Domande 1) 2) 3) 4) 5) 6) 7) 8) 9) 10) 11) 12) 13) 14) 15) 16) 17) 18) 19) 20) 21) 22) 23) 24) 25) 26) 27) 28) 29) 30) 31) 32) 33) 34) 35) 36) 37) 38) 39) 40) 41) 42) 43) 44) Market Failures (cap.1) Welfare state (cap.1) Scuola di Harvard (cap.2) Scuola di Chicago (cap.2) La nuova economia industriale (cap.2) Mercato rilevante (cap.3) Distretto industriale (cap.3) Capitalismo Anglosassone (cap.4) Capitalismo Reniano (cap.4) Differenze tra Capitalismo Anglosassone e Reniano (cap.4) Gli effetti della Globalizzazione sulle condotte delle imprese (cap.4) La domanda Marshalliana (cap.5) Teoria di Marris (cap.5) Domanda di beni di consumo durevoli (cap.5) Domanda di beni intermedi e di investimento (cap.5) Economia di scala, scopo e differenze (cap.6) Concentrazione di Mercato Indice HH (cap.7) Indice HH (cap.7) Relazione Indice HH-Lerner (cap.7) Definizione e Determinati delle Barriere all’entrata (cap.8) Strategia di Deterrenza (cap.8) Barriere all’entrata in un contesto dinamico (cap.8) Modello di Akerlof (cap.9) modello Dorfman-Steiner (cap.9) Innovazioni (cap.9) Modello di Arrow (cap.9) Modello di Hotelling (cap.9) La diversificazione (cap.10) L’integrazione verticale (cap.11) Williamson: i costi di transazione (cap.11) La concorrenza dinamica: modello di Steindl (cap.11) Principi del mercato di concorrenza perfetta (cap.12) Mercati contendibili (cap.12) Politiche di prezzo (cap.13) Bundling e Tying come strumenti di estensione delle posizioni dominanti (cap.13) Discriminazione di prezzi (cap.13) Oligopolio (cap.14) Modalità di collusione oligopolistiche, price leader (cap.14) La teoria della domanda spezzata (sweezy) (cap.15) Momigliano (cap.15) La legge Kaldor-Verdoorn (cap.18) La politica industriale nello schema Vanoni (1955-1964) (cap.19) Regolamentazione del monopolio naturale ROR e Price Cap (cap.21) Free riding e restrizioni verticali ????? pag. 1 1) Market Failures Il termine market failures, legato al filosofo Sidgwick, indica una vasta casistica che si può classificare in sei tipologie: 1. Produzione di beni pubblici e sociali, che il mercato non è in grado di produrre in quantità e specie desiderabili. 2. Presenza di fenomeni legati a incertezza e instabilità che allontanano il sistema dall’equilibrio stabile. Riguardano questi sia il sistema nel suo complesso sia circostanze specifiche di singole industrie e mercati; quest’ultime derivano dalle caratteristiche dell’offerta e della domanda, oppure dall’effetto dell’interazione fra decisioni di un numero ristretto di produttori nel determinare le quantità ed i prezzi dell’offerta (oligopolio). 3. Presenza di restrizioni alla concorrenza date dal potere monopolistico 4. Presenza del fenomeno delle esternalità, per cui alcuni costi e benefici che derivano dalle decisioni di singoli operatori non risultano incorporate nel sistema dei prezzi preso in considerazione dall’imprenditore quando determina le proprie scelte (es. costi dell’inquinamento). 5. Presenza di costi di transazione che rende il ricorso al mercato meno efficiente o più rischioso. 6. Fenomeno dell’asimmetria informativa (Akerlof), che si determina quando una parte degli operatori del mercato dispone di informazioni rilevanti sulla qualità del prodotto che non sono disponibili per gli altri. L’insieme delle failures rende la realtà dei mercati ed il loro funzionamento molto diversi da ciò che si determinerebbe in base agli assiomi della concorrenza perfetta, la quale costituisce un caso limite la cui probabilità di verificarsi è piuttosto una eccezione. pag. 2 2) Welfare state Nell’ambito dell’intervento statale riguardo ai fallimenti di mercato, oltre ai problemi di debolezza dei lavoratori rispetto ai capitalisti, di diseguaglianza sociale, dei beni pubblici, della concentrazione delle imprese e della protezione di sviluppo e stabilità, un altro ordine di correttivi è nato in relazione alla capacità degli individui di badare a sé stessi. questa capacità, per ragioni di età, di salute o di reddito non è necessariamente scontata. Nell’arco della storia sono quindi nate una serie di iniziative volte ad incorporare questi valori, espressione di giustizia ed eguaglianza di un sistema economico. il primo esempio di politiche sociali è il sistema introdotto da Otto von Bismark nella Germania del tardo ‘800, che istituiva un’assicurazione obbligatoria per il pensionamento dei lavori dipendenti una volta raggiunti i 65 anni. successivamente anche la gran Bretagna intraprese lo stesso cammino, dal governo liberale di Asquith e Churchill (1908-1910). il termine welfare state nasce però negli stati uniti con la presidenza di Roosevelt , che introdusse una serie di riforme ispirate all’uguaglianza delle opportunità e all’assistenza pubblica per coloro che non fossero in grado di assicurarsi il minimo necessario. l’elemento chiave è costituito dalle assicurazioni sociali, dalla pubblica istruzione e dalla fornitura di alloggi a prezzi compatibili anche con i minimi livelli salariali. le controversie riguardo alle politiche sociali sono numerose, come quella secondo la quale esse rischiano, se troppo benevolenti, di essere un disincentivo al lavoro produttivo, come nel caso di sussidi di disoccupazione troppo elevati. inoltre, il welfare state ha un peso economico enorme sulle casse statali e questo porta alla serie di problematiche relative al suo finanziamento. Infine, ulteriori controversie sorgono riguardo l’efficienza delle burocrazie e dei monopoli pubblici preposti alla produzione e all’erogazione dei servizi relativi. Proprio i principi di uguaglianza e tutela dei più svantaggiati, che tramite l’introduzione delle politiche sociali vengono affiancati ai principi di ordine economico, hanno portato alla creazione del termine “economia sociale di mercato” per definire le moderne economie occidentali. pag. 3 3) Scuola di Harvard Scuola di Harvard (associata al nome di Mason e Bain) fonda su un approfondimento sistematico del market failure determinato dal potere monopolistico. Esso si articola nel cosiddetto paradigma “struttura-condotta-performance, la tesi è che la struttura dell’offerta determina le condotte dell’impresa e da queste ultime derivano i risultati (performance). La relazione causale sussistente tra i set di variabili non è necessariamente univoca e ciò vale per tutte le coppie di variabili. Le verifiche empiriche dimostrano che alcune caratteristiche osservabili nelle condotte e nei risultati delle imprese hanno un forte legame con la struttura dell’offerta. Tale modello è descritto tramite il raggruppamento di variabili che descrivono un’industria. Le prime (condizioni base) sono distinte fra quelle che riguardano la domanda e quelle dell’offerta. Lato domanda: gusti e preferenze, elasticità domanda, metodi d’acquisto, etc., Lato offerta: struttura organizzativa, forza lavoro, livello di tecnologia disponibile. Il secondo insieme riguarda la struttura di mercato che si riferisce al numero e alle dimensioni delle imprese (Concentrazione); barriere all’entrata; differenziazione dei prodotti; integrazione verticale e diversificazione. Allora volta le caratteristiche della struttura dell’offerta delineano i perimetri effettivi di comportamenti delle imprese (politiche di prezzo, pubblicità, qualità del prodotto, comportamenti cooperativi o indipendenti). Da questi infine dipendono risultati (Performance) di una particolare industria ovvero i risultati economici (profittabilità, efficienza allocativa, competitività dei prezzi, saldo della bilancia commerciale). Con riguardo alle strutture e quindi alla concentrazione dobbiamo chiederci meglio tante o poche imprese? All’ aumentare del numero di imprese in un mercato ci troviamo in concorrenza perfetta raggiungendo così un’efficienza allocativa. Alcune caratteristiche di base in industria possono provocare distorsioni e quindi allontanamenti dalla concorrenza perfetta, Per questo la scuola di Harvard, anche definita “economia dei mercati imperfetti”. Imprese possono quindi sfruttare a proprio vantaggio questa imperfezione ottenendo così migliori performance (secondo il loro punto di vista), È per questo che la scuola di Harvard giustifica l’intervento dell’autorità pubblica che ha quindi scopo di correggere I mercati cercando di farsi che le performance si approssimino il più possibile all’interesse generale e del consumatore. pag. 4 4) Scuola di Chicago In diretta concorrenza con la scuola di Harvard vede come suoi esponenti principali Director e Stigler. Uno dei elementi per cui se ne differenzia è per l’importanza che viene attribuita alla teorizzazione ovvero alla costruzione di modelli. Egli rileva che spesso gli interventi pubblici sui mercati si basano su valutazioni errate, come il divieto ei certe condotte economiche perché non prende spunto da un contesto economico coerente e approfondito. In contrapposizione alla scuola di Harvard, la scuola di Chicago si basa sull’ipotesi che le performance dipendono essenzialmente dalla capacità di innovazione e visione strategica dei manager. Ulteriore differenza tra le scuole riguardano l’intervento pubblico giustificato x Harvard distorsivo per Chicago. Quest’ultima afferma che: aiuti, restrizioni allontano le condizioni di mercato da quelle della concorrenza e si risolvono in un beneficio per pochi in contrapposizione a un onere per molti. Infine, la scuola di Chicago afferma che il potere di mercato e in estremo le posizioni monopolistiche non sono necessariamente fattori negativi a condizioni che siano garantite le condizioni di libertà di entrata ovvero la contendibilità del mercato. 5) La nuova Economia Industriale Presenta un nuovo carattere teorico rappresentato dalla teoria dei giochi (metodo deduttivo) che studia il funzionamento dei mercati ed i comportamenti interattivi fra le imprese. Questo modello descrive una situazione di comportamento interdipendente nel quadro di regole date, dove il risultato di ciascun giocatore dipende sia dalle sue scelte che dalle azioni dei concorrenti. In questi casi il comportamento ottimale di un’impresa non dipende solo dai propri costi di produzione, volume di produzione, etc. ma anche da ciò che l’impresa ipotizza circa il comportamento delle altre imprese. pag. 5 6) Mercato rilevante L’applicazione della normativa antitrust pone l’esigenza di definire l’ambito specifico in cui si esercita la concorrenza tra le imprese. Esso è definito come il più piccolo contesto nel cui ambito è possibile la creazione di un potere di mercato. Il mercato rilevante si può anche definire in modo più generico come il più piccolo insieme di prodotti in un’area geografi o in cui è possibile per le imprese porre in atto fattispecie proibite dalla legislazione antitrust. Il mercato va quindi definito sia sotto l’aspetto del prodotto che sotto il profilo geografico. Il mercato sotto il profilo del prodotto comprende tutti i prodotti e servizi che sono considerati interscambiabili o sostituibili dal consumatore, in ragione delle caratteristiche dei prodotti, dei loro prezzi, dell’uso cui sono stati destinati. Per quanto riguarda il limite geografico invece esso viene determinato analizzando se un aumento di prezzo in una località influisca in modo sostanziale sul prezzo dello stesso bene venduto in un’altra località. Se cosi accade entrambe le località appartengono allo stesso mercato geografico. Per individuare tale mercato geografico occorre raccogliere informazioni relative a: 1)entità dei costi di trasporto 2)disponibilità degli acquirenti del prodotto a spostarsi 3) eventuale presenza di barriere di natura tariffaria o non tariffaria agli scambi internazionali. (esempio: i mercati del calcestruzzo e del cemento, nonostante siano beni estremamente omogenei e non differenziabili sul piano orizzontale, costituiscono mercati tipicamente locali a causa degli elevati costi di trasporto). E’ infine importante notare che l’estensione geografica dei mercati può essere sia di natura locale che nazionale. 