Da un’ottica di mainstream finanziario Reinhart e Rogoff (2010a) (vedi anche par. 13.4) considerano che solo i debitori che non pagano (specialmente se sono
Stati) hanno sempre torto; non considerano che anche i creditori (le banche) che hanno concesso loro credito, quando non lo meritavano, qualche sbaglio di prudenza lo
hanno fatto e che, dopo tutto, negli affari il privato che sbaglia, anche se è una banca,
secondo lo stesso principio neoliberale, dovrebbe essere punito col fallimento.
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Parte II - Moneta e debito
monarchi non erano le sole spinte importanti per la formazione
degli Stati moderni. Le stesse forze sociali, che vivevano di relazioni commerciali e di scambi mercantili, sollecitavano strutture
autoritarie per dar forza e forma ai loro documenti contabili e alle
loro promesse di pagamento. Tribunali e corti di giustizia sono
istituzioni che gli stessi mercanti e produttori sollecitano per amministrare norme certe, superare il particolarismo giuridico e altre
forme di governo decentrate, che sono fonti di improvvisazione e
di prevaricazioni. Gli uomini d’affari sono sovversivi in materia di
tasse, ma ultraconservatori in materia di legge e ordine, invocano
il decentramento per farsi spazio negli apparati, ma esigono governi “forti” quando le forze loro vengono meno.
12.4. La rivoluzione finanziaria e lo Stato fiscale moderno
Senza il bisogno finanziario sarebbe mancata la causa diretta della creazione dello Stato moderno […] Ma in termini
monetari l’economia nazionale non è diventata più povera.
Com’è possibile? Semplicemente perché nelle economie
private alle scorte di beni sono subentrati crediti verso lo
Stato e segni monetari. (Schumpeter 1918, 141 e 155)
così anche il principe gira intorno a ciò che è più terreno
di tutto: e questo è l’oro dei mercanti. | Il dio degli eserciti
non è un dio dei lingotti d’oro; il principe propone, ma il
mercante dispone! (Nietzsche 1883-1885, 547)
L’esperienza ha fatto conoscere a’ sovrani ch’era bene lasciarlo correre a peso, e non sull’autorità del conio; […]
siccome il peso è lasciato al libero esame di ciascuno, così
si avrebbe a lasciare anche il valore, e l’impronta riserbarla
solo ad autorizzare la bontà della lega. (Galiani 1750, 121)
Questo
La “rivoluzione finanziaria” fu il passo ulteriore per uscire dalle
impasses che impedivano la crescita del debito pubblico. Esse erano principalmente dovute all’incertezza sul rimborso, alla dipendenza da un numero ristretto di creditori, alle condizioni difficili
nella trasferibilità del credito, nonché all’estrema variabilità dei
tassi d’interesse che dipendevano dalle modalità di negoziazione
e da altre contingenze molto aleatorie. Dopo la pace di Vestfalia,
lo Stato, definendo la sua sovranità su territorio e popolo, definiva anche ambito e dimensioni potenziali del debito. Sull’altro
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fronte, i finanziatori, banchieri d’alto rango in primo luogo, erano
disposti ad accettare di mettersi in gioco purché fossero rese solenni le condizioni del debito e fosse creato un mercato secondario
relativamente ampio per consentire acquisti e vendite di titoli. Lo
Stato abbandonava il sistema di indebitarsi di volta in volta con
singoli banchieri alle condizioni del momento, a scadenze diverse
e con rapporti di privilegio con alcuni di essi. Con l’emissione di
un titolo perpetuo, lo Stato consolidava i debiti pregressi e rendeva quasi permanente la sua posizione di debitore con un titolo
standardizzato, unico, suddiviso in tagli “popolari”, con cedole
di interessi pagate a scadenze regolari. In questo modo allargava
il mercato secondario con uno strumento cartolare, relativamente
sicuro, reso in tal modo facilmente negoziabile. L’ampliamento
del mercato del debito pubblico attraeva i risparmiatori e, soprattutto, abbassava i tassi d’interesse rispetto alle condizioni
capestro che i singoli banchieri privati riuscivano solitamente a
strappare. Il Tesoro usciva dal marasma di un’amministrazione disordinata, in particolare, rispetto alla programmazione dei
flussi, ed estremamente costosa sul servizio del debito. Il debito
dello Stato moderno era, inizialmente, un debito perpetuo (consolidato, termine più anodino), rimborsabile, con pagamenti di
interessi sul debito a scadenze regolari che consentivano all’amministrazione statale di rendere più prevedibili i propri impegni,
calibrare le nuove emissioni ed eventualmente intervenire per
governare i tassi d’interesse del mercato – cosa questa che, almeno quando le finanze erano gestite bene, sottraeva, finalmente,
all’arbitrio dei grandi finanziatori del debito pubblico la decisione su quando e quanto prestare. I creditori videro che, sul lungo
andare, la standardizzazione dei titoli li rendeva facilmente trasferibili a un prezzo determinato, dando così impulso a un mercato permanente di titoli, relativamente ampio e spesso. Il corso
di un titolo irredimibile e senza pericolo di ripudio (il consol era
tra l’altro “perpetuo”) esprimeva un investimento meno rischioso, o, come in seguito fu battezzato in puro stile pubblicitario, “a
rischio zero”, ovviamente rispetto ad altri titoli per i quali i rischi
erano evidenti e alti. Perciò liquidare i titoli “rischiosi” e riversare
il ricavato sul titolo pubblico offriva garanzie di sicurezza e di
stabilità, anche per il resto di quelli che flottavano sulla superficie
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Parte II - Moneta e debito
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dei rischi elevati (e di prezzi turbolenti). L’operazione di diffusione del debito pubblico non fu portata a compimento con un colpo
solo. L’Inghilterra ebbe vari vantaggi sul tempo, rispetto ad altri
Stati nazionali, grazie all’introduzione di una Banca d’Inghilterra
(1694), che era sia banca privata, e in mano a banchieri privati, sia
banca di Stato, finalizzata alla concessione di anticipazioni al Tesoro contro emissione di cartamoneta, per sottoscrivere titoli del
debito pubblico, in forma di Consols (dal 1752). Ovviamente, anche altri Stati nazionali non tardarono a capire i vantaggi di avere un debito perpetuo cartolarizzato e redimibile a discrezione
dell’emittente, e cercarono una propria via per unificare il debito
pubblico, cioè convertire i debiti esistenti in un solo titolo, superando il caos delle differenze per scadenza, tassi d’interesse e garanzie, e, poter razionalizzare i flussi di pagamento per il servizio
del debito e governare le emissioni successive. Il primo vantaggio
inglese risaliva alla rivoluzione che aveva trasformato lo Stato assoluto in Stato costituzionale, conferendo al parlamento l’ultima
parola in termini di dichiarazione di guerra e di imposizione di
nuove imposte. Si veniva a formare, passo dopo passo, quello da
cui Schumpeter ha fatto risalire la nascita dello Stato moderno,
cioè da bisogni finanziari crescenti. Ciò esigeva un’organizzazione burocratica delle spese e delle entrate in grado di governare le
esigenze di finanza straordinaria mediante una profonda razionalizzazione di quella ordinaria. Osserva Schumpeter:
L’imposta non ha solo contribuito a creare lo Stato, ha anche contribuito
a formarlo. Il sistema fiscale fu l’organo il cui sviluppo comportò anche
quello degli altri organi. L’arma della tassazione permise allo Stato di
penetrare nelle economie private, e di acquistare un predominio sempre più forte su di esse. E l’imposta introduce l’economia monetaria e lo
spirito calcolatore in angoli dove prima erano assenti, e così retroagisce
sulla formazione di quell’organismo che l’ha sviluppata. Del modo e del
livello delle imposte decide la struttura sociale; ma una volta che esistono, esse assumono la funzione di una leva che le forze sociali possono
manovrare per cambiare questa stessa struttura (Schumpeter 1918, 142).
Lo Stato fiscale moderno, nel senso di Schumpeter, rispetto
a quello assolutistico d’ancien régime, diventa il terreno di lotta
sociale ed economica per stabilire l’entità e la ripartizione delle
imposte e scegliere i sistemi e le modalità con cui coprire le spe-
12 - La desovranizzazione della moneta
335
se in deficit. In questo, la sociologia dello Stato di Schumpeter si
scosta in maniera significativa dalla visione liberale classica, per
la quale lo Stato è, e deve essere, quasi un corpo estraneo e altro
dalla società civile, per assolvere la funzione di arbitro nelle stesse lotte sociali e in conflitti tra interessi contrapposti20.
L’agglomerazione di trattative frequenti sul mercato di titoli
pubblici, quale mercato quasi perfetto per eccellenza, anche rispetto a quello dei beni di sussistenza spesso in balia di eventi
naturali, contribuì a radicare la presenza di istituzioni finanziarie
specializzate, in forma di banche d’investimento e altre, pronte a
intervenire per acquisti e vendite entro e fuori delle ore di apertura della borsa, a fornire informazioni e servizi relativi anche per
titoli diversi e più rischiosi21. Attraverso la speculazione, l’aristocrazia finanziaria avviò dapprima la grande proprietà terriera a
prendere confidenza con i circuiti d’affari moderni, attirando sul
mercato capitali in cerca di impiego vantaggioso, a rendimenti più
elevati nel breve periodo di quelli tradizionalmente considerati
sicuri. Con l’ulteriore vantaggio che il capitale così investito non
si immobilizzava in un’attività produttiva specifica, ma poteva essere liquidato in ogni momento, per cercare soluzioni alternative.
La Banca d’Inghilterra, come le banche di emissione fondate negli
altri paesi, fornì un mezzo di pagamento universalmente accettato (in ambito nazionale) perché, con la sua fondazione, lo Stato
(implicitamente) siglò con i banchieri che governavano la banca
un patto di non interferenza sugli strumenti monetari. La zecca,
sotto la direzione di Isaac Newton, avviò una seria persecuzione
dei contraffattori di monete divisionali per radicare la fede che il
valore facciale delle monete d’oro doveva aderire al loro valore intrinseco, e inaugurò, di fatto, un nuovo sistema monetario calcolabile e preciso come quello celeste perché impediva, finalmente, la
“contraffazione” legalizzata delle mutazioni ad opera dei sovrani.
La Banca d’Inghilterra, dal canto suo, era tenuta a rispettare una
«A rigore non si dovrebbe mai dire: lo Stato fa questo o quello. L’importante è sempre riconoscere chi o l’interesse di chi mette in moto la macchina dello
Stato, e parla in suo nome» (Schumpeter 1918, 178n.).
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Il mercato dei titoli pubblici fece da battistrada a quello dei titoli privati;
cfr. Baskin e Miranti (2000).
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Parte II - Moneta e debito
riserva di metallo per i biglietti in circolazione, convertibili in ogni
momento in moneta metallica o in lingotti. Il Tesoro e il parlamento si riservavano la sorveglianza affinché la Banca d’Inghilterra
assolvesse correttamente i compiti oggetto del privilegio che le era
stato conferito (della responsabilità limitata e, poi, di un monopolio sull’emissione e sui prestiti verso il Tesoro). Il timore del governo era che i banchieri approfittassero del privilegio dell’emissione
per espandere oltremodo gli affari, che un overlending (un eccesso
del credito facile) si trasformasse in overtrading (surriscaldamento
delle attività commerciali), e il tutto in tendenze all’aumento dei
prezzi e in fughe di capitali all’estero. L’obbligo della convertibilità dei biglietti di banca era la clausola per indurre alla prudenza la
banca d’emissione nella concessione del credito.
Anche da un punto di vista legale, la moneta era uno strumento a metà strada tra il pubblico e il privato. Una banca d’emissione, con le caratteristiche di quella d’Inghilterra, accrescendo la
fiducia presso il pubblico, alleviava le pressioni al rialzo sui tassi
d’interesse del debito statale, dando la possibilità al Tesoro di calibrare le emissioni, valutando se accedere alle anticipazioni bancarie piuttosto che avviare nuove emissioni. I titoli pubblici, con
solvibilità a prova di ogni dubbio, divennero una delle garanzie
più apprezzate dalle banche per la concessione di prestiti a privati e per lanciarsi in nuove speculazioni. Il mercato finanziario
nel suo insieme progrediva per diventare il mercato meglio organizzato di ogni altro, grazie a istituzioni finanziarie che potevano
gestire il proprio portafoglio, e disporre di un’attività redditizia
con un alto grado di liquidità. L’Inghilterra mostrò agli altri paesi
un ulteriore risultato: lo Stato poteva collocare il proprio debito
a tassi d’interesse molto più bassi rispetto a quelli di altre piazze finanziarie europee già nel corso del XVIII secolo22. Ciò aveva
un’altra conseguenza: i rendimenti dei titoli pubblici formavano
lo strato più basso della struttura nazionale dei tassi d’interesse,
attirando su quel livello i tassi d’interesse per obbligazioni private e per debiti contratti con le banche nazionali.
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22
La discussione sulla questione era stata avviata da Ashley (1961) e più
di recente ripresa da Weiller e Mirowski (1990); per la Francia Velde e Weir (1992);
e ancora Buchinsky e Polak (1993) e Chamley (2011).
12 - La desovranizzazione della moneta
337
Assicurare la moneta all’oro, con l’idea che anche tutto il resto avesse così un’ancora di stabilità almeno nel lungo periodo,
non fu un’operazione semplice né costruita in tutti i particolari,
sebbene in Locke e nei primi economisti fosse molto chiaro su
come impostare alcuni dispositivi, affinché fossero neutralizzati
in generale ogni pretesa e ogni potere sovrano sulla moneta e,
al tempo stesso, però la sovranità potesse esercitare quel potere
solo in stato d’eccezione, come durante le guerre e le sommosse
popolari sconfinanti in guerre civili.
La realtà finanziaria dello Stato moderno è quella di un nuovo soggetto con un deficit finanziario permanente, e di un potere
sovrano, la cui potenza è misurata dalla capacità di sopportare
un debito pubblico pesante senza recare un crescente aggravio
in termini di servizio del debito23. L’Inghilterra, o gli Stati Uniti
come anche altri paesi, trasformarono tutta la loro organizzazione
finanziaria sull’archetipo dello Stato fiscale moderno potente, in
grado di sostenere un debito crescente a tassi d’interesse relativamente bassi, o perfino decrescenti, e stabili. Per compiere un tal
miracolo finanziario, la moneta nazionale diventò lo strumento
sovrano per eccellenza. La moneta è perciò un atto sovrano, nel
senso della sovranità come potere che esercita la sua forza in uno
stato di eccezione, secondo la definizione di Schmitt. La conquista
non è né semplice, né facile, ed è il risultato di due forze apparentemente contrapposte: da un lato, lo Stato che preme per rafforzare le proprie prerogative sul credito, dall’altro, gli stessi privati,
alta finanza e borghesia, che, detestando la fiscalità statale, trovano che la via del debito sia, per molte ragioni, un compromesso
vantaggioso per i propri affari purché dentro un sentiero di stabilità del sistema creditizio.
La moneta del sovrano ha perciò due facce. Una è quella del
“dare”, che accredita un conto quando il sovrano in questione dichiara lo stato di eccezione, e impone ai sudditi un’estrazione di
redditi o anche un trasferimento di valori patrimoniali. Vista in
quest’ottica, la moneta è un’attività finanziaria che – a meno che
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Per una discussione sul debito pubblico sulla base della sociologia economica dello Stato fiscale moderno di Schumpeter, v. Conti (2008).
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Parte II - Moneta e debito
338
non sia convertibile a pieno titolo in oro e argento, merce come altre
merci, ovvero non abbia un valore eccedente rispetto ai metalli in
cui è convertibile – è contropartita di una passività finanziaria che
lo Stato contrae con l’intera nazione, senza promessa di rimborso;
è cioè una passività fittizia, che il sovrano impone sull’intera società e che ognuno, quasi paradossalmente, accetta e contabilizza
tra le proprie attività. In questo, la moneta mantiene quel marchio
originario di riparatrice dei torti. I privati si trovano in mano una
sorta di “pegno”, a cui attribuire una particolare documentabilità
per i loro scambi e per la regolazione del saldo delle rispettive
posizioni di credito e debito. L’altra faccia è quella dell’“avere”,
in cui lo Stato emittente addebita il proprio conto (presso la banca
centrale), perché impone ai sudditi di ricevere, in contropartita per
i beni e servizi forniti, una cosa a cui il sovrano attribuisce il potere
di estinguere ogni imposta e ogni obbligazione. Il compromesso
sulla moneta fra poteri privati e poteri pubblici era basato sul riconoscimento di una sovranità limitata soltanto a stati d’eccezione
(le costituzioni liberali cercano di prevedere e circoscrivere situazioni del genere), per rendere del tutto “neutrale” la moneta, cioè
ininfluente anche sul livello generale dei prezzi (v. par. 13.3-13.4).
Ciò non toglieva nulla alla possibilità di accrescere (o diminuire)
l’offerta di moneta fiduciaria, attraverso il credito che il settore
privato creava (o estingueva) al proprio interno e, eventualmente,
attraverso un surplus (o un deficit) di pagamenti con l’estero. Con
il compromesso che prese corpo a partire dal XVIII secolo con la
costituzione di banche di emissione statali e nazionali, istituzioni anfibie in termini della dimensione privato-pubblico, il credito
privato interno otteneva vantaggi non immediati, ma rilevanti nel
lungo periodo, quando le banche di emissione iniziarono a svolgere funzioni di prestatrici di ultima istanza e a regolare le emissioni
monetarie anche in funzione dei bisogni dell’economia. La moneta, con il suo pesante e opaco velo metallico, si fondava sull’apparente convertibilità in lucente metallo – effettiva per i coni a pieno
titolo, e solo fiduciaria per le banconote convertibili – ma di fatto
dissimulava, sotto una neutralità fittizia, la natura creditizia che
ne stava alla base. La scelta di uno standard in metalli preziosi
(p.e. in oro o argento) non dipendeva da una miglior tecnologia
di pagamento, ma da ragioni essenzialmente economiche. I prezzi
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12 - La desovranizzazione della moneta
339
dell’oro e dell’argento, per quanto fluttuanti come quelli di ogni
altra merce, erano molto stabili nel lungo periodo (quelli dell’argento fino alla seconda metà del XIX secolo), e dovevano la loro
stabilità al fatto di essere determinati da una domanda quasi infinitamente elastica in confronto a un’offerta determinata da uno
stock esistente, a cui scoperte di nuove miniere e nuove produzioni aggiungevano molto poco in termini di quantità. Non appena
il prezzo di uno dei due metalli rincarava o si deprezzava, erano
in molti a vendere o comprare. La moneta interamente fiduciaria,
non più convertibile, resta nuda presenza di credito, quel credito
originario a cui si era tentato invano di pulire il peccato originale
per dargli la fulgida trasparenza di immagine riflessa dell’oro. Il
passo tra la fiducia e il tradimento è così breve che la moneta porta
impresso il marchio beffardo del demonio perché, secondo l’apostolo, è la radice di tutti i mali (I Tim 6, 10)24.
Gli aspetti fantastici e demoniaci della moneta e dell’oro sono
uno degli elementi che turbano il secolo dei lumi, nel quale, nel
sonno o nella veglia, la ragione monetaria rischiava comunque di
generare mostri. Quando l’imperatore del Faust di Goethe chiede
meravigliato al cancelliere come sia stato possibile aver pagato i
soldati e avere ancora le casse piene d’oro, il cancelliere spiega
l’arcano: il giorno prima è stato sufficiente un tratto di penna su
un pezzo di carta e disporre di artisti che si sono messi all’opera
per replicarlo, per aumentare per il benessere del popolo: ogni
suddito è beato con quella carta che vale oro zecchino. Così Mefistofele spiega l’arcano delle proprie astuzie, ovvero della cartamoneta e delle alchimie delle banche. Solo il pazzo comprende
bene cosa fare: offrire presto quella carta per comprare campo,
bestiame e casa e ritirarsi dal mondo25. Goethe non fa altro che descrivere allegoricamente due eventi sconvolgenti della sua epoca:
prima, il crollo del sistema di Law e, dopo, l’emissione degli assegnati nella Francia rivoluzionaria. In quelle due occasioni, la
Francia anticipa e accelera quanto in Inghilterra stava avvenendo
molto più lentamente. L’insuccesso delle due esperienze francesi
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(1980).
