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Amarcord Fellini (Intersezioni) (Italian Edition)

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Il visionario è l’unico vero realista.
Federico Fellini
Nel centenario della nascita di Federico Fellini, questo alfabeto dei sogni
racconta l’estetica incantata e il linguaggio del regista riminese,
inseguendone forme ed espressioni nei film e ritrovandole poi, vive più
che mai, nella cultura e nella società d’oggi. Dalla A di Amarcord alla V
di Vitelloni, alla Z di Zampanò – passando per la E di Ekberg e la G di
Giulietta, la P di Paparazzo e la R di Rex – lasciamoci allora guidare alla
scoperta della poetica felliniana e della straordinaria vita dell’artista,
affollata di incontri e ricca di onori, eppure segnata dalla solitudine di
una perenne ricerca. Nello specchio dell’infanzia e nei labirinti del
desiderio, non meno che nella realtà quotidiana di un’Italia in radicale
trasformazione, egli fu tra i pochi a saper cogliere il Paese in divenire,
regalandoci un immaginario che ormai è diventato struttura del profondo.
Oscar Iarussi – saggista, critico cinematografico e letterario – è
giornalista della "Gazzetta del Mezzogiorno". Fa parte del Comitato
esperti della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Già presidente della Apulia Film Commission, ha ideato le rassegne
"Frontiere. La prima volta" (catalogo Laterza, 2011) e "Tu non conosci il
Sud". Tra i suoi libri: "L’infanzia e il sogno. Il cinema di Fellini" (Ente
dello Spettacolo, 2009) e "Visioni americane. Il cinema “on the road” da
John Ford a Spike Lee" (Adda, 2012). Con il Mulino ha pubblicato
"C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita" (2011) e "Andare per
i luoghi del cinema" (2017).
1
Oscar Iarussi
Amarcord Fellini
L’alfabeto di Federico
2
Copyright © by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono
riservati. Per altre informazioni si veda http://www.mulino.it/ebook
Edizione a stampa 2020
ISBN 9788815285911
Edizione e-book 2020, realizzata dal Mulino - Bologna
ISBN 9788815354624
3
Indice
Un sogno lungo un secolo
4
A
5
Amarcord
6
B
7
Borgo (ovvero Rimini)
8
C
9
Clown
10
D
11
Dolce vita
12
E
13
Ekberg
14
F
15
Flaiano
16
G
17
Giulietta
18
H
19
Hollywood
20
I
21
Infanzia
22
J
23
Jung
24
K
25
Kezich
26
L
27
Luna
28
M
29
Marcello
30
N
31
Nino, l’amico magico
32
O
33
8½
34
P
35
Paparazzo
36
Q
37
Quid
38
R
39
Rex
40
S
41
Sogno
42
T
43
Teatro 5 – Cinecittà
44
U
45
Urbe
46
V
47
Vitelloni
48
Z
49
Zampanò
Nota bibliografica
Indice dei film
Indice dei nomi
Crediti
Figure
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a mio figlio Federico
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Ringraziamenti
In questo «alfabeto» sono confluiti anche racconti o testimonianze sul regista e il suo
mondo che, nel corso del tempo, ho ricevuto da maestri e amici cui sono grato, fra i
quali, scusandomi per le omissioni, ricordo: Ettore Scola, Suso Cecchi d’Amico, Sergio
Rubini, Gianni Amelio, Marco Leto, Furio Scarpelli, Giovanni Grazzini, Piero
Virgintino, Tilde Corsi, Irene Bignardi, Mario Guaraldi, Paolo Fabbri, Roberto Escobar,
Domenico Procacci, Maria Pia Fusco, Felice Laudadio, Caterina d’Amico, Pupi Avati,
Maurizio Riccardi, Eugenio Cappuccio, Enzo Verrengia, Fabrizio Corallo, Chiara
Supplizi e Nicola Scardicchio. In questi ultimi anni è stato prezioso il costante
confronto con Alberto Barbera, direttore della Mostra di Venezia, e con tutti i colleghi
del Comitato esperti. Ringrazio Daniela Bonato della direzione editoriale del Mulino
per le riflessioni già in fase di ideazione del libro e per averne cadenzato il passo
insieme con Nicola Pedrazzi. Grazie a Silvio Danese per i suoi consigli, sempre più che
amichevoli. Stavolta mi sono mancati – e mi mancheranno – il fraterno
incoraggiamento e l’inflessibile rigore di Sergio Claudio Perroni, battagliero perfino su
una virgola fuori posto, un grande scrittore che ha scelto di andare via troppo presto.