7) Distretto Industriale Beccattini propone il distretto industriale marshalliano come nuovo oggetto di indagine dell’economia industriale, impiegandolo come categoria interpretativa dello sviluppo industriale italiano nel secondo dopoguerra. Il distretto industriale è un esteso numero di piccole imprese, legate da relazioni verticali di cooperazione e da relazioni orizzontali di concorrenza, specializzate in una o più industrie complementari in un’area delimitata naturalmente e storicamente. La logica economica risiede nell’azione di economie di scala esterne, ossia nei vantaggi di costo associati alla concentrazione di un’industria in una particolare area geografica. Il distretto è inoltre interpretato come un costrutto sociale ed economico, dove i legami di amicizia tra la popolazione locale e i rapporti di vicinato favoriscono la diffusione di conoscenza comune. pag. 6 8) Capitalismo Anglosassone Nei sistemi anglosassoni prevalgono quindi società contendibili e fortemente dipendenti dal mercato azionario nelle quali, inoltre, sussiste una forte distinzione tra proprietà e controllo. Ciò significa che gli azionisti tendono ad affidare il controllo e l’amministrazione della società ai manager. La principale conseguenza di quest’ultima distinzione è che gli interessi delle due categorie (azionisti e manager) potrebbero non coincidere, causando il così detto problema di agenzia: i manager potrebbero infatti non condividere l’obiettivo di massimizzazione del profitto per gli azionisti, ma mirare alla massimizzazione del fatturato specialmente nel breve periodo. Affinché il capitalismo manageriale risulti quantomeno un ragionevole compromesso tra gli interessi del mercato e il comportamento effettivo degli amministratori, ai manager vengono sottoposti ad una serie di vincoli, così elencabili: 1) Vincoli interni all’impresa: rappresentati principalmente dai contratti di lavoro dei manager, in cui viene richiesto un comportamento conforme agli interessi degli azionisti. Questi vincoli trovano però seri limiti dovuti alle asimmetrie informative. Un’altra opzione è costituita dal retribuire parzialmente i manager tramite stock options, in modo da legare il loro reddito personale all’andamento della società, che però non risolve del tutto il problema a causa di forti asimmetrie informative che rendono difficile calcolare la congruità dei premi. 2) Vincoli derivanti dal mercato del lavoro: essendo la rotazione del management un fatto piuttosto frequente nelle public companies, un manager che voglia avere una buona reputazione sul mercato del lavoro sarà costretto a perseguire il miglior risultato possibile. 3) Vincoli derivanti dalla competizione fra imprese: la sopravvivenza ed il buon andamento dell’impresa amministrata sono fattori essenziali per il mantenimento del posto di lavoro nel management, ed un’impresa poco competitiva è destinata a soccombere alle concorrenti ed il management con essa. 4) Vincoli derivanti dal mercato dei capitali: Il basso costo delle azioni, riflettente una cattiva gestione dell’impresa, rappresenta un’opportunità per gli investitori che potrebbero tentare una scalata alla maggioranza che potrebbe portare a una radicale sostituzione del management, soprattutto se si tratta di una scalata ostile. In questo caso il valore di mercato (vm) è minore del valore reale (vr) ovvero il valore della somma delle attività. vm/vr<1. Nonostante tali vincoli è sempre più presente la preoccupazione legata al fatto che il loro comportamento è eccessivamente influenzato da considerazioni di breve termine e quindi dai risultati immediati. pag. 7 9) Capitalismo Reniano La principale caratteristica del modello capitalistico renano consiste nella così detta corporate governance e nello specifico nel fatto che in questo caso il controllo azionario della maggior parte delle grandi imprese è riconducibile ad un numero limitato di soggetti, non avendo quindi la natura pubblica tipica delle società anglosassoni. Da questa caratteristica derivano una serie di conseguenze: Una prima conseguenza è di carattere culturale e consiste nel fatto che la massimizzazione del valore per gli azionisti, cioè circa del profitto, è un obiettivo molto meno essenziale di quanto lo sia nei paesi anglosassoni. Questo avviene perché la massimizzazione del profitto riguarda quasi esclusivamente i proprietari e non è quindi una pubblica virtù di cui possano beneficiare tutti (base azionaria diffusa), ed inoltre perché gli azionisti/proprietari risultano minoritari anche dal punto di vista del finanziamento dell’impresa stessa, che è principalmente a carico di banche, risparmiatori e dipendenti. Di conseguenza si genera una frattura tra la pratica del management, volta alla massimizzazione del valore per gli azionisti, e le attese dei soggetti che effettivamente finanziano l’impresa (sopra citati). La cultura renana, quindi, cercando una soluzione-compromesso a questa frattura, pone come obiettivo per gli amministratori la massimizzazione del valore non per i soli azionisti (shareholders), ma per l’insieme di tutti i portatori di interessi nell’impresa detti stakeholder (es. creditori). Inoltre, risulta meno efficiente e dinamico sul piano finanziario, data la limitatezza delle fonti disponibili da parte del gruppo degli azionisti di controllo. 10) Differenze tra Capitalismo Anglosassone e Reniano Si definisca l’impresa come quell’organizzazione che sostituisce il meccanismo dei prezzi e degli scambi nello svolgimento dei processi economici (R.H.cose). Nella prospettiva del proprietario dell’impresa stessa, l’azionista, l’obiettivo della gestione risulta essere la massimizzazione del valore del capitale dell’impresa, che non coincide esattamente con la massimizzazione del profitto (specialmente nel breve periodo). Nell’ambito del capitalismo occidentale, però, sussistono grandi differenze di impostazione tra i sistemi capitalistici caratterizzanti i sistemi anglosassoni Gran Bretagna e U.S. e quelli propri degli stati europei. Queste differenze sono in parte dovute a differenze culturali ed in parte a differenze proprie dei sistemi economici. Tra le differenze dei sistemi economici è importante citare: La contendibilità del controllo societario (presente nei sistemi anglosassoni e non in Europa), ovvero la possibilità per un gruppo esterno all’effettivo azionariato di assumere il controllo, questi prendono il nome di agenti (manager). La seconda differenze è data dai diversi sistemi pensionistici: a capitalizzazione (quindi con forti avanzi finanziari che si riversano nei mercati borsistici) nei paesi anglosassoni, e a ripartizione in quelli europei (dove il finanziamento delle imprese è quindi quasi integralmente a carico del sistema bancario). Rispetto al capitalismo anglosassone, quello renano risulta meno trasparente, portando a maggiori conflitti di interesse e a più distorsioni. Inoltre, risulta meno efficiente e dinamico sul piano finanziario, data la limitatezza delle fonti disponibili da parte del gruppo degli azionisti di controllo. pag. 8 11) Gli effetti della Globalizzazione sulle condotte delle imprese La liberazione del commercio internazionale e la rivoluzione del sistema di comunicazione hanno portato a un profondo mutamento delle grandi imprese causandone la deindustrializzazione. La produzione del valore di un’attività in un’impresa è rappresentata da una catena formata da tre anelli: 1) concezione e progetto del piano industriale di un prodotto o servizio 2) produzione manifatturiera 3) attività di marketing e di distribuzione. Prima della globalizzazione il management si concentrava principalmente sul secondo anello, oggi invece la rilevanza strategica dei singoli anelli è completamente cambiata ed il processo manifatturiero è diventato il punto debole per le imprese a causa della concorrenza low cost. le imprese hanno quindi reagito trasferendo queste fasi del processo produttivo nei mercati emergenti (outsourcing o delocalizzazione). Questo ha portato alla creazione di imprese dette “Transnazionali” (TNC), portando a un duplice vantaggio: riduzione dei costi di produzione e riduzione del capitale necessario da investire; e di conseguenza un miglior rendimento percentuale sul capitale investito (ROE). pag. 9 12) La domanda Marshalliana La prima e più completa formalizzazione della teoria della domanda è quella di Marshall. La curva di domanda di un singolo consumatore, per un dato prodotto, riassume la relazione fra la quantità (massima) del prodotto acquistato o ogni possibile (ipotetico) prezzo: q = f(p) La curva è inclinata negativamente > utilità marginale decrescente. Tale curva di domanda dipende: a) Dai gusti e dalle preferenze del consumatore considerato. b) Dal reddito disponibile (all’aumentare del quale la curva si sposta verso destra). c) Dai prezzi di ogni altro prodotto, che per ipotesi vengono tenuti costanti. Al variare di uno di questi tre parametri otteniamo uno spostamento della curva di domanda L’informazione essenziale che si ottiene dalla curva di domanda è il grado di reattività della quantità domandata ad ogni variazione di prezzo > elasticità ε = −(dQ/dP) × (P/Q) se è maggiore di uno la domanda è elastica, e all’aumentare del prezzo diminuisce più che proporzionalmente la quantità domandata dal consumatore, se l’elasticità è minore di uno la domanda è inelastica ovvero in caso di aumenti di prezzo la domanda diminuisce meno che proporzionalmente ed infine ε=1 sarà unitaria. L’elasticità dipende: a) Dalla durata del periodo a cui si riferisce la domanda: più e lungo più è elastica. b) Dal numero di beni sostituibili a disposizione: maggiori sono i beni sostituibili maggiore sarà l’elasticità. c) Dall’incidenza di un prodotto sul bilancio del consumatore: più incide più sara elastica la domanda. d) Dai possibili usi alternativi cui un bene si presta: più un prodotto è adatto a svariati usi, meno è elastica la sua domanda. La curva di Engel invece misura la variazione della quantità domandata al variare del reddito, per mezzo dell’elasticità della domanda al reddito: ε = −(dQ/dY) × (Y/Q) dove Y e Q sono reddito e quantità iniziali e dQ e dY le variazioni. Alcuni beni hanno elasticità positiva, quindi ad aumenti del reddito aumenta anche la quantità domandata (ragionamento ≤ o ≥ di 1 analogo a sopra), altri invece hanno elasticità negativa, come nel caso dei beni inferiori. pag. 10 13) Teoria di Marris Nell’ambito della teoria della domanda e quindi nell’analisi del comportamento dei consumatori, si inserisce Robin Marris, la cui ipotesi di base è l’assunto secondo il quale i consumatori, superato il livello dei bisogni di sussistenza, sono portatori di un sistema di preferenze tutt’altro che stabile ed indipendente, criticando quindi le basi della teoria neoclassica. Infatti, Marris parte da tre ipotesi di fondo: 1) i bisogni delle persone si trasformano e non sono quindi costanti, 2) le scelte degli individui sono collegati all’esperienza di consumo (in primis la propria), 3) il consumatore è stimolato da messaggi pubblicitari e da giudizi degli altri consumatori. Elemento chiave della teoria marrisiana è quindi l’esperienza, intesa come la precedente esperienza di consumo acquisita dai consumatori. Il meccanismo descritto da Marris prevede una prima distinzione degli individui in due categorie: i pionieri, i quali decidono i propri acquisti senza il ricorso a stimoli di altri consumatori e la cui curva di domanda piuttosto anelastica, e le pecore, che tendono a seguire gli altri consumatori e sono caratterizzate da una curva di domanda elastica al prezzo. L’insieme di pecore e pionieri, ovvero la totalità dei consumatori, è definita da Marris popolazione di mercato. I consumatori “pecore” decidono di acquistare solo dopo l’attivazione ovvero dopo un contatto con altri consumatori i quali fungono da stimolo per l’acquisto del prodotto. Quando un nuovo prodotto viene rilasciato sul mercato gli iniziali compratori sono pochi, ma se tra questi compratori vi è un numero sufficientemente alto di pionieri (numero critico) essi possono stimolare il consumo di tale bene da parte delle pecore tramite un contatto socio-economico. Le pecore, una volta stimolate ed indirizzate al consumo del bene, divengono pecore attivate, ovvero possono a loro volta stimolare altri consumatori. In questo senso assume un ruolo chiave il concetto di criticità ovvero il numero critico di pionieri consumatori tali per cui la domanda passa dalla fase di gestione a quella di esplosione. Il modello di Marris può essere analiticamente così descritto: q"# = Φ& (X" X# )µ"# (funzione di domanda del pioniere) q"# = Φ+ (X" X# )ν"# (funzione di domanda del pioniere) Q # = N& Φ& + N0 Φ+ (funzione di domanda aggregata) con: π23 = assume valore 1 quando il pioniere è attivo π23 = può essere uguale a 1 o a 0 a seconda la pecora sia o meno attivata mentre Np è il numero di pionieri attivi mentre Na il numero di pecore attive. Possiamo poi distinguere 3 fasi: 1) fase di gestazione quando π6 = 0 e quindi π23 = 0. E la domanda complessiva è quindi pari a π3 = π9 Φ9 2) fase di saturazione, quando π6 = π: e quindi π23 = 1 e la domanda complessiva è quindi pari a π3 = π9 Φ9 + π: Φ: . in questa fase tutti i soggetti sono attivi grazie ad un contatto socioeconomico ovvero quando una persona è in grado di stimolare un’altra (ciò avviene quando i due soggetti appartengono alla stessa classe sociale). Esiste poi una fase intermedia detta di esplosione. Marris inoltre distingue la popolazione In gruppi primari in cui ogni membro è in contatto socio economico con ogni altro. Tra i gruppi primari sussistono numerose reazioni a catena, dipendenti dalla struttura del sistema di gruppi e di legami; questa catena è però spesso sbarrata o interrotta, creando una serie di così detti “contatti mancati”. Le interruzioni frazionano la popolazione di mercato in un certo numero di gruppi secondari, caratterizzati dal fatto che solamente alcuni dei loro membri appartengono contemporaneamente a due o più gruppi. In questo senso, il grado di stratificazione di una popolazione indica il minimo numero di gruppi secondari legati al gruppo primario pag. 11 Due osservazioni possono essere fatte sulla teoria marrisiana: 1) Una popolazione di mercato di vaste dimensioni è più facile da saturare di una di piccole dimensioni, poiché il numero di pionieri aumenta molto meno che proporzionalmente all’incremento della popolazione. 