Cfr. inoltre Le Goff (2012).
Si tratta del Faust di Goethe (II parte, atto I). Un commento in Shell
Parte II - Moneta e debito
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si può spiegare semplicemente con la frantumazione del patto tra
pubblico e privato, che non permise di portare a compimento la
riforma dello Stato nel senso di Stato fiscale e nazionale.
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caso si colloca in quella linea d’ombra rappresentata
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fine XVII secolo; il problema era la situazione disastrosa delle fi- mone.
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nanze statali alla morte di Luigi XIV, il Re Sole. Alterare, con i vecchi sistemi delle mutazioni, il valore facciale o il contenuto metallico delle monete, non risolveva i grossi problemi finanziari dello
Stato, causati da un debito ingente e, soprattutto, da un servizio
del debito che poteva essere pagato solo contraendo nuovi debiti.
La moneta in circolazione, per quanto consistente, non apporta
fondi. L’oro e l’argento possono essere esportati o tesoreggiati. Il
credito complessivo in quelle condizioni non prospera. La questione della moneta e della sua parità metallica è stata sopravvalutata dagli storici col risultato di mettere in ombra l’importanza
del credito. Ha giocato, in questa sopravvalutazione, il trompe-l’œil
del reperto. Infatti, non esistono sistemi di contabilità finanziaria
affidabili per le economie di epoche preindustriali26, principalmente per le difficoltà a censire i volumi di credito commerciale,
che avevano una rotazione normale di tre-sei e più mesi e che in
capo all’anno consentivano di trasferire merci dai quattro angoli
del mondo; persino nei rapporti interni ai vari Stati, i volumi di
negoziazioni a credito costituivano un multiplo elevato rispetto
ai pagamenti in contanti. L’insistenza degli storici nell’attribuire un valore speciale, ma a volte quasi esclusivo, alla moneta dipende dalla distorsione derivante dai segni e dalle tracce lasciate
da essa. Al contrario, una cambiale giunta a scadenza, una volta
onorata, è stracciata, estinta, resa nulla: con la perdita di ogni traccia materiale, non resta più segno della sua esistenza. Quel che si
dimentica è che, all’epoca, gli Stati esercitano una sovranità mo-
Si veda il pionieristico lavoro di Goldsmith (1990) e la bella presentazione di Marcello de Cecco.
26
12 - La desovranizzazione della moneta
341
netaria debole, nel senso che le zecche reali possono coniare oro e
argento nelle quantità che i privati portano alla zecca in materiali,
puri o in leghe, e in monete estere. La zecca rilascia pezzi monetari “nazionali”, certificati secondo il valore stabilito nella legge
monetaria, dopo aver saggiato l’oro e l’argento ricevuti, trattenuto un diritto o un “signoraggio” quando il sovrano riusciva a imporre – cosa non sempre facile – l’estrazione di un “di più” dall’operazione di monetazione27. I pezzi monetati erano nella quantità
e nel valore intrinseco stabilito sempre per legge (dipendente da
tipo, peso, titolo e corrispondenza con il valore in moneta immaginaria, cioè in lire). Con quei pezzi metallici i privati regolavano
i loro pagamenti correnti ma, soprattutto, pagavano le imposte.
Sovrani e principi potevano comunque effettuare, e spesso lo facevano, mutazioni monetarie come forme improprie e surrettizie
di tassazione (Bloch 1981). Ritornando sulla metodologia storica,
il fenomeno qui descritto come un trompe-l’oeil monetario-creditizio è conosciuto nelle scienze come survivorship bias, in storia si
potrebbe tradurre con “distorsione documentale”. Nei comportamenti delle imprese, o nelle battaglie, si commettono di frequente
errori di valutazione, per il semplice motivo che si attribuisce un
valore emblematico alle strategie vincenti, che hanno, ovviamente, maggior risonanza, senza cercare di trarre insegnamento dagli
errori di quelle perdenti. I perdenti raramente danno ragione di
quel che è loro successo, o hanno consapevolezza di quale sia stata la causa del tracollo, mentre molte sono le memorie e le testimonianze di coloro che hanno condotto a termine con successo il
proprio progetto. Governanti o condottieri militari che escono di
scena da perdenti molto raramente scrivono memorie. Dal punto
di vista degli statistici, il problema è quello dei “dati mancanti”.
In un lavoro pionieristico Abraham Wald, un matematico e statistico d’origine ungherese, si occupò di come rafforzare l’acciaio
delle carlinghe degli aerei durante la guerra, quando per farlo
poteva osservare come erano state perforate dai proiettili nemici
solo quelle degli aerei che ritornavano alla base, ma nulla sapeva
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La questione del signoraggio ha dato luogo a intensi dibattiti e a una
messe di studi. Una rassegna in Reich (2017).
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Parte II - Moneta e debito
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di quella parte, ben più importante, di aerei abbattuti e, ovviamente, non ritornati (Mangel e Samaniego 1984; Elton, Gruber e
Blake 1996; e anche Shermer 2014). Lo stesso è successo agli studiosi di scienze sociali che si sono occupati di moneta trascurando il credito , perchè poco documentato.
Nella Francia dei primi del ’700, John Law non fu certo affetto da una “distorsione documentale”, egli individuò con lucidità
quel che occorreva fare. La sua intelligenza stette nel capire che
il problema non era tanto quello di mettere ordine nella circolazione monetaria, quanto di sostituirla con qualcosa d’altro, di
innovativo, come la carta fiduciaria, la cui convertibilità doveva
essere promessa e sempre procrastinata. E il problema era di trovare un modo per consolidare il potere di uno Stato nazionale
popoloso come la Francia attraverso una sovranità monetaria
e finanziaria. Come leggere l’esperimento di Law, se non come
un tentativo di conferire allo Stato un potere assoluto in termini
monetari e finanziari? La moneta che propose era di carta, una
semplice promessa. Ma più che otteneva credito, emissione dopo
emissione, più si riduceva la probabilità di poter convertire in
oro l’intera massa di carta in circolazione, vanificando, quindi,
la promessa iniziale. La cartamoneta era messa in circolazione
a fronte di prestiti che andavano principalmente ad alimentare
una bolla speculativa rappresentata da acquisti di titoli di una
compagnia commerciale, controllata dalla stessa banca, entrambe sotto il controllo di Law, e di titoli di Stato. Tutti gli ingranaggi
finanziari erano lubrificati abbondantemente dai biglietti di banca e da continui battages pubblicitari per incoraggiare risparmiatori e speculatori, attraendo gli uni e gli altri attraverso gli alti
dividendi distribuiti dalle società di Law e il rialzo continuo del
valore dei titoli della banca, della compagnia, e dello Stato. Per
evitare cedimenti e rafforzare la fiducia verso il proprio sistema,
John Law ottenne la trasformazione della propria banca in Banque Royale, acquisì l’appalto della emissione di moneta, e giunse
finalmente a ricoprire l’alta carica di ministro delle Finanze, sempre allo scopo di gestire l’emissione di cartamoneta per alimentare la speculazione sulle azioni della banca e iniziative commerciali fantasma, attraverso le quali procedere all’acquisto e alla
conversione di un ingente debito statale, in modo da renderlo sia
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meno oneroso sia un investimento attraente per risparmiatori e
speculatori. Da banchiere e finanziere era, infine, giunto all’apice
della gloria quando, in qualità di ministro, ebbe in mano tutte le
leve del potere. Il sistema era ingegnoso, perché la carta emessa
acquistava debito e concedeva prestiti ai privati che acquistavano azioni e titoli della banca emittente e di società collegate, titoli
che promettevano dividendi e guadagni favolosi in conto capitale. Tutto andò bene finché il meccanismo complessivo funzionò
e la bolla speculativa resse, diffondendo l’illusione che potesse
continuare a funzionare sempre in quel modo. L’olio negli ingranaggi della macchina messa in azione da Law era sempre la
cartamoneta della banca che, continuando a prestare e comprare
titoli di Stato e propri, rendeva, di fatto, sempre più evanescente
la promessa originaria di una convertibilità a vista e al portatore
del biglietto. Law capì, come il Mefistofele di Goethe, la meccanica dell’illusione di una moneta emessa da una banca di Stato
con la promessa di convertirla in metallo prezioso che diceva di
tenere in riserva. La moneta fiduciaria era un passo che l’altra
banca di Stato dell’epoca, la Banca d’Inghilterra, fece in maniera
meno irruenta e con una conquista lenta e progressiva di fiducia
durata decenni. L’esperimento del sistema Law si rivelò un fallimento, quando la bolla speculativa scoppiò cinque anni dopo
l’avvio del progetto. Nello stesso anno 1720 anche in Inghilterra scoppiò una bolla speculativa, denominata “South Sea Bubble” dal nome della compagnia dei Mari del Sud (la South Sea
Company), al centro dello scandalo e dei movimenti di capitali,
che, in quegli anni, avevano interessato insieme a Parigi anche le
piazze finanziarie di Amsterdam e, ovviamente, di Londra. Nonostante l’ondata di fallimenti che seguì, la Banca d’Inghilterra
restò relativamente immune, e non coinvolta nel panico, né negli
scandali che sconvolsero la borsa di Londra negli stessi mesi in
cui il “flagello finanziario” colpiva28. Nei decenni successivi, la
Banca d’Inghilterra poté così rafforzarsi e ottenere fiducia presso
il pubblico, anche se la diffusione dei suoi biglietti conquistò gli
inglesi solo dopo le guerre contro l’impero napoleonico.
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Cfr. Carswell (1960); Dale (2004); Paul (2010); e Neal (2012).
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Un breve cenno adesso anche alla seconda esperienza di
fallimento dell’emissione di carta fiduciaria. Nella Francia di
fine XVIII secolo, la Rivoluzione fu salvata grazie all’emissione di assegnati emessi dal governo con garanzia dei beni nazionali espropriati al clero. La proposta di un’emissione di un
titolo di credito (di un papier national) era stata avanzata da
Jacques Necker nel maggio 1789 per salvare le finanze statali.
Solo dopo la Rivoluzione, nel novembre successivo, fu ripresa da Mirabeau, sempre per evitare la bancarotta, ma anche
per non ripetere la via che era stata quella di Law. Mirabeau non esitò a dichiarare che occorreva sbarazzarsi dell’idea
che la carta comportasse inflazione ed esportazione di capitali
(Levasseur 1894, 183-4). Un’emissione di una gran quantità di
assegnati, in piccoli tagli, non doveva creare timori che potesse
essere eccessiva: gli assegnati avevano come garanzia le terre
demaniali; ogni assegnato dava diritto all’acquisto delle terre
incamerate nel demanio, cioè della terra fonte di ogni produzione. Come strumenti cartacei, gli assegnati fornirono fondi
a uno Stato sull’orlo del collasso. Grazie a ciò la Rivoluzione
fu salva. Nel 1791 fu revocato ogni versamento di interessi sugli assegnati, e da titolo nominativo fu trasformato in titolo al
portatore. Dal 1793 fu decretata la circolazione degli assegnati
a corso forzoso, ma è negli anni dopo il Termidoro che gli assegnati divennero a tutti gli effetti moneta, e soprattutto moneta
inflazionata che perdeva rapidamente il proprio potere d’acquisto. Mirabeau aveva chiaramente intuito che gli assegnati
fossero il solo mezzo finanziario per salvare la Rivoluzione,
tuttavia, aveva, forse volutamente, sottaciuto che non c’era
nulla che impedisse di emettere carte per un valore nettamente
superiore a quello delle garanzie. L’efficacia del sistema durò,
anche allora, per circa 4-5 anni, mentre i prezzi dei beni aumentavano e il valore della carta si sviliva sempre più, fino al
1794-95 (Orain 2018).
Un caso, invece, di successo di emissione di moneta fiduciaria è ricordato, tra gli altri, da Simmel. Alcuni secoli prima, Malta
si era salvata dall’assedio dei turchi perché gli Ospedalieri avevano rafforzato le difese di La Valletta con la coniazione di monete in metallo vile, con impressa una divisa di significato espli-
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cito: non aes sed fides29. La moneta mentiva perché era davvero di
rame, ma fu comunque la fede la vera salvezza per i maltesi che
poterono spendere per approntare le opportune difese (Simmel
1900, 263-4).
Come abbiamo già ricordato (nel par. 12.2), per Marx il «sistema monetario è essenzialmente cattolico» mentre «il sistema
creditizio essenzialmente protestante». A Malta nel 1565 la Riforma non era una minaccia, e in quel caso gli Ospedalieri avrebbero
trattato i predicatori protestanti né più né meno che come i turchi.
La questione è che, in un’isola, un gettone in rame è comunque
un pegno e perciò può facilmente adempiere alla funzione di
mezzo di scambio e fornire un supporto alle relazioni creditizie
interne. La moneta maltese, come altre prima e dopo, era un’autentica moneta fiduciaria, la promessa di un’autorità che, in caso
di emergenza, affermava la propria sovranità dichiarando tale
pezzo metallico attività finanziaria per chi la deteneva, ma con
la caratteristica, paradossale, di non essere passività finanziaria
per l’emittente. Per Marx (come sarà per molti versi per Weber)
lo spirito protestante incarna la piena libertà degli affari con una
salda fiducia nel successo imprenditoriale, così come il successo
spirituale della salvezza dipende solo dalla propria fede, senza
far affidamento sulla mediazione di un’autorità pastorale superiore. Sempre per analogia, potremmo suggerire che, in campo
monetario e creditizio, lo spirito protestante – che si basa sulla fiducia personale così come si basa sulla personale interpretazione
delle scritture – tende a dare quindi fiducia al credito mercantile;
mentre lo spirito cattolico – che ha bisogno di un intermediario
superiore che attesti e garantisca l’autentica interpretazione delle
scritture – tende quindi a dare fiducia alla moneta sovrana e alle
garanzie “reali”. Continuando con la medesima analogia nei confronti della teologia protestante, potremmo paragonare la spontaneità di interpretare le verità di fede con la capacità di leggere
e interpretare le scritture contabili. Invece, il senso della ragione
autoritaria è cattolico, in ragione della sua universalità, della veridicità di dottrina (dogma) e della devozione richiesta al fedele
29
Cfr. Simmel (1900, 263-4 [parte Analitica, cap. 2, III, 4]).
Parte II - Moneta e debito
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al quale spetta obbedienza e osservanza delle pratiche rituali. Nel
suo essere membro dello stesso corpo, ogni fedele si riferisce al
pastore che protegge il gregge e soccorre le pecore smarrite30. Il
banchiere, qui come intermediario, legge, per gli affidati e per gli
altri clienti, il merito di credito e le relative scritturazioni.
Nel commercio internazionale la cambiale, fin dal medioevo,
era stata eletta moneta fiduciaria per eccellenza. Le cambiali avevano tuttavia necessità di leggi e di giurisdizioni per dirimere le
controversie tra mercanti; quindi, la moneta dei principi, delle repubbliche, o meglio ancora quella degli Stati nazionali, diventava
strumento essenziale per riparare il torto. Il trasferimento di una
somma di denaro, in forma solenne, davanti a una corte di giustizia sovrana o riconosciuta, costituiva un modo per sostituire alla
logica della vendetta quella del sacrificio limitato a uno scambio
riparatorio. Negli affari, era un processo di riscoperta e sviluppo
quello di domare gli istinti e incanalarli in un’organizzazione che
circoscrivesse il conflitto e avviasse la risoluzione di potenziali stati
di violenza verso modi “civili”, come quelli del secolare affinamento di una società delle buone maniere (Elias 1982, 356-7). In quel
caso, il denaro è propriamente il dispositivo il cui «marchio distintivo e il suo valore permanente consistono, nelle diverse reincarnazioni [avatars], a poter essere scambiato contro ogni cosa e ogni
servizio»; per questo – aggiunge Levinas – della moneta non si può
dimenticare l’oggetto che «rianima» la «prossimità interumana»
(Levinas 1988, 416 e v. 420-1). La moneta sostituisce un torto subito, consegnando all’offeso il segno di un’obbligazione sociale, una
passività in capo all’intera società (e da essa riconosciuta).
Lo sviluppo dei grandi Stati nazionali, sollecitato anche dal
basso, fu, d’altro canto, un potente elemento che finì per inserirsi
nelle reti finanziarie mercantili e per scompaginare i loro reticoli,
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L’immagine di un solo corpo e molte membra è in S. Paolo (1Cor 12,
12), ma è ripresa anche nel Leviatano di Hobbes dove una «moltitudine di uomini
diventa una persona quando viene rappresentata da un uomo o da una persona e
ciò avviene con il particolare consenso di ogni singolo componente di tale moltitudine. Infatti, è l’unità del rappresentante e non l’unità del rappresentato che fa una
la persona» (2001, 271, [I, xvi.13]). Il frontespizio del 1651 dell’opera hobbesiana si
ispirava allo stesso concetto, v. anche la descrizione accurata che ne fa Agamben
(2015a, 33-77).
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12 - La desovranizzazione della moneta
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animati, fino ad allora, da molte “nazioni”, ognuna delle quali,
nel gergo e nel fatto, formata da genti accomunate da lingue e
costumi diversi da quelli locali, “nazioni” per luogo di nascita,
non per sovranità. Il rafforzamento delle sovranità, la dimensione
di popolo e l’espansione delle spese burocratiche, di corte o di
guerra, contribuirono ad accrescere il ruolo e l’influenza degli uomini d’affari, delle aristocrazie e borghesie nazionali, parassitarie
o produttive. In questo senso il debito pubblico e quella serie di
riforme che vanno sotto il termine di rivoluzione finanziaria, affiancata alla costituzione dello Stato fiscale, ebbero un peso determinante nello sviluppo della banca e del credito nel capitalismo
pre e post rivoluzione industriale31. L’oscillazione tra autorità e
reti fiduciarie indipendenti, tra la cattolicità della moneta solida
e il protestantesimo del credito accorto, creò una tensione e, allo
stesso tempo, una complicità tra due estremi per ritrovare un
equilibrio di coesistenza ecumenica e di rafforzamento reciproco.
Dal XVII-XVIII secolo tutto ciò avvenne sotto l’egida dello Stato
fiscale moderno, elemento esso stesso tanto di mediazione quanto di conflitto.
Il miglior esempio di tale tensione è l’esperienza storica delle
banche d’emissione, a partire dalla fondazione della Banca d’Inghilterra per arrivare fino a dopo la crisi degli anni ’30. L’unicità
o la pluralità degli emittenti costituì il dilemma che animò una
lunga diatriba politico-dottrinale, risolta, prima o dopo a seconda dei paesi, a favore dell’unicità sia dell’istituzione che della
corrispondente banconota, specialmente quando ormai la pluralità di fede era sconveniente32. Sorte come banche private, le
banche di emissione erano in realtà bifronti, perché erano anche
banche di Stato almeno per due motivi: per il doppio privilegio
dell’emissione, appunto, e dello statuto societario (finché non divenne di diritto comune dopo la metà del XIX secolo), e per il
Il concetto di rivoluzione finanziaria è introdotto e sviluppato da Dickson (1967) e ripreso, tra gli altri, da Sylla (2002).
32
Fedele al pluralismo dell’emissione ancora nel XX secolo è Vera C.
Smith (1936), testo di riferimento in materia. La Smith si era formata alla London
School of Economics, in seguito fu conosciuta col cognome del marito, Friedrich
Lutz, considerato il «pupillo» di Eucken (cfr. Pühringer 2020, 291).