Voglio anche ricordare due critici e amici, Vito Attolini e Alfonso Marrese, cui devo
buona parte della mia «educazione sentimentale» al Cinema.
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Un sogno lungo un secolo
Sono nato, sono venuto a Roma, mi sono sposato e
sono entrato a Cinecittà. Non c’è altro.
Federico Fellini
«Il visionario è l’unico vero realista». È un magnifico paradosso di
Federico Fellini, come la sua esistenza affollata di incontri e ricca di
onori, eppure segnata dalla solitudine di una perenne ricerca: nello
specchio dell’infanzia e nei labirinti del desiderio, non meno che nella
realtà quotidiana di un’Italia in radicale trasformazione che egli fu tra i
pochi a saper cogliere e raccontare in divenire. Un’opera, la sua, spesso
incompresa o avversata, puntualmente equivocata sotto il segno della
presunta nostalgia goliardica, laddove invece illumina il presente o
addirittura capta il futuro. Un’opera, infine, prepensionata dal mercato
cinematografico, non più interessato a produrla. Fellini nasce a Rimini il
20 gennaio 1920 e muore a Roma all’età di 73 anni, il 31 ottobre 1993.
Era il giorno dopo il cinquantesimo anniversario delle nozze con
Giulietta Masina, che sarebbe mancata solo pochi mesi più tardi, il 23
marzo 1994.
Dolce come Verlaine, come Beatrice
e maledetto come James Dean
casto della purezza di Euridice
intelligente come Rin Tin Tin.
M’han detto che era morto, ebbi uno shocche
come se fosser morte le albicocche.
Fellini come le albicocche: frutto della terra, dono della natura, delizia
dei sensi. È la chiosa del poetico commiato di Roberto Benigni, cui
Federico il Grande consegna una sorta di lascito testamentario
chiamandolo a interpretare, nel 1990, il personaggio di Ivo Salvini in La
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voce della luna: «Eppure credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se
tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…».
Un invito a tacere tanto profetico quanto disatteso, considerando il caos e
la mancanza di pudore che oggi imperano.
L’autore italiano più amato nel mondo, vincitore nel corso del tempo
di cinque premi Oscar, è stato un raffinato antropologo del Novecento
nel suo farsi e disfarsi. Egli colse la prevalenza dell’abnorme, del
beffardo, del bizzarro, di un onirismo/onanismo di massa che discende
dal «virus dannunziano» diagnosticato da Alberto Savinio o dal fascismo
come eterna adolescenza (vedi Amarcord), una tentazione con ogni
evidenza mai sopita. Tale primato del grottesco scandisce il progressivo
– meglio, regressivo – declino di una società invecchiata e impecorita,
rassegnata e stanca, forse paga del ricordo o della pallida imitazione,
spesso parodistica, della sua fioritura leggendaria nelle stagioni del boom
anni Sessanta, ovvero della Dolce vita. D’altronde, Fellini per il suo
Casanova (1976) sceglie quale protagonista il canadese Donald
Sutherland – «un candelone spermatico», lo definisce –, scatenando
discussioni a non finire sulla presunta lesa maestà del Grande Seduttore
veneziano. Si radicalizza allora la vena funerea di Fellini, più palpabile
in Prova d’orchestra (1979), concepito all’indomani dell’omicidio dello
statista democristiano Aldo Moro per mano delle Brigate rosse, in cui il
Nostro e il compositore Nino Rota tessono l’apologo dell’innocenza
perduta di un paese che non riesce più ad accordare i suoni e i toni. È la
prima elegia di un «lungo addio» visionario: E la nave va, Ginger e Fred
e La voce della luna. Fellini aveva indovinato tutto dell’Italia entrata nel
terzo millennio, come se fosse il terzo secolo avanti Cristo: all’insegna
del fescennino in salsa «bunga bunga» (il Fellini Satyricon tratto da
Petronio è del 1969). Un gigantesco passatempo da Bar Sport on line
«per legioni di imbecilli» – disse Umberto Eco – scandisce questa deriva,
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che Silvio Berlusconi ha interpretato per primo con l’irruenza mercantile
e la libido senile che sappiamo. Poi, sono arrivati i giovanotti.