2) Marris, nella sua teoria, ignora un’importante componente, ovvero la durata del prodotto, che risulta essenziale per analizzare l’andamento della domanda per sostituzione. 14) Domanda di beni di consumo durevoli Un altro problema del modello neoclassico sul comportamento del consumatore è che questo considera solamente i beni di consumo immediato. Questi sono perfettamente divisibili ed il loro consumo viene ripetuto frequentemente, così da consentire la formazione di un giudizio circa le qualità del prodotto. La teoria marshalliana non è però applicabile ai beni di consumo durevole e ai beni strumentali, il cui acquisto è più saltuario e comporta una spesa rilevante in rapporto al reddito del consumatore. Una prima analisi della domanda di tali beni si può fare partendo principio di accelerazione, che viene sviluppato inizialmente solo per i beni strumentali. Tale principio afferma che la domanda di beni strumentali dipende dalla variazione della domanda finale dei prodotti ottenuti con quel particolare strumento: It = A (Dt − Dt-1) + DSt con: - It: domanda di beni strumentali al tempo t - -D: quantità domandata del prodotto finale (tempo t e t-1) - A: coefficiente che misura la produttività del bene strumentale - DSt: domanda dovuta alla necessita di sostituire il macchinario È possibile applicare questa formula anche ai beni di consumo durevole, sostituendo la variazione della quantità domandata di prodotto finale con la variazione del reddito: (quantità domandata dei beni durevoli) Dt = A (Rt − Rt-1) + DSt L’acquisto di beni durevoli dipende quindi più dalle variazioni di reddito che dall’entità del reddito stesso; se il reddito non varia il consumatore acquisterà un bene durevole solo quando sarà necessario sostituire quello precedente. A (Rt − Rt-1) misura la domanda per incremento del parco, mentre il parametro DSt rappresenta la domanda di sostituzione. l’elasticità della domanda al reddito si è sempre dimostrata superiore rispetto ai beni di consumo immediato: ogni aumento del reddito comporta una variazione più che proporzionale della domanda dei beni di consumo durevole. L’elasticità della domanda al prezzo è invece, in genere, sensibilmente inferiore, perché spesso la domanda di tali beni è influenzata dal prezzo di altri prodotti che concorrono a determinarne il costo di utilizzazione (es: per un’auto il carburante). pag. 12 15) Domanda di beni intermedi e di investimento Per quanto riguarda i beni di produzione intermedi si fa riferimento a due concetti: - Interdipendenza input-output: la domanda di materie prime e semilavorati è funzione non solo della domanda delle imprese industriali che direttamente ne fanno uso nei processi produttivi, ma anche, se pure indirettamente, della domanda di prodotti finali ottenuti con tali beni. - Politica di immagazzinamento: nella maggior parte di casi i beni intermedi possono essere immagazzinati senza gravi pericoli di deterioramento, quindi la loro domanda è influenzata anche dagli stock costituiti presso le imprese utilizzatrici I beni di investimento presentano analogie con i beni di consumo durevoli ed è per questo che anche qui può essere applicato il principio di accelerazione: I = f (ΔY) Due modelli significativi da prendere in considerazione sono il modello del gruppo di studio di ancona e il modello di Sylos Labini. Secondo il primo dei due gli investimenti fissi lordi dipendono (secondo il principio di accelerazione) dal saggio di variazione del valore aggiunti dell’impresa, cioè dalla domanda di beni industriali. Il modello di Sylos Labini è basato invece su un legame del tipo “profitti-investimenti” in cui gli investimenti dipendono dai profitti o, comunque, dai fondi propri disponibili nelle imprese. Labini afferma che saggio il saggio di variazione degli investimenti industriale per le grandi imprese dipende dalla quota di profitto corrente, dal saggio di variazione di questa e dal grado di capacità produttiva inutilizzata, mentre per le piccole-medie imprese gli investimenti sono funzione dei profitti correnti, del loro saggio di variazione e della liquidità totale. pag. 13 16) Economia di scala, scopo e differenze Con il concetto di ECONOMIE DI SCALA si indicano i vantaggi di costo che si ottengono all’aumentare della dimensione della capacità produttiva e della produzione. Un’impresa quindi realizza economie di scala quando il suo costo medio unitario di produzione diminuisce all’aumentare della produttività. Spesso le economie di scala si associano alla presenza di rendimenti di scala crescenti, ma è necessario tenere ben distinti i due concetti, poiché il primo è relativo alla dimensione della produzione, mentre il secondo si riferisce alla relazione esistente tra la quantità di input e di output. Un ulteriore distinzione va fatta tra economie di scala e di saturazione, quest’ultime sono dovete al fatto che, dato un certo impianto, il costo medio unitario diminuisce all’aumentare della quantità prodotta. Le Economie di scala invece indicano che una maggiore dimensione dell’impianto consente un uso più efficiente delle risorse coinvolte nel processo produttivo. Tra le cause delle economie di scala, oltre a rendimenti di scala crescenti, si deve anche citare la divisione del lavoro individuata da Smith (ovvero l’aumento di produttività legato alla specializzazione del lavoro nel caso di alti volumi di produzione). Inoltre, per quanto riguarda le economie di scala, è bene distinguere quelle legate al prodotto, all’impianto e all’impresa. Le economie a livello di prodotto incorrono nel momento in cui con la produzione di componenti uguali e di stesse operazioni meccaniche è possibile realizzare più di un prodotto, tramite layout diversi. Le economie al livello di impianto derivano dall’aumento delle dimensioni delle singole unità produttive, dovute al fatto che il volume prodotto cresce in modo più veloce dei costi di investimento necessari alla creazione dell’unità produttiva. Similmente al caso delle economie di impianto, alcuni vantaggi possono verificarsi nel caso della gestione di numerosi stabilimenti, e in questo caso si parlerà di economie di impresa, come per esempio nel caso in cui la gestione di più impianti decentrati risulti meno costosa di un’unica gestione accentrata, oppure nel caso di vantaggi su ordinazioni/approvvigionamenti centralizzati rispetto a tante operazioni di volume inferiore (- costi di transazione, + sconti, + potere contrattuale). Inoltre, le imprese di grandi dimensioni ottengono grandi vantaggi nell’approvvigionamento di fonti finanziarie poiché ritenute più solide e meno rischiose. Con il concetto di ECONOMIE DI SCOPO, o economie di gamma/ampiezza, ci si riferisce a quei casi in cui la produzione congiunta di due prodotti è più conveniente rispetto alla produzione separata dei due, quindi quando si presenta il fenomeno di sub-additività dei costi, definito come: πΆ(π> , π@ ) < πΆ(π> , 0) + πΆ(0, π@ ) Le economie di scopo possono avere diverse determinanti, le principali sono: 1) Condivisione di fattori e componenti del sistema produttivo (impianti, attrezzature, linee di produzione) 2) Condivisione di attività materiali della struttura commerciale (canali di distribuzione, reti, approvvigionamento) 3) Condivisione di risorse immateriali dell’impresa (Immagine, reputazione, know-how etc.) La DIFFERENZA tra economie di scala e di scopo risulta quindi evidente, mentre le prime sono strettamente legate ai volumi e alle quantità di produzione di un’impresa, le seconde sono connesse alla produzione congiunta di più beni differenti, senza che entri in gioco i fattori quantità di output e produttività degli impianti. Inoltre, mentre le economie di scala rappresentano in molti casi il presupposto dei processi di concentrazione, le economie di scopo si accompagnano spesso a casi di integrazione verticale e di diversificazione. *diseconomia di scala: oltre una certa scala, il costo del fattore organizzativo e imprenditoriale tende a crescere più che proporzionalmente o la sua efficacia può diminuire. Altro problema potrebbe derivare dall’eccessivo aumento dei mercati serviti con conseguenti aumenti di costi logistici e problemi di coordinazione. pag. 14 17) Concentrazione di Mercato La concentrazione determina la struttura di un’industria e di conseguenza secondo il paradigma sc-p la struttura dell’industria determina la performance. Secondo la definizione di Bain della concentrazione, un’industria è concentrata nel momento in cui il numero n di imprese in essa operanti è piccolo, mentre a parità di imprese operanti la concentrazione cresce al diminuire delle imprese che detengono la maggioranza del potere di mercato (o di un altro aggregato a cui si faccia riferimento). Quindi, all’aumentare della variabilità delle dimensioni delle imprese nell’industria, anche la concentrazione tenderà ad aumentare e viceversa. Al fine di poter misurare la concentrazione orizzontale (ovvero quella di un’industria), sono stati sviluppati una serie di indici, tenendo conto del fatto che un indice della concentrazione risulterà efficace quando sarà facile da calcolare ed interpretare, sarà indipendente dalla dimensione dell’aggregato di base e quando il suo valore varierà tra 0 ed 1. I principali problemi relativi alla formazione di un indice efficiente riguardano la scelta della variabile indicativa della dimensione dell’impresa (vendite o output), la definizione dell’aggregato di riferimento e la scelta dei metodi di misurazione più efficaci. Riguardo a questo ultimo aspetto si distinguono due tipologie di indici, quelli assoluti e quelli relativi (o di diseguaglianza). I primi sono legati sia al numero di imprese presenti nell’industria sia alle rispettive quote di mercato, i secondi invece misurano solamente la dispersione delle quote di mercato. Graficamente la concentrazione può essere rappresentata da una curva sempre concave verso il basso, aventi sull’asse delle ordinate la percentuale cumulata dell’output e sull’asse delle ascisse il numero delle imprese cumulate a partire dalla più grande), qui si inseriscono due studiosi Hannah e Key che propongono dei criteri di lettura di tali curve: a) Una industria è più concentrata se la sua curva di concentrazione giace interamente al di sopra della curva dell’altra. b) Il trasferimento delle vendite da una piccola ad una grande impresa causa un aumento della concentrazione. c) L’entrata di una nuova impresa di piccole dimensioni causa una diminuzione della concentrazione, ma l’entrata di una grande impresa può tradursi in un aumento della concentrazione. d) Una fusione porta ad un aumento della concentrazione (assimilabile ad un trasferimento delle vendite). pag. 15 18) Indice HH Tra gli indici di concentrazione assoluta si distingue in particolare l’indice di Hirschman-Herfindahl, che rispetta tutte le condizioni di Hannah e Kay, ed è calcolato come: E π@ + 1 π»π» = C π 2@ = π 2F> dove dato un output dell’industria pari a π = ∑E2F> π₯2 , π 2 indica la quota di mercato dell’impresa i-esima, calcolata come: π₯> π 2 = π e dove c, il coefficiente di variazione della dimensione, è calcolato come: π π= π₯Μ intendendo con π₯Μ la dimensione dell’impresa i-esima e con π @ la varianza della dimensione rispetto alla media. Questo indice attribuisce un peso maggiore alle imprese detenenti una quota di mercato maggiore (poiché ne quadra le quote di mercato); conseguentemente il suo valore non risente particolarmente della presenza di imprese di piccole dimensioni. Inoltre, tramite la seconda O P Q> definizione algebrica dell’indice (π»π» = E ), è evidente come esso dipenda sia dalla dimensione delle quote di mercato che dal numero di imprese operanti nell’industria. Nel caso di monopolio esso assumerà valore massimo pari a 1, in quanto c=0 e n=1, mentre in caso di molte imprese di pari dimensioni esso assumerà valore pari a 1/n, tendendo a 0 al tendere di n all’infinito (concorrenza perfetta) (1/n<HH<1). Tale valore è di fondamentale importanza per le autorità anti trust in sede di approvazione delle fusioni. HH<1800 ammesse le fusioni, 1800<HH<2500 ulteriori valutazioni prima di ammettere la fusione, HH>2500 è ammessa solo se βHH<50. pag. 16 19) Relazione Indice HH-Lerner Il paradigma structure-conduct-performance può essere rappresentato sotto il profilo delle relazioni teoriche assumendo, semplificatamene, che le performance di un settore siano date dal suo tasso di profitto π. Analiticamente, il tasso di profitto dipende da tre fattori: l’elasticità della domanda π, i comportamenti collusivi delle imprese e la concentrazione dell’offerta, descritta O PQ> dall’indice π»π» = ∑E2F> π 2@ = E . In questo ambito, si definisca potere di mercato il rapporto fra il margine di profitto, ovvero la differenza tra prezzo e costo marginale, e il prezzo. Tale rapporto prende il nome di indice di 9VWX Lerner, definito quindi come: πΏ = 9 Per l’insieme delle imprese che costituisce l’offerta, esso diviene la media dei margini di profitto 9VWX delle imprese del settore ponderata per le loro quote di mercato: πΏ = ∑E>F> π 2 9 Y Nel caso in cui la funzione dei costi risulti identica per tutte le imprese del settore, esso diviene equivalente alla formula generica dell’indice di Lerner che, per l’industria nel suo complesso, 9VWX > risulta uguale all’inverso dell’elasticità: πΏ = 9 = Z Ora, dato che il margine di profitto delle singole imprese dipende non solo dalla differenza tra il prezzo di mercato e il costo di produzione, ma anche dalla quota di mercato detenuta: π2 = ππ2 − π2 π2 Si possono immaginare due situazioni tipiche: 1) le imprese non tengono in considerazione le reazioni delle imprese rivali. Questa ipotesi è verosimile in tre circostanze, cioè se il mercato si trova in un equilibrio di Nash, se il mercato si trova in un equilibrio di Cournot o se le imprese sono tra loro legate in un cartello (non vi è incertezza circa il comportamento dei concorrenti). In questa ipotesi, allora, l’indicatore del potere di mercato L, per l’impresa, diviene uguale al 9VWX ]] rapporto fra l’indice di concentrazione HH e l’elasticità della domanda: πΏ = 9 = Z Ciò significa che l’indice HH di un settore, diviso per il valore assoluto dell’elasticità della domanda, esprime il valore tendenziale della media ponderata dei margini di profitto delle imprese. 