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Lo Stato (parlamento o governo a seconda degli ordinamenti e delle
leggi istitutive) fino alla metà del XX secolo sottoponeva la banca d’emissione al
rinnovo periodico dello statuto e dei privilegi concessi come forma di accomodamento della banca alle politiche governative. Un caso eclatante è quello dell’opposizione del presidente americano Jackson al rinnovo dello statuto della Second
Bank of America. Per una nuova e unica banca d’emissione si dovette attendere
nel 1913 l’istituzione della Federal Reserve (Giannini 2004; Bordo e Wynne 2016),
la cui piuttosto “singolare” nascita è raccontata nel par. 13.5.
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ricorso esclusivo del Tesoro ad esse come unica banca per le anticipazioni a breve scadenza33. Dall’altro lato, le banche d’emissione erano “banche delle banche”, nel senso che erano governate
da banchieri che ben presto riconobbero l’importanza di avere
un “pastore” che governasse il loro credito, con discrezione e misura. In casi di emergenza finanziaria (come durante le guerre
contro la Francia, prima, rivoluzionaria e, poi, imperiale), lo Stato inglese si riprendeva in mano lo scettro della sovranità monetaria, dichiarando il corso forzoso dei biglietti emessi a fronte di
un ingente ammontare di anticipazioni ottenute o di emissioni
di titoli del debito. Tuttavia, divenne sempre più frequente che il
corso forzoso fosse dichiarato per salvare il credito delle banche
e del commercio e per scongiurare effetti domino sul resto dell’economia. La funzione di prestatore di ultima istanza non era tra
quelle che avevano messo a battesimo le banche di emissione,
ma divenne la principale quando esse cominciarono, per questo,
ad essere chiamate banche centrali.
Con le banche di emissione e l’avvento delle moderne banche di deposito, verso la metà del XIX secolo, i sistemi finanziari
presero, al di là di minori differenze nazionali, la fisionomia attuale, con le banche d’emissione che si specializzarono in vere
banche centrali, attorno alle quali le banche ordinarie facevano
affari e gestivano la propria liquidità, sfruttando le opportunità
loro offerte da un mercato monetario sul quale il dominio della banca centrale diventava sempre più assoluto. Formalmente,
per la banca centrale e per le banche di deposito vigevano le
stesse regole. La circolazione dei biglietti era in un ammontare superiore alle disponibilità di metallo nelle casse della banca
centrale, secondo il sistema a “riserva frazionaria”, cioè la banca
concedeva crediti a banche e (generalmente fino alla seconda
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12 - La desovranizzazione della moneta
349
guerra mondiale) a privati. Le comuni banche di deposito, a loro
volta, non avevano in riserva che una frazione dei crediti erogati
(e dei depositi in contropartita). Il sistema creditizio acquistò
in tal modo, specialmente dal XIX secolo in poi, una maggior
flessibilità nell’offerta di moneta e di credito in funzione dei
crescenti bisogni di finanziamento dell’industria e del Tesoro. Il
vecchio sistema delle cambiali e degli altri strumenti di credito
commerciale otteneva così una potente leva finanziaria attraverso il risconto di cambiali presso la banca di emissione. In tal
modo, a differenza di Archimede, le banche avevano trovato il
loro punto d’appoggio, su cui far leva per sollevare la potenza
del credito e sostenere i processi di industrializzazione. Il credito interno a un sistema economico chiuso trovava così un modo
efficace per espandersi, e banche e banca centrale potevano finalmente garantire, con il loro sviluppo e rafforzamento tecnico,
una gestione del credito più ordinata in modo che non subisse
crolli improvvisi. Tuttavia, non poterono impedire gravi crisi
bancarie e finanziarie, imputate a bolle speculative di varia origine e natura. La concorrenza tra banche induceva ad assumere
rischi di credito crescenti e l’escalation del credito comportava
un’instabilità finanziaria sistematica. A questa caratteristica della concorrenza tra banche di essere una causa – insieme a quella
delle singole banche che concedono prestiti con leggerezza – di
deterioramento della qualità del credito, Goodhart (1991) attribuisce la giustificazione fondamentale dell’esistenza e della necessità della banca centrale nei sistemi finanziari moderni. Per
quanto Law e gli assegnati fossero diventati ottimi spauracchi,
con lo sviluppo ulteriore del capitalismo, le crisi bancarie e finanziarie divennero molto frequenti e sempre più minacciose,
soprattutto in economie di mercato relativamente “aperte”. Il
“mantra” per le banche centrali divenne la stabilità monetaria,
intesa principalmente in termini di politiche volte a proteggere il sistema dall’inflazione. Ovviamente, l’ossessiva attenzione
verso la stabilità monetaria ha distratto le banche centrali dalla
loro funzione di controllo sulla stabilità finanziaria (v. par. 13.3
e 13.4).
L’epoca delle banche d’emissione bifronti, privato-pubblico,
continuò fino alla seconda guerra mondiale, quando gli Stati ri-
Parte II - Moneta e debito
350
presero in mano la situazione (con nazionalizzazioni ed estromissione dei banchieri privati dal controllo sulla banca centrale) per
riabbandonarlo progressivamente nell’epoca della seconda globalizzazione di fine XX secolo.
Ma le banche centrali furono soprattutto l’intermediario tra
il sistema bancario nazionale e i mercati creditizi e finanziari
internazionali. La garanzia della convertibilità in metallo dei
biglietti emessi era garanzia di stabilità del cambio con gli altri
paesi che adottavano lo stesso sistema monetario aureo o bimetallico e, al tempo stesso, regola fiscale. Difatti, economisti e
primi pensatori liberali, che in genere si confondevano gli uni
con gli altri, intuirono il pericolo dell’inconvertibilità tendenziale se il Tesoro avesse fatto leva sulla banca d’emissione per
allentare il proprio vincolo di bilancio, cioè tenere in pareggio
le entrate con le uscite ricorrendo alle anticipazioni. La mercificazione della moneta altro non era che il tentativo di desovranizzare la moneta, cioè di rendere l’intero sistema monetario e
finanziario una macchina simile alla macchina celeste newtoniana, il cui funzionamento poteva essere solo danneggiato da
un preteso demiurgo terrestre34. Le questioni politiche andavano completamente estromesse e rese marginali, al più ammesse
per i casi di stato di eccezione, ma senza interferire su congegni
“naturalmente” perfetti. Il meccanismo di equilibrio dei prezzi
attraverso i flussi di specie metalliche (price-specie flow mechanism) di Hume (in Of the Balance of Trade, del 1752) era un congegno fondamentale per comprendere come, in un regime di gold
standard nel quale la moneta-merce è “neutrale”, cioè svolge
soltanto le funzioni di mezzo di pagamento, l’arte di governo
consistesse nell’evitare artifici politici e nel sorvegliare soltanto
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La concezione di un universo-macchina investiva ogni ambito dell’ordine del mondo e la conoscenza era condizione preliminare per poterne seguire
le leggi allo scopo di mantenere armonia ed equilibrio; cfr. Clericuzio (2005, 1724, 247, 253-6) rispetto all’economia della natura in Newton e alle obiezioni di
Leibniz al continuo intervento di Dio nel mondo, ritenuto implicito nel concetto
di gravitazione (ibidem, 286 e 289). Anche l’arte del governo del mondo doveva
perciò seguire i principi naturali, le cose artificiali non possono differire da quelle
naturali. Su ciò il classico Rossi (2009, specialmente 146-51). Cfr. anche Brubaker
(2006, 185 e 257).
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che la bilancia dell’economia e degli scambi fosse equa come
quella della giustizia: nec citra nec ultra (né di qua né di là)35.
In quel contesto di moneta neutralizzata, il settore privato
dell’economia, prima mercantile e poi industriale, restò padrone
dei meccanismi che governavano l’offerta di credito e formavano
sistemi nazionali fiduciariamente solidi. Ciò forniva un vantaggio comparato rilevante in termini di livello del tasso d’interesse.
Riuscire a tenere relativamente bassi, e prevedibilmente stabili, i
tassi d’interesse aveva un primo importante effetto nel rendere
sostenibili i debiti per varie classi di debitori con un differente
merito di credito e, inoltre, incoraggiare gli investimenti. Ma è
soprattutto la prima caratteristica (la solvibilità dei debiti interni) a dare un consistente vantaggio competitivo agli operatori
nazionali, mentre la seconda (i maggiori investimenti) offre ai
medesimi l’altro vantaggio di detenere titoli rappresentativi di
obbligazioni e di proprietà (come azioni) che acquistano valore
grazie ai bassi tassi d’interesse36. Anche altri patrimoni, come le
terre, acquistano di valore se i tassi d’interesse sono mantenuti
bassi per la maggior facilità di accesso al credito e, per questa via,
si ampliano le possibilità di accesso alla proprietà. Il motivo del
basso tasso d’interesse non è molto riconosciuto tra i meriti teorici
di Locke, che lo sottolineò con chiarezza; comunque il basso tasso
d’interesse rimase un obiettivo importante che spinse altri paesi a
imitare le strutture bancarie e finanziarie inglesi.
Nel 1873, Walter Bagehot giunse finalmente a riconoscere le
basi nazionali di un’architettura finanziaria ben organizzata, i
cui vantaggi, in termini di costo del denaro e di organizzazione
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Nello scritto “On the balance of trade” (1752), Hume descrisse un sistema internazionale di scambi di merci nel quale la regolazione di saldi commerciali eccessivi avviene mediante afflussi e deflussi di metallo monetario, grazie
ai quali i prezzi aumentano nel paese creditore in corrispondenza alla diminuzione nel paese debitore. Purché l’intera struttura dei prezzi interni ai due paesi
sia flessibile (verso l’alto e verso il basso) e non ci siano interventi di autorità, si
ristabilisce sia l’equilibrio nelle bilance commerciali sia la parità di cambio tra
le monete dei due paesi. Le virtù autoregolatrici del sistema monetario erano
dimostrate con uno schema di leggi di natura. Cfr. McGee (1989); Eichengreen
(1985).
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Sulla questione si rinvia a Borio e Parker (2004).
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dei rischi attraverso la mobilità degli investimenti e la liquidità
dell’intero sistema, offrivano una leva concorrenziale ai creditori e debitori interni rispetto a quelli di ogni altro paese (Bagehot
1873; e Giffen 1890, 37-88). Lo spazio nazionale sovrano, eredità di Vestfalia, rappresentò la dimensione indispensabile per la
formazione dei sistemi finanziari domestici. Essi si costituirono
attorno ai due pilastri fondamentali della nuova costruzione
della sovranità moderna: il debito pubblico, nelle nuove forme
cartolarizzate con le promesse solenni di non inadempienza, e
la banca d’emissione, nelle sue funzioni originarie di banca di
Stato e di polmone di liquidità per il mercato degli stessi titoli
pubblici. Le varie configurazioni nazionali, repliche di questo
modello istituzionale stilizzato, si integravano finanziariamente, per via degli scambi commerciali, con il paese – l’Inghilterra – che aveva il primato nell’industria moderna e nell’esportazione di capitali. Bagehot (1873) descrive la funzione apicale
della City di Londra nel funzionamento di un ordine monetario
interno e internazionale, nel quale le varie banche di emissione,
svolgevano un ruolo analogo a quello che la Banca d’Inghilterra
svolgeva in grande stile e su larga scala nello smorzare gli squilibri interni e esterni, reagendo ai drenaggi di riserve metalliche,
ai movimenti del cambio, alle tensioni sui tassi d’interesse e, nel
caso, intervenendo come prestatore di ultima istanza verso le altre istituzioni bancarie. Nei confronti di queste ultime, la banca
d’emissione occupava progressivamente un posto e una funzione “centrale”, cioè disciplinava indirettamente la loro acquisizione di rischi, si imponeva con tutto il proprio peso finanziario sul mercato della moneta come la banca più liquida e più in
grado di fornire liquidità, una liquidità necessaria per tenere in
piedi un sistema di finanziamenti sempre più complesso e possente. La buona moneta era, quindi, ritenuta requisito di buona
finanza e perciò di buona economia. A livello internazionale si
formò, specialmente nel corso del XIX secolo, un’architettura di
spazi nazionali satellitari rispetto ai principali centri finanziari
mondiali, di cui Londra era il vertice indiscusso.
Le dinamiche, qui presentate in modo molto stilizzato, che si
succedettero dall’inizio del XIX secolo in poi, riguardarono due
livelli tra loro interdipendenti: quello delle relazioni interne e
12 - La desovranizzazione della moneta
353
quello dei rapporti internazionali. La forza sovrana di una moneta nazionale dipendeva dalla posizione che riusciva a guadagnare in uno scenario più ampio di relazioni finanziarie con le
altre principali economie. Il grado di ortodossia monetaria, cioè
il rispetto delle regole di moneta-merce e dell’adesione allo standard metallico, dipendeva da rapporti di forza interni e internazionali. L’Inghilterra divenne il baluardo dell’ordine monetario
internazionale fondato sull’ortodossia della moneta-merce e, di
fatto, lo impose al resto del mondo. Eichengreen ha spiegato molto bene come in un semplice commercio internazionale di caffè,
dall’imbarco delle balle da parte di un esportatore brasiliano fino
al loro arrivo all’importatore newyorkese, sia per la banca brasiliana che per quella americana fosse necessario l’avallo delle
lettere di cambio da parte di una banca londinese. E questo fu
uno dei motivi principali che spinsero gli Stati Uniti a dotarsi di
una propria banca centrale (Eichengreen 2011, 15-7). La City di
Londra si impose così al centro di una vera e propria costellazione finanziaria internazionale per intermediazione di fondi e
per offerta di servizi finanziari di ogni genere. Attorno alla City,
le varie economie, con sistemi finanziari meno sviluppati, si disposero come pianeti la cui forza gravitazionale era in funzione
della “distanza” finanziaria, misurata dal grado di rischio, altezza del saggio d’interesse, grado di liquidità, e dalla capacità di
fornire servizi in supporto o in supplenza della piazza principe,
infine, dalla facilità di movimento dei capitali da una zona all’altra. Si formarono anche altri sotto-sistemi con satelliti minori. A
metà XIX secolo, la Francia, infatti, tentò con l’Unione latina di
aggregare attorno al franco e al bimetallismo un’area monetaria
mediterranea alternativa a quella inglese e germanica. Tuttavia,
sempre la Francia svolse un ruolo di primo piano nel contribuire alla stabilità del sistema di gold standard. La Banca di Francia
era disposta a concedere prestiti e a trasferire metalli preziosi oltre Manica nei momenti critici, dovuti a squilibri “fondamentali”, come quello dei saldi commerciali, o per rimediare a trasferimenti di fondi per speculazioni di banche d’affari residenti a
Parigi e di merchant bank londinesi, tra loro imparentate al pari
delle grandi case reali europee e come esse in continua disputa
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con i rami collaterali che aspiravano alla successione al trono37.
Nella teoria del gold standard, i trasferimenti correnti di fondi da
una piazza all’altra erano esclusivamente a compensazione di
pagamenti di transazioni commerciali. Le ipotesi di fondo della
teoria erano che i fattori produttivi, terra, capitale e lavoro, non
si muovessero da un paese all’altro; e tali ipotesi rispondevano
effettivamente alle condizioni storiche dell’epoca. Anche Smith
(1776) raccomandava ai proprietari di terre di sorvegliare e mandare avanti le proprietà e i lavori agricoli, mentre avvertiva tutti
gli altri capitalisti che i rischi erano crescenti per chi muoveva
capitali per mare e per terra; il lavoro non aveva nemmeno bisogno di tali consigli, si muoveva solo in caso di persecuzioni. Gli
ugonotti spostarono capitali dalla Francia nei paesi limitrofi per
trovare anzitutto protezione di fede. Fino a buona parte del XIX
secolo, quelle condizioni non cambiarono sostanzialmente. I movimenti migratori potevano considerarsi molto marginali e quelli
dei capitali del tutto trascurabili, rispetto ai volumi e valori delle
merci che transitavano nel commercio internazionale. I capitali
effettivamente mobili erano poi costituiti essi stessi da merce, cioè
oro e argento, monetati o in barre, ma fino all’avvento delle ferrovie e dei grossi investimenti diretti all’estero, quelli eccedenti
le compensazioni per pagamenti di merci e servizi non erano tali
da alterare le predizioni della teoria del commercio internazionale fondata su quella di Hume e portata a perfezione da Ricardo.
Fino a quella fase di capitalismo prevalentemente mercantile, il
fondamento dell’ortodossia bancaria poteva basarsi sulla teoria
delle cambiali “reali” (real bills doctrine). Nulla però impediva che
le cambiali fossero di “comodo” e comodamente scontate presso
banchieri e banche per coprire operazioni esclusivamente finanziarie che, rispetto a quelle commerciali, mancavano di una sottostante transazione di beni che, in teoria, doveva garantire il buon
fine di tutta l’operazione creditizia. Tali operazioni, considerate
più rischiose, dovevano essere disciplinate e ricondotte nell’alveo della condotta più prudente. Con l’industria moderna anche
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Sulle successioni ai vertici della finanza internazionale, degli intrecci affaristici di relazioni politico-diplomatiche, di cui i Rothschild furono tra i maggiori rappresentanti, simbolo di un’epopea non del tutto scomparsa, v. Cassis (2007).
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la natura delle cambiali cominciò ad alterarsi, perché proprio le
industrie, in molti casi, ricorsero alla sottoscrizione di cambiali di
comodo per finanziare investimenti fissi; questo finiva per invischiare le banche in immobilizzazioni e le costringeva a numerosi
rinnovi a scadenza per l’impossibilità di liquidare le posizioni.
Le banche centrali cominciarono a controllare la “bontà” delle
cambiali da scontare per non doversi trovare a fornire liquidità
nei momenti critici e per finire travolte dalla piena di una speculazione rovinosa.
Con l’affermazione del gold standard a livello internazionale,
nell’ultimo decennio del XIX secolo, si stabilì un sistema di cambi
fissi ancorati su un’unica moneta di riserva rappresentata dall’oro
in cui tutte le valute erano convertibili. Ma quella moneta nazionale
che sembrava rappresentare al meglio la moneta assoluta, ovvero
l’oro, diventava la vera “sovrana” rispetto a tutte le altre; e, forse, in
questo senso, non è neppure un caso che il pound inglese, prendesse il nome di sovereign (da 20 scellini). Di fatto la sterlina esercitava
un “comando” sulle altre divise nazionali per la forza del commercio e dell’industria inglese, ma soprattutto della finanza della
City. Keynes ha usato – in riferimento al ruolo della sterlina e della
Banca d’Inghilterra – la metafora del direttore d’orchestra che, con
semplici gesti, accorda l’armonia di un complesso strumentale secondo un piano musicale, del quale regola tempi e intensità. La
Banca d’Inghilterra nel XIX secolo era il «direttore dell’orchestra
internazionale», in quanto disposta a variare le proprie riserve
auree, mentre le altre banche centrali erano riluttanti a farlo, e a
variare il proprio saggio di sconto per attrarre capitali dall’estero
o incoraggiare investimenti all’estero (Keynes 1930 [1979], II 480-2
[cap. 36, 2]). In tal modo, l’ordine era ristabilito attraverso una gestione accorta delle riserve metalliche e della variazione del saggio
di sconto, e da altri interventi che successivamente riguarderanno
anche operazioni di acquisto e vendita di titoli del debito pubblico sul mercato monetario, in funzione di restringere o allentare la
pressione sulla liquidità a disposizione del sistema bancario. In
altri termini, il processo mediante il quale le banche d’emissione
approdarono al ruolo di autentiche banche centrali fu un lento
apprendimento nell’esercizio di un potere politico sulla moneta.