Fellini confidava sardonico e rassegnato: «Mio babbo voleva che
facessi l’avvocato e mia mamma sperava che facessi il dottore, ma io ho
fatto l’aggettivo: il felliniano». Eppure, Federico non fu mai felliniano, a
dispetto del talento da neologista: vitellone e paparazzo, dolce vita e
amarcord. Anzi, Fellini tentò di sottrarsi allo stereotipo di situazioni e
personaggi caricaturali, eccessivi o carnascialeschi. Caso mai
satireggiava le macchiette erotomani e le signore prosperose da Anita
Ekberg alla Saraghina, dalla Tabaccaia alla Gradisca, sebbene con la
tenera complicità che, per altri versi, riservava alla Masina. Fanno testo
le quattro lettere inedite di Federico alla moglie del 1992, pubblicate nel
2018 da «Famiglia Cristiana»: «Giuliettina mia adorata, sei sempre una
ragazzetta in gambissima e insieme con il tuo vecchierello faremo ancora
qualche pastrocchio. Con te vicino sono ancora capace di fare capriole.
Coraggio».
Senza le struggenti invettive di Pasolini contro la modernità e senza
alcun moralismo, il Riminese è un lungimirante testimone sul campo
delle metamorfosi sociali. Intervistato dall’amico Georges Simenon,
Fellini confessa: «In fin dei conti lei e io abbiamo sempre raccontato
delle sconfitte. Ma voglio, devo riuscire a dirle… Credo che l’arte sia
questo, la possibilità di trasformare la sconfitta in vittoria, la tristezza in
felicità. L’arte è un miracolo…». Nella nostra realtà mosaicata,
eterogenea, contraddittoria, vige la disperata ricerca di un insieme, di una
speranza, di un appiglio contro la solitudine, sì, forse di «un miracolo».
Metaforicamente, siamo tuttora sull’ultima spiaggia nel finale di La
dolce vita con Mastroianni. Al cospetto del mostro marino arenato,
Marcello non riesce a cogliere le parole della ragazzina nel vento e le
risponde con un sorriso impotente. Oggi come minimo sarebbe oggetto
di una serie di tweet sarcastici con l’hashtag #machestaiadì?
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Abbiamo cercato le parole per dire di Fellini e di noi rispetto al suo
cinema. Una parola-chiave per ogni lettera dell’alfabeto, o quasi, dalla A
di Amarcord alla Z di Zampanò. Un «alfabeto di Federico» che non ha
pretese di completezza, né mai potrebbe, considerando oltretutto che la
vastissima bibliografia felliniana è continuamente alimentata da studiosi
di ogni dove. Meno vividi, purtroppo, sono i suoi film agli occhi del
pubblico più giovane, ma confidiamo che le iniziative nel centenario
della nascita ne favoriscano la conoscenza. Anzi, per cominciare, provate
a trovare su YouTube alcune delle scene qui citate e vedrete se non vi
assale la voglia di recuperare l’intero film, perché un’opera d’arte è tale
solo nella sua integrità (e in certe condizioni di visione, ma questo è un
altro discorso). Per ogni voce del nostro dizionarietto portatile abbiamo
fatto scelte soggettive, quindi opinabili, guidati dalle suggestioni, dalle
emozioni o dai ricordi personali. Un esempio? La lettera K è stata «in
ballo» tra Kafka, perché Fellini lo amò e coltivò l’idea di realizzare una
trasposizione del suo romanzo incompiuto America (secondo il
semiologo Paolo Fabbri in realtà l’ha realizzata, eccome, in Intervista), e
Kubrick o Kurosawa, colleghi di pari rango con i quali echeggia talvolta
un dialogo a distanza. Ma al dunque la K è di Kezich, critico
cinematografico, biografo e amico di Federico, i cui «diari»
contribuiscono a guidare lo spettatore nel labirinto… kafkiano delle sue
immagini. Ricordiamo però, con Fellini, che il filo di Arianna non è mai
uno solo, come nella vita quotidiana del nostro tempo così incerto.
Anche nel corpo delle singole lettere dell’alfabeto abbiamo seguito
percorsi non canonici, assecondando ora l’affresco dell’ambiente
culturale o lo stralcio storico-sociale; ora l’analisi di una sequenza
felliniana poco nota ovvero celeberrima, dal prologo di I clowns
all’apparizione del piroscafo Rex lungo il filo dell’orizzonte di Rimini,
girata a Cinecittà.