2) le imprese sono consapevoli del fatto che le loro azioni possono provocare una variazione della condotta delle altre imprese. 9VWX >Q^ Allora l’indicatore del potere di mercato diviene: πΏ = 9 = EZ dove n costituisce il numero delle imprese operanti sul mercato e π è la congettura che l’impresa iesima formula sulla reazione che la sua variazione di quantità provocherà sulla quantità offerta dalle altre imprese. *In entrambi i casi, la variabile della concentrazione risulta avere un peso rilevante nella determinazione della performance tendenziale di un’industria, sia che essa sia rappresentata dall’indice HH che semplicemente dal numero n delle imprese presenti. Numerose ricerche empiriche hanno infatti mostrato una significativa correlazione positiva fra concentrazione e margini di profitto, come predetto dai modelli teorici. Nello specifico, i dati suggeriscono che tale correlazione invece non sussista se il valore HH risulta inferiore a 0,25 o la quota di mercato delle prime quattro imprese risulta inferiore all’80%. pag. 17 20) Definizione e determinanti delle barriere all’entrata La definizione di barriere all’entrata è sempre stata in argomento controverso che ha generato numerose definizioni, Bain lega le tali barriere alla capacità delle imprese già presenti nel mercato (incumbent) di alzare il prezzo di vendita ad un livello superiore al costo medio minimo di produzione e distribuzione del prodotto/servizio senza indurre l’entrata di potenziali concorrenti. In questo senso, le barriere all’entrata si configurano come uno dei principali elementi di definizione della struttura di mercato nel paradigma structure-conduct-performance. Demsetz invece identifica le barriere all’entrata con le restrizioni governative della libertà d’entrata (vincoli di natura istituzionale), Mentre Stigler le definisce come un costo di produzione che deve essere sostenuto da un’impresa che cerca di entrare in un’industria che ma che non viene sostenuto dalle imprese già presenti. Bain poi descrive tre principali determinanti delle barriere all’entrata, ovvero le economie di scala, i vantaggi assoluti di costo e la differenziazione del prodotto. 1) Le economie di scala possono rappresentare un impedimento all’ingresso nel mercato nel momento in cui la dimensione ottima minima risulti elevata, obbligando un’impresa nuova entrante ad avviare la produzione su alti volumi pur di essere efficiente. Due ulteriori fattori influenzano l’entrata, cioè l’inclinazione della curva dei costi di produzione ed il tasso di espansione della domanda. Infatti, se tale curva è molto inclinata e la domanda è stagnante, l’entrata con dimensioni non ottimali sarà estremamente difficile. 2) I vantaggi assoluti di costo sono invece legati alla presenza, per il potenziale entrante, di costi di produzione unitari superiori a quelli delle incumbent, qualsiasi sia la scala produttiva adottata. (Curva dei costi medi di lungo periodo che giace al di sopra di quella delle imprese già attive nel mercato) come accordi con fornitori/distributori più favorevoli, tecniche di produzione più efficienti ovvero economie di apprendimento, etc. 3) La differenziazione del prodotto si configura come una barriera all’entrata nel caso in cui i consumatori manifestino una preferenza per i prodotti già presenti nel mercato, obbligando i nuovi entranti ad applicare prezzi inferiori ed investire in marketing per far si che il nuovo prodotto prenda piede nel mercato. (solitamente quest’ultimo tipo di barriera all’entrata è il più rilevante). pag. 18 21) Strategia di Deterrenza Le strategie applicate dalle imprese incumbent possono scoraggiare o favorire l’uscita di potenziali rivali. Si individuano a tale proposito le strategie che fanno leva sul prezzo, come quelle dei prezzi predatori oppure quelle non di prezzo che includono l’espansione della capacità produttiva, la proliferazione dei prodotti e i contratti di lungo periodo. Quando gli incumbent pongono in essere strategie di deterrenza all’entrata in si dice che l’entrata è impedita, se invece tali strategie rendono poco profittevole l’entrata si dice che l’entrata è bloccata. L’entrata è accomodante quando è profittevole e le imprese incumbent non applicano strategie aggressive, cioè non ne ostacolano l’ingresso. Un’ impresa può adottare una politica di prezzi predatori quando in una prima fase riduce il proprio prezzo molto basso cosi da scoraggiare l’entrata a nuove imprese e spingere le imprese già presenti fuori dal mercato, per poi rialzarlo appena raggiunto l’obbiettivo. Dati i prezzi e investimenti le imprese possono seguire 4 strategie (2 deterrenti e 2 accomodanti). L’impresa può mantenere i profitti al livello più alto possibile ma non curandosi dei nuovi entranti (fat cow), può al contrario contenere i profitti a livelli bassi e limitare il più possibile le nuove imprese (lean and angry), può investire in capacità produttiva o nella differenziazione del prodotto (top dog), o infine contenere gli investimenti e massimizzare il cash-flow e apparire o potenzialmente aggressiva o accomodante. 22) Barriere all’entrata in un contesto dinamico In un contesto dinamico è necessario: - Rimuovere l’ipotesi dell’invarianza della domanda, definendo g il tasso medio annuale della crescita attesa della domanda di mercato. - Introdurre il concetto di tempo di reazione, R, che corrisponde al tempo impiegato da un nuovo concorrente per allestire una capacità produttiva. A questo punto, si può formulare l’equazione: (1 + g)R = (qi + qe)/qi à crescita della domanda = crescita dell’offerta, da cui R qe = qi [(1 + g) – 1] Ponendosi ora nella prospettiva dell’impresa incombente, le alternative possono essere: a) Fat cat: mantenere i profitti al più alto livello possibile non curandosi dell’entrata. b) Lean ad angry: contenere i profitti applicando un prezzo più basso del prezzo limite, ritardando in questo modo l’entrata di nuovi concorrenti il più possibile. E indipendentemente da a) e b): c) Top dog: investire in capacità produttiva o nella differenziazione del prodotto per ritardare il più possibile la condizione d’entrata. d) Puppy dog: contenere gli investimenti per massimizzare il profitto e quindi presentarsi alternativamente come aggressivo o accomodante nei confronti dei nuovi entranti. Puppy dog è la più accomodante. Le strategie Lean ad angry e Fat cat cercano di ritardare l’entrata attuando, rispettivamente, una strategia di prezzi bassi e elevati investimenti in differenziazione e capacità produttiva. Top dog, attuando entrambe queste ultime due strategie, si presenta come la strategia più ostile all’entrata di nuovi concorrenti. pag. 19 23) Modello di Akerlof Il modello di Akerlof mette in risalto l’importanza della qualità dell’informazione, nel determinare in situazioni di incertezza non solo le scelte dei consumatori, ma anche il funzionamento dei meccanismi del mercato. Questo modello mostra gli effetti negativi derivanti da asimmetrie informative precontrattuali tra venditore e acquirente, e se l’acquirente, per superare l’incertezza delle informazioni, si affidasse a valutazioni statistiche, i venditori sarebbero incentivati ad offrire agli acquirenti prodotti di bassa qualità. Questo perché il beneficio connesso alla vendita di un prodotto di buona qualità avvantaggia tutto il gruppo di venditori più di quanto avvantaggia il singolo venditore, con effetto di una progressiva riduzione generale della qualità dei prodotti offerti, Akerlof peri dimostrare tale tesi esamina il mercato delle macchine usate. Infine, egli individua diversi rimedi utili a mitigare tale effetto di incertezza, ovvero la garanzia e la reputazione del brand. 24) modello Dorfman-Steiner Nel modello Dorfman-Steiner le variabili strategiche che definiscono le politiche di marketing di un’impresa sono il prezzo, la pubblicità e la qualità, Il modello parte infatti da [Q = f(p,s,z), prezzo, pubblicità, qualità ] e afferma che, in un’impresa monopolistica, il livello ottimale della spesa pubblicitaria, dato dal rapporto tra spesa pubblicitaria e fatturato, risulta essere uguale al rapporto tra l’elasticità della domanda alla spesa pubblicitaria e l’elasticità della domanda al prezzo. L’intensità della pubblicità è maggiore quanto maggiore è l’elasticità della domanda alla pubblicità e quanto minore è l’elasticità della domanda al prezzo. Il risultato puo essere anche generalizzato anche per le imprese oligopolistiche dove la funzione di domanda è Q=f(s,¯s). Ciascun consumatore nel prendere decisioni investe nell’acquisizione di diverse tipologie di informazioni. La spesa pubblicitaria è in potenziale fattore di differenziazione dei prodotti, essa infatti contribuisce a definire un set di informazioni dei prodotti. pag. 20 25) INNOVAZIONE La definizione dell’Oslo Manual: il requisito minimo affinché si possa parlare di innovazione è che il prodotto, processo, metodo organizzativo o di marketing sia nuovo o significativamente migliorato, con riguardo all’impresa in questione. Ciò significa che non è necessario che prodotto, processo, o metodo siano sviluppati all’interno dell’impresa. Quattro categorie fondamentali: 1) Innovazione di prodotto 2) Innovazione di processo. 3)Innovazione organizzativa 4) Innovazione di marketing Le innovazioni si possono anche classificare in incrementali e radicali Questa distinzione a due valenze diverse, relativamente alla dimensione interna e esterna all’impresa: Internamente, si parla di innovazioni incrementali se poggiano su un sistema preesistente di risorse e competenze (competence enhancing); si parla di innovazioni radicali se richiedono una riconfigurazione di tutto il bagaglio di conoscenze (competence destroying). Esternamente, la differenza riguarda l’avanzamento tecnologica rispetto al prodotto o processo precedente, se è modesto avremo innovazione incrementale, se, invece, è in grado di rendere obsolete le versioni precedenti del prodotto è innovazione radicale. In generale un’innovazione incrementale avvantaggia le imprese preesistenti ma le rende vulnerabili nei confronti di possibili innovazioni radicali, le quali non necessariamente dimostrano fin da subito superiorità, ma presentano sicuramente un potenziale di miglioramento molto più elevato. Henderson e Clark introducono un nuovo tipo di classificazione, che ruotano attorno a due concetti: le conoscenze alla base dei componenti e quelle alla base dei legami tra i componenti, definite conoscenze architetturali. - Innovazioni incrementali: scarso impatto sia sulle conoscenze che su quelle architetturali. - Innovazioni modulari: cambiamenti significativi delle conoscenze, mantenendo inalterate quelle architetturali. - Innovazioni architetturali: cambiano solo le conoscenze architetturali. - Innovazioni radicali: nuovo set di conoscenze, sia alla base dei componenti sia architetturali. In generale, per un’impresa, sono molti i vantaggi associati alla capacità di innovare: la reputazione, le economie di apprendimento, l’opportunità di definire caratteristiche di utilizzo del prodotto universalmente riconosciute, tutte caratteristiche che rendono meno efficaci le strategie imitative dei concorrenti. Tuttavia, il processo di innovazione è lungo e dispendioso; presenta, quindi, un alto tasso di rischio, sia nella costosa fase di ricerca e sviluppo (dall’esito comunque incerto), sia nel momento della diffusione