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idrocolloidi

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Idrocolloidi: tutta questione di viscosità
20/01/2011
Quali sono gli addensanti più utilizzati in pasticceria? Qual è la loro funzione? E il loro impiego
nelle diverse preparazioni? Abbiamo cercato di rispondere a questi e ad altri quesiti affrontando
un argomento di grande interesse ma poco trattato
La redazione di Dolcesalato ha ascoltato le voci di diversi esperti per cercare di fare un po’ più di
chiarezza nel campo degli addensanti. Non è stato facile perché i produttori non si rivolgono
direttamente agli artigiani, ma all’industria oppure ai trasformatori. In questo modo, diventa
difficile per il pasticciere lavorare direttamente con certi prodotti come la pectina, per esempio,
anche per la non facile reperibilità di piccoli quantitativi. Ne consegue che, se il singolo pasticciere
non mostra interesse nell’approfondire la propria conoscenza in materia, il produttore non ha, a sua
volta, interesse a fornire le adeguate informazioni, in particolare in merito agli usi specifici di
pasticceria. Ecco, quindi, che diventa necessario richiedere più campioni di uno stesso tipo di
addensante o gelificante e sperimentare gli effetti del prodotto prima di adattarlo alla propria ricetta.
È inoltre necessario conoscerne le caratteristiche fisiche per comprendere il diverso potere
addensante, le temperature a cui si lavorano e, naturalmente, il tipo di struttura che si deve dare al
prodotto (gelatinosa, cremosa, ecc.). Altra soluzione, più rapida sicuramente, è quella di rivolgersi
direttamente ai trasformatori di materie prime per pasticceria e gelateria. Questi possiedono il knowhow necessario per miscelare i vari tipi di addensanti e creare, a volte con l’aggiunta di altri
ingredienti, il prodotto ad hoc per ogni esigenza produttiva.
Cosa sono gli addensanti?
La maggior parte degli addensanti sono classificati per legge come additivi, ovvero come sostanze
prive di valore nutritivo o comunque non impiegate a scopo nutritivo, che vengono aggiunte agli
alimenti affinché questi conservino nel tempo determinate caratteristiche chimiche, fisiche o
chimico-fisiche o per esaltare determinate peculiarità come aspetto, sapore, odore e consistenza.
L’impiego degli addensati è quindi regolamentato dalla legge. In etichetta sono indicati con la
lettera “E”, seguita da un numero a tre cifre, per esempio, l’agar agar è classificato come E406. La
gelatina e la pectina, pur essendo prodotti addensanti, o meglio, gelificanti, non sono considerati
additivi, bensì dei veri e propri ingredienti, perché hanno anche valore nutritivo. Da un punto di
vista fisico tutti gli addensanti servono ad aumentare la viscosità di un liquido, rendendolo meno
scorrevole o meno fluido. Come erroneamente può far pensare il termine italiano “addensante” (che
però è adottato per legge), questi additivi non aumentano la densità, ovvero il peso specifico di un
liquido, ma la sua viscosità, appunto. Sarebbe, infatti, più consono il termine inglese che li definisce
agenti ispessenti, “thickening agents”.
Tutti gli addensanti, anche se di derivazione diversa, come vedremo in seguito, sono degli
idrocolloidi (idro significa acqua e indica l’affinità di questi prodotti con il solvente acqua in cui
sono solubili a freddo e/o a caldo; il colloide è una sostanza che si trova in uno stato finemente
disperso, intermedio tra la soluzione omogenea e la sospensione eterogenea. Più semplicemente, le
particelle del colloide assorbono l’acqua formando una sostanza gelatinosa/collosa). Se inseriti in
un corpo liquido, gli idrocolloidi non si sciolgono e dissolvono formando una soluzione, come
succede per esempio al sale o allo zucchero, ma le particelle di cui sono composti ad-sorbono
(catturano) acqua fino a rendere il liquido meno scorrevole ovvero più viscoso. Gli idrocolloidi
sono essenzialmente delle “gomme” naturali, biosintetiche e/o sintetiche di peso molecolare elevato
a carattere idrofilo (sostanza che tende ad assorbire acqua o imbibirsi d’acqua) che in soluzione
acquosa possono funzionare, con dosaggio molto basso, da addensanti, gelificanti e stabilizzanti.