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Amarcord Fellini… È una parola! Proviamo allora con ventitré.
Eccole.
57
A
58
Amarcord
A come Amarcord, naturale. In dialetto romagnolo sarebbe a
m’arcord, «io mi ricordo». La parola è entrata nei dizionari di mezzo
mondo grazie al titolo del film di Federico Fellini, uscito alla vigilia del
Natale 1973, e andrebbe pronunciata con l’accento sulla o. Sia detto in
favore dei più giovani che non hanno visto il film e però frequentano i
tanti locali con quel nome, talora chiamandoli «Amàrcord». Mica colpa
loro. Fellini è quasi del tutto ignoto alle nuove generazioni perché le reti
televisive trasmettono poco le sue opere e i programmi scolastici non
contemplano la storia per immagini (che peccato!). Vero è che l’attrice
britannica Susan George, designata ad annunciare l’Oscar per il miglior
film straniero insieme al boss dei produttori Usa Jack Valenti, legge il
verdetto della busta e dice: «The winner is Italy, for Amàrcord». È
martedì 8 aprile 1975 e risuonano le note dell’Inno di Mameli nel
Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles per celebrare la quarta
statuetta hollywoodiana di Fellini, ma lui non c’è, impegnato in Italia
nella preparazione di Casanova. A prendere il premio sale sul palco un
elegantissimo Franco Cristaldi, che aveva da poco chiuso con Claudia
Cardinale (sposerà Zeudi Araya qualche anno dopo), il più coraggioso e
lungimirante tra i produttori cinematografici del dopoguerra, al quale
deve molto Giuseppe Tornatore, a sua volta vincitore dell’Oscar nel 1990
con Nuovo cinema Paradiso prodotto da Cristaldi nell’88. Nella stessa
serata trionfale di Amarcord, Nino Rota e Carmine Coppola si
aggiudicano l’Oscar per la colonna sonora di Il Padrino – Parte II,
ritirato da Coppola, oriundo di Bernalda in provincia di Matera ed ex
primo flauto con Arturo Toscanini. In platea esulta il figlio Francis Ford
Coppola, regista del film, che infine totalizza ben sei Academy Award.
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Rota, assente, è autore pure della colonna sonora di Amarcord,
sceneggiato dal riminese Fellini con il coetaneo Tonino Guerra, nato in
quel di Santarcangelo di Romagna, a 10 chilometri nell’entroterra di
Rimini. Il film evoca ricordi ed esperienze di entrambi, indistinguibili,
tanto da suggerire una battuta al veleno a Pier Paolo Pasolini, che non ha
mai del tutto perdonato a Fellini il rifiuto di produrgli Accattone (1961).
«Si sarebbe dovuto intitolare Asarcurdem», dice Pasolini, cioè «Noi ci
ricordiamo» in romagnolo. A proposito di dialetto, Fellini ammetterà con
rammarico: «Ci ho messo mezzo secolo a fare quel film, e i riminesi
hanno detto in dialetto la n’era miga acsè, non era mica così».