Questo potere consisteva nel guidare la moneta, anzitutto secondo
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la convenienza della banca centrale, che finiva per identificarsi progressivamente con l’interesse generale della nazione, in base alla
prudente gestione delle proprie riserve metalliche, al controllo sul
livello del proprio saggio di sconto e dell’intera struttura dei tassi
d’interesse interni e, ovviamente, alla salvaguardia della stabilità di
cambio. Da tutto ciò – occorre ricordare – dipendeva il livello delle
spese interne, della produzione e dell’occupazione. Ma già durante
il gold standard classico, prima del 1914, la contesa di sovranità si
era svolta, in realtà, con un solo sovrano incontrastato, che smentiva l’idea di un sistema autoregolantesi secondo un principio simile
a quello naturale dei vasi comunicanti della meccanica humiana
dei flussi di metallo in entrata e in uscita38. La realtà era, però, ben
diversa da quell’idea, prima di tutto perché in nessuna grande
economia c’erano interessi, specialmente industriali e agrari, che
vedessero di buon occhio il “ballo” dei prezzi interni a seconda della congiuntura internazionale. Inoltre, il buon funzionamento del
meccanismo tendente al riequilibrio del sistema humiano dei flussi
di fondi dipendeva dalla piena flessibilità dell’intera struttura dei
prezzi, compreso il salario. Nei paesi più avanzati e, specialmente
in quelli industriali, la rete di rapporti di debito e credito era estesa
in lungo e in largo nella compagine sociale e ogni variazione dei
prezzi oltre un certo limite era intollerabile e minacciava anzitutto
la stabilità sociale. Gran parte dei debiti era stipulata in termini nominali, a tassi fissi e, una parte rilevante, a scadenze medio-lunghe.
Inoltre, con l’avvenuta industrializzazione, le variazioni dei prezzi,
specialmente le deflazioni, avevano effetti disastrosi sui profitti e
sugli investimenti. Con la crescita dei movimenti operai e delle forze sindacali, il salario, prezzo chiave nell’intera struttura dei prezzi
e per la competitività internazionale, divenne sempre più rigido
verso il basso, interferendo sulle capacità del sistema economico di
raggiungere un equilibrio stabile anche in termini di pace sociale.
Ciò poneva un’ulteriore ostacolo al rispetto del postulato filosofico-politico della neutralità monetaria, pilastro fondamentale del
liberalismo, per cui ogni banca centrale cominciò a tentare di go-
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Ricordiamo (v. par. 13.1), che secondo la meccanica di Hume, tali flussi
spingerebbero in alto e in basso i prezzi e porterebbero a riequilibrare gli scambi
tra le varie economie e i cambi tra le monete nazionali.
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vernare la propria moneta nazionale per non lasciarla in balia delle
scelte delle nazioni più forti, in grado di condizionarla attraendo
capitali e influendo sulle forze competitive del paese. Attraverso
la moneta, si poteva tentare di difendere la posizione economica
e finanziaria del paese nel contesto internazionale, smorzando gli
effetti destabilizzanti, provenienti, in gran parte, dai conflitti sociali
interni che riguardavano specialmente le classi imprenditoriali e le
masse operaie.
De Cecco (2017) ha dimostrato che le banche centrali, nell’epoca del gold standard internazionale, intervenivano sistematicamente per evitare squilibri interni sui prezzi e ripercussioni
sull’economia reale, attraverso un accumulo di attività sull’estero e variazioni del loro saggio di sconto, in genere per frenare
i deflussi di metallo verso l’estero. In particolare la City, grazie
al domino imperiale inglese, poteva far fronte ai forti squilibri
generati dalle perdite di competitività della propria economia e
dall’antagonismo ciclico di un’economia come quella americana,
che era in forte espansione negli ultimi decenni dell’800 ed era
caratterizzata dall’assenza di una banca centrale e da un sistema bancario fragile, sollecitato da violente fluttuazioni causate
dai bisogni di liquidità e di finanziamenti da parte dei distretti
agricoli. Questi ultimi erano indebitati presso le banche di provincia, specialmente nell’imminenza di semine e prima dei raccolti; inoltre, le piccole banche dei distretti agricoli, a loro volta,
chiedevano prestiti alle grandi banche di New York, che, a catena,
ottenevano finanziamenti dalle banche della City di Londra, fin
quando, con l’esportazione di derrate agricole verso l’Europa, il
circuito si chiudeva e i capitali rifluivano in senso inverso. La City
e la Banca d’Inghilterra riuscivano a fronteggiare l’onda d’urto ciclica grazie all’Impero britannico, per mezzo della gestione delle
eccedenze commerciali dell’India, imponendo che i fondi ottenuti
dal resto del mondo fossero investiti in consols emessi dal governo britannico, evitando così che i deficit strutturali del commercio
inglese andassero a sconvolgere gli equilibri dell’intero sistema
finanziario. L’amministrazione imperiale impediva all’India di
riformare la propria moneta, perché il silver standard indiano era
l’elemento indispensabile per consolidare il gold standard internazionale incentrato su Londra. In questa complessa circolazione
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di capitali, la Banca d’Inghilterra poteva continuare a mantenere
la propria posizione e a rafforzarla senza subire emorragie auree
verso l’estero e tali comunque da non far saltare l’intero sistema.
Il processo, qui appena rappresentato nelle linee essenziali,
scorre dentro un campo di tensioni continue: una parte di un settore privato, essenzialmente banche e banchieri, tentava di sottrarre allo Stato ogni pretesa di potere sovrano sulla moneta per
preservare così un dominio sul credito fuori da un controllo pubblico; tuttavia, altre componenti sociali, principalmente le classi
produttive e, all’occasione di crisi finanziarie, gli stessi banchieri,
invocavano che la mano pubblica intervenisse per non perdere
posizioni di dominio finanziario a livello internazionale.
In conclusione, ricordiamo i passaggi e le dialettiche, talvolta
conflittuali e talvolta convergenti, fra privati e poteri pubblici sulla sovranità monetaria che hanno portato all’insediamento della
moneta fiduciaria.
I principi di una riforma monetaria per rendere la moneta una
merce furono realizzati prima in Inghilterra e, poi, nei diversi paesi, dopo la Rivoluzione francese, con l’intento di schermare il sistema del credito da pretese di sovranità. Un conio a pieno titolo
aureo, o argenteo, e l’impronta del valore facciale tra le iscrizioni
sul conio toglievano definitivamente di mezzo l’arbitrio delle mutazioni monetarie. In tal modo l’asse del credito era agganciato
all’andamento del libero commercio. Con le guerre (napoleoniche
e, specialmente, coloniali), anche il “protezionismo monetario”
(cioè l’adozione di politiche volte ad accumulare riserve valutarie e a stabilizzare l’economia nazionale proteggendola dalle forti
oscillazioni del ciclo internazionale) divenne un’opzione auspicata per consentire l’apertura dei mercati allo scambio di merci
e di capitali senza perdere i vantaggi goduti sotto l’egida della
sovranità sulla moneta; quest’ultima, infatti, assicurava, attraverso le misure che le banche d’emissione e centrali adottavano
per governare l’andamento dei cambi e influenzare il livello e la
stabilità dei tassi d’interesse interni, la stabilità monetaria. Il protezionismo monetario rappresenta una forma blanda di politiche
monetarie e di controllo del credito , che si sono sviluppate in forme sempre più affinate nel corso dei primi decenni del XX secolo.
Lo Stato giunge così a mettere in circolazione un pegno che non
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rimborserà, cioè a totale, o quasi totale, circolazione forzosa, e che
contabilmente non iscrive tra i propri debiti ma tra quelli della
banca centrale. Quella è vera moneta creata ex nihilo e la fiat money non ha bisogno di essere redenta, è strumento di redenzione
di ogni altro rapporto contrattuale39. Acquista merci, ma nessuno
può chiederne il rimborso, l’estinzione.
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In linea con il concetto di redemptio e di redimĕre, riscattare, anche un pegno si riscatta. In questa prospettiva la moneta delle banche moderne, il deposito,
è una promessa di redenzione e, per restare in un linguaggio teologico, come in
ogni redenzione da un peccato originale, la purificazione dal peccato-debito può
avvenire solo per intervento della moneta che non ha nessun peccato originale,
cioè dalla moneta del principe che promette senza dare.
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Capitolo 13
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LE SOLUZIONI INFINITE PER RENDERE
“NEUTRALE” E “SANA” LA MONETA
13.1. Il dibattito sulla natura (neutrale o influente, esogena o
endogena) della moneta
In un dibattito parlamentare sulle leggi bancarie di Sir Robert Peel del 1844 e del 1845, Gladstone osservava che nemmeno l’amore aveva fatto impazzire tanti uomini quanti ne
erano impazziti scervellandosi sulla natura del denaro.
(Marx 1859, 1002, cap. II).
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Ma per fuggire il lume ch’abbarbaglia, | e gli altri incanti di
colui far sciocchi, | ti mostrerò un rimedio, una via presta;
| né altra in tutto ’l mondo è se non questa. (Ariosto 1996,
canto III, 68)
È verosimile che il principale credito che si dà ai miracoli,
alle visioni, agli incantesimi e a simili fatti straordinari derivi dalla potenza dell’immaginazione che agisce principalmente sugli animi del popolo, più malleabili. (Montaigne
2012, cap. XXI)
La moneta, come ricorda Marx attraverso le parole di Gladstone, disorienta e sconcerta anche le menti più acute. Gli effetti del disorientamento sono stati numerosi nel corso degli ultimi secoli. Le ricette
in materia di buona moneta sono molte e un numero cospicuo di
economisti, invece di accettare la moneta come prodotto politico di
interazione tra uno Stato sovrano e la società, hanno cercato di sterilizzare nella moneta ogni impronta politica, purificarla per renderla
un semplice strumento asettico che non influisse sull’andamento
degli scambi. Le dicotomie sulla moneta e sulle politiche monetarie sono in parte conseguenza di confusione e smarrimento teorico.
Può essere interessante presentare, in una carrellata di dicotomie, le
controversie quasi mai del tutto risolte in materia monetaria.
Accenniamo qui, preliminarmente, alle definizioni di concetti
quali la dicotomia classica, la neutralità della moneta e il monetarismo, che appariranno in seguito.
Parte II - Moneta e debito
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La possibilità della separazione tra variabili reali – quelle misurate in unità fisiche, quali le quantità e i prezzi relativi (PIL, salario
reale, stock di capitale ecc.) – e variabili nominali – quelle misurate in unità monetarie quali tasso d’inflazione, livello generale dei
prezzi, salario nominale ecc. – viene sostenuta già dalla macroeconomia classica: se variabili reali e nominali sono separate, allora
variazioni dell’offerta di moneta non influenzano le variabili reali.
Così abbiamo la cosiddetta “dicotomia classica”. Essa, di fatto, definisce anche il concetto di “neutralità” della moneta (p.e. Patinkin,
1987): una variazione della quantità di moneta ha effetti solamente sul valore nominale delle variabili come il prezzo, il salario e il
tasso di cambio, ma nessun effetto sulle variabili reali come il PIL,
l’occupazione, l’investimento e il consumo. Il significato politico
è evidente: stampare banconote significa solo aumentare prezzi e
salari. La banca centrale non può fare nulla per sostenere il reddito
e la crescita economica; se stampa moneta ottiene solo il risultato
immediato di danneggiare i finanzieri che hanno prestato a tasso
fisso e di beneficiare i lavoratori salariati, che possono richiedere
aumenti di salario maggiori degli aumenti dei prezzi, col risultato
finale di un aumento del tasso di inflazione.
Per monetarismo, soprattutto riferito principalmente al pensiero di Milton Friedman, intendiamo una teoria – basata su quella quantitativa della moneta – per cui la quantità di moneta ha
un’influenza di lungo periodo solo sul livello generale dei prezzi
– che sono assunti perfettamente flessibili – senza determinare
variazioni reali nell’economia. Se ancora, per Friedman, era ammesso che nel breve periodo una manovra di politica monetaria del tutto inattesa potesse anche influenzare il reddito reale e
l’occupazione (perché, per esempio, i prezzi, specialmente i salari
nominali, sono “vischiosi”, e non si possono aggiustare immediatamente a seguito di un cambiamento inaspettato nell’offerta di
moneta), con la successiva “nuova macroeconomia classica” di
Robert Lucas, la moneta, con le aspettative razionali, perde ogni
effetto reale anche nel breve periodo. Pertanto la politica economica monetaria basata sull’espansione della massa monetaria non
aumenta reddito e occupazione, ma aumenta solo l’inflazione.
Tuttavia il concetto di neutralità della moneta è stato sottoposto a critiche dirompenti.
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Secondo Hayek, la paternità del concetto di “neutralità della
moneta” appartiene a Wicksell (anche se quest’ultimo la intende
come “neutralità del tasso di interesse”). Schumpeter ammette che
fu Wicksell a vedere chiaramente e a coniare il concetto di moneta
neutrale, e aggiunge un’importante considerazione: «questo concetto non esprime altro che la radicata credenza nella possibilità
della pura analisi “reale” [… ma] suggerisce anche il riconoscimento del fatto che la moneta non è necessariamente neutrale» (1954,
1334 [IV, cap. 8.3 (a)]). Il testo di Wicksell in oggetto è il seguente:
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Quel tasso d’interesse sul prestito che si mantiene del tutto neutrale rispetto ai prezzi dei beni e non imprime nessuna tendenza al loro rialzo
o al loro ribasso, non può essere pertanto nessun altro che quello che
verrebbe determinato dalla domanda e dall’offerta nel caso che non
ci si servisse di nessuna transazione monetaria, ma che i capitali reali
venissero invece prestati in natura – oppure ciò che fa lo stesso, del livello corrispondente all’interesse naturale del capitale (Wicksell 1898, 237
[cap. VIII]).
In altre parole, il tasso monetario di interesse sarebbe neutrale
se fosse uguale al tasso di interesse “naturale”: cioè come se si
fosse in una economia di baratto. Appare una evidente circolarità
argomentativa: la moneta è neutrale solo se si riproducono le condizioni di una economia senza moneta. Come rileva Samuelson
(1968, 1-8)1, la formulazione wickselliana non tiene, perché un’economia monetaria è strutturalmente diversa e incomparabile
con una economia di baratto: basta immaginarsi che in assenza di
moneta la divisione del lavoro e la specializzazione delle funzioCome dice Samuelson, agli economisti classici e neoclassici, lui compreso, era «piaciuta l’immagine di John Stuart Mill secondo cui il denaro è il lubrificante dell’industria e del commercio. Come anche le donne conducenti sanno, la
lubrificazione è importante. Ma M [la moneta] è quantitativamente un lubrificante
speciale: una goccia farà altrettanto che una piscina. Quindi un’immagine ancora
migliore è stata quella post-Mill: il denaro è come un catalizzatore in una reazione
chimica, che rende la reazione più rapida e migliore, ma che, come l’olio nella
padella della vedova, non viene mai utilizzato […]. Ciò che ho appena detto chiarisce in modo inequivocabile che un teorico monetario classico sarebbe andato
sul rogo per difendere la convinzione che l’insieme reale di equazioni A sia indipendente da M, dipendendo essenzialmente solo dai rapporti dei prezzi come nel
baratto» (Samuelson, 1968, 3).
1
Parte II - Moneta e debito
364
ni non potrebbero esistere e la società retrocederebbe a un livello del tutto diverso2. Eppure, a parte Keynes che focalizza sulla
domanda aggregata piuttosto che sui prezzi relativi, gran parte
della letteratura di più generazioni, da Hayek a Gurley e Shaw
e a Patinkin, ricerca le condizioni della neutralità della moneta e
sempre facendo ricorso al benchmark dell’economia di baratto. Si
tratta, nelle parole di Ascheim (1973), di una ricerca di una teoria
inconsistente, internamente contraddittoria, frutto di un pensiero
“a ruota libera” e non rigoroso:
Ma il tema della neutralità della moneta, che è una spina dorsale del vasto corpo delle dicotomie in tema monetario, era già
presente nel XVIII secolo, riferito però al contesto internazionale
e interno tipico di quel secolo e al livello ancora iniziale dell’economia politica. Prima di allora, gli stessi banchieri e mercanti internazionali, prima di altri, erano interessati a risolvere problemi
di disordine monetario, a limitare, o neutralizzare completamente, ogni influenza statale sulla moneta, a ricercare buone monete
che, al pari dell’oro e dell’argento, fossero anche un bene rifugio,
una riserva di valore. Erano gli stessi che con le lettere di cambio
si erano creati una propria sfera, in cui la propria moneta, la cambiale, era ad offerta flessibile in base alle potenzialità del credito
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essendo basato sulla nozione di economia, tanto il concetto quanto le
condizioni per una ‘moneta neutrale’ sono una contraddizione in termini
[…] portata alle sue logiche conclusioni, il concetto di “moneta neutrale” è una “reductio ad absurdum” […] a causa della natura della sua
inconsistenza interna, la ‘neutralità della moneta’ non è sostenibile né
come costrutto concettuale né come regola di “policy” […] in essenza, la
“neutralità della moneta” costituisce un tentativo di proiettare su un’economia monetaria il paradigma dei prezzi relativi di un sistema di baratto
[…] un tentativo che in senso figurato è di indulgere in modo intermittente al piacere di pensare in modo vago e generico (Ascheim 1973, 82).
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Ascheim (1973) sostiene che, privandolo del tutto della moneta, il sistema economico potrebbe assomigliare al livello e composizione delle attività economiche che risulterebbero come conseguenza di una tempesta di iperinflazione,
cioè come successe nella Germania dei primi anni ’20 e nell’immediato secondo
dopoguerra, quando la moneta era scomparsa di circolazione e al suo posto, per i
piccoli pagamenti, si usavano ogni sorta di beni, come sigarette e altro.
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13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
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tra mercanti e banchieri, ma che volevano anche che la moneta
dello Stato fosse rigidamente vincolata.
Senza risalire al mercantilismo e prima, riassumiamo brevemente le idee e le posizioni che emergono a partire dalla fine del
’700 sulla natura della moneta in termini delle modalità della formazione della sua offerta e dei suoi effetti nell’economia.
Hume screditò la posizione mercantilista, volta all’accumulo
di metalli preziosi, e per primo fornì una teoria dell’equilibrio delle bilance dei pagamenti, in cui proprio il flusso dei metalli preziosi da e per l’estero era il meccanismo che assicurava l’equilibrio
tra diverse economie aperte. Hume propose un funzionamento
monetario prezzo-flusso (price-specie flow mechanism), secondo il
quale una bilancia dei pagamenti in surplus implica un aumento
dello stock di metallo prezioso in entrata che genera un aumento dei prezzi interni, che, quindi, a sua volta, riduce la competitività delle esportazioni facendone diminuire il surplus in futuro.
Quindi, questo funzionamento, da un lato, stabilizzava in modo
autoregolato le bilance dei pagamenti e, al contempo, assicurava un’adeguata offerta di moneta, cioè assicurava che l’offerta di
moneta, strutturalmente variabile, agendo attraverso la flessibilità
dei prezzi interni, tendesse a riportare la bilancia commerciale in
pareggio e il tasso di cambio sulla parità senza che ci fosse bisogno
di alcun intervento correttivo da parte della politica governativa.
In un sistema internazionale di scambi commerciali, se dotato di
valute rispettivamente ancorate a una parità metallica (oro), i paesi aderenti avevano fissato reciprocamente parità ufficiali di cambio che non sarebbero state alterate da squilibri momentanei nelle
reciproche bilance commerciali, perché le variazioni di quantità
di moneta all’interno di ciascun paese e dei prezzi (in senso inverso nei paesi in surplus commerciale rispetto a quelli in deficit)
avrebbe riportato tutto verso l’ordine “naturale”. La metafora (dei
vasi comunicanti) con la quale Hume liquidava – è proprio il caso
di dirlo – il mercantilismo era calzante: «L’acqua, dovunque sia
comunicante, rimane sempre tutta allo stesso livello. […] è impossibile accumulare moneta, più di qualunque fluido, al di là del suo
giusto livello» (Hume 1971, 719 e 720).