Queste funzioni vengono esplicate insieme o singolarmente in base al tipo di idrocolloide
impiegato, alla sua interazione con altri addensanti o altri ingredienti, alle temperature di utilizzo,
ecc.
Gli idrocolloidi si dividono in: polissacaridi, galattomannani (guar, carruba, tara, konjac, ecc.),
alginati, carragenine, xanthani, CMC (Carbosimetilcellulosa), MHPC, MC, amidi, agar-agar,
gellano, proteine e gelatine alimentari. Essi sono impiegati nel campo alimentare, ma non solo.
Alcuni sono usati nella pasticceria industriale; il campo si restringe ulteriormente per la pasticceria
a livello artigianale. Tra gli idrocolloidi di natura animale troviamo la gelatina, un gelificante molto
utilizzato nei laboratori di pasticceria. Ci spostiamo a prodotti di natura vegetale con gli amidi,
estratti da cereali (es. amido di riso o di mais o la farina) o tuberi (come la fecola di patate). La
pectina si estrae dalla frutta (scorza di mela o di agrumi). Altri addensanti sono invece estratti dalle
alghe come per esempio l’agar agar o la carragenina.
Carragenina e agar agar
Partiamo da due addensanti meno diffusi nei laboratori di pasticceria, per la loro difficile
reperibilità. In realtà, carragenina e agar agar sono tra gli addensanti di più antica origine. La
carragenina (E407) può essere impiegata sia a freddo sia a caldo, pertanto può essere utilizzata sia
nelle preparazioni di pasticceria sia in quelle di gelateria. È un estratto naturale raffinato da alghe
marine rosse, costituite da unità di galattosio (polisaccaride) con contenuto di gruppi solforici (il
termine solforico indica un composto dello zolfo) più o meno elevato. Il nome deriva da Carraghen,
ovvero la località dove si raccoglievano queste alghe marine rosse già più di sei secoli fa, quando
venivano utilizzate per gelificare il latte. Si distinguono tre tipi di carragenina: Carragenina
Lambda, Kappa e Jota. La prima è molto ricca in gruppi solforici e quindi solubile in acqua e/o latte
freddo. Essa è in grado di dare solo addensamento. La Carragenina Kappa è meno ricca di gruppi
solforici ed è quindi solubile a caldo intorno ai 70°C. Essa è in grado di formare gel solidi
reversibili a raffreddamento e tende a dare sineresi (espulsione dell’elemento liquido da parte di un
colloide, ovvero tende a rilasciare acqua). Se si utilizza insieme alla farina di carruba si ha una
diminuzione della perdita di acqua e si ottengono gel più elastici. Se impiegata con sali di potassio il
suo potere gelificante aumenta, al contrario se utilizzata in presenza di sali di sodio. La Carragenina
Jota, infine, ha una percentuale intermedia di solfati, questo la rende solubile a caldo e permette la
formazione di gel più soffici, elastici e cremosi. Non presenta il fenomeno di sineresi. La
carragenina è uno stabilizzante potente. Bastano dosaggi bassi per ottenere i risultati di struttura
desiderati. Essa interagisce con le proteine (caseina del latte e gelatina animale) formando dei
complessi stabili. La sua azione, tuttavia, viene annullata quando il pH della soluzione è al di sopra
o al di sotto del punto isoelettrico (il punto isoelettrico è il valore di pH al quale la molecola non
reca alcuna carica elettrica netta) della proteina. La carragenina è solitamente impiegata nei prodotti
a base di latte, proprio perché agisce con le proteine del latte. Commercialmente si presenta sotto
forma di polvere e quando si utilizza, per evitare che si formino dei grumi, la si miscela a secco con
dello zucchero prima di versarla nel liquido (latte) bollente. In miscela con dell’amido è impiegata
per preparazioni tipo budini. Le carragenine raggiungono il grado ideale di viscosità rapidamente,
sono stabili alla pastorizzazione e alla sterilizzazione, sono però poco stabili a pH acido.