Se I vitelloni (1953), parimenti ambientato a Rimini, è un racconto
quasi «in presa diretta» del Fellini trentenne che vi sublima ricordi e
umori recenti, Amarcord è un’incursione nel passato e retrodata agli anni
Trenta lo sguardo felliniano su un mondo familiare e remoto al tempo
stesso. Nella Rimini fascista il protagonista è lo studente Titta Biondi
(interpretato dall’esordiente ventenne Bruno Zanin, ringiovanito dal
trucco), «ricalcato» sulla figura di un fraterno amico di Federico sin dalla
prima infanzia, Luigi «Titta» Benzi, che nella vita diventa un apprezzato
penalista e viene eletto consigliere comunale del Partito repubblicano
italiano, scomparso novantaquattrenne nel 2014. In Amarcord Titta
cresce fra educazione cattolica e retorica del regime. Suo padre Aurelio è
un capomastro anarchico e antifascista (Armando Brancia), che lavora
come un mulo per mantenere la moglie amatissima nonostante le
continue litigate (Pupella Maggio), Titta e il fratello, l’anziano e vispo
nonnetto, e un cognato in panciolle detto «Pataca» (Nandino Orfei, della
dinastia circense). C’è poi l’altro zio di Titta, zio Teo, che è chiuso in
manicomio. La comunità di Amarcord è popolata di figure strambe: la
Volpina, ninfomane che si aggira sulla spiaggia irretendo chiunque;
«Giudizio», lo scemo del villaggio; un avvocato dalla retorica facile; il
motociclista esibizionista «Scureza»; il cieco di Cantarel che suona la
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fisarmonica… A scuola Titta e i suoi compagni si impegnano soprattutto
negli scherzi ai danni degli insegnanti o delle compagne di classe
«convocate» con il pensiero nelle sedute di masturbazione di gruppo,
insieme alla seduttiva professoressa di matematica e alla tabaccaia dai
seni enormi. Ma a dominare la vita erotica e sentimentale del «borgo»,
come viene chiamata Rimini (mai nominata in quanto tale), è una bella
signora detta «Gradisca», dacché una notte, nel leggendario Grand Hotel
che impera nella fantasia collettiva, si offrì all’erede al trono Umberto di
Savoia con la semplice formula: «Signor principe, gradisca». La
Gradisca è Magali Noël, attrice francese nata a Smirne, già nel cast di La
dolce vita (1960) nel ruolo di Fanny, la ballerina che dopo una serata con
Marcello e Paparazzo invita il papà di Marcello nel suo appartamento,
dove questi si sente male. Magali Noël prende il posto che Fellini aveva
destinato all’esuberante e giuliva bellezza di Sandra «Sandrocchia»
Milo, in primo piano in 8 ½ (1963) e in Giulietta degli spiriti (1965), che
è la sua amante e musa malandrina, secondo quanto la stessa Milo ha più
volte dichiarato dopo la morte di Federico (una fotografia poco nota e
tenerissima, scattata dal «paparazzo» Elio Sorci nella villa di Fellini a
Fregene, li ritrae seduti su un divano uno accanto all’altra, intenti a
giocare a dama come due coniugi di lunga data). Ma si mette di traverso
il marito della Milo, il medico Ottavio De Lollis, che nel cuore di
Sandrocchia ha soppiantato il produttore Moris Ergas. Allora tocca a
Edwige Fenech, icona sexy degli anni Settanta, fresca del successo di
Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda di Mariano
Laurenti (1972). Al dunque Fellini ci ripensa: «Scusami, mi disse – ha
rivelato la Fenech –, ma sei troppo magra, ti spiace se do la parte a
un’altra?». Signor principe, Gradisca. Nei panni del principe c’è
Marcello Di Folco, che qualche anno dopo si sottopone all’operazione
chirurgica per cambiare sesso e sarà la prima transessuale eletta in una
carica politica, consigliera comunale di Bologna per i Verdi nel 1995.
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Nel borgo tutti condividono il trascorrere delle stagioni, il passaggio
della Mille Miglia e quello del transatlantico Rex, o la visita del duce in
una chiave deforme e tragicomica che connota il fascismo tout court. La
morte della madre di Titta e il matrimonio della Gradisca segnano la fine
del film e dell’innocenza. Lo storico del cinema Roberto Campari annota
che la vita di Amarcord si svolge «nella struttura circolare e ripetitiva dei
riti stagionali legati all’antico mondo agrario». Mentre il sodale
felliniano Renzo Renzi interpreta la «Rimineide» di Federico in termini
storiografici:
Seguendo il metodo di uno storico come Marc Ferro e
delle francesi «Annales» si può ripensare l’intera opera
cinematografica di Federico Fellini come un grande
ausilio alla definizione della specificità di Rimini, suo
notorio luogo di origine e di formazione.
Renzi delinea in particolare una dicotomia delle stagioni estiva e
invernale che corrisponde alle due Rimini dentro cui si muoverebbe la
memoria felliniana:
Fellini, in sostanza, ci parla specialmente del centro
storico, provinciale e invernale, come di una
dimensione, sia pure ingrata, ma «sua», lasciandoci
immaginare ciò che pensa della città del mare, così
lontana, favolosa, paurosa. Del resto, se l’estate di
Rimini è più estate che altrove, anche l’inverno è più
inverno che altrove.