della tecnologia, a causa della possibilità di imitare a basso costo da parte dei concorrenti (a questo problema fanno fronte brevetti e licenze d’uso). pag. 21 26) modello di Arrow L’obbiettivo è quello di definire quale contesto competitivo offra maggiori incentivi all’innovazione. Arrow individua nella concorrenza perfetta la forma di mercato con maggiori incentivi, perché se un’impresa opera in un contesto competitivo avrà un incentivo maggiore ad introdurre un’innovazione di processo che consenta una riduzione dei costi: l’impresa in concorrenza beneficerà di questa riduzione su una quantità di prodotto maggiore rispetto ad un’impresa monopolistica. Demsetz critica la conclusione di Arrow affermando che la differenza tra concorrenza e monopolio scompare se si assumono imprese con dimensioni uguali cioè che le imprese in concorrenza perfetta producono lo stesso output del monopolista Infine, Nella tesi di Shumpeter (che sintetizza la contrapposizione tra concorrenza e monopolio), invece, prevale l’argomentazione che la grande dimensione di un’impresa offre di per sé incentivi maggiori all’innovazione, per ragioni che riguardano la quantità di risorse da destinare all’attività di ricerca. L’analisi si Shumpeter non porta al classico trade off concorrenza/monopolio, ma implica piuttosto una visione dinamica che lascia spazio nel breve periodo a forme di potere monopolistico. Inoltre, afferma che l’effetto benefico della concorrenza non deriva dalla concorrenza di imprese esistenti ma, piuttosto, dalla concorrenza potenziale di nuovi prodotti o processi, che possono distruggere la posizione acquisita dal monopolista. pag. 22 27) Modello di Hotelling Con il termine differenziazione orizzontale si indica il caso in cui i prodotti, pur essendo perfetti sostituti si differenziano per l’elemento spaziale ovvero la localizzazione geografica delle imprese offerenti. Hotelling ipotizza per semplicità due venditori di gelato che competono su una spiaggia e che vendono prodotti omogenei e hanno identiche funzioni di costo e ciascun consumatore preferirà (a parità di prezzo) il venditore più vicino in quanto per lui spostarsi ha un costo (t). Le due gelaterie possono competere su due elementi: localizzazione (l) o prezzo (p) Data una distribuzione omogenea dei clienti sulla spiaggia e se le imprese competono solo sulla localizzazione mentre il prezzo è fisso le imprese partendo dagli estremi tenderanno sempre di più a spostarsi verso il centro cosi da rubare quota di mercato al competitor fino a quando le due si localizzano al centro della spiaggia ottenendo cosi una differenziazione pari a zero e una domanda pari a d/2. Invece nell’ipotesi in cui la localizzazione è fissa e le imprese si situano ai due estremi (differenziazione massima) le imprese competono sull’prezzo che alla fine il p1=p2>costo marginale. Nel grafico proposto possiamo vedere che il soggetto posizionato al centro x è indifferente nell’acquistare da A o da B il gelato in quanto in A sosterrà c=p1+tx mentre in B c=p1+t(1-x). pag. 23 28) La diversificazione Con il termine diversificazione si intende un processo per cui un’impresa caratterizzata da un particolare tipo di attività produttiva avvia attività economiche diverse da quelle tradizionali, pur mantenendo la propria presenza nell’ambito originale. Lo strumento di tale processo può essere costituito dal puro sviluppo interno di nuove attività, da acquisizioni, oppure da fusioni. Il processo può essere orizzontale, se riguarda mercati contigui al mercato originario, verticale, se riguarda attività a valle o a monte nella filiera produttiva, conglomerale, se riguarda attività non connesse fra loro. Le cause che spiegano la diversificazione sono distinguibili in 4 categorie: 1. Vantaggi nei costi di produzione 2. Vantaggi nei prezzi di vendita 3. Strategie di sviluppo dell’impresa 4. Aspetti finanziari Possono presentarsi anche congiuntamente. pag. 24 29) L’integrazione Verticale L’integrazione verticale può essere definita secondo due diverse prospettive, quella del paradigma structure-conduct-performance e quella tipicamente strategica. Secondo la prima delle due, l’integrazione verticale fa parte della struttura industriale e definisce la misura in cui un’impresa svolge al suo interno fasi successive della produzione e della distribuzione di un prodotto/servizio. Secondo la prospettiva strategica invece, l’integrazione verticale costituisce una strategia attraverso la quale l’impresa decide di muoversi a monte o a valle della filiera produttiva, obiettivo che può essere raggiunto sia tramite acquisizione/fusione che attraverso la creazione di nuove attività. In entrambi i casi, l’integrazione verticale può essere intesa come un caso particolare di diversificazione. Tenendo a mente la definizione di filiera produttiva, si può parlare di integrazione a valle o a monte e inoltre può essere interpretata in senso quantitativo. A riguardo, Adelman ha sviluppato un indice per misurare l’integrazione verticale, definito come il rapporto tra la sommatoria del valore aggiunto e la sommatoria delle vendite: πΆπ£π = ∑d Yef bc ∑d Yef g Quanto più un’impresa è integrata, tanto più alto è il valore di tale indice, che varia tra 0 ed 1. Si individuano tre determinanti dell’integrazione: a) Fattori tecnologici, nel caso in cui processi corrispondenti a diverse fasi della filiera siano interdipendenti, cioè che i costi dello svolgerli in continuo risultino inferiori allo svolgerli separatamente, oppure sussistano delle complementarietà tecnologiche. b) Economie di transazione, intese come la riduzione dei costi di transazione ottenuta attraverso l’integrazione di più fasi. Basandosi sulla la teoria di Williamson infatti, i costi di transazione possono esprimersi in diversi modi, come l’incertezza di tempistiche/qualità, la compressione informativa nello stipulare contratti e il coordinamento estensivo. Secondo Coase l’impresa integrerà fino al punto in cui la riduzione dei costi di transazione non eguaglierà l’incremento di costo dovuto a una maggiore difficoltà dell’organizzazione interna. c) Imperfezioni dei mercati, ovvero tutte quelle situazioni a causa delle quali alcuni beni vengono venduti a prezzi non competitivi o non vengono prodotti affatto. In questi casi, la minaccia di sostituirsi al fornitore o al distributore può costituire un ottimo mezzo per costringerli ad offrire condizioni migliori. Inoltre, secondo una prospettiva più dinamica, si possono elencare due ulteriori possibili determinanti dell’integrazione verticale: d) Incentivi monopolistici, andando anche a costituire una barriera all’entrata per i potenziali nuovi entranti. e) Fase del ciclo di vita del settore. Infatti, in base alla fase di suddetto ciclo e al tasso di crescita corrispondente, sarà più o meno conveniente internalizzare le fasi della filiera produttiva. Ad esempio, nella prima fase del ciclo di vita, sarà conveniente svolgere internamente tutte le fasi, data la difficoltà nel reperire fornitori e distributori. Nella seconda fase, all’espandersi dell’industria, esternalizzare sarà la scelta migliore, per poi re-integrare nella fase di maturità, quando la domanda tende a calare e il settore a ridurre le proprie dimensioni. (teoria di Stigler) • Un ulteriore determinante dell’integrazione verticale è l’utilizzo dei fattori produttivi in maniera efficiente, cioè la possibilità di sfruttare quei fattori produttivi inattivi. Georgescu-Roegen analizza il processo produttivo e in particolare il cambiamento di esso dopo l’integrazione. pag. 25 30) Williamson: i costi di transazione Williamson, riprendendo l’analisi di Coase sui costi di transazione, considerò in dettaglio i fattori che li influenzano e contribuiscono quindi a spiegare l’integrazione verticale. L’ipotesi da cui parte è che gli attori economici agiscano in condizioni di razionalità limitata e opportunisticamente, combinatamente all’incertezza che tipicamente caratterizza i mercati. Le conclusioni di Williamson sono che l’organizzazione interna consente di economizzare sui costi connessi alla razionalità limitata in tutti quei casi in cui le informazioni non siano sufficienti e l’incertezza diventi quindi sostanziale. Nello stesso modo l’organizzazione interna riduce anche quei costi determinati dall’opportunismo dei contraenti e dal fatto che via via che un contratto viene rinnovato diminuiscono le parti che vi sono coinvolte. Nello specifico, Williamson descrive le condizioni che inducono all’integrazione verticale attraverso quattro fattispecie: 1) SPECIFICITA’ DEI BENI CAPITALI. Un bene capitale specifico è quello che viene realizzato su misura per uno o alcuni acquirenti, determinando quindi la condizione per cui il fornitore dipende interamente da esso/i, rischiando di uscire dal mercato nel caso di contrasti con gli acquirenti o del fallimento degli stessi. La specificità di un bene deve essere valutata anche alla luce della frequenza delle transazioni; l’integrazione verticale conveniente nel caso di transazioni ricorrenti. 2) INCERTEZZA. Il mercato è contraddistinto da i fattori di rischio e incertezza che possono riguardare ritardi, interruzioni o il mancato rispetto dei termini del contratto e degli standard qualitativi. In questi casi l’integrazione con i propri fornitori permette di mantenere livelli adeguati di scorte ed annullare una serie di rischi. Specularmente è possibile integrare a valle, per diminuire rischi ed incertezze collegati alla distribuzione. 3) COMPRESSIONE INFORMATIVA. Stipulare un contratto che dia all’impresa fornitrice gli incentivi necessari a raccogliere le adeguate informazioni può non essere facile per un’impresa. Tali problematiche possono essere risolte dall’integrazione verticale. 4) COORDINAMENTO ESTENSIVO. L’integrazione verticale facilita un ampio coordinamento, come ad esempio accade per le industrie dotate di reti (compagnie aeree, ferroviarie etc.). Per concludere, è interessante notare come la teoria di Williamson si discosti notevolmente dal paradigma structure-conduct-performance, studiando l’organizzazione interna dell’impresa e descrivendo l’ambiente in cui essa opera non in termini di struttura di mercato, ma in termini di costi di transazione. pag. 26 31) La concorrenza dinamica: modello di Steindl Il modello di Steindl si propone di spiegare come si formino i margini di profitto di un’industria nel lungo periodo, considerando cioè un contesto dinamico piuttosto che uno statico, dove l’innovazione tecnologica e la riduzione dei costi sotto forma di economia di scala e curve di apprendimento costituiscono un aspetto fondamentale dello sviluppo. Ipotesi: 1) La struttura dell’offerta è costituita da un rilevante numero di piccole imprese e da un certo numero di imprese più grandi in grado di beneficiare di economie di scala. La concorrenza è forte anche perché il capitale necessario alle piccole imprese risulta modesto. 2) L’incremento di capitale di ciascuna impresa, dato dall’accumulazione dei profitti ottenuti, rappresenta uno stimolo al reinvestimento nel proprio settore. 3) Le imprese in grado di reinvestire il profitto positivo ottenuto lo fanno esclusivamente nella propria industria. 4) La domanda di mercato ha un valore costante e predefinito. In questa situazione le imprese più grandi otterranno margini di profitto maggiori e tenderanno quindi all’espansione, mentre le più piccole tenderanno ad uno stato stazionario. Il confronto tra il tasso di crescita delle imprese più grandi e quello di crescita della domanda è determinante per la struttura del settore. Nel caso in cui il primo sia maggiore del secondo la quota di mercato delle imprese di minori dimensioni diminuira, portando quindi ad un progressivo processo di concentrazione dell’industria. Tale processo di concentrazione proseguirà fintanto che l’erosione dei margini di profitto, determinando una diminuzione dei reinvestimenti di capitale, riequilibrerà il tasso di crescita delle maggiori imprese con quello della domanda di mercato. Seguendo questa esposizione Steindl evidenziava il punto debole della teoria marxista, dimostrando che la crescita della produttività si traduce in una maggiore concentrazione ed in minori costi, ma anche in una diminuzione dei prezzi reali (sforzi di vendita) che determina una rivalutazione dei salari reali, e quindi una spinta all’ulteriore crescita della domanda. Ciò descrive precisamente il meccanismo di sviluppo dell’economia capitalistica. *Analiticamente: Definendo il moltiplicatore del capitale proprio (g) come il rapporto tra il capitale investito (I) e il capitale proprio (E) si ha: πΌ = πΈπ Definendo il rapporto tra capitale investito (I) e la produzione ottenuta con la piena utilizzazione della capacità m produttiva (S*) come intensità di capitale (k), ne deriva che: π ∗ = n Definendo l’utilizzazione della capacità produttiva (u) come il rapporto tra le vendite effettive (S) e la capacità produttiva (S*) si ha: π = π ∗ π’ > E quindi, combinando le equazioni: π = π’ ππΈ n Ma una variazione delle vendite dovrà chiaramente essere uguale alla somma algebrica dei saggi di variazione delle variabili che compaiono nella seconda metà dell’equazione βπ = βπ’ + βπ + π − βπ Dove βπΈ = π Limitandoci a considerare le imprese maggiori. Dato che la crescita domanda (D) è considerata esogena e che la domanda deve essere uguale alle vendite si ha: βπ· = βπ E quindi: βπ· = βπ’ + βπ + π − βπ pag. 27 32) principi del mercato di concorrenza perfetta Il modello della concorrenza perfetta si basa su cinque ipotesi principali: 1. Struttura del mercato atomistica: imprese sono numerosissime e ciascuna ricopre una quota di mercato così piccola che la sua condotta non ha alcun impatto significativo sulle altre e sul mercato. 