L’agar agar (E406) è estratto da alghe rosse del tipo Gelidium e Graciloria, le prime sono più
gelificanti le seconde un po’ meno. È costituito da due polisaccaridi, agarosio e agaropectina. È
solubile solo all’ebollizione e gelifica a concentrazione di 0,25-0,3 a 30°C. Si tratta di un gel
termoreversibile (si può riutilizzare), ma bisogna raggiungere la temperatura di 80°C per liquefarlo.
Pur essendo di antica origine, è un addensante poco diffuso nella nostra cultura, lo è molto di più in
quella orientale, specialmente in Giappone. Questo aspetto lo rende poco conosciuto da un punto di
vista degli impieghi e piuttosto costoso perché di difficile reperimento. Si utilizza per quelle
lavorazioni in cui il sapore del prodotto non rischia di alterarsi se si raggiungono temperature
elevate, proprio perché la sua funzione addensante si attiva ad alte temperature. Ideale nella
preparazione di spume al sifone o di creme per cui è richiesta una densità diversa da quella della
gelatina e che si conservano a una temperatura di circa 12°C, con shelf-life piuttosto breve. Ottima
anche per mousse, gelatine e confetture.
Gli amidi
Si dividono in due famiglie: amidi nativi (naturali) e modificati. Essi sono costituiti da lunghe
catene lineari (amilosio) o ramificate (amilopectina). Gli amidi con un’elevata presenza di amilosio
tendono a retrogradare (l’amilosio forma facilmente aggregazioni in soluzione dando luogo a un
precipitato – sostanza solida insolubile – questo fenomeno è conosciuto come retrogradazione) nel
prodotto finito favorendo la sineresi (rilascio di acqua). Quelli che hanno un contenuto più elevato
di amilopectina, invece, sono più stabili. Gli amidi modificati subiscono una modificazione chimica
(reticolazione, ovvero reazione chimica che, stabilendo legami trasversali tra le molecole filiformi
di un polimero lineare, lo trasforma in un polimero reticolato, rendendolo insolubile e non fusibile,
privandolo di plasticità e conferendogli durezza e rigidità; l’esterificazione è un processo secondo
cui un acido mediante trattamento con alcool viene trasformato in estere, ovvero un composto
organico che si ottiene per condensazione di un acido con alcol con eliminazione di acqua) che li
rendono più stabili alla retrogradazione. Esistono degli amidi modificati gelatinizzati che si possono
utilizzare a freddo e vengono per lo più impiegati nelle miscele per creme pronte all’uso. Essi sono
classificati nella lista degli additivi e la sigla è determinata in base al tipo di reagente chimico con
cui viene trattato l’amido affinché assuma determinate proprietà. Esistono anche amidi modificati
non gelatinizzati, che non sono solubili a freddo, ma hanno bisogno di raggiungere determinate
temperature, subendo cottura o una blanda pastorizzazione, per svolgere la loro funzione
addensante. Tutti gli amidi presentano un valore nutritivo uguale, quando questo si riferisce al loro
estratto secco, ma le loro proprietà reologiche dipendono essenzialmente dall’origine e dalla
costituzione. Normalmente si distinguono gli amidi di cereali da quelli di tubero. Alla prima
categoria appartengono gli amidi di frumento, di mais e di riso; alla seconda la fecola di patate e
quella di manioca (frutto della tapioca). Ciò che conta non è tanto l’origine dell’amido, ovvero la
base di partenza, ma la composizione tra i due polimeri che lo costituiscono (amilosio e
amilpectina). L’amilosio, polimero 1-4 del glucosio, è praticamente lineare e costituisce la parte
cristallina meglio organizzata del granulo di amido. L’amilopectina, polimero dello stesso modulo,
è ramificata e il suo reticolo è strutturato da legami trasversali alfa 1-6 e da qualche legame alfa 1-3.