Il messaggio politico era chiaro: il sistema monetario internazionale – in regime di gold standard – funziona perfettamente in
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una situazione di laissez faire e quindi gli Stati non devono intervenire in quanto il sistema è in grado di equilibrarsi autonomamente e ogni politica economica sarebbe non solo inutile ma dannosa
(governi e banche di emissione non devono, perciò, opporre resistenza ai movimenti dei prezzi interni, cioè non tentare di frenare
le inflazioni, né di bloccare le deflazioni; le banche di emissione,
in particolare, devono aumentare il credito o diminuirlo quando
le loro riserve aumentano o si riducono). Questa teoria
verrà a costituire […] una delle basi del liberalismo ricardiano. […] Una
simile analisi si proponeva evidentemente di dare il colpo di grazia al
mercantilismo, dimostrando che non c’era alcuna ragione, né alcuna
necessità, di ricorrere all’intervento dello Stato […] Hume contribuisce
semplicemente a dare origine e alimento all’ottimismo liberale (Denis
1968, I, 187).
Smith assume posizioni sfumate, e, talvolta ritenute contraddittorie, sulla moneta e sulla politica monetaria. Da un lato, sembra approvare la “dottrina delle cambiali commerciali” (real bill
doctrine), per cui banche private o banca centrale possono liberamente attuare uno sconto illimitato di cambiali commerciali purché ovviamente il più possibile prive di rischio, e disapprovare il
monopolio nell’emissione di cartamoneta, mantenendo fede alla
sua immagine liberale, quindi favorevole a quello che chiamiamo
free banking (vedi oltre).
Dall’altro lato però, egli sostiene l’istituzione della Banca
d’Inghilterra, che, sebbene fosse di proprietà di privati cittadini e
il Parlamento non le avesse conferito il privilegio esclusivo nell’emissione delle banconote, sembrava per la sua reputazione, e per
il suo statuto di società a responsabilità limitata (statuto sottoposto a rinnovo ventennale), avere un vantaggio concorrenziale
sulle altre banche3.
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«La stabilità della Banca d’Inghilterra è uguale a quella del governo britannico. Tutto ciò che essa ha anticipato al pubblico deve andare perduto prima
che i suoi creditori possano subire alcuna perdita. Nessun altra compagnia bancaria può essere istituita in Inghilterra con un atto del parlamento, o può essere
composta di più di 6 membri. Essa agisce non solo come una banca ordinaria,
ma come una grande macchina dello Stato. Riceve e paga la maggior parte delle
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13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
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Smith è contrario all’emissione di biglietti di piccolo taglio,
perché in regime di free-banking, anche persone di pochi soldi e
dubbio credito possono diventare banchieri, e sul mercato devono operare solo persone sufficientemente dotate di capitale, che,
quindi, secondo una equazione tipica di Hume e anche di Smith,
sono anche rispettabili e affidabili:
Quando l’emissione di banconote di così piccolo taglio è permessa e viene comunemente praticata, molte persone modeste sono messe in grado
e anche incoraggiate a divenire banchieri. Una persona, il cui pagherò
bancario di 5 sterline, o anche di 20 scellini, sarebbe rifiutato da tutti,
otterrà che esso sia accettato senza difficoltà quando viene emesso per
una piccola somma, come sei pence. Ma i frequenti fallimenti ai quali
tali miserevoli banchieri sono soggetti possono produrre inconvenienti
molto gravi e talvolta sono una vera calamità per molta povera gente
che ha ricevuto in pagamento i loro biglietti. Sarebbe meglio, forse che in
nessuna parte del regno si emettessero banconote di valore inferiore a 5
sterline (Smith 1776, 298).
La proposta di impedire l’emissione di piccoli tagli è l’occasione per Smith per fare emergere alcune considerazioni sulla
relazione fra regole e libertà di mercato nell’ambito monetario.
Infatti, sebbene venga ribadita la fede nella libertà di azione nei
mercati come diritto naturale – la libertà naturale – viene tuttavia anche stabilito il primato della sicurezza dell’intera società
rispetto all’agire dannoso di singoli, per cui se, da un lato, la
legge deve proteggere la libertà naturale, dall’altro, deve regolamentare quando si debbano evitare danni sociali, ed evidentemente Smith ritiene che il caso del mercato della moneta rientri
fra questi, per una sua intrinseca pericolosità sociale. Infatti,
Smith paragona la regolamentazione in tale settore all’imposizione per legge di costruire muri divisori contro il propagarsi
degli incendi:
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annualità che sono dovute ai creditori dello Stato, fa circolare i buoni del Tesoro
e anticipa al governo l’ammontare annuo della tassa sulla terra e di quella sul
malto, le quali spesso sono pagate solo dopo alcuni anni. In queste diverse operazioni, i suoi obblighi verso il pubblico possono talvolta averla costretta, senza
alcuna colpa dei suoi direttori, a sovraccaricare la circolazione di cartamoneta»
(Smith 1776, 295-6).
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Si potrebbe dire, peraltro, che proibire ai privati di ricevere in pagamento
i pagherò di un banchiere per una somma grande o piccola, quando essi
siano disposti ad accettarli, oppure impedire a un banchiere di emettere
tali biglietti, quando tutti i suoi clienti sono disposti ad accettarli, è una
manifesta violazione di quella libertà naturale che è specifico compito
della legge proteggere e non impedire. Senza dubbio, tali regolamentazioni possono essere considerate, sotto un certo aspetto, come una violazione della Libertà naturale, ma un esercizio delle libertà naturali di
pochi individui che potrebbe danneggiare la sicurezza dell’intera società
è, e deve essere, limitato da tutti i governi, dai più liberi come dai più
dispotici. L’obbligo di costruire muri divisori per impedire il propagarsi
degli incendi è una violazione della libertà naturale, esattamente dello
stesso genere delle regolamentazioni dell’attività bancaria che sono qui
in discussione (Smith 1776, 299).
Smith, inoltre, prende una precisa posizione nel dibattito allora corrente sugli effetti, spesso ritenuti dannosi, di una doppia
circolazione monetaria, la carta e la moneta metallica, sostenendone l’equivalenza:
Una carta moneta consistente in biglietti di banca emessi da persone
di credito indiscusso, pagabili a vista senza alcuna condizione, se è pagata sempre in effetti all’atto della presentazione, è, sotto ogni aspetto,
uguale in valore alla moneta d’oro e d’argento, dato che l’oro e l’argento in monete possono essere in ogni momento ottenuti in cambio di
tali biglietti. Qualunque cosa sia comprata o venduta con questa cartamoneta sarà necessariamente comprata o venduta allo stesso prezzo al
quale potrebbe essere comprata o venduta in oro e in argento (Smith,
1776, 299).
Smith prende anche posizione sulla questione del presunto
potere inflattivo della cartamoneta, sostenendo che, purché la
quantità di circolazione monetaria sia costante, non importa se
la sua composizione sia in carta o in metallo rispetto all’inflazione:
Si è detto che l’aumento della cartamoneta, aumentando la quantità e
diminuendo, di conseguenza, il valore dell’intero circolante, aumenta
necessariamente il prezzo monetario dei beni. Ma se la quantità di oro e
argento che viene sottratta alla circolazione è sempre uguale alla quantità di cartamoneta che vi è aggiunta, la cartamoneta non aumenta necessariamente la quantità dell’intero circolante (Smith 1776, 299).
13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
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Smith invece concorda con l’abrogazione di una clausola, la
clausola opzionale (option clause), che era attiva presso molte banche d’emissione scozzesi e che consisteva nella facoltà delle banche di non redimere subito su richiesta del portatore la propria
carta emessa, ma di farlo solo parzialmente o con proroghe anche di sei mesi, causando così, per l’incertezza sull’utilizzo della
clausola, un disallineamento del valore fra carta moneta e moneta
metallica a sfavore della prima:
Alcuni anni fa, le diverse compagnie bancarie scozzesi usavano inserire
nei loro biglietti di banca quella che essi chiamavano una clausola opzionale, con la quale promettevano al portatore di pagarlo non appena il biglietto fosse presentato, o, su opzione del direttore, dopo sei mesi dalla
presentazione, con l’interesse legale per questi sei mesi. I direttori di alcune di quelle banche si avvalsero a volte di questa clausola, e talvolta
minacciarono di avvalersene contro coloro che volevano cambiare in oro
e in argento un considerevole numero di tali banconote, a meno che non
si contentassero di una parte di ciò che richiedevano. I pagherò di queste
compagnie costituivano allora in Scozia la maggior parte del circolante che
per questa incertezza nel pagamento venne necessariamente svalutato al
di sotto del valore della moneta d’oro e d’argento (Smith 1776, 300).
Smith fornisce probabilmente, pur avendo anche sostenuto
– come sopra documentato – la validità della creazione della Banca d’Inghilterra e della regolamentazione dell’industria bancaria,
la migliore argomentazione – migliore anche rispetto a quelle presentate dai suoi dichiarati epigoni contemporanei, come Hayek
(v. par. 15.1) e Rothbard – per la difesa del free-banking:
Se si impedisce ai banchieri di emettere biglietti di banca circolanti, ovvero biglietti al portatore, al di sotto di una certa somma, e se essi sono
sottoposti all’obbligo di un immediato e incondizionato pagamento di
tali biglietti di banca all’atto stesso della loro presentazione, l’attività di
costoro può, senza rischi per il pubblico, essere lasciata completamente
libera sotto tutti gli altri aspetti. La recente moltiplicazione delle compagnie bancarie in entrambe le parti del Regno Unito, avvenimento che
ha allarmato molte persone, aumenta la sicurezza del pubblico anziché
diminuirla. Essa obbliga tutti i banchieri a tenere una condotta più prudente e a non estendere il volume dei loro biglietti al di là del giusto rapporto col contante, evitando così quelle corse agli sportelli che la rivalità
di tanti concorrenti è sempre pronta a provocare a loro danno. Questo
moltiplicarsi di compagnie limita la circolazione di ognuna di esse a un
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giro più ristretto e riduce i loro biglietti circolanti a un numero più piccolo. Siccome l’intera circolazione viene così divisa in un numero maggiore
di parti, il fallimento di una società, incidente che nel corso degli avvenimenti può sempre prodursi, ha conseguenze meno gravi per il pubblico.
Inoltre, questa libera concorrenza, obbliga tutti i banchieri a essere più
liberali nel trattare con i loro clienti, nel timore che loro concorrenti glieli
portino via. In generale, se un qualsiasi ramo d’affari o una qualsiasi divisione del lavoro è vantaggioso per il pubblico, tanto più lo sarà quanto
più libera e generale è la concorrenza (Smith 1776, 303).
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Non è aumentando il capitale del paese, ma rendendo attiva e produttiva
una parte maggiore di quel capitale, che le più avvedute operazioni bancarie possono incrementare l’attività produttiva del paese. Quella parte
del capitale che un commerciante è costretto a mantenere immobilizzata
presso di sé in moneta contante, per far fronte all’eventuali richiesta di
pagamento, è un fondo assolutamente morto […] le oculate operazioni
bancarie lo mettono in grado di convertire questo fondo morto in un fondo attivo e produttivo […] in un fondo che produce qualcosa sia per sé
che per il paese. La moneta d’oro e d’argento che circola in un paese è un
fondo completamente morto […] le oculate operazioni bancarie, sostituendo con biglietti gran parte di questo oro e argento, mettono il paese
in grado di convertire gran parte di questo fondo morto in un fondo attivo e produttivo […] la moneta d’oro e d’argento che circola in un paese
si può a buon diritto paragonare a una strada maestra, che, pur essendo
il mezzo per far circolare e trasportare al mercato tutti i foraggi e il grano
del paese, non produce di per sé stessa né un filo d’erba né un chicco di
grano. Le oculate operazioni bancarie, offrendo, se mi viene permessa
questa forte metafora, una specie di strada carreggiabile attraverso l’aria,
mettono in grado il paese di convertire una gran parte delle sue strade
maestre in buoni pascoli e in campi di grano, e quindi di aumentare considerevolmente il prodotto annuo della sua terra e del suo lavoro (Smith
1776, 296).
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Sul tema del credito, per Smith il potenziale creditizio offerto
dal sistema bancario è fonte di crescita economica altrimenti impensabile. La moneta detenuta in contanti, dice Smith, è un fondo
“morto”, ma le operazioni bancarie, in cui può essere impiegata
la moneta contante, le ridanno vita, permettendole di fecondare
il capitale reale produttivo, ovvero di investire in macchine e fabbriche; metaforicamente, se la moneta è solo una strada utile per
i trasporti del prodotto, l’operazione bancaria è una strada che
percorre l’aria nei cieli:
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E le operazioni bancarie, come tutte le cose che viaggiano per
aria, rischiano però di cadere rovinosamente a terra quando le ali
di cera si sciolgono per imprudenti manovre, con esiti catastrofici
che invece non potrebbero mai capitare alla moneta contante che
calca le solide strade metallifere terrene. Qui Smith pare consapevole della intrinseca instabilità della economia monetaria:
Tuttavia si deve riconoscere che il commercio e l’attività produttiva del
paese, sebbene possano essere in qualche modo aumentati, non possono
essere altrettanto sicuri quando sono, per così dire, sospese sulle ali di
Dedalo della moneta cartacea, di quando camminano sul solido terreno
dell’oro e dell’argento. Oltre che agli incidenti quali essi sono esposti
dall’imperizia dei piloti di questa moneta cartacea, essi sono soggetti anche a parecchi altri incidenti, dai quali non c’è prudenza o abilità di piloti
che possa salvaguardarli (Smith 1776, 296-7).
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Peraltro, Smith si domanda anche se il governo o lo Stato
dovessero intraprendere attività commerciali, ovvero, detto in
termini moderni, possedere imprese pubbliche e nazionalizzare
settori produttivi. Smith risponde che ciò probabilmente dipende
dal tipo di Stato, quello che andava bene per Venezia e Amsterdam non andrebbe bene per l’Inghilterra, tranne il servizio postale che invece va bene che sia pubblico ovunque4:
l’esperienza dimostra che l’amministrazione regolata, vigilante e parsimoniosa di aristocrazie come quelle di Venezia e Amsterdam, è estremamente adatta per condurre un progetto commerciale di questo genere.
Ma deve essere perlomeno assai più dubbio che l’amministrazione di
tale impresa possa essere tranquillamente affidata a un governo come
quello dell’Inghilterra, che, quali che possono essere le sue virtù, non è
mai stato famoso per la buona economia […] il servizio postale è in senso proprio un progetto commerciale […] È forse questo l’unico progetto
commerciale amministrato con successo credo da ogni tipo di governo
(Smith 1776, 666).
Nel complesso, Smith, sebbene perori la causa del laissez faire anche in ambito bancario, sembra però particolarmente atten4
Smith non avrebbe forse sospettato che il neo-liberalismo moderno nel
suo furore “privatizzatore” avrebbe “liberalizzato” (termine appropriato) anche i
servizi postali di molti Stati occidentali.
Parte II - Moneta e debito
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to ai rischi di crisi finanziaria presenti in un sistema monetario
fiduciario.
Dopo Hume e Smith, le posizioni in tema monetario diventano più variegate e il dibattito sul tema più ampio e serrato.
Riportiamo qui per sommi capi una disputa sulla moneta e sulla banca che percorre, riemergendo nei periodi di crisi e sotto varianti appena diverse, la storia dalla Rivoluzione francese ad oggi.
Al cuore della disputa stava, come al solito la dicotomia fra moneta
fiat (una moneta fiduciaria creata dal nulla e senza convertibilità in
metalli preziosi) e moneta-merce, in metallo prezioso o convertibile; corollari non meno importanti erano le questioni di chi e come
dovesse emettere moneta e, da un lato, le relazioni fra l’offerta di
moneta e le necessità economiche, e, dall’altro lato, i prezzi.
Per amor di precisione cronologica, potremmo far iniziare la
disputa nel 1797 in Inghilterra con la sospensione della convertibilità in oro della moneta a causa della minaccia d’invasione di
Napoleone e ai conseguenti problemi di offerta monetaria, e terminarla con la riforma della Banca d’Inghilterra del 1844 da parte
di Peel, ma, in realtà, essa viveva già nel ’500 nel dibattito fra
gesuiti e domenicani della Seconda Scolastica, e rimane viva ancora oggi sotto mutate vesti, a causa del secolare contrasto fra gli
orientamenti che sottostanno all’oggetto della disputa: il contrasto tra piena discrezionalità e regolazioni strettamente vincolanti
rispetto all’emissione di moneta.
In quell’epoca – dal 1797 al 1844 – i dibattiti sorti sui temi
monetari e più in generale economici – che possiamo riassumere
nella controversia fra currency school e banking school –, presentano elementi che, in essenza, possono essere considerati ancora
attuali; basta citare soltanto il problema della moneta endogena o
esogena, oppure il rapporto fra governo centrale e banca di emissione per farci ricordare la controversia fra keynesiani e monetaristi e la letteratura sterminata, da essa generata.
La currency school faceva riferimento al cosiddetto currency
principle, come principio di buon governo monetario. La regola da
seguire era quella di mantenere la massa monetaria in circolazione,
mista di specie metalliche e di banconote, in modo che ogni variazione della sua quantità complessiva si conformasse alla variazione della quantità di oro tenuto in riserva dalla banca di emissione
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(Viner 1968, 128). La regola monetaria fondata sulla quantità di riserve auree non era affatto nuova, e aveva nobili precedenti nelle
elaborazioni economiche e politiche dei teologi spagnoli del siglo de
oro per mantenere la stabilità dei prezzi e assicurare una quantità
di moneta sempre adeguata alle necessità del ciclo (che, quindi, determina sostanzialmente l’offerta di moneta), sia in un sistema monetario esclusivamente metallico (in cui l’afflusso o il deflusso di
moneta metallica ha un effetto diretto e immediato sull’ammontare
di moneta in circolazione), sia in uno misto (in cui variazioni delle
riserve d’oro debbono essere compensate esattamente dalla carta
moneta). Questa scuola, sposando la visione della teoria quantitativa della moneta secondo cui un aumento dell’offerta di moneta
causa esclusivamente un aumento del livello dei prezzi, ritiene che
qualsiasi emissione di banconote provocherebbe un aumento generale dei prezzi, a meno che tale emissione non sia controbilanciata da un afflusso di oro nelle casse della banca di emissione.
Con la Palmer’s Rule del 1827 (dal nome del governatore
John Horsley Palmer), la Banca d’Inghilterra cercò di regolare le
variazioni dell’intera circolazione monetaria a quelle che si sarebbero verificate in una pura circolazione metallica (Viner 1968,
131). L’idea di fondo era quella di poter mantenere costanti le attività rappresentate da titoli, compresi gli sconti cambiari. Per questo un adeguamento delle passività alle variazioni delle riserve
auree poteva lasciare alla Banca un margine di discrezionalità sia
nel manovrare il rapporto tra circolante e depositi che nel rispondere alla diminuzione delle riserve auree prevalentemente con
una riduzione dei depositi, lasciando quasi invariato il circolante.
Tuttavia, secondo Viner (1968, 132), la «regola aveva il gravissimo
difetto di non tener conto della necessità di mantenere costanti
anche i depositi, se si voleva che il mantenimento dei titoli a un
livello costante garantisse la corrispondenza tra le fluttuazioni
del metallo prezioso e le fluttuazioni della circolazione cartacea».