2. Omogeneità del prodotto: prodotti offerti sono perfetti sostituti e quindi ciascun consumatore è indifferente ad acquistare da una impresa piuttosto che da un’altra, a parità di prezzo. 3. Informazione perfetta: conoscenza perfetta circa prezzi, qualità e caratteristiche tecnologiche del prodotto. 4. Libertà di accesso e di uscita dal mercato e completa mobilità dei fattori di produzione: le imprese possono entrare e uscire senza incorrere in costi rilevanti; i fattori produttivi possono spostarsi senza costo da un mercato ad un altro e le materie prime e le altre risorse di produzione non sono controllate da pochi operatori. 5. Price taking: ciascuna impresa considera come dato il prezzo di mercato, dato che fissando un prezzo maggiore a quello applicato dalle altre perde l’intera quota di mercato. Se invece fissa un prezzo inferiore, acquista l’intera domanda di mercato a fronte di una capacità produttiva considerata costante nel periodo di mercato. L’impresa quindi individua il livello di produzione ottimale considerando una curva di domanda individuale perfettamente orizzontale. Lungo questa curva, il prezzo eguaglia il costo marginale (p = MR). Considerato che l’impresa sceglie il suo livello di produzione ottimale nel punto in cui MR=MC, si deriva la regola ottimale sulla base della quale in concorrenza il prezzo eguaglia il costo marginale. Tali ipotesi richiedono a loro volta alcune condizioni corollario, le più importanti delle quali sono: • Perfetta divisibilità della produzione: condizione legata alla tecnologia di produzione, ed implica che la singola impresa possa produrre e il singolo consumatore possa acquistare una singola unità o una frazione sufficientemente piccola di produzione. • Assenza di esternalità: garantisce che ogni impresa sostenga tutti i costi associati alla sua attività di produzione e non abbia la possibilità di passare parte di essi su altri operatori del mercato. • Perfetta trasparenza del mercato: implica che le imprese e consumatori non sostengano costi particolari per operare nel mercato ed acquisire su di esso le informazioni rilevanti. 33) mercati contendibili Difficile riscontrare nel mercato la maggioranza delle ipotesi su cui si basa il modello di concorrenza perfetta. Pensando ad esempio a settori produttivi caratterizzati da economie di scala e limitate quantità di output domandate: tali ipotesi sono compatibili di una o poche imprese che possano efficientemente operare nel mercato. Tuttavia, il meccanismo dell’entrata e dell’uscita è determinante nel garantire che la concorrenza funzioni e produca i risultati analizzati. Il meccanismo funziona in assenza di costi di ingresso o di uscita (sunk cost) e nell’ipotesi che tutti gli operatori possano avere libero ed agevole accesso al mercato delle materie prima: in questo caso si parla di mercati perfettamente contendibili (Baumol, Panzar e Willig). In un mercato così descritto l’equilibrio di concorrenza perfetta è sostenibile se nessun potenziale entrante ha la possibilità di ottenere dei profitti. Se il mercato presenta opportunità di profitto, un potenziale concorrente potrebbe entrare e realizzare un guadagna prima che i prezzi cambino, e quindi uscire senza costo se le prospettive future non sembrano favorevoli: in questo caso il mercato è vulnerabile ad una concorrenza del tipo hit and run. pag. 28 34) Politiche di Prezzo Le politiche di prezzo rappresentano una delle variabili comportamentali delle imprese che si riflettono poi nella performance delle imprese stesse. È necessario che l’impresa sia “price maker” e non “price taker”, i beni ai quali si applicano dovranno essere non commodities, cioè merci non differenziate, ma products o customs, cioè prodotti per i quali la differenziazione ha un ruolo rilevante. Anche nel caso di beni differenziati, solo alcune imprese si configureranno come pricemaker e dovranno quindi porsi il problema di come formare il prezzo. Il problema della formazione dei prezzi va scomposto in due profili, ovvero le tecniche/criteri di formazione e le strategie/finalità perseguite con tale formazione. METODI: Il metodo più comunemente utilizzato è quello del full cost pricing, il quale consiste nel rilevare i costi di producione direttamente imputabili al prodotto ed aggiungervi un mark-up che consenta un margine di profitto “normale”. Esistono diversi modi di applicare il full cost pricing: 1) Gross Margin: consiste nell’applicare il mark-up al solo costo di produzione. 2) Roi Pricing: consiste nel fissare il mark-up ad un livello tale da soddisfare un dato rendimento sul capitale investito fissato come obiettivo. 3) Flexible Mark-up: consiste nel fissare solo un’indicazione per il mark-up da applicare, che verrà poi fissato nello specifico in base alle condizioni. 4) Direct Costing: ci si limita a calcolare il costo diretto della produzione, lasciando alla funzione marketing il compito di scegliere l’opportuna combinazione prezzo-qualità-pubblicità. Nell’orizzonte istantaneo l’obiettivo delle politiche di prezzo è la massimizzazione del profitto d’impresa, ma nell’ottica di un termine più ampio ciò che si va a massimizzare è il valore (9 VO )t dell’impresa, ovvero il flusso attualizzato dei profitti che verranno conseguiti:π = ∑EuF> s s s s (>Q2) Le imprese però possono avere altri obbiettivi specifici che possono essere raggiunti con altre politiche di prezzo: 1) Vintage Pricing: consiste nel praticare prezzi che consentano di recuperare nel minor tempo possibile il capitale impiegato per lo sviluppo del prodotto, al fine di tutelarsi dai possibili nuovi competitori. Dato un investimento iniziale I, l periodo necessario, detto “payback period” sarà m quindi: ππ΅π = (9VO)t 2) Prezzi di Penetrazione: consiste nel fissare un prezzo inferiore a quello di equilibrio al fine di facilitare la diffusione del prodotto e di assicurare il più alto livello possibile di utilizzazione della capacità produttiva, per poi rialzare il prezzo ad un livello standard in un secondo momento. Il prezzo così fissato si colloca nell’intervallo tra il costo medio e quello marginale, cioè: π΄πΆ < π < ππΆ 3) Prezzi Predatori: consiste nel fissare il prezzo al di sotto del livello dei costi medi, con l’obiettivo di eliminare concorrenti ed ottenere una posizione dominante che, in seguito, consentirà un rialzo dei prezzi e l’ottenimento di maggiori profitti. È importante considerare il lasso di tempo nel quale tale politica risulta economicamente sostenibile. 4) Prezzi Limite: consiste nel fissare un prezzo e una corrispondente quantità di produzione tali che la domanda residuale per le imprese risulti uguale a zero. 5) Prezzi Discriminatori: consiste nel fissare prezzi differenti per diverse funzioni di domanda (individuali o di gruppo) con elasticità diverse. Chiaramente si imposterà un prezzo maggiore laddove l’elasticità risulti inferiore e viceversa. La discriminazione può essere temporale nel caso in cui i prezzi risultino via via decrescenti al crescere del mercato, mirando quindi a sottrarre la maggiore quota di rendita possibile al consumatore, oppure spaziale laddove i pag. 29 prezzi siano discriminati per area geografica o per categoria. La discriminazione può essere effettuata anche in base alla diversa forza contrattuale dei clienti oppure sulla base del loro grado di informazione. 35) Bundling e Tying come strumenti di estensione delle posizioni dominanti tecniche di vendite connesse (bundling sales) e vendite trainate (tying sales) rientrano nelle politiche di prezzo. Nel primo caso si distinguono il bundling puro, ovvero quando il venditore subordina l’acquisto di un bene alla condizione che il cliente acquisti contemporaneamente anche un altro prodotto, ed il bundling misto, nel caso in cui il venditore offra l’alternativa di comprare entrambi i beni ad un prezzo scontato rispetto al comprarli separatamente a prezzo pieno (Prezzo bundle < Pa + Pb). Nel secondo caso, quello delle vendite trainate, acquistando un prodotto primario (trainante) il cliente si impegna a comprare presso lo stesso venditore un secondo bene (trainato). Questo impegno può avere natura contrattuale o tecnologica. Mentre per il bundling le proporzioni tra le quantità dei due beni sono tipicamente fisse, per il tying sono variabili, quindi legate alla scelta di consumo del cliente. C’è un meccanismo che in letteratura prende il nome di dalla teoria della leva, la quale sostiene che un’impresa dominante può estendere la dominanza ad altri mercati utilizzando come leva il potere di mercato già detenuto (monopolizzazione a traino), così impedendo una corretta concorrenza. Inoltre, tali pratiche possono anche quindi rappresentare un impedimento all’ingresso di nuove imprese, sia nel mercato di provenienza che in quello di “estensione”. In quest’ottica, non stupisce che le autorità antitrust non vedano di buon occhio tali politiche di prezzo. La teoria in parola vede la sua debolezza nelle stesse ipotesi su cui poggia, che non sempre sono verificate: che l’impresa adottante bundling e tying sia dominante nel mercato primario, e che il bene secondario non abbia usi alternativi a quello in combinazione col bene principale. Sulla base di questa debolezza segue la scuola di Chicago, secondo la quale le pratiche di bundling e tying da parte di un’impresa dominante non si risolverebbero in alcuna duplicazione dei profitti monopolistici, potendo anzi risultare non profittevoli per le imprese che le adottano; l’unico motivo razionale per adottare tali pratiche sarebbe quindi relativo a motivazioni di maggiore efficienza. Di conseguenza, vietare tali politiche di prezzo causerebbe una riduzione del benessere, contrastando con le finalità stesse delle politiche per la concorrenza. pag. 30 36) DISCRIMINAZIONE DEI PREZZI DI I, II E II TIPO. Quando si parla di discriminazione dei prezzi, di qualsiasi tipo essa sia, si intende la situazione nella quale il venditore offre il medesimo bene a prezzi diversi per diversi consumatori, al fine di estrarre una maggior porzione di rendita dagli stessi. La discriminazione può essere effettuata anche in senso qualitativo, offrendo differenti varianti (minime) del bene a prezzi differenti. *CONDIZIONI per la discriminazione: 1) Esistenza di consumatori con differenti valutazioni soggettive del bene. 2) L’impresa che discrimina deve avere potere di mercato, deve essere price-maker. 3) Non deve esistere un mercato secondario di rivendita (no arbitraggi). Esistono tre diverse modalità di discriminazione dei prezzi: 1) DISCRIMINAZIONE DEL PRIMO TIPO O PERFETTA (metodo diretto) Consiste nel praticare prezzi personalizzati ad ogni acquirente, per tanto richiede che il venditore conosca perfettamente ogni singola domanda unitaria di ogni singolo cliente. In questo modo, il venditore è in grado di praticare per ciascuno un prezzo pari alla sua massima disponibilità a pagare, purché tale prezzo ecceda il costo marginale di produzione. Il monopolista si appropria di tutta la rendita dei consumatori, il benessere aggregato risulta massimizzato poiché il bene è venduto a tutti i consumatori che lo valutino più del costo di produzione e quindi vi è efficienza allocativa. Rispetto al monopolio con prezzo uniforme la differenza è puramente allocativa, a vantaggio del venditore, il quale si appropria di tutta la ricchezza generata dal processo di produzione/distribuzione. La discriminazione perfetta è però un’astrazione, nella realtà il monopolista discrimina in modo imperfetto, ordinando i consumatori in m gruppi omogenei lungo la curva di domanda e definendo un prezzo differenziato per ogni gruppo. Così il monopolista si appropria di una quota di rendita maggiore rispetto al caso di prezzo unitario. Chiaramente, il monopolista ha incentivo ad attuare tale pratica nei limiti in cui i relativi costi di attuazione non eccedano i maggiori profitti ad essa collegati. 