Il grado di polimerizzazione (che va da 250 a 2000) medio può variare per ogni tipo di amido ed è
in funzione della pianta d’origine. Anche la diversa proporzione amilosio/amilopectina dipende
dall’origine dell’amido. In proporzione elevata (70%) in certi mais ibridi, l’amilosio è inesistente
nell’amido di mais ceroso. L’amilosio, negli amidi di mais e nella fecola di patate, varia dal 25 al
30% e dal 20 al 25% negli amidi di grano e fecola di manioca (farina che si ricava dalla tapioca). Il
rapporto tra queste due componenti conferisce al prodotto finito un risultato differente. In base alla
presenza dell’uno o dell’altro, infatti, si possono ottenere strutture completamente gelificate (tipo
budino) o semplicemente addensate e quindi spatolabili (tipo crema). Per ottenere una struttura
gelificata si impiegano amidi nativi come per esempio quello di mais, poiché è necessario cuocere il
prodotto e successivamente raffreddarlo in frigorifero: l’azione della temperatura (il caldo prima e il
freddo successivamente) favorisce la gelificazione del prodotto. Per strutture più cremose si usano
preferibilmente amidi modificati, affinché si possa retrogradare a struttura gelificata, mantenendo
nello stesso tempo cremosità, anche durante la fase di cottura, e viscosità. Durante la fase di
raffreddamento il prodotto deve mantenere queste caratteristiche. In base alla tipo di amido (nativo)
utilizzato, esiste un range di temperature entro il quale esso gelatinizza. Le temperature vengono
valutate utilizzando solo amido e acqua, perché l’aggiunta di altri ingredienti può variare questo
parametro (ecco perché si parla di range e non di temperatura precisa). La temperatura di
rigonfiamento del granulo della fecola di patata è inferiore rispetto a quella degli altri amidi. Essa
varia dai 62° ai 68°C e cuoce intorno ai 65°C. Si sale a 75°C con l’amido di mais, la temperatura di
gelatinizzazione dell’amido di frumento è di 85°C, leggermente al di sopra degli 80°C, infine, per
quello di riso. Ovviamente nella scelta dell’amido più adatto alle diverse applicazioni, bisognerà
tenere in considerazione le temperature raggiunte per ogni specifica ricetta. Se nella formulazione
occorre, per esempio, il cinque per cento di amido, ma non si hanno le condizioni di temperatura
che fanno cuocere l’amido in questione, questo rimarrà in parte crudo e le sue potenzialità
addensanti non saranno sfruttate al massimo. Se non raggiungo la temperatura necessaria, la crema
rimarrà fluida e non avrò la texture tipica del prodotto in questione. Avrò inoltre un retrogusto
sgradevole, dato dall’amido crudo. Gli amidi modificati agiscono a temperature leggermente più
basse, intorno ai 70°-72°C (a volte anche a freddo) e possono anche essere sottoposti a stress
meccanici che amidi nativi possono non sopportare. È bene, quindi, conoscere in partenza il
processo cui verrà sottoposto l’amido, ovvero se si pastorizza o si sterilizza, qual è il pH della
soluzione e lo strumento meccanico impiegato per amalgamare la massa (minipimer, frullino, ecc.)
per scegliere il prodotto adatto.
La gelatina
La gelatina è un idrocolloide molto versatile. Essa, infatti, è in grado di gelatinizzare, addensare,
condensare, stabilizzare, legare l’acqua, emulsionare, ha azione schiumogena e filmogena.