In effetti Amarcord si riferisce soprattutto all’antico Borgo San
Giuliano, oggi punteggiato di murales felliniani, non lontano dal ponte di
Tiberio. La città del mare lontana, favolosa e paurosa… Già, per il
giovane Federico che si racconta in I vitelloni l’Adriatico è un vacuum, è
il filo dell’orizzonte vuoto e uggioso scrutato d’inverno dai pontili cui si
giunge dopo il lungo bighellonare quotidiano tra il nulla e l’oblio; è una
geografia quasi «alla Antonioni» e difatti l’esordiente Fellini fu tacciato
di… «incomunicabilità» dal critico Guido Aristarco, coltissimo cerbero
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del marxismo sullo schermo e dintorni, ben prima che l’incomunicabilità
divenisse la cifra dell’estetica di Antonioni grazie alla trilogia anni
Sessanta L’avventura, La notte e L’eclisse (protagonista Monica Vitti,
allora compagna del regista ferrarese). L’Adriatico felliniano evoca il
«cinema naturale» dei paesaggi ricorrenti nei racconti o documentari
padani di Gianni Celati e nelle fotografie di Luigi Ghirri con quelle
altalene sulle spiagge deserte e il «mare d’inverno» che ispirerà anche la
canzone di Loredana Bertè scritta da Enrico Ruggeri. L’Adriatico è una
«carta bianca» da istoriare con sogni e bisogni di partenze verso un altro
mare, tant’è che la quasi totalità delle scene rivierasche dei film felliniani
sono girate sul Tirreno, ad Anzio, Ostia, Fregene, o a Cinecittà, come la
leggendaria apparizione del Rex di Amarcord. In Fellini vige il
sentimento di esser sospeso fra mondi, epoche e due o più vite, che non è
propriamente nostalgia. D’altro canto, l’horror pleni è il basso continuo
delle geografie felliniane, dalla spiaggia sulla quale Zampanò piange la
perdita di Gelsomina nel finale di La strada (1954) sino a La voce della
luna (1990), quando Fellini torna con i semplici e i pazzi nelle campagne
dell’infanzia, negli stessi borghi che lampeggiano in 8 ½ e in Amarcord,
ormai irrimediabilmente trasfigurati. L’unica geografia che conta per
Federico è piccolina, là, in riva all’Adriatico, sotto quei cieli struggenti
di nuvole e di desideri, all’arrivo delle «manine», la lanugine agitata
dalla brezza che annuncia la primavera in Amarcord. Un’epifania al pari
del Rex e del «pavone del conte» che appare all’improvviso, si posa sulla
fontana della Pigna in piazza Cavour (tutta ricostruita a Cinecittà,
ripetiamo) e fa la ruota a suggello della scena del «nevone» in cui Titta e
i suoi amici lanciano palle di neve sul sedere della Gradisca, che si
diverte un mondo. Tra i ragazzini c’è l’undicenne Eros Ramazzotti che
abitava nei pressi di Cinecittà e fu scritturato quale comparsa, mentre un
altro cantante ottiene una particina nel film, il giovane Francesco Di
Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso. Le «manine» e il pavone sono
intuizioni poetiche di Tonino Guerra, il quale, senza alcuna polemica con
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Fellini, sostenne che il titolo del film derivasse anche dal ricordo dei
borghesi di paese che entrando al bar comandavano un Amaro Cora: «Da
amaro, amaro Cora, è nato Amarcord».