2) DISCRIMINAZIONE DEL SECONDO TIPO (metodo indiretto) Nel caso in cui il venditore conosca la distribuzione delle preferenze nella popolazione, ma manca un segnale della funzione individuale di domanda, esso non sarà in grado di stabilire inequivocabilmente il valore soggettivo di ciascuno. In questo caso, il monopolista può cercare di discriminare indirettamente, offrendo differenti combinazioni e lasciando che sia il consumatore stesso ad auto selezionare l’opzione a lui indirizzata. La discriminazione indiretta può essere di tipo qualitativo, nel caso in cui si offrano diverse combinazioni prezzo-qualità; è il caso delle diverse tariffe delle compagnie aeree. In questi casi l’offerta con prezzo minore è volontariamente privata di alcune qualità/funzionalità, per aumentare l’incentivo ad auto discriminarsi in base all’elasticità al prezzo della loro domanda. La differenza di prezzo non corrisponde a un’equivalente differenza di costo per il venditore. Tale soluzione offre un beneficio per ciascuno: per il venditore, che si appropria di una maggiore quantità di rendita, per i consumatori ad alta elasticità, che potranno effettuare l’acquisto a causa del prezzo più basso della versione “peggiorata”, e i consumatori a bassa elasticità, che potranno pag. 31 accedere alla versione ordinaria dell’offerta ad un prezzo più basso, poiché il venditore la offrirà a tale prezzo inferiore per evitare che troppi consumatori a bassa elasticità consumino comunque il bene “peggiorato” per spendere meno. La discriminazione indiretta può anche essere di tipo quantitativo, offrendo prezzi diversi in base alla quantità acquistata. L’intensità d’uso è infatti strettamente collegata all’elasticità della domanda e alla disponibilità a pagare di ciascuno. Un tipico esempio sono gli sconti sugli acquisti di grandi quantità, oppure la vendita all’ingrosso. Un’altra modalità molto diffusa è la tariffa a due stadi, che consiste nel richiedere una quota fissa d’accesso al bene/servizio e una quota addizionale per ogni unità consumata; è ad esempio il caso dell’utenza elettrica. Si distinguono in questo ambito due possibilità. Nel caso in cui i consumatori siano omogenei, la tariffa ottimale prevede un prezzo variabile p perfettamente allineato con il costo marginale e una parte fissa F pari alla corrispondente rendita del consumatore. Nel caso in cui i consumatori abbiano invece preferenze eterogenee, la tariffa ottimale a due stadi prevede un prezzo variabile p superiore al costo marginale e una parte fissa F esattamente uguale alla rendita che i consumatori a minor intensità di utilizzo realizzano in corrispondenza del prezzo p. 3) DISCRIMINAZIONE DI TERZO TIPO (metodo diretto) È la forma più diffusa di discriminazione dei prezzi. Il venditore segmenta il mercato in g gruppi omogenei sulla base di informazioni esogene e per ciascun gruppo applica un prezzo diverso, in funzione della stima della diversa elasticità media al prezzo. Le condizioni sono quindi differenti tra un gruppo ed un altro, ma equivalenti per tutti coloro che appartengano allo stesso gruppo. Essendo basata su informazioni verificabili, per il venditore è semplice determinare univocamente l’appartenenza ad un gruppo o ad un altro degli individui. L’esempio classico è il prezzo differenziato in base all’età o allo status del consumatore (bambini, studenti, over 65 etc). La discriminazione del terzo tipo danneggia il benessere sociale aggregato quando non si risolve in un aumento delle vendite. Negli altri casi essa è socialmente indesiderabile se le curve di domanda nei singoli segmenti di mercato sono lineari e il venditore serve sempre ciascun segmento, mentre è socialmente desiderabile se tramite tale discriminazione si evita la totale chiusura di segmenti di mercato meno profittevoli per il venditore. pag. 32 37) Oligopolio Sotto il termine oligopoli si raccolgono forme competitive assai differenziate, tanto da richiedere lo svolgimento di analisi separate per i vari casi. Se si prendono in considerazione gli aspetti del comportamento delle imprese che appaiono in oligopolio, si può tentare di dare una definizione di tale forma di mercato che sottolinei gli aspetti comuni ai diversi segmenti in cui si articola la casistica. Le caratteristiche fondamentali e comuni delle forme di mercato oligopolistiche sono: 1) Scarsa numerosità delle imprese che operano in un particolare ambito concorrenziale: poche imprese che detengono il potere di mercato, cioe poche imprese si classificano come leader. 2) Decisioni delle singole imprese non possono limitarsi alla conoscenza della domanda del mercato: devono tenere conto delle reazioni delle imprese rivali. 3) Forme di mercato sono caratterizzate da un elevato grado di incertezza: non esistono posizioni spontanee di equilibrio competitivo. Le costruzioni teoriche possono essere ricondotte a due ipotesi fondamentali che descrivono il comportamento degli oligopolisti: a. Ipotesi di Cournot: definisce un comportamento indipendente degli oligopolisti. Posto in condizioni di incertezza circa le reazioni dei rivali, ciascun oligopolista tenderà a semplificare il problema assumendo che da parte dei rivali non vi sarà alcuna reazione in occasione di variazioni di prezzo decise dal singolo competitore. Ciascuna impresa tende a massimizzare il proprio profitto in modo indipendente dagli altri competitori. b. Ipotesi di Chamberlain: comportamento opposto a quello previsto da Cournot. Le imprese che operano in un settore in numero limitato non possono non rendersi conto che le rispettive performance sono interdipendenti. Ne segue che le imprese fisseranno un prezzo monopolistico che massimizzi i profitti del settore, ripartendo poi fra loro le quote di mercato secondo tattiche collusive. pag. 33 38) Modalità di collusione oligopolistiche La collusione può avvenire mediante la stipulazione di accordi volti a limitare la competizione tra le imprese e mantenere un saggio di profitto al di sopra del livello normale. Le modalità effettive di collusione sono assai varie e si possono riassumere in quattro principali categorie: accordi formali ed informali, regole empiriche di decisione, uso di punti focali e price leadership. Gli accordi sui prezzi rappresentano la forma più blanda di collusione in quanto le imprese possono comunque competere sulla differenziazione o aumentando la loro capacità produttiva. La modalità di collusione definita come price leadership si verifica quando il gruppo di imprese che costituisce l’offerta del settore attribuisce ad una singola impresa la funzione di stabilire il prezzo di vendita. In questa situazione si avrà quindi una sola impresa price maker, mentre tutte le altre si comporteranno come price taker. La leadership di prezzo può derivare da due differenti situazioni, cioè dalla struttura intrinseca del settore oppure può risultare dalla particolare storia dello stesso. 1) Nel primo caso si parla di leadership di prezzo con impresa dominante, e il settore si caratterizza per avere un’impresa di grandi dimensioni che da sola copre una rilevante quota del mercato e un elevato numero di piccole imprese. Nel fissare il prezzo di vendita, l’impresa dominante dovrà tenere conto non solo della domanda generale, ma anche delle quantità che le imprese di minori dimensioni andranno ad offrire complessivamente sul mercato come funzione del prezzo stabilito. Nella forma di mercato ora descritta un equilibrio così raggiunto risulterà un equilibrio stabile, dunque una situazione di price leadership risulta verosimile ed efficace. 2) Il secondo caso di leadership di prezzo consiste nella così detta leadership “barometrica”. In questo caso le caratteristiche del settore sono meno definite, nel senso che risulta difficile trovare condizioni misurabili che spieghino la presenza di un’impresa che assume il ruolo di price leader. La ragione di tale comportamento è di solito da ricercarsi nella storia del settore; l’impresa leader può ad esempio essere stata un’impresa dominante o particolarmente dinamica nel passato, oppure aver dato prova di una maggiore capacità di previsione, o ancora essere un’impresa particolarmente solida dal punto di vista economico e finanziario, tale da scoraggiare azioni di rivalsa nei suoi confronti. La collusione fondata sull’impresa barometrica da luogo ad un equilibrio meno stabile; è infatti sempre possibile che un’altra impresa rifiuti tale leadership e che si vada così a rompere l’equilibrio collusivo. pag. 34 39) LA TEORIA DELLA CURVA DI DOMANDA SPEZZATA (sweezy) Nell’ambito degli oligopoli non collusivi, la teoria della curva di domanda spezzata si propone di dimostrare la tesi secondo la quale il movimento dei prezzi non riveste il ruolo fondamentale teorizzato da Marshall e Walras nel determinare l’equilibrio di breve periodo. La tesi in parola rientra nel più generico fenomeno dei prezzi amministrati, per cui si è osservato che in molti settori industriali i prezzi non risultano determinati dall’interazione fra compratori e venditori, ma fissati “amministrativamente” da questi ultimi. Uno dei fondatori di questa tesi è Sweezy. Supponiamo di esaminare un settore definito da una situazione di oligopolio omogeneo non collusivo, dove il comportamento delle imprese in merito alla formazione dei prezzi è condizionato dal modo in cui le singole imprese percepiscono la domanda che i consumatori rivolgeranno al loro prodotto. Una componente fondamentale della curva di domanda immaginata dalle imprese è costituita quindi dalle diverse ipotesi circa il comportamento delle imprese rivali. Allora, le imprese sono portate ad immaginare due distinte curve di domanda con diverse elasticità, una, con π più elevata, nel caso in cui l’impresa intenda aumentare il prezzo, l’altra nel caso in cui invece intenda abbassare il prezzo. Tale differenza di elasticità è dovuta alla differente aspettativa circa il comportamento delle altre imprese: nel primo caso le altre imprese difficilmente modificheranno il loro prezzo e ciò si rifletterà in una perdita di quota di mercato per l’impresa i-esima considerata. Nel secondo caso invece, le imprese rivali tenderanno ad adeguare il loro prezzo al più basso prezzo imposto dall’impresa i-esima annullando l’incremento della quota di mercato. Le due curve di domanda si intersecheranno nel punto B, che corrisponde al prezzo corrente. Il segmento BC non è rilevante in quanto rappresenta l’andamento della curva di domanda per prezzi inferiori a B, lo stesso si può dire per il segmento DB. Si ottiene così un nuovo grafico con la curva di domanda risultante dall’eliminazione dei due tratti sopra citati, che avrà un cambiamento di elasticità in B e dove la curva dei ricavi marginali presenterà una discontinuità fra R ed M. *VARIAZIONI: 1) Supponiamo una diminuzione della domanda di mercato. Nel modello ora descritto ciò comporta una traslazione verso sinistra dell’intero sistema, senza che il prezzo risulti modificato. Il prezzo risulta tendenzialmente rigido per variazioni della domanda, comportando quindi che le imprese operanti in un oligopolio di questo tipo amministrino le quantità offerte in base alle quantità domandate, con il risultato di mantenere stabili i prezzi. Appare evidente la differenza con un sistema concorrenziale, dove una diminuzione della domanda aggregata comporterebbe una riduzione del prezzo, stante la rigidità dell’offerta. pag. 35 2) Supponiamo una variazione dei costi di produzione, ad esempio con le tre ipotetiche curve ππΆ> , ππΆ@ e ππΆz rappresentanti tre possibili variazioni del costo marginale. Se le variazioni dei costi sono contenute nell’ambito della discontinuità della curva dei ricavi marginali descritta, il prezzo rimane inalterato. Solo nei casi in cui gli aumenti dei costi fossero così rilevanti da superare tale discontinuità allora l’impresa sarebbe costretta a modificare il prezzo per ristabilire l’eguaglianza di costi e ricavi marginali. *Grafico da disegnare 308 *CRITICHE: Un’ampia critica fu fatta nei confronti di questa teoria specialmente da Stigler, il quale affermo che bisognava identificare il grado di concentrazione assoluta del settore al quale potrebbe corrispondere un comportamento interdipendente del tipo di quello ipotizzato da Sweezy. Tale livello di concentrazione fu identificato in un numero di imprese compreso fra 5 e 10. Se il numero fosse minore, vi sarebbe una elevata probabilità che le imprese instaurino un comportamento collusivo, in questo caso non comparirebbe l’angolo ipotizzato da Sweezy, se invece il numero delle imprese fosse maggiore di dieci, la variazione del prezzo effettuata da una singola impresa potrebbe non essere avvertita dalle altre, e quindi non dare luogo ad azioni di ritorsione. È però importante notare che tali critiche non invalidano la teoria, in quanto semplicemente dimostrarono, come già espresso dalla teoria stessa, che è necessario siano verificate le ipotesi di oligopolio omogeneo non collusivo affinché tale teoria sia valida ed applicabile. pag. 36 40) Momigliano Momigliano introduce una versione aggiornata ed elaborata della teoria della curva di domanda ad angolo di Sweezy in quanto egli ritiene che il comportamento delle altre imprese risulta deducibile non da ipotesi circa il comportamento delle altre imprese, bensì da elementi oggettivi che caratterizzano la struttura di mercato. Tale modello è inteso a simulare gli effetti di una variazione di prezzo da parte di uno o più competitori, e quindi a determinare la curva di domanda particolare che ciascuna impresa può desumere da quella generale del mercato. Una applicazione semplificata del modello è quella riferita al caso di duopolio, La curva di domanda particolare dell’impresa che fa la mossa di prezzo è costituita da una curva che presenta sistematicamente un angolo con concavità verso il basso se la quota di mercato iniziale è superiore al 50%, e con concavità verso l’alto se la quota di mercato iniziale è inferiore al 50%. Da tale constatazione se ne possono derivare le seguenti conclusioni: 1) L’effetto della riduzione del prezzo di vendita da parte di un competitore sarà tanto maggiore sul piano dell’incremento della sua quota di mercato quanto minore è la dimensione relativa dell’impresa. 