Non tutti gli idrocolloidi raggruppano in sé queste proprietà come la gelatina animale. La gelatina è
una proteina derivante da materie prime animali (soprattutto bovini e suini) contenenti collagene
(pelle, ossa, ecc.). Contiene l’84-90% di proteine e l’1-2% di sali minerali, il resto è acqua. Non
contiene né conservanti né additivi, è priva di colesterolo e di purine (composti di acido urico,
derivanti dall’urina). Il processo produttivo è alquanto complesso: dopo l’estrazione da materie
prime contenenti collagene, si passa alla filtrazione e alla successiva sterilizzazione a 140°C. La
combinazione dei singoli passi di produzione la rendono un prodotto alimentare sano e sicuro.
Essendo un prodotto naturale è soggetta a rigide prescrizioni in termini di purezza. La gelatina di
tipo B si ricava per idrolisi basica da pelli bovine e ha un punto isoelettrico intorno a pH 4.8-5.2. La
gelatina di tipo A si ottiene da pelli suine per idrolisi acida e ha un punto isoelettrico intorno a pH
7.5-9.4. Il punto isoelettrico è il punto in cui, ai pH suddetti, le cariche negative e positive si
bilanciano ed è estremamente delicato in quanto, in questo intervallo, può avvenire la precipitazione
delle proteine e l’annullamento del potere gelificante. Per prodotti più acidi si consiglia quindi la
gelatina di tipo A, quella di tipo B è invece consigliata per prodotti meno acidi. Esistono gelatine
termoreversibili che si formano tramite il raffreddamento di una soluzione calda, in questo caso la
gelatina può essere nuovamente sciolta e riutilizzata in qualsiasi momento. La gelatina si fonde a
temperatura corporea (35°-37°C), questo rende i prodotti che la contengono particolarmente
piacevoli al palato perché si sciolgono facilmente donando una piacevole sensazione gustativa. La
gelatina animale è reperibile in foglie, in granulato o in polvere. Il formato più diffuso nel settore
pasticceria è il primo. È sempre meglio esprimere il contenuto di gelatina in grammi perché in Italia
esistono fogli da due, quattro, cinque e sei grammi. Essa viene tagliata a rettangoli ed è facile da
porzionare; una volta ammorbidita in acqua fredda (la gelatina assorbe un massimo di cinque volte
il suo peso) viene sciolta nel liquido caldo della ricetta (la dose media è di 25-30 g su litro di
liquido, ma dipende sempre dal tipo di ricetta). La gelatina in polvere deve essere messa in acqua a
temperatura ambiente per circa 30/40 minuti, in questo modo il granulo di gelatina assorbe acqua e
avviene un rigonfiamento. A questo punto viene sciolta a bagnomaria e successivamente aggiunta al
liquido caldo della ricetta. Il rigonfiamento deve raggiungere il 70-80% del volume iniziale, più si
rigonfia, meno difficoltà si avrà nella successiva fase di scioglimento. La gelatina è solubile in
acqua calda a 50°-60°C e, al raffreddamento, forma dei gel elastici e senza sineresi. La proprietà
fisica più importante della gelatina è il cosiddetto valore Bloom, che viene espresso in gradi. Esso
varia tra i 50 e i 300 e indica la solidità e la forza gelificante della gelatina. Quanto più elevato è il
valore di Bloom, tanto maggiore sarà la forza gelificante del prodotto. Gelatine con valore di
Bloom alto sono le migliori anche da un punto di vista della trasparenza e purezza. In pasticceria si
usano generalmente gelatine che hanno un Bloom che va dai 180 ai 250 gradi (varietà oro). Un altro
parametro che può avere un certo valore in base all’utilizzo della gelatina è la viscosità, da non
sottovalutare anche limpidezza e trasparenza del prodotto (basti pensare a un aspic di frutta o a un
torta che deve avere una glassa trasparente). La gelatina animale si usa per tutti prodotti di
pasticceria moderna (mousse, bavaresi, ecc.) che devono avere una certa struttura ed essere cremosi
allo stesso tempo.La gelatina alimentare è unica per la sua forza stabilizzante e gelificante, ma
anche per la possibilità di essere lavorata. È una proteina che agisce interfacciando in globuli di
grasso. È solubile a caldo e richiede lunghi tempi di idratazione.