Riassumiamo brevemente il nocciolo di quell’importante dibattito ottocentesco che coinvolse principalmente due differenti
scuole di pensiero riguardo ai temi monetari e bancari. La banking
school (o scuola bancaria) condivideva con la currency school l’idea
di un monopolio d’emissione, ma senza l’autorità superiore della
banca centrale o altri tipi di regolazione, in accordo con la visione
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Parte II - Moneta e debito
374
dell’economia politica classica che il mercato si autoregolasse e la
moneta in circolazione si adeguasse perfettamente alle esigenze
commerciali, senza dare origine ad effetti inflazionistici. A differenza della currency school, per cui la moneta è composta soltanto
dalle banconote circolanti e dalle monete metalliche, per la scuola
bancaria la moneta è composta dal circolante, dai depositi e dalle
cambiali, per cui, nella misura in cui i depositi e le cambiali sono
convertibili in denaro, nessun intervento pubblico può modificare la massa monetaria (idea condivisa con la scuola che ne era
il recente predecessore, l’antibullionismo, della quale condivide
molto ma non il monopolio di emissione – come vedremo più
avanti). In altre parole, secondo la scuola bancaria, l’offerta di
moneta non potrebbe essere controllata dalla banca centrale perché essa è, secondo un termine moderno, “endogena”.
Con il Bank Charter Act del 1844, noto anche come Peel Act dal
nome del suo ideatore il primo ministro inglese sir Robert Peel, venne rinnovato lo statuto della Banca d’Inghilterra secondo i principi
della dottrina del currency principle, o principio monetario, in contrasto con le teorie del banking principle, o principio bancario, sostenute
da Thomas Tooke, John Fullerton e James Stuart Mill. Col nuovo
statuto si riconosceva una libera facoltà di emettere banconote anche a istituti di credito privati esentati da ogni controllo diretto del
potere esecutivo, nonostante l’emissione della cartamoneta restasse uno dei privilegi statali; tuttavia la facoltà di emettere banconote
era vincolata all’osservanza di regole rigide per assicurare la piena
convertibilità e il mantenimento della fiducia (Giannini 2004, 1224, 147). La concessione della libertà di emettere banconote, sebbene
sotto vincoli molto rigidi, ebbe un effetto paradossalmente inverso:
quello di disincentivare i banchieri e le banche dal farne uso. Nella determinazione di questo paradossale effetto, intervennero sia
il caso, come spesso succede nella storia, che una particolare sorta
di posizionamento strategico delle forze in campo e di adozione di
specifiche strategie. Per meglio spiegare le determinanti di questo
effetto bisogna riferirsi a quanto era accaduto nel mondo bancario
nei venti anni precedenti il Bank Charter Act. Il caso volle che la crisi
del 1825 travolgesse un gran numero di piccole banche provinciali,
con un massimo di sei soci, a responsabilità illimitata, rese fragili
dall’inadeguatezza di fondi patrimoniali e dalla concentrazione dei
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rischi nelle economie distrettuali. In quell’occasione la Banca d’Inghilterra dette quasi fondo alle proprie risorse per scongiurare il
diffondersi ulteriore dell’ondata di panico. Tale azione giocò a favore della Banca, perché nel 1833 giungeva a scadenza il proprio
statuto e il parlamento doveva discutere l’opportunità del rinnovo.
Nel 1826 il parlamento, temendo l’eccessiva concentrazione di potere nella Banca, aveva autorizzato la costituzione di nuove banche
in forme societarie più solide. Le cosiddette joint-stock banks, ossia
banche a “capitale congiunto” (o “in comune”), non erano altro che
società per azioni, a responsabilità limitata. In questo modo, la legge
estendeva la responsabilità limitata e l’emissione di azioni anche alle
altre banche oltre che alla Banca d’Inghilterra, sempre in deroga al
diritto comune che prevedeva il regime di autorizzazione; tale regime rimase in vigore fino alle leggi del 1856 e ’58, che estesero a
qualunque altra iniziativa economica il diritto di costituirsi in forma
di società per azioni. Ma la vicenda non terminava qui. Le banche
societarie erano anche autorizzate ad emettere cartamoneta, purché
fuori da un raggio di 65 miglia dalla City di Londra, in modo da
salvaguardare il principio della libertà di emissione, senza tuttavia
rischiare di demolire – attraverso una completa libertà di emissione – il solido pilastro del sistema bancario e della finanza pubblica
rappresentato dalla Banca d’Inghilterra. Il parlamento continuò a
esitare tra liberalizzazione e prudente pragmatismo. Avendo concesso la possibilità di emettere banconote anche a banche potenzialmente grandi, consentì, per par condicio, alla Banca d’Inghilterra di
aprire filiali nelle maggiori città del regno. Inoltre, quando nel 1833
il parlamento rinnovò lo statuto alla Banca, alle banche private fu
concessa la possibilità di entrare nel raggio delle 65 miglia. E qui
intervenne una scelta strategica importante da parte delle banche
private inglesi. Esse lasciarono perdere tale opzione, per due motivi,
in primo luogo, per evitare un confronto diretto e, forse, uno scontro
aperto con la Banca d’Inghilterra, in secondo luogo, per preferire
l’adozione di una strategia di più ampio respiro. Infatti, le joint-stock
banks avevano nel frattempo scoperto la propria vocazione, che consisteva nella rinuncia all’emissione di banconote, anche fuori dal
raggio d’interdizione, e nel dar seguito a un’innovazione finanziaria
consistente nel proporre un efficace sostituto del biglietto di banca.
Infatti, con la diffusione del deposito trasferibile mediante assegno
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potevano offrire ai risparmiatori e ai loro clienti un efficace mezzo di pagamento, succedaneo della moneta cartacea. Il modello di
banca di deposito moderna divenne un’innovazione istituzionale di
successo, realizzata su ampia scala, in base ai principi delle riserve
frazionarie e del frazionamento dei rischi di credito attraverso la diffusione di filiali e operazioni di sconto e anticipazione a scadenze
brevi. Le banche in forma societaria avevano scoperto la loro leva
del credito: ad ogni apertura di credito la banca effettuava una doppia registrazione contabile, in dare e in avere, mettendo a disposizione del cliente una somma in deposito sulla quale poter trarre assegni fino all’ammontare delle somme concesse. Cominciava ad essere
evidente che a “fare” il deposito era il credito (e non il risparmio).
I dibattiti, le dicotomie teoriche e le occorrenze storiche relative
al campo bancario britannico dell’800 permettono di illuminare anche le successive tesi sostenute dalla free banking school – rappresentata principalmente dalla scuola austriaca di Hayek e più tardi ben
sostenuta da Rothbard. La free banking school dichiara di richiamarsi
a Smith, attribuendo a costui la perorazione anche per il mercato
bancario del principio del puro laissez faire:
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Definiamo anche un sistema di free banking come uno in cui le banche
sono trattate come qualsiasi altra attività commerciale sul libero mercato.
Pertanto, non sono soggette ad alcun controllo o regolamento governativo e l’ingresso nel settore bancario è completamente gratuito. Esiste
un solo “regolamento” governativo: che, come qualsiasi altra impresa,
devono pagare i loro debiti prontamente o altrimenti essere dichiarati
insolventi e messi fuori mercato. In breve, sotto il free banking, le banche
sono totalmente libere, anche di impegnarsi in attività bancarie a riserva
frazionaria, ma devono riscattare le proprie banconote o i depositi su
richiesta, prontamente e senza cavillo, oppure essere costretti a chiudere
le porte e liquidare le proprie attività (Rothbard 2008, 111).
La critica più diffusa al free banking consiste nel ritenere che tale
sistema non abbia controllo sull’offerta di moneta e, quindi, non
sia in grado di contenere una espansione di tale offerta che avrebbe
effetti inflazionistici esplosivi. Una prima risposta da parte dei sostenitori del free banking a questa critica recita come segue:
Se creo una nuova banca Rothbard e inizio a stampare banconote e ad
emettere depositi bancari dal nulla, perché qualcuno dovrebbe accettare
13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
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tali banconote o depositi? Perché qualcuno dovrebbe fidarsi di una nuova
e nascente Rothbard Bank? Qualunque banca dovrebbe accumulare fiducia nel corso degli anni, con un record di rimborso rapido dei propri debiti verso i depositanti e i possessori di banconote prima che i clienti e gli
altri sul mercato prendano sul serio la nuova banca. L’accumulo di fiducia
è un prerequisito affinché qualsiasi banca possa funzionare, e ci vuole
una lunga storia di pagamenti rapidi e quindi di operazioni bancarie non
inflazionistiche, affinché tale fiducia si sviluppi (Rothbard 2008, 112).
Rothbard, inoltre, individua altri tre limiti alla possibilità
delle banche libere di eccedere nel credito e creare inflazione. Il
primo è il postulato che, secondo lui, gli uomini sono prudenti e
culturalmente primitivi, tanto da preferire fare prestiti contro oro
o buoni del tesoro, per cui, allora, sia il credito bancario che l’estensione complessiva delle banche risulteranno limitati e quindi
innocui:
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Ci sono altri limiti severi, inoltre, sull’espansione monetaria inflazionistica
nell’ambito del free banking. Uno è la misura in cui le persone sono disposte a utilizzare banconote e depositi. Se creditori e venditori insistono
nel vendere i loro beni o fare prestiti in oro o carta governativa e rifiutano
di utilizzare le banche, l’entità del credito bancario sarà estremamente limitata. Se le persone in generale hanno gli atteggiamenti saggi e prudenti
di molti uomini delle tribù “primitive” e si rifiutano di accettare qualsiasi
cosa tranne la moneta d’oro in cambio, il denaro delle banche non crescerà
o causerà il caos inflazionistico sull’economia. Ma l’estensione del settore
bancario è una restrizione generale di fondo che è un piccolo bene prezioso una volta che le banche si sono stabilite (Rothbard 2008, 112).
Un altro limite è la minaccia della “corsa agli sportelli della
banca” (bank run) per ritirare i depositi e richiedere la redenzione
delle banconote; questa è così deleteria per le banche da farle fallire in un baleno e quindi la minaccia è così terribile che le banche
si limitano da sole nel credito:
Un’arma più pertinente e magnificamente potente contro le banche è la
terribile ‘corsa in banca’, un’arma che ha messo in ginocchio molte migliaia di banche. Una corsa in banca si verifica quando i clienti di una
banca, i suoi depositanti o i loro possessori di banconote, perdono la fiducia nella loro banca e iniziano a temere che la banca non abbia realmente la possibilità di riscattare il proprio denaro su richiesta. Quindi, i
depositanti e i possessori di banconote iniziano a correre alla loro banca
Parte II - Moneta e debito
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per incassare le loro entrate, altri clienti lo scoprono, la corsa si intensifica
e, naturalmente, poiché una banca di riserva frazionaria è effettivamente
intrinsecamente fallita – una “corsa” chiuderà rapidamente ed efficientemente la banca (Rothbard 2008, 112-3).
Fortunatamente, il mercato offre un eccellente tipo di correzione quotidiana di severa limitazione all’espansione del credito nell’ambito del free banking. Funziona anche se la fiducia nelle banche da parte dei propri clienti
è più intensa che mai. Non dipende quindi da una perdita psicologica di
fiducia nelle banche. Questa restrizione vitale è semplicemente la clientela limitata di ogni banca. In breve, la Rothbard Bank (o la Jones Bank) è
vincolata, in primo luogo, dal timore di una corsa alla banca (perdita di
fiducia nella banca da parte dei propri clienti); ma è anche, e ancor più
efficacemente, limitata dal fatto che, nel libero mercato, la clientela della
Rothbard Bank è estremamente limitata. Il vincolo quotidiano per le banche nell’ambito del free banking è il fatto che i clienti richiederanno, per
definizione, il rimborso alla banca (Rothbard 2008, 113).
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Infine l’ultimo limite viene posto dalla ridotta quota di mercato di ciascuna banca, e questo limite non dipende dal fatto che
gli individui siano prudenti e poco fiduciosi, come nei casi precedenti, ma funziona anche se i clienti di ogni banca fossero molto
fiduciosi in esse, in quanto essi sono molto frazionati:
Peraltro, quanto i quattro limiti, postulati dai fautori del
free-banking, siano convincenti è lasciato giudicare al lettore5.
Poiché il principio del free banking consiste nel trattare le banche come qualsiasi altra impresa su un mercato libero, senza controlli governativi particolari o restrizioni all’ingresso e all’uscita,
per cui le banche, come ogni altra impresa, o soddisfano le obbligazioni contratte o sono dichiarate insolventi, la free banking
school si schierò nettamente contro il monopolio della banca centrale, vedendolo come una restrizione della concorrenza. In modo
analogo a quanto avanzato dalla real bills doctrine, tale principio
dovrebbe preservare la neutralità rispetto alla moneta – ovvero
un’offerta di moneta sempre adeguata alla domanda – almeno
finché le banche si limiteranno a scontare cambiali commerciali.
Importanti lavori di sintesi e di approfondimento in Goodhart (1991) e
Giannini (2004).
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L’implicazione del dibattito fra queste differenti scuole riguarda la natura della creazione della moneta. La visione di questa natura è dicotomica: la moneta è esogenamente creata dall’autorità
monetaria con le sue politiche (currency school) oppure è endogenamente creata dall’attività economica stessa al di fuori del controllo
dell’autorità monetaria (scuola bancaria e scuola del free-banking).
Rotelli (1982) discute l’interessante tesi che nelle idee di
Thornton siano già presenti elementi keynesiani: egli sembra infatti assumere una posizione intermedia rispetto alle due scuole
contrapposte sopra indicate, in quanto ritiene che un aumento
dell’offerta di moneta stimoli anche positivamente la produzione aggregata, cosa negata dai bullionisti (che vedono l’effetto
dell’aumento della moneta solo in un aumento dei prezzi) e ignorata dagli antibullionisti (che ritengono l’aumento dei prezzi la
causa di un successivo aumento della moneta). Inoltre, in quegli
anni, le crisi, e il corrispondente dibattito, fanno emergere un’altra dicotomia che è risultata decisiva fino ai nostri giorni, quella
rispetto al ruolo della spesa pubblica in deficit, considerata inutile se non dannosa (Ricardo) oppure utile per uscire dalle crisi
(Malthus). Infatti Rotelli (1982), mettendo a fuoco le due crisi vicine del 1818-1822 e del 1825 – in cui si era assistito al ritorno alla
convertibilità nel 1821, preceduta da alcune fasi di surplus della
bilancia dei pagamenti e caratterizzata da una politica deflazionistica della banca centrale (che, in conseguenza di quei surplus,
riduce le sue emissioni, provocando una caduta del livello generale dei prezzi) – analizza l’ampio dibattito sulle cause delle due
crisi e osserva come questo abbia una corrispondenza con quello
del secolo successivo e anche con quello contemporaneo: infatti
si confrontano in quel dibattito la posizione di Malthus, per cui
la crisi di quegli anni è dovuta a carenza di domanda, in assenza
di interventi pubblici correttivi, come sarebbe, p.e., l’espansione
della spesa pubblica in deficit, con quella di Ricardo, per il quale,
invece, tale intervento pubblico ci sarebbe stato ma senza ottenere
gli effetti sperati, anzi ottenendo semplicemente la sostituzione
della spesa pubblica a quella privata: si tratterebbe quindi, in altri
termini, del cosiddetto crowding out, ovvero della dicotomia nella
politica economica odierna, che schiera, da un lato, i keynesiani e,
dall’altro, i monetaristi.
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Parte II - Moneta e debito
13.2. Le implicazioni della formazione del tasso di interesse
fra oggettività del mercato e sovranità politica
È quindi evidente che il tasso di interesse è un fenomeno
altamente psicologico. (Keynes 1936, 392, cap. 15, II)
L’interesse fa dal denaro più denaro, e da questo ebbe origine anche il suo nome (tóxos: interesse e nato). In quanto i
nati sono simili ai loro genitori. E l’interesse è denaro originato dal denaro, in maniera che esso è, tra tutti i modi
di guadagno, quello maggiormente contro natura. (Marx
1976, 104 [4, 2])
Tra la psicoanalisi e il tempo, come tra la psicoanalisi e il
denaro, il termine intermedio è la religione. Gli economisti e
gli scienziati devono rendersi conto che quando trattano del
tempo trattano sempre di una religione. (Brown 1986, 307)
Un breve accenno ad un’altra controversia pluri-secolare è illuminante per la comprensione delle dicotomie fra intervento pubblico
e laissez faire e fra moneta “neutrale” o meno, che, in effetti, sottostanno a tale controversia. Si tratta della controversia sulla determinazione del tasso di interesse. Naturalmente tale controversia
contiene molte sfaccettature e può essere affrontata da punti di
vista multipli, basta pensare alla connessione dell’interesse con il
tempo e quindi la profondità filosofica, teologica, psicologica di
questo nesso6. Qui ci limitiamo ad osservarla dal punto di vista
della politica, della sovranità, della decisione di ultima istanza e
del conflitto traslati nella dimensione economica. Per i mercantilisti del ’6007 come per i keynesiani contemporanei, il tasso di interesse è un fenomeno monetario: l’abbondanza di moneta riduce il
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Vedi, per esempio, Brown (1986, 306-8). Chissà se Hicks fosse stato consapevole del ginepraio in cui avrebbe ficcato l’economia (se gli economisti odierni, in genere, fossero più aperti ad approcci interdisciplinari e meno dogmatici)
quando affermò che il tasso di interesse è il prezzo del tempo.
7
Per esempio, alcuni mercantilisti inglesi, commentando favorevolmente
l’abbassamento del saggio legale di interesse al 6% nel 1650, affermarono chiaramente che questa riduzione era stata in realtà permessa dal fenomeno dell’abbondanza
di moneta: «Sir Joshua Child […] sostenne anche che il provvedimento era stato reso
possibile dall’abbondanza del denaro in circolazione […] Sir William Petty […] affermava infatti che la diminuzione del saggio di interesse era dovuta unicamente
all’aumento della quantità di moneta in circolazione» (Denis 1968, I, 133).
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tasso di interesse e questo avrebbe anche il pregio di rendere prospera l’economia8. Per Hume (nel saggio Sull’interesse), invece, il
tasso è un effetto della prosperità economica e di altre condizioni
“reali” che, nel loro insieme, «determinano i profitti commerciali
e la proporzione tra prestatori e mutuatari» (Hume 1971, 715). La
tesi di Hume fu ripresa dal liberalismo classico di Smith e Ricardo e, poi, di Wicksell e di tutti i neoclassici e neoliberali, sebbene
Wicksell come poi Irving Fisher, pur restando neoclassici, sviluppano una relazione tra tasso d’interesse nominale, fissato dalle
banche, e quello “reale” (relazione che sarà seguita da Friedman e
da tutti i “nuovi macroeconomisti classici” contemporanei che da
lui riprendono), secondo la quale una elevata offerta di moneta
non causa riduzioni del tasso di interesse, perché questo è di fatto
determinato dal tasso di profitto sul capitale reale (v. par. 13.3):
egli [Hume] sostiene altresì che l’abbondanza di denaro non è la causa
della diminuzione del saggio dell’interesse. Questo, a suo avviso, dipende dall’entità dei profitti che vengono realizzati nel commercio e nell’industria; […] Keynes […] ha tentato di riesumare la teoria mercantilistica
della determinazione del saggio dell’interesse (Denis 1968, I, 187).
Quindi, non dovrebbe sfuggire il fondamentale significato
politico della dicotomia di visioni sulla determinazione del tasso di interesse. Tuttavia le idee in gioco si allargano qui anche a
Marx. Vediamo di spiegarci meglio. Per Hume e tutti i successivi
liberali, è il saggio di profitto sul capitale reale che conta e che
regola tutto, la moneta è solo un “velo” che consente gli scambi e,
quando di essa si abusasse in eccesso o in difetto (a causa dei politici), l’unico effetto sarebbe l’inflazione o la deflazione. Per Marx,
non è la moneta il “velo” che consente gli scambi commerciali
profittevoli, ma sono gli scambi commerciali il “velo” che permette la magica accumulazione di denaro. Solo che in Marx, dietro
alla magia del denaro che lievita, vi è un’altra metafisica, quella
del lavoro astratto che ne consente la lievitazione; da qui emerge
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La convinzione che bassi tassi di interesse siano benefici è anche all’origine della giustificazione dal punto di vista economico della proibizione (teologica) dell’usura, giustificazione che appare in Smith come in Keynes (1936, 544-6
[23, V]).