2) Nel caso di settori oligopolistici costituiti da imprese diverse dimensioni, quelle più grandi avranno una preferenza sistematica per la stabilità del prezzo di vendita. Al contrario, le imprese minori tenderanno a mettere in atto comportamenti aggressivi sul piano delle politiche commerciali, potendo beneficiare di una elevata elasticità di sottrazione. 3) Se non esistono differenze nei costi di produzione delle singole imprese, la distribuzione disomogenea delle dimensioni aziendali in termine di quote relative di mercato può condurre ad una forma di mercato altamente instabile. La situazione tenderà ad evolversi verso una forma di mercato in cui le imprese hanno una dimensione equivalente. pag. 37 41) la legge di Kaldor-Verdoorn Nell’ambito della connessione esistente tra la domanda del mercato e la produttività di un’industria, argomento già trattato da Smith si inserisce l’analisi statistica del modello teorizzato da Verdoorn, poi perfezionato ed ampliato da Kaldor, tesa a formalizzare il rapporto prodottoproduttività del lavoro. La legge di Kaldor-Verdoorn verifica l’esistenza di relazioni dirette di lungo periodo fra la crescita della domanda (e della produzione) e la crescita della produttività, relazioni che rappresentano fattori chiave nel meccanismo dello sviluppo. Analiticamente, la legge di K.-V. può essere rappresentata dall’equazione: π° = π + π^,t π ° Dove: π° = saggio di variazione della produttività del lavoro, π ° = crescita dell’output π^,t = valore di elasticità, “coefficiente di Verdoorn”, che si trova in un intervallo tra 0,3 e 0,6 con un valore medio di 0,45. L’evidenza empirica dimostrò che, nel lungo periodo, un aumento della produzione di circa il 10% corrisponde ad un aumento della produttività del circa 5%. Graficamente, tale legge può essere raffigurata da uno schema circolare, tramite il quale è facilmente possibile individuare i circoli virtuoso e vizioso dati da un incremento e una caduta della domanda. L’ampliamento dovuto a Kaldor riguarda in primis l’aver fornito una spiegazione del fenomeno osservato, mettendolo in relazione con: (a) economie di scala e curve di apprendimento, (b) la specializzazione delle imprese e (c) il progresso tecnico endogeno e incorporato nel capitale, cioè negli investimenti. Inoltre, Kaldor osserva che la relazione tra produttività e crescita riguarda particolarmente l’industria manifatturiera, settore che rappresenta il propulsore dell’economia; così spiega i divari presenti tra i tassi di crescita delle diverse economie in termini di differenziali dei tassi di sviluppo delle rispettive industrie manifatturiere. Lo schema esaminato un limite in quanto considera sinonimi termini di competitività e produttività, così facendo pur registrando andamenti positivi della produttività un settore può entrare in crisi a causa una perdita in termini di competitività. Il circolo virtuoso domanda – produttività – domanda può quindi interrompersi a causa della sottrazione di quote crescenti del mercato da parte di nuovi competitori, i quali fruiscano di costi unitari del lavoro inferiori o comunque di elementi che ne stimolano maggiormente l’incremento della competitività. pag. 38 42) La politica industriale nello schema Vanoni (1955-1964) Nel 1953 si può dire concluso il periodo della ricostruzione industriale italiana, così come si conclude il filone di politica industriale il cui obiettivo principale era quello di espandere le esportazioni. Infatti, in questo nuovo momento si registra un cambiamento radicale degli obiettivi generali di politica industriale, che diventano la piena occupazione e l’attenuazione degli squilibri tra Nord e Mezzogiorno. Le linee guida di politica economica così definite vengono presentate nello “schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito in Italia nel decennio 1955-1964”, noto come “schema Vanoni”. Gli obiettivi di tale schema erano definiti come uno sviluppo annuo del reddito nazionale del 5%, la creazione di 4 milioni di nuovi posti di lavoro e la riduzione degli squilibri tra settentrione e meridione. Una prima debolezza di questo schema era rappresentata dalla strumentazione, per il cui scopo venne costituito un comitato per lo sviluppo, che produsse in tutto sei documenti, solo due dei quali poi realmente di rilievo per la politica industriale (il primo sull’energia elettrica e il secondo sulla siderurgia). Il maggior contributo dello schema Vanoni fu proprio lo sviluppo di quello che può essere considerato il primo piano di settore italiano, ovvero il documento dedicato allo sviluppo del settore siderurgico. Il piano siderurgico (1962) si sintetizzava nella costruzione di un grande stabilimento nel Mezzogiorno. Seppur con qualche ritardo, il centro siderurgico venne effettivamente costruito a Taranto e, di fatto, rappresentò l’unica realizzazione diretta di programmazione settoriale nel quadro dello schema Vanoni. È importante notare che tale realizzazione del centro industriale, più che essere il risultato dell’azione programmatica del governo che si avvaleva dell’impresa pubblica come strumento, potrebbe essere in realtà il contrario, cioè il risultato di una programmazione dell’Iri poi “ufficializzata” come piano di settore governativo. In quest’ultimo caso, si darebbe ragione a quelle accuse che vedevano lo stato svolgere una sorta di ruolo notarile nei confronti della volontà delle grandi imprese e si registrerebbe l’inizio del fenomeno per cui la programmazione industriale si trasferisce definitivamente all’interno delle imprese stesse (IRI,ENI, FIAT etc). Le cause sono da attribuirsi a tre fattori: all’effettiva debolezza della programmazione nazionale, in secondo luogo la brillante performance dell’industria, che superava di gran lunga gli obiettivi della precedente programmazione, ed infine l’opinione per cui la programmazione effettuata all’estero sarebbe stata inapplicabile in Italia. Per quanto riguarda gli strumenti di politica pubblica, vennero utilizzati principalmente strumenti di carattere orizzontale, come gli incentivi per l’industrializzazione del Mezzogiorno e i trasferimenti diretti a particolari categorie di imprese (ad esempio le piccole e medie imprese o l’istituzione del Mediocredito Centrale). pag. 39 43) Regolamentazione del monopolio naturale ROR e Price Cap La regolazione economica trova la sua finalità nel tentare di correggere i fallimenti del mercato (monopolio naturale, esternalità, asimmetrie informative, universalità del servizio), accanto ad ulteriori finalità di carattere politico e sociale. La regolazione economica agisce sulla fissazione dei livelli dei prezzi, la fissazione dei livelli minimi di qualità e i meccanismi di adeguamento dei prezzi. In questo ambito, dopo aver determinato la struttura ottimale di tariffe o prezzi amministrati, si inseriscono le tecniche di controllo della dinamica dei prezzi, le quali vedono il proprio focus sull’incentivazione efficiente dell’impresa. Il problema alla base dell’attività di controllo dei meccanismi dei prezzi è la sostanziale asimmetria informativa che sussiste tra regolatore ed impresa regolata, per questa ragione si tende ad assimilare tale problema ad un problema di agenzia e si mettono in atto meccanismi incentivanti che stimolino l’impresa a raggiungere gli obiettivi propri del regolatore. All’interno della categoria degli schemi di incentivazione, due sono i metodi più diffusi: 1) ROR (Rate Of Return Regulation) Il metodo del ror consiste nella fissazione da parte del regolatore di una soglia massima al tasso di rendimento sul capitale investito, che l’impresa regolata dovrà rispettare. Analiticamente, può essere così definito: ππππππ‘π‘π π= ≤ π% πππππ‘πππ πππ£ππ π‘ππ‘π Tale vincolo deve spingere l’impresa a stabilire tariffe che portino ad una remunerazione equa del capitale, in linea con i rendimenti che altre imprese simili ottengono sul mercato. Nel caso in cui il saggio di profitto ecceda la soglia massima, il regolatore imporrà un abbassamento delle tariffe. La soglia massima imposta rimane costante per l’intero periodo regolato, ovvero viene rivista ogni 3-7 anni. Tale schema può però avere alcuni effetti distorsivi, dovuti alla presenza delle asimmetrie informative sopracitate. Ad esempio, nel caso di un’impresa operante in regime di monopolio, essa tenderà ad aumentare il capitale investito con investimenti non necessari, così da poter alzare le proprie tariffe senza superare la soglia di rendimento; tale situazione si risolverà sia in un’inefficienza produttiva che in un’inefficienza allocativa. 2) PRICE CAP Il metodo del price cap consiste nella fissazione ti un tetto massimo all’incremento dei prezzi di beni/servizi prodotti dall’impresa regolata. Tale incremento è vincolato alla variazione di un indice dei prezzi di un paniere di beni e ad una grandezza X indicativa dell’efficienza produttiva. Al livello formale tale metodo si può esprimere come: βπ = π ππΌ − π L’indice dei prezzi RPI corrisponde in genere al tasso di inflazione registrato al tempo 𑇠o al tasso di inflazione programmato, mentre il valore della grandezza X dipenderà dalla valutazione del regolatore. Lo schema del price cap può essere applicato attraverso diversi modelli operativi, che però hanno una serie di caratteristiche comuni. In primis, oltre ad incentivare effettivamente l’impresa a produrre in modo più efficiente abbassando i costi, il price cap ha l’ulteriore vantaggio di non richiedere che il regolatore sia a conoscenza dettagliata della struttura dei costi dell’impresa, superando in parte il problema di asimmetria informativa. Infatti, il regolatore determina la X in base a valutazioni prospettiche e tendenze passate relative all’efficienza produttiva dell’impresa. Tale discrezionalità riguarda anche la fissazione dell’indice dei prezzi. pag. 40 In conclusione, confrontando i due metodi, si può notare che il metodo del price cap tende ad essere di maggiore utilità per i consumatori, che possono beneficiare delle riduzioni di costo effettuate dall’impresa. Tuttavia, il regolatore può trasferire ai consumatori le fluttuazioni dei prezzi di fattori esogeni (es petrolio), un meccanismo chiamato “cost pass-through”. Inoltre, come già menzionato, il metodo del price cap permette una maggiore semplicità applicativa e di conseguenza più bassi costi amministrativi, con effetti meno distorsivi del ror sull’efficienza allocativa. Proprio per tutti i motivi ora menzionati, il Price Cap tende ad essere più utilizzato del ror. pag. 41 44) Free free-riding e restrizioni vertica Le restrizioni verticali sono dei limiti che il produttore impone o consiglia al venditore o dettagliante riguardo la vendita di un prodotto. Queste restrizioni verticali sono determinate mediante trattative contrattuali tra produttore e distributore. Solitamente vengono imposte dal produttore così ottenere un risultato assimilabile a quello ottenuto tramite l’integrazione verticale. Uno dei motivi per cui il produttore potrebbe imporre delle restrizioni è per impedire il free-riding ovvero quando un’impresa beneficia dell’azione di un'altra impresa senza pagarne il prezzo. Ad esempio, un distributore, confidando sulla fama del produttore, potrebbe decidere di effettuare un numero di messaggi pubblicitari inferiori a quelli previsti all’interno del contratto. Altri motivi di restrizioni verticali sono: vendita di un numero minimo di unità, non vendere prodotti concorrenti oppure non praticare prezzi al di sopra di un’tetto massimo. Ma il motivo principale per cui si necessita un’integrazione verticale o una restrizione verticale è nel caso in cui si verifica un doppio mark-up di monopolio (anche detto doppia marginalizzazione) originato dalla presenza di monopolisti in successione nella produzione e nella distribuzione. Il doppio mark-up avviene quindi quando sia il produttore che distributore impongono un mark-up di monopolio, pertanto I consumatori fronteggiano a ben due markup invece di uno. Si necessitano quindi restrizioni verticali per aumentare l’efficienza e quindi aumentare i profitti congiunti. Pertanto, sia consumatori che produttori sono in condizioni economiche peggiori in questa condizioni di monopolio in successione. Grafico pag. 42