Perchè la chiamiamo colla di pesce?
In pasticceria si usa spesso il termine “colla di pesce” per indicare la gelatina che, in realtà, deriva
da bovini e suini e non dal pesce. La motivazione è di carattere storico, ma è tornata in auge a cause
della BSE. La prima gelatina alimentare si ricavava artigianalmente lasciando la pelle del pesce in
acqua, da cui si otteneva una sostanza gelatinosa. La vera colla di pesce è un ingrediente molto
costoso. Esiste in commercio ed è tornata in uso in tempi recenti proprio in seguito alla BSE che
colpisce i bovini, da un lato e per motivazioni di carattere religioso (suini), dall’altro. Reagendo alla
crisi BSE, la Commisione Ue nel 1999 stabilì in tutta Europa regolamenti più severi per la
produzione, la vendita e la purezza della gelatina alimentare e farmaceutica. Per quanto riguarda la
sicurezza, particolarmente riguardo alla BSE, la gelatina va certamente annoverata tra i generi
alimentari meglio esaminati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e la Commisione
Europea confermano tale sicurezza sulla base di risultati di ricerca internazionali.
La pectina
La pectina è un carboidrato purificato ottenuto mediante estrazione acida acquosa su tessuti vegetali
(scorze di agrumi e/o mele) che, in determinate condizioni, origina un gel. Tutte le piante verdi
contengono sostanze pectiche che, in combinazione con la cellulosa (costituente principale delle
piante), sono responsabili della struttura della frutta e dei vegetali. Il contenuto di pectina varia da
frutto a frutto: ne contengono un’alta percentuale le mele e gli agrumi. Dalle scorze di limone si
ricava una pectina con ottime caratteristiche, così come dalle scorze delle mele, che
tendenzialmente si presenta di colore più scuro. L’estrazione della pectina si effettua con acqua
calda acidificata a temperature controllate. Si tratta di una fase molto importante perché determina
la qualità del prodotto. All’estrazione seguono la purificazione, la precipitazione o coagulazione al
liquido di estrazione e la de-esterificazione o metossilazione (la pectina è essenzialmente costituita
da acido poligalatturonico parzialmente metossilato ed è normalmente classificata in base al suo
grado di esterificazione). Il grado di metossilazione (metossilico = detto del radicale -OCH3 che si
ottiene dall’alcol metilico per eliminazione di un atomo di idrogeno) è il rapporto tra i gruppi
metossilati e quelli di acidi liberi presenti sulla catena molecolare della pectina. Si tratta di un
rapporto molto importante (definito D.M.) poiché influenza la capacità di formazione del gel
(quindi il suo potere gelificante). Esistono tanti tipi di pectine che sono raggruppate sotto due grandi
gruppi basati proprio sul rapporto D.M.: pectine HM (high methoxyl = alto metossile) reagiscono
a un intervallo di pH ben definito e con un alto tenore di zucchero. La loro gelificazione è più o
meno rapida a seconda del grado di metossilazione. Sono per lo più impiegate in confetture con alto
estratto secco e di contenuto zuccherino, nonché in ambiente acido. Garantiscono una perfetta
distribuzione della frutta nella gelatina e un ottimo rilascio degli aromi. Queste pectine non sono
reversibili con la temperatura, ovvero tamponate: una volta utilizzate anche se vengono riscaldate
non si sciolgono più. Le pectine LM (low methoxyl), a basso metossile, gelificano con la sola
presenza di un sale bi-polivalente (generalmente un sale di calcio). Le pectine LM possono anche
essere amidate (ammidiche), ottenute per blanda idrolisi in ambiente alcalino di una pectina HM. Le
pectine LM sono reversibili o non tamponate con la temperatura: se sciolte e riscaldate in acqua
sono riutilizzabili più volte. Le pectine a basso metossile si usano per prodotti a base di frutta con
basso contenuto in zuccheri, quelle a basso metossile semplici conferiscono soprattutto cremosità al
prodotto, quelle amidate sono maggiormente gelificanti. Le pectine a basso metossile sono
impiegate nella produzione di particolari confetture o passate di frutta che devono resistere alla
cottura in forno, senza diventare troppo scure o formare sineresi. La pectina è un prodotto naturale
che si utilizza per lo più in produzioni a base di frutta. Ogni frutto e applicazione ha una pectina più
indicata. Tuttavia, soprattutto per gli operatori artigiani, sia per il difficile reperimento di piccoli
quantitativi sia per la poca conoscenza e la conseguente scarsa capacità di utilizzo, è stata ideata una
pectina “universale” (NH), ovvero una miscela di pectine in grado di coprire i diversi usi.