Certo, Amarcord è il film più lieve di Fellini, baciato da una grazia
quasi esente da tormenti, nonostante le scene drammatiche
sull’arroganza dei fascisti che umiliano il padre di Titta. Per provare ad
essere partecipi di tale levità, lasciamo la parola allo stesso Fellini in una
lettera che indirizza il 3 novembre 1973 al giovane pittore Giuliano
Geleng – figlio di Rinaldo, vecchio amico di Federico –
commissionandogli la locandina del film con un tono affettuosamente
scanzonato:
Allora: il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio
sprigionare la lietezza squillante di una cartolina
natalizia o meglio, pasquale; il colore dovrebbe essere
netto, lucido, sonoro, insisto sulla sonorità; dal
manifesto dovrebbe uscir fuori una specie di
scampanio, di voci, di grida e aria e luce e vento. Non
spaventarti. Preciso meglio la composizione: tutti i
personaggi del film dovrebbero come affacciarsi dal
manifesto, a fissare gli spettatori, quelli che passano
per la strada. Dovrebbero, questi personaggi, essere
come sorpresi in una immobilità sbigottita, amabile,
riluttante e sfrontata, una specie di vecchia immagine
indelebile e favolosa riflessa in uno specchio festoso,
domenicale… Poi dietro di loro potrebbe aprirsi una
vasta distesa con la campagna, la spiaggia, il mare, e
tu, che ami tanto i maestri del surrealismo, potresti
disseminare questa profondità celeste e luminosa di
alcuni temi e situazioni del film: il Grand Hotel, il Rex,
una tavolata nuziale, facendo attenzione però a
conservare del surrealismo non la sua fraintesa
vocazione al sovvertimento gratuito, ma badando a
cavarne fuori uno dei suoi caratteri più autentici, e cioè
la meraviglia, l’incanto liberatorio, quella leggerezza
sognante, minacciosa…
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La chiosa epistolare la dice lunga sulla cultura di Fellini, che qui è
folgorante nel separare il grano del surrealismo dal loglio dei
fraintendimenti che quella avanguardia suscitò suo malgrado. Ma ciò che
più conta è appunto lo spirito «comunitario», palese nel film. Gianni
Celati rilegge Amarcord all’insegna del concetto di Giambattista Vico
per cui «la memoria è lo stesso che la fantasia», ma declinata nei termini
«delle fantasie maschili sulle donne, dall’età dell’adolescenza alla
maturità. In questo senso, l’intero film è una poetica dell’immaginazione
maschile». E aggiunge che in Amarcord è di scena la società
infantilizzata dal fascismo, a cominciare dal culto di un maschilismo
tanto patetico quanto cinico, bieco e infine onanistico e impotente. In
effetti Fellini bersaglia a più riprese l’effigie di Mussolini e riserva
persino un inserto militante antifascista, allorché gli squadristi sparano
contro chi sta facendo risuonare L’Internazionale dal campanile del
borgo (scena che sarebbe stata «a suo agio» in Novecento di Bernardo
Bertolucci, 1976). D’altro canto, come nei dipinti di Mark Rothko votati
a Tiresia, l’indovino cieco che presagisce il futuro ma cammina a ritroso,
nel nebbioso capolavoro del Riminese la visione non scaturisce dal reale
e dal presente, ma dal mito che si staglia all’improvviso nella notte del
passato, nel «mistero potente dell’ombra». Nel buio, luce: amarcord!
65
B
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Borgo (ovvero Rimini)
«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un
paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella
terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».
È lo stralcio, forse il più noto, di La luna e i falò di Cesare Pavese,
apparso nel 1950, pochi mesi prima che l’autore si togliesse la vita. In
apparenza hanno ben poco da condividere lo scrittore langarolo austero e
impegnato, laico e infelice, e il regista riminese penitente sed gaudente,
nonché potente, tanto da esser bollato come «un vescovone» sempre
riverito dal codazzo di rito (copyright Pasolini, a causa del malanimo di
cui abbiamo detto). Ad avvicinarli, però, vi sono la fiction in cui celare a
stento l’autobiografia e la passione per l’America definita da Pavese «il
gigantesco teatro dove con maggiore franchezza che altrove veniva
recitato il dramma di tutti». Passione anche felliniana, certo, manifesta in
Napoli-New York, un trattamento cinematografico della fine degli anni
Quaranta mai giunto sullo schermo, scritto da Federico con Tullio
Pinelli, ritrovato e pubblicato in anni recenti. Lo stesso Pinelli, molto
amico dei coniugi Fellini, sceneggiando La dolce vita delinea il
personaggio di Steiner, l’intellettuale suicida interpretato da Alain Cuny
dopo il rifiuto dello scrittore Elio Vittorini a comparire nel ruolo,