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la cruciale teoria dello sfruttamento e del pluslavoro come generatore del plusvalore e del saggio del profitto sul capitale reale.
Chi, invece, come Keynes, fa determinare il saggio di interesse dal
mercato monetario e, quindi, da questo fa derivare l’investimento
in capitale reale, trasforma tale determinazione in una scelta politica di fondo, nella misura in cui il mercato monetario è sotto il
controllo sovrano (banca centrale e governo): il saggio del profitto
come determinazione politica.
Peraltro, la natura stessa dell’interesse è una questione di non
facile definizione. Per Keynes l’interesse è un fattore eminentemente psicologico e convenzionale. Per Marx l’interesse non è
determinato come il prezzo delle altre merci dalla teoria del valore-lavoro, ma da qualcosa di irrazionale, la cui spiegazione non
può che assumere i tratti della teologia:
Se si vuol chiamare interesse il prezzo del capitale monetario, si tratta di
una forma irrazionale del prezzo, assolutamente in contraddizione con il
concetto del prezzo della merce. […] Interesse come prezzo del capitale è
a priori un’espressione del tutto irrazionale. La merce ha qui un duplice
valore, in primo luogo un valore, e poi un prezzo, diverso da questo
valore, ove il prezzo è l’espressione monetaria del valore. […] Un prezzo
che differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda
(Marx 1894, 489-90 [cap. 21]).
Tuttavia, più avanti, Marx afferma che è al di fuori del processo
di produzione – quindi non creato dal lavoro – che si genera l’interesse, ovvero esso è generato dalla semplice proprietà del capitale:
Dal punto di vista qualitativo, l’interesse è il plusvalore fornito dalla semplice proprietà del capitale, prodotto dal capitale in sé, sebbene il suo proprietario rimanga al di fuori del processo di produzione; che è prodotto
quindi dal capitale separato dal suo processo (Marx 1894, 520 [cap. 23], il
corsivo di “proprietà” è aggiunto).
Ma il denaro in sé, in quanto posseduto da privati, dice Marx,
è potere:
il denaro, e parimenti la merce, in sé e per sé, sono capitale in modo latente e potenziale, che essi possono essere venduti come capitale, rappresentando in questa forma il potere di disporre di lavoro altrui […] è il titolo e il mezzo per appropriarsi lavoro altrui (Marx 1894, 491-2 [cap. 22]).
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L’interesse quindi nasce perché il possesso di denaro è il potere di comando e di appropriazione sul lavoro degli uomini.
È questa definizione dell’origine qualitativa dell’interesse vista nella proprietà, che permette a Brown di sostenere come la
vera essenza del denaro dipenda dalla proprietà, ovvero dal potere, e il potere rimanda all’ambito del sacro9. Come peraltro al sacro rimanda la consuetudine, e Brown sottolinea come la “strana
stabilità nel tempo dei tassi d’interesse” suggerisca una caratteristica tipica dell’economia arcaica in cui i prezzi sono rigidamente
stabiliti dalla consuetudine e non dalla domanda e dall’offerta10.
A lato di Keynes e a lato di Marx11, si situa poi lo smascheramento che Sraffa (1960) compie12 della determinazione “fisica” e
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«La categoria fondamentale dell’economia è il potere; ma il potere non è
una categoria economica. Marx riempie la lacuna che si manifesta nella sua teoria
con il concetto di forza (violenza), cioè con la concezione del potere come realtà
materiale. Abbiamo sostenuto altrove che questo è un errore gravissimo; il potere
è una categoria essenzialmente psicologica. E, per trovare le origini del potere,
dovremmo affrontare ed esaminare l’ambito del sacro: il potere è sempre fondamentalmente sacro. Qui ancora una volta il problema cruciale è la comprensione
dell’uomo arcaico e dell’economia arcaica» (Brown 1986, 283).
10
«Può darsi che il tasso di interesse sia un altro residuo sacro nel mondo
profano dell’economia moderna. Il tasso di interesse non è forse fondamentalmente
determinato dalla consuetudine e non dalla domanda e dall’offerta? Ma se si fa
questa concessione, ci si deve spingere oltre e cercare che cosa determini la consuetudine. Questa, per la teoria sociologica, è fondamentalmente sacrale, e perché il
caso del tasso di interesse dovrebbe costituire un’eccezione?» (Brown 1986, 280-1).
11
È curioso, ma anche significativo della portata ineliminabile delle grandi dicotomie del pensiero, da Platone a Pirrone, da Hegel a Hume, e forse da Marx a Sraffa,
come Sraffa affermi, quale scopo ultimo del suo lavoro, quello di voler liberare Marx
dalla metafisica hegeliana (cosa che anche altri hanno sostenuto di voler fare), ma per
sostituirla col pensiero di Hume: «una riaffermazione di Marx, sostituendo alla sua
metafisica e terminologia hegeliana la nostra propria metafisica e terminologia moderna: per metafisica qui intendo, suppongo, le emozioni che sono associate alla nostra terminologia e cornici [schemi mentali] – cioè, ciò che è assolutamente necessario
per rendere viva la teoria (lebendig), capace di assimilazione e per nulla intellegibile. Se
questo è vero, è un esempio eccezionale di quanto una differenza nella metafisica possa renderci assolutamente incomprensibile una teoria altrimenti perfettamente sana.
Questa sarebbe semplicemente una traduzione di Marx in inglese, dalle forme della
metafisica hegeliana alle forme della metafisica di Hume» (Sraffa, manoscritto datato
End of November 1927 (D3/12/04), cit. in Lucarelli 2004).
12
«In questo libro schematico ed enigmatico si dimostra, in un centinaio
di pagine, l’impossibilità di concepire il capitale come una merce, di cui il profit9
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“naturale” del saggio di profitto, invocata, sebbene in modi diversi, dal pensiero classico e neoclassico (quest’ultimo per visibile
contrapposizione alla teoria marxiana).
L’analisi di Sraffa è stata comparata con quella di Marx in un
dibattito ampio all’inizio degli anni ’70. Al contrario di chi sostiene «che i risultati teorici di Sraffa vadano integralmente rivendicati alla tradizione marxista» (Ginzburg e Vianello 1973, 19), altri
sottolineano invece almeno tre elementi per i quali tali risultati
esulano dalla teoria di Marx: 1) l’assenza di qualsiasi riferimento
al lavoro necessario a produrre una merce, ovvero alla teoria del
valore-lavoro legata indissolubilmente allo sfruttamento capitalistico della forza lavoro; 2) il lavoro assorbito nel processo lavorativo diventa un dato tecnico: determinato, appunto, dalle caratteristiche tecniche dei mezzi di produzione impiegati; 3) profitto
e salario sono semplici frazioni del reddito nazionale qualitativamente indistinguibili fra loro, e il sovrappiù che si dividono viene
lasciato come determinato esternamente quale fatto tecnico, senza
che se ne possa indagare l’originaria formazione, e attribuendo
implicitamente al capitale l’irrisolto, anzi neppure mai indagato,
mistero di come esso possa produrre un sovrappiù; insomma senza sciogliere quell’intricato capriccio teologico intuito da Marx che
consente di nascondere nell’apparenza di un oggettivo rapporto
fra cose il sottostante rapporto sociale fra uomini, lavoratori e capitalisti. Infatti, come sostiene Cini, nell’analisi di Sraffa
si assume anche se implicitamente, che siano le proprietà oggettive naturali delle cose a determinare in che modo gli uomini lavorano […] Scompare così proprio quella spiegazione scientifica dello sfruttamento che
è uno dei risultati più importanti dell’analisi marxiana, per ridursi alla
banale constatazione che se aumenta il saggio del profitto diminuisce il
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to possa essere considerato il prezzo, essendo il capitale in realtà un insieme di
mezzi di produzione eterogenei […] allora non è possibile nemmeno misurare
il prodotto marginale del capitale, e nemmeno quello del lavoro. […] Ne deriva
che la divina armonia distributiva sancita dai neoclassici non è dimostrabile: non
esiste quindi nessun livello “naturale” del salario, e di conseguenza nessuna configurazione distributiva del prodotto sociale d’equilibrio. Esistono invece limiti
alquanto ampi entro i quali le quote distributive possono variare, ed entro tali
limiti la situazione viene determinata in primo luogo dalle influenze storiche esercitate gradualmente dalle forze sociali e politiche» (Lucarelli 2004, 26, corsivo nostro).
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385
saggio del salario. Il modello di Sraffa comporta perciò una separazione
completa fa produzione da un lato, considerata sfera di pertinenza di
una tecnica che è frutto di un rapporto uomo natura privo di connessione con la società, e distribuzione dall’altro, vista come unica arena della
storia e dei rapporti fra gli uomini (Cini 1976, 165-6).
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«Paradossalmente, nell’impostazione di Sraffa, il problema dei classici
(e di Marx) – quale sia l’origine e la sostanza del valore delle merci, e con esso il
problema marxiano della trasformazione – vengono soppressi […] Sraffa ci dice
che per determinare i prezzi e il saggio del profitto, così come non occorre riferirsi
a quantità di lavoro, non occorre nemmeno riferirsi a utilità soggettive (e quindi
diventa superflua anche una teoria del valore utilità […]). La teoria dei prezzi diviene così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore. La teoria del valore, tuttavia, non è una parte della teoria economica
come le altre, che si possono giudicare erronee per il principio di non contraddizione quando non rispettano le regole del calcolo, o superflue per il principio di
Occam quando le rispettano, poiché ci si chiede se la struttura economica della
società sia retta da uno scambio tra uguali oppure da un rapporto di sfruttamento» (Lucarelli 2004, 44-5).
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Ma senza entrare in questo dibattito, pur ritenendo giustificabili in parte entrambe le posizioni che in esso si sono contrapposte, noi vogliamo sottolineare soltanto l’aspetto che qui rileva
(e che è anche, incidentalmente, uno degli elementi di critica
verso Sraffa sopra visti): Sraffa trasporta in una sfera esterna
all’economia in senso stretto l’antagonismo più immediato fra
lavoro salariato e capitale, consegnandolo all’ambito del “politico” (e non della tecnica oggettiva). Il secolare confronto-scontro fra capitalismo e sovranità politica, di cui qui abbiamo fatto
emergere il campo di battaglia monetario e bancario, è anche
antagonismo fra lavoro salariato e capitale. E lo è in modo manifesto proprio sul tema della determinazione e del controllo del
tasso d’interesse.
Se Sraffa, con la sua teoria, spoglia di ogni ruolo, come sostenuto in parte nel dibattito sopra visto, la teoria marxiana del plusvalore13, però ne cristallizza indelebilmente il messaggio conflittuale, quello della lotta di classe fra capitale e lavoro, e riconsegna
ancora al potere politico la sovranità, nella misura in cui esso può,
keynesiamente, decidere il livello del tasso di interesse e quindi
del tasso di profitto del sistema economico.
Parte II - Moneta e debito
386
La gestione politica sovrana del tasso di interesse da parte
di un governo democratico (che ispiri pratiche e obiettivi della
banca centrale) implicherebbe quindi che il grado del potere di
comando sul lavoro altrui – l’essenza del denaro nella società capitalistica – possa essere soggetto, in ultima analisi, ad una scelta
democratica.
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13.3. Cenni alle dottrine di politica monetaria e bancaria
la storia diplomatica è correlata alla storia finanziaria.
(Pantaleoni 1916)
Non ci sono due caratteri più incompatibili tra loro di quelli del commerciante e del sovrano. (Smith 1776, 666).
Con usura nessuno ha una solida casa | di pietra squadrata
e liscia | per istoriarne le facciate, | con usura | non c’è
chiesa con affreschi di paradiso | harpes et luz | e l’Annunciazione dell’Angelico | con le aureole sbalzate, | con
usura | nessuno vede dei Gonzaga eredi e concubine | non
si dipinge per tenersi l’arte | in casa ma per vendere e vendere | presto e con profitto, peccato contro natura. (Pound
1977, Canto XLV)
Schumpeter fa risalire la controversia e la grande dicotomia teorica sulla moneta a Platone e Aristotele, i quali espressero due
visioni contrapposte sulla natura e sulle origini della moneta, con
implicazioni rilevanti sulle politiche generali da adottare in materia di moneta, di credito e di regolazione dell’intera economia. Da
una parte, Schumpeter afferma che Platone, in un passaggio della
Repubblica (II, 371b), assegna alla moneta (σύμβоλоν) la natura di
un segno di valore, di un money-token. Quest’idea simbolica della
moneta è perciò coerente con i canoni platonici di politica monetaria fondati sull’ostilità verso l’uso dell’oro e dell’argento, sull’assegnare alla moneta un valore solo entro un ambito comunitario del
tutto «in armonia con le conseguenze logiche di teorie che sostengono che il valore della moneta è, in via di principio, indipendente
dalla natura di cui è fatta» (Schumpeter 1954, 70 [I, 2]). E, sempre
Schumpeter attribuisce ad Aristotele la teoria alternativa della moneta quale moneta-merce, non diversa da altre merci, accettata per
il suo “valore intrinseco”, cioè quelle teorie monetarie definite da
13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
387
Mises “catallattiche” (dal καταλλάττω, scambiare), perché fanno
derivare la moneta dalle funzioni di mezzo di scambio, quindi la
moneta intesa come creatura non simbolica, bensì materiale, il cui
valore, come quello di ogni altra merce, non dipende da meccanismi di potere e di illusione, ma da domanda e offerta. Schumpeter
(1954, 79 [I, 5.b]) riconosce tuttavia che Aristotele sostiene anche
l’idea opposta. In un passo dell’Etica nicomachea, «giocando sulla
parola greca di moneta corrente (νóμισμα), Aristotele affermò che
la moneta esiste non già per “natura”, bensì per tacita convenzione o per leggi (νόμω)». Schumpeter non sembra però scoraggiato da quel passo, che intende la moneta come istituzione anziché
come merce, e insiste nel ritenere Aristotele sostenitore della tesi
della moneta-merce, «mutata o demonetizzata dalla collettività»,
per cui «l’uso generale, o la legislazione, decide soltanto quale
debba essere la materia con cui si deve coniare la forma da dare
alla moneta coniata» (idem)14.
Schumpeter, come, peraltro, molti altri, considera l’analisi aristotelica come un’indagine sull’ etica dei prezzi nello scambio ed
Aristotele come un filosofo interessato alle questioni morali piuttosto che a quelle economiche, cosa che si comprende bene dal
suo lapidario giudizio sullo Stagirita, afflitto, secondo lui, da «un
senso comune decoroso, anzi pedestre, un tantino mediocre e più
che un tantino pomposo» (Schumpeter 1954, 70).
La critica dell’interpretazione schumpeteriana di Aristotele
(Campese 1977; Taccola 2016) mette in evidenza, come già aveva
mostrato Polanyi (1957a), che, al contrario, il filosofo greco tocca
alcuni punti nevralgici della futura economia politica, quali i fondamenti ontologici dello scambio, la domanda di beni e la natura
della moneta.
Tre sono le “scoperte” di Aristotele “economista” che merita
qui sottolineare: i) i concetti di valore di uso e di scambio (il già citato esempio nella parte I del doppio uso delle scarpe che possono essere calzate oppure scambiate con altre merci); ii) la doppia
natura del denaro, sia mezzo che fine dello scambio, sia partico-
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Sull’“ambiguità” aristotelica in materia monetaria si veda comunque
Meikle (1995).
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lare che universale, particolare in quanto esso stesso tipo qualitativo di merce (moneta in metallo), universale in quanto tutto può
essere espresso in denaro e comprato dal denaro; iii) la necessità
di trovare una sostanza comune che fornisca una dimensione comune alle merci altrimenti “incommensurabili” e questa essenza
comune non può fornirla il denaro – che, pure, a causa della sua
doppia natura, è qui un ingannatore – poiché esso è, in realtà, solo
una unità di misura.
Aristotele rileva che i prodotti del lavoro di un costruttore,
la casa, e di un calzolaio, le scarpe, essendo valori d’uso diversi,
saranno anche beni “qualitativamente” diversi. In tre passi delle
sue opere Aristotele pone sia la questione basilare dello scambio
sia quella del vero ruolo della moneta in esso, sia infine trae le
drastiche conclusioni. Rispetto alla natura dello scambio, premette che «tutte le cose di cui si dà scambio devono essere in qualche
modo commensurabili» (Aristotele 2005, 649 [V, 1133a 18-19]). Rispetto alla natura della moneta osserva «che è diventata in qualche modo un elemento intermedio; infatti misura tutto, e quindi
misura sia l’eccesso sia il difetto, e quindi anche quante scarpe
siano uguali a una casa o a del cibo» (idem, 650 [V, 1133a 20-23]).
Infine, avendo in mente ancora l’esempio di casa e scarpe, conclude che «[i]n verità è impossibile che realtà talmente differenti
diventino commensurabili» (idem, 653 [V, 1133b 19-20]).
Nella Metafisica Aristotele descrive la caratteristica basilare
della misura, cioè quella di essere “omogenea” alla cosa misurata:
«la misura appartiene allo stesso genere delle cose che debbono
essere misurate, e la misura delle grandezze è una grandezza, e,
in particolare, è una lunghezza per le lunghezze, una superficie
per le superfici, un suono per i suoni, un peso per i pesi, un’unità per le unità» (Aristotele 1995, 441 [X, 1053a 25-28]). Secondo
Meikle (1995, 22), Aristotele sta così affermando con chiarezza
che si può dare una misura solo laddove esista commensurabilità. Se, quindi, la moneta è solo una semplice unità di misura,
ecco svelato il suo effetto ingannevole sotteso alla sua duplice natura di particolarità e universalità: la moneta non può risolvere
il problema tutto ontologico della commensurabilità dei beni. La
conclusione drastica pone un formidabile problema per la fondazione dell’economia politica, come ben si accorgerà Marx.
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Come può essere valutata la “giustizia” di uno scambio fra “incommensurabili”? Se non vi è modo di garantire ontologicamente una qualche equivalenza fra la “qualità” e la “quantità”, allora
anche lo scambio può essere “ingiusto”. Ma va sottolineato qui
che ciò che pone Aristotele non è un problema etico ma un problema che va ai fondamenti dell’economia politica: il problema della
natura stessa dello scambio, che richiede, come se fosse un fatto
scontato e naturale, la “commensurabilità” dei beni. Quest’ultima
è infatti assunta come un fatto tautologico – ovvero lo scambio è
naturale, si scambia perché si scambia – dall’economia politica, che
si concentra invece nella ricerca e nell’analisi della misura che li
renda commensurabili, cioè il denaro. Ma, se come argomenta Aristotele, quella “commensurabilità” è ontologicamente viziata e la
moneta può essere una misura di essa ma non il suo fondamento,
ecco che un’aporia logico-ontologica vizia alla base le fondamenta dell’economia politica. Per questo Marx loda il «genio [che] risplende di Aristotele» (Marx 1867, 73 [I.3]) e si pone egli stesso alla
ricerca della soluzione di tale aporia, cercandolo in quella sostanza
che precede e unifica valore d’uso e valore di scambio, ovvero il
“lavoro umano uguale in astratto”. Marx riconosce che secondo
Aristotele il denaro esprimerebbe il valore di una merce in una
qualsiasi altra merce nel momento in cui afferma che l’equivalenza
5 letti = 1 casa non differisce da quella 5 letti = tanto di denaro, ma
nella sua profonda ricerca di un concetto unitario di valore, cioè di
quella sostanza comune che «nella espressione di valore del letto la
casa rappresenta per il letto», Aristotele giunge a una conclusione
scoraggiata, perché «una cosa del genere “in verità non può esistere”». Marx allora omaggia la splendente genialità del filosofo greco, riconoscendogli che solo per le limitate condizioni storiche in
cui visse non raggiunse la conclusione a cui arriva, evidentemente
stimolato dalla sua analisi, Marx stesso: «La casa rappresenta qualcosa di uguale nei riguardi del letto in quanto rappresenta quello
che è realmente uguale in entrambi, nel letto e nella casa. E questo
è lavoro umano» (Marx 1867, 73 [I, 3] con qualche variazione nella
traduzione). Che la teoria del valore-lavoro, e quindi della critica
più forte alle basi dell’economia politica, trovi ispirazione nell’indagine di Aristotele sulla natura della moneta e dello scambio non
può risultare più evidente che da queste considerazioni marxiane
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Parte II - Moneta e debito
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sopra riportate. Come osserva Taccola, in conclusione del suo lavoro, Aristotele «ha illuminato la via verso la decifrazione dell’arcano
della forma valore» (Taccola 2016).