All’interno dei due grandi gruppi le pectine si suddividono in piccole (o rapide), medie e lunghe
(lente), che a loro volta si dividono in lineari a ramificate. Per prodotti che si devono rapprendere
velocemente si utilizzano pectine rapide (per esempio le gelatine). Per questo tipo di produzione si
utilizzano pectine tamponate. Quella lenta è ideale per le confetture di frutta da forno e per frutta
non acida. Una pectina lineare lunga dà origine a prodotti particolarmente morbidi e piacevoli al
palato; per prodotti più duri si impiegano, invece, pectine ramificate corte. Un aspetto da tenere in
considerazione nell’utilizzo delle pectine è l’acidità dell’ambiente in cui si lavorano. Per attivarsi le
pectine hanno infatti bisogno di un pH 3.3; per raggiungere tale valore basta aggiungere del limone
o una miscela di acido citrico e acqua. La pectina, oltre a gelificare i prodotti, è anche in grado di
conferire una certa cremosità. Si usa in tutti quei prodotti, generalmente a base di frutta, che
vengono cotti; la pectina, una volta miscelata con dello zucchero e sciolta in acqua, va incorporata
alla frutta in fase di ebollizione. Per ottenere un prodotto edibile, cremoso e che non perda acqua,
bisogna raggiungere almeno i 103°-104°C o 73°-75° Brix, a questo punto, una volta verificato il pH
(3.3) potrò rimuovere il prodotto dal fuoco. L’azione gelificante della pectina si noterà a
raffreddamento avvenuto.
Burro di cacao addensante di nuova generazione
Non è un idrocolloide e agisce principalmente su base grassa. È burro di cacao micronizzato
(ovvero ridotto in particelle minutissime dell’ordine di grandezza del micron) che viene portato a
temperature molto basse e polverizzato. Ha un potere ispessente molto elevato. Il burro di cacao si
scioglie con la temperatura del corpo e questo lo rende molto piacevole al palato, dona molta
cremosità ai prodotti ai quali conferisce un’ottima struttura per la sua alta capacità addensante. È
ideale per creme grasse, poiché i lipidi sono necessari per legarlo. È in grado di dare maggiore
struttura al prodotto, ottimo anche da spolverare i prodotti appena rimossi dal forno per
impermeabilizzarli. È possibile produrlo artigianalmente congelando del burro di cacao e
successivamente frullandolo; oppure dopo averlo sciolto si può spruzzare e congelarne le
goccioline.
La redazione ringrazia per il prezioso contributo: il Prof. Davide Cassi, dipartimento di fisica
dell’Università degli Studi di Parma, Giorgio Ferrari, dirigente commerciale di Comiel srl, il
maestro pasticciere Luca Mannori, Simone Novi, ricerca e sviluppo e assistenza clienti della Lapi
Gelatine Spa, Fausto Orione, Fodo Business Unit Roquette Italia Spa, il maestro gelatiere
Francesco Palmieri, il maestro pasticciere Giovanni Pina, Silvio Prandi, assistenza tecnica Unigel
Spa, Paolo Vacca, responsabile Ri&S e Ass. Qualità della Giuso Guido Spa
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