Annotiamo anche che Aristotele è “sociologo”, in quanto, se
da “economista” coglie i concetti di valore d’uso e di scambio e la
natura duplice della moneta, è, però, anche capace di connettere
tali concetti con la situazione socio-politica della società ateniese, come Marx gli riconosce. È nella doppia natura del denaro,
che diventa innesco e fine dello scambio, oggetto di illimitata
accumulazione nel suo ruolo di rappresentante universale della
ricchezza, che Aristotele rintraccia il cambiamento strutturale in
atto nella polis. Un cambiamento strutturale di cui sono portatori coloro che, diversamente dagli altri cittadini, si dedicano alla
crematistica innaturale, coloro la cui attività è legata al denaro. È
il denaro che cambia le relazioni sociali e di questo cambiamento
sono causa mercanti e banchieri, in genere figure mediocri, stranieri, meteci, ai margini della società (vedi parte I). Ma Aristotele
osserva anche che il passaggio del ruolo del denaro da mezzo a
fine coinvolge pure figure sociali non direttamente mercantili e
marginali, come il sofista, il medico e il soldato, che perdono l’obiettivo del loro proprio fine – rispettivamente la scienza, la salute e la vittoria – per perseguire invece anch’essi il fine del profitto
e dell’accumulazione di denaro (Aristotele, Politica, 1258a 10-14).
A partire dalle contrapposte visioni generali sulla moneta sopra discusse, notiamo che, focalizzandosi più specificamente nel
campo economico-monetario, è soprattutto l’aspetto politico-economico della moneta ad apparire sostanzialmente dicotomico, e
queste doppiezze appaiono in più elementi di esso. Almeno duplici sono gli strumenti della politica monetaria. Almeno duplici
sono i meccanismi di trasmissione della medesima. Almeno duplici
sono le costituzioni delle banche centrali, intese nel senso delle loro
possibili differenti relazioni col settore pubblico (e in particolare col
governo) e con quello privato. Duplici sono anche gli obiettivi della medesima banca centrale. Ma duplice è anche la visione teorica
dell’economia monetaria, divisa fra chi pensa che, detto in soldoni,
la moneta non abbia effetti reali (sia soltanto come un velo che ricopre il mondo economico reale senza influenzarlo) o invece ce li abbia e anche molto significativi. Anche in questo caso, non interessa
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qui valutare la correttezza teorica e l’efficacia empirica dell’uno o
dell’altro, ma cercare di capire, aldilà dei tecnicismi bancari e delle
valanghe di analisi empiriche contrastanti, quali siano state le origini storiche e le motivazioni più profonde delle varie posizioni in
conflitto. Inizieremo dalle prime due dicotomie sopra accennate,
che, per semplicità, consideriamo come una sola. Qualsiasi manuale elementare ci ricorda che due sono le dottrine di intervento di politica monetaria da parte della banca centrale: i) controllare l’offerta
di moneta; ii) controllare il tasso di interesse. Due sono i meccanismi di trasmissione: con la prima dottrina, si agisce sulla base monetaria, che attraverso il meccanismo del cosiddetto moltiplicatore
monetario determina l’offerta di moneta, attraverso la modifica
delle riserve delle banche (per esempio, con l’uso dei coefficienti di
riserva obbligatori o l’imposizione di vincoli quantitativi (ceilings)
su depositi e crediti erogati); con la seconda dottrina, la banca centrale presta ad un certo tasso alle banche commerciali (per esempio
con operazioni pronti contro termine) e, quindi, questo tasso diventa il benchmark rispetto al quale saranno adeguati i tassi praticati
dalle banche e diffusi nel resto dei mercati finanziari (se la banca
centrale, per esempio, aumenta il tasso richiesto, i tassi di interesse
saliranno e nell’economia si ridurranno consumi e investimenti)15.
15
Un classico esempio di forma di prestito di denaro alle banche è attraverso una vendita di titoli pronti contro termine a scadenza breve (per esempio due
settimane). Se il tasso ufficiale sul prestito è cambiato, il cambiamento si trasmette
(sebbene in una misura quantitativa che può anche non essere esattamente uguale
a quella del tasso ufficiale) in modo relativamente rapido, da un lato, ai tassi del
mercato monetario a breve (per esempio ai pronti contro termine con scadenze ravvicinate e ai prestiti interbancari), dall’altro sia al tasso base sui prestiti che le banche
erogano, sia ai tassi che le banche corrispondono ai risparmiatori (ovviamente per le
banche il margine tra tassi di deposito e tassi di prestito dipende anche dalla struttura concorrenziale del mercato in cui esse sono situate; va inoltre ricordato che le
banche possono finanziarsi anche con obbligazioni, prestiti interbancari e depositi).
Tuttavia, a parte l’effetto sul mercato monetario a breve che è univoco come sopra
visto, meno facile è conoscere l’effetto quantitativo di un determinato cambiamento
del tasso ufficiale su tutti gli altri tassi di interesse, sul tasso di cambio e sui mercati
finanziari in generale. Questo perché la trasmissione del cambiamento a questi ultimi dipende crucialmente – come mostrato dalla recente teoria economica monetaria – da due condizioni, del tutto esterne al controllo della banca centrale: i) il grado
di “sorpresa”, o, alternativamente, di anticipo del cambiamento del tasso ufficiale;
ii) il grado di influenza e mutamento che il cambiamento del tasso ufficiale esercita
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Parte II - Moneta e debito
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Differenti sono anche gli obiettivi “politici” della politica monetaria della banca centrale: nella storia se ne possono enucleare
due, la piena occupazione e la stabilità dei prezzi (un terzo può
essere la stabilità dei cambi), teoricamente confliggenti fra loro,
come lo sono Keynes e Hayek, e che quindi costituiscono, quando tenuti insieme, un tentativo di compromesso politico fra due
incompatibili visioni dell’economia e della società. Non è un caso
che, per esempio, la Banca d’Inghilterra li contempli entrambi,
mentre la BCE contempli solo il secondo.
Naturalmente, è cruciale definire preliminarmente i concetti
chiave – come in ogni indagine di storia delle idee in qualunque
ambito – della politica monetaria, di cui mostreremo le contrapposte visioni, perché, come nota Bindseil
una serie di equivoci sono sorti nel campo dell’attuazione della politica
monetaria a causa di definizioni ambigue o variabili di alcuni concetti
chiave […]. I termini sono divisi in due gruppi, quello relativo all’“attuazione” (o implementazione) della politica monetaria e quello relativo alla
“macroeconomia monetaria” (Bindseil, 2004, 8).
Così per quanto riguarda l’implementazione della politica monetaria, vanno distinte tre componenti: 1) la scelta di un
obiettivo operativo della politica monetaria, cioè una variabile
sulle aspettative sia delle future azioni di politica monetaria che, soprattutto, del
futuro economico in generale. Questo è il motivo della sorprendente ambiguità della direzione della trasmissione ai tassi di interesse non a breve: infatti, se l’impatto
del cambiamento del tasso ufficiale su altri tassi a breve termine conserva il segno
(anche se non la esatta quantità) del cambiamento, l’impatto sui tassi di interesse
nel lungo termine può avere un segno opposto: per esempio, se un aumento del
tasso ufficiale oggi generasse un’aspettativa di una riduzione dei tassi di interesse
futuri, allora potrebbe accadere che i tassi a lungo termine si riducessero a fronte
di un aumento di quelli a breve. Lo stesso meccanismo delle aspettative potrebbe
rendere ambigui sia gli effetti sui mercati dei titoli che sul tasso di cambio, sebbene
gli effetti standard ceteris paribus sarebbero, nel caso per esempio di un aumento del
tasso ufficiale oggi, una riduzione del valore dei titoli perché i rendimenti futuri –
ammesso che si attendano tassi di interesse a lungo termine più elevati – sarebbero
scontati ad un tasso più alto, e un immediato apprezzamento della valuta nazionale
nel mercato dei cambi, dovuto al fatto che i più alti tassi di interesse interni, in
rapporto agli interessi su equivalenti attività in valuta estera, rendono le attività in
valuta nazionale più attraenti per gli investitori esteri.
13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
393
economica che la banca centrale vuole – e può in larga misura –
controllare su base giornaliera (ad esempio, il tasso di interesse
sul mercato interbancario overnight) attraverso l’uso dei suoi strumenti di politica monetaria, secondo i livelli decisi dal comitato
decisionale di politica monetaria della banca centrale nelle sue
riunioni giornaliere e trasmessi come guida sia ai responsabili
operativi della banca centrale, sia al pubblico per informarlo sulla posizione della politica monetaria; 2) l’istituzione di un quadro
operativo che consenta alla banca centrale di controllare l’obiettivo operativo selezionato (ad esempio, l’impostazione degli strumenti, la selezione delle controparti, la definizione di un elenco di
garanzie ammissibili); 3) l’uso degli strumenti di politica monetaria a disposizione della banca centrale su base giornaliera al fine
di raggiungere l’obiettivo operativo.
Rispetto alla prima componente, emerge una prima dicotomia di visioni: semplificando, la variabile economica obiettivo
può essere il tasso di interesse oppure la quantità di moneta.
Le banche centrali concordano sul fatto che il tasso di interesse interbancario a breve termine sia l’obiettivo operativo appropriato. In passato,
tuttavia – e alcuni libri di testo supportano ancora questo punto di vista –
è stato sostenuto che sarebbero preferibili concetti quantitativi, come la
base monetaria o il concetto di alcune riserve. Inoltre, alcune banche
centrali hanno applicato un obiettivo operativo quantitativo, almeno in
teoria. La Fed, ad esempio, ha sperimentato “riserve libere”, “condizioni
del mercato monetario”, “riserve prese in prestito” e “riserve non prese
in prestito” come obiettivi operativi (Bindseil 2004, 9)16.
Anche gli strumenti utilizzati possono essere diversi e il loro
differente utilizzo è spesso correlato alle sottostanti visioni teoriche
della moneta e della banca. Le banche centrali utilizzano attualmente tre di questi strumenti: i) strutture permanenti, ii) operazioni di mercato aperto, iii) requisiti di riserva, mentre il quarto
strumento, il “controllo monetario diretto” come l’imposizione di
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Qui Bindseil si riferisce alle pratiche di politica monetaria moderne. Sarebbe anche interessante raccontare come è avvenuta, risalendone alle origini, la
formazione di un mercato monetario (titoli pubblici a breve termine), ma ciò non
può essere fatto qui per ragioni di semplicità e di economia di spazio.
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massimali quantitativi di credito, di massimali dei tassi di interesse
al dettaglio o di requisiti di margine operativo, è caduto in disuso,
dopo essere stato in uso nel periodo che va dagli anni trenta agli
ottanta, probabilmente perché in “odore di coercizione” e perché
quel periodo coincise col modello keynesiano di governo socio-economico di gran parte del mondo occidentale (infatti Friedman
[1960], è particolarmente critico sui “controlli diretti”).
Per quanto riguarda il punto di vista della macroeconomia
monetaria, la strategia di politica monetaria della banca centrale
richiede 1) l’adozione di un modello macroeconomico del meccanismo di trasmissione che colleghi, secondo le modalità previste
dalle sue leggi interne, l’obiettivo operativo, le variabili indicatore, gli obiettivi intermedi e gli shock casuali ai suoi obiettivi
finali, e, una volta adottato il modello, 2) l’adozione di modalità
di adeguamento – sia alle nuove informazioni sia ai feedback delle
sue comunicazioni al pubblico – del proprio obiettivo operativo.
Anche in questo caso dietro l’adozione del modello possono sottostare differenti visioni17.
Per obiettivo operativo, si intende una variabile economica,
a sua volta facilmente controllabile dalla banca centrale, che consente di controllare o almeno influenzare in modo significativo
l’obiettivo intermedio.
Per Bindseil, l’analisi delle questioni relative alla strategia macroeconomica di politica monetaria non è importante, perché sarebbe effettivamente possibile analizzare l’attuazione della politica monetaria senza considerare la strategia
macroeconomica, in quanto, poiché l’orientamento della politica monetaria in un
determinato momento è costituito dal valore prevalente dell’obiettivo operativo e
dalle modifiche attese che ne derivano dalla comunicazione della banca centrale,
non è possibile stabilire se un certo livello della variabile obiettivo operativa rifletta una posizione restrittiva o permissiva. In altre parole, quel che conta è l’obiettivo finale e gli obiettivi operativi e intermedi non hanno di per sé alcun significato.
«Ad esempio, un obiettivo di tasso d’interesse a breve termine del 5% sarebbe
molto rigido in un contesto deflazionistico (ad esempio, il Giappone nel 2002),
ma sarebbe permissivo in un contesto fortemente inflazionistico (ad esempio, la
Turchia nel 2002). Pertanto, la rigidità della posizione si riflette nella differenza tra
l’obiettivo operativo e un livello “neutro”, ovvero uno che non crea pressione per
la modifica delle variabili obiettivo finali. L’obiettivo finale della politica monetaria è la variabile economica alla quale mira alla fine la banca centrale. Pertanto, gli
obiettivi operativi e intermedi non sono altro che mezzi per raggiungere l’obiettivo finale che non hanno un valore specifico proprio» (Bindseil 2004, 9).
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Per variabile indicatore si intende una variabile economica
che contenga le migliori informazioni in tempo reale per permettere alla banca centrale di modificare, se necessario, il livello del
suo obiettivo operativo al fine di raggiungere il suo obiettivo finale nel modo più preciso possibile18.
Per obiettivo intermedio si intende una variabile economica
collegata all’obiettivo finale da una relazione chiara e possibilmente stabile (se non si adotta un modello sbagliato), che però
sia anche facilmente controllabile (nei tempi e nella precisione
della misura) dalla banca centrale. L’obiettivo intermedio tipico
può essere un aggregato monetario come M1 o M3, un volume di
credito, un tasso di cambio o un tasso di interesse a medio o più
lungo termine19.
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«Le variabili dell’indicatore contengono variabili completamente esogene come il prezzo del petrolio, la probabilità dello scoppio di una guerra o importanti innovazioni tecnologiche, ma anche variabili più endogene come gli aggregati monetari. Mentre per un obiettivo intermedio la banca centrale potrebbe
dedurre che “le informazioni dalla variabile obiettivo intermedio suggeriscono
che il livello della variabile obiettivo operativo deve essere modificato per mantenere l’obiettivo intermedio sul corretto sentiero”, per una variabile indicatore più
endogena potrebbe dedurre che “le informazioni fornite dalla variabile indicatore suggeriscono che il livello dell’obiettivo operativo deve essere modificato per
mantenere l’obiettivo finale sul corretto sentiero”. In pratica, esiste un continuum
tra gli estremi delle variabili indicatori pure e gli obiettivi intermedi puri» (Bindseil 2004, 10).
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La definizione di “moneta” si basa su aggregati di attività “perfettamente”
liquide: oro, quando circolava come moneta, biglietti, depositi bancari a vista e altre
ancora. Molte attività finanziarie hanno mercati ben organizzati sui quali è possibile
“liquidarle”, cioè acquistare moneta. Per liquidità di un’attività finanziaria si intende
appunto la sua rapida trasformabilità in forma monetaria, senza perdita di valore
nominale. Il grado di liquidità delle varie attività o forme di ricchezza risulta tanto
maggiore quanto più rapidamente la forma di ricchezza può essere trasformata in
mezzi di pagamento al suo valore pieno, che si può intendere come il suo valore
di mercato realizzabile se non fosse necessario una vendita in tempi brevi, e quanto minori sono i costi di negoziazione che tale trasformazione richiede. Quindi, la
valutazione sul grado di liquidità, che spesso è opinabile anche fra gli studiosi, è
ciò che può far considerare “moneta” in senso lato anche forme di ricchezza che
non lo sarebbero nominalmente. Il grado di liquidità è il criterio, con cui, da parte
dei tecnici dell’economia monetaria, sono state date diverse definizioni di che cosa
si può considerare moneta. Infatti, sono stati definiti i seguenti differenti aggregati
monetari, corrispondenti a differenti gradi di liquidità in ordine decrescente: un primo aggregato (chiamato M1) comprende soltanto i mezzi di pagamento (circolante
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Infine l’obiettivo finale di una banca centrale. Sebbene tale
obiettivo sia spesso sancito dal suo statuto e possa apparire determinato da esigenze giuridico-costituzionali e tecnico-economiche,
in realtà esso è un obiettivo puramente ‘politico’, che ha il pregio
per l’investigatore di essere una cartina di tornasole della sottostante visione teorico-politica del “sovrano” monetario.
Per esempio, come annota Bindseil (2004, 10) la BCE ai sensi
dell’articolo 105, paragrafo 1, del trattato UE, ha l’obiettivo primario di mantenere la stabilità dei prezzi, mentre l’obiettivo della
politica monetaria della Banca d’Inghilterra, ai sensi del Bank Act
del 1998, è quello di «mantenere la stabilità dei prezzi e, in subordine a ciò, sostenere la politica economica del governo di Sua
Maestà, compresi i suoi obiettivi di crescita e occupazione». Invece gli obiettivi finali della Fed (Board of Governors 1994) apparirebbero meno chiari perché comprendono contemporaneamente
una crescita economica in linea con il potenziale dell’economia,
un elevato livello di occupazione, prezzi stabili e tassi di interesse
moderati a lungo termine.
Quindi, in generale, la catena causale di una tipica politica
monetaria potrebbe essere così espressa: strumenti → indicatori
→ obiettivo operativo → obiettivo intermedio → obiettivo finale.
Però, le dicotomie dovute alle differenti visioni della moneta e
del suo ruolo nell’economia, si riflettono poi all’interno di ciascun
elemento di questa catena causale: prendendo per esempio l’elemento degli strumenti, per i seguaci della RPD (vedi più avanti) e
per i monetaristi esso sarebbe fornito dalle operazioni di mercato
aperto, mentre per i seguaci della dottrina del ‘tasso bancario’ sarebbe dato dallo sconto della carta commerciale.
Per fare un esempio illustrativo della catena, la banca centrale
sconta effetti alle banche commerciali (strumento) per aumentare
le loro riserve e ridurre il tasso dei prestiti interbancari (obiettivo
operativo), ma la reazione delle banche commerciali alla variazio-
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one
ffisim
e depositi in conto corrente utilizzabili mediante assegno); un secondo aggregato
(chiamato M2) comprende, oltre ai mezzi di pagamento, i depositi bancari a risparmio; un terzo aggregato (M3) arriva a includere, oltre alle attività comprese in M2,
anche attività meno liquide, quali i depositi e i buoni fruttiferi postali (che, per l’Italia, potrebbe anche includere i BOT detenuti dagli operatori non bancari).
Questo E-
13 - Le soluzioni infinite per rendere “neutrale” e “sana”
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ni di riserve potrebbe essere influenzata dalla probabilità di una
guerra o di una epidemia (variabili indicatore), cosicché la banca
centrale deve rivedere il suo modo di influenzare il tasso overnight affinché possa ancora trasmettere il desiderato influsso al
tasso di interesse a breve o medio o lungo (obiettivo intermedio),
il quale a sua volta influenzerà il tasso di inflazione o il tasso di
disoccupazione (obiettivi finali).
Sviluppando l’ottica d’indagine qui adottata, potremmo assumere due posizioni polari: l’una che ritenga che solo gli obiettivi
finali si
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