ispirandosi alla figura di Pavese, suo ex compagno di classe al liceo
classico D’Azeglio di Torino. Entrambi hanno frequentato nei banchi del
D’Azeglio la «scuola di resistenza» antifascista del professor Augusto
Monti, dove tra gli altri si sono formati Giulio Einaudi, Luigi Firpo,
Vittorio Foa, Leone Ginzburg, Norberto Bobbio… Ma ad affratellare
Pavese e Fellini c’è innanzitutto quella frase, lapidaria come una
sentenza, che riecheggia dalle colline piemontesi alla riviera adriatica:
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«Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via». Senza
un paese da lasciarsi alle spalle – «il borgo» viene definita Rimini in
Amarcord – non è possibile alcuna fuga, non v’è identità né futuro. E
bôrg, il borgo in dialetto romagnolo, era il primo titolo del film –
racconta il semiologo Paolo Fabbri, anch’egli riminese. «Parola dura,
gotica, arcana», scrive lo studioso citando Fellini, laddove «Amarcord è
una paroletta bizzarra, un carillon, una capriola fonetica, un suono
cabalistico, la marca di un aperitivo» (il che avvalora l’ipotesi di Tonino
Guerra sul titolo derivato dall’Amaro Cora). Le radici come grammatica
del vivere da imparare a menadito, magari per riuscire a tradirla. Non è
dunque questione di nostalgia, caso mai di «rizomi» le cui parti nascoste
fecondano il mondo vissuto, stando alla metafora psicoanalitica propria
di Carl Gustav Jung e ripresa dal filosofo francese Gilles Deleuze. Sì,
Jung fu ammirato e studiato da Fellini, che inzuppava archetipi nel
cappuccino bollente dei sogni appena fatti e disegnati nei taccuini sul
comodino. Quanto a Deleuze, è stato un originale esegeta dei film del
Nostro, che a occhio e croce (e delizia) dovettero sembrargli una bella
conferma delle sue teorie sul desiderio quale officina dell’inconscio e,
voilà, del mondo. Fra il complesso di Edipo e L’anti-Edipo che dà il
titolo all’importante saggio scritto da Deleuze con Félix Guattari, a
contare è che per «paese» s’intende una geografia sentimentale specifica,
per esempio quella di 8 ½ punteggiata dai ricordi di Guido Anselmi
(Marcello Mastroianni). I bagni iniziatici dei bambini nella tinozza di
vino, la nonna che si aggira nel buio con una candela in mano e la paura
«alchemica» del piccolo Guido quando per la prima volta ascolta da una
coetanea la misteriosa formula «Asa Nisi Masa»… Il protagonista la
dimenticherà, per ritrovarla tanto tempo dopo in una serata «magica» nel
mezzo della «crisi d’ispirescion» dell’artista non più cucciolo: «E se [la
crisi] non fosse per niente passeggera, signorina bella? Se fosse il crollo
finale di un bugiardaccio senza più estro né talento?». Del resto a
vivificare molte immagini felliniane, dai primi film sino a La voce della
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luna, è proprio l’afflato contadino carissimo a Pasolini – sebbene privo
del rimpianto apocalittico di Pier Paolo per la «forza del passato» –
ovvero un’eco della tensione mai sopita del grande scrittore russo Lev
Tolstoj verso la natura, nella perdita d’occhio della Storia.
Tonino Guerra era innamorato della Russia, dove visse a lungo e
conobbe la sua seconda moglie Eleonora «Lora» Jablockina (testimoni di
nozze i registi Andrej Tarkovskij e Michelangelo Antonioni). La
rivoluzione sovietica fu sì un violento strappo nella tela d’inizio
Novecento, ma, dopo la fine dell’URSS, non è poi troppo azzardato
rileggerne gli esiti in termini «astronomici»: l’avvio di un moto di ritorno
di un corpo, la Russia, intorno al secolo. Forse aveva ragione Bertolt
Brecht nel suo Elogio del comunismo: «Non è follia, ma / fine della
follia. / Non è l’enigma / ma la soluzione. / È la cosa semplice / che è
difficile a farsi». Già, la semplicità, la terra, Tolstoj… Guerra Tonino e
pace Tonino era nato a Santarcangelo di Romagna il 16 marzo 1920,
quindi coetaneo di Fellini. Poeta del cinema e non solo, in primis per i
versi in dialetto che Guerra prende a scrivere nel campo di
concentramento nazista di Troisdorf, dove recita ai compagni di
prigionia i Sonetti romagnoli di Lorenzo Stecchetti, un poeta popolare
che sarebbe da riscoprire. Le prime poesie vengono prefate nel 1946 da
Carlo Bo (I scarabocc) e apprezzate dal filologo Gianfranco Contini, che
gli introduce la raccolta successiva I bu (I buoi), e dal severo Vittorini, il
quale nel 1952 accoglie nei Gettoni della Einaudi da poco orfana di
Pavese – accanto a Fenoglio e Calvino, a Ortese e Lucentini – un
racconto di Guerra, La storia di Fortunato. Molta della sua produzione
letteraria, in seguito per i tipi di Rizzoli, si trova oggi nelle edizioni
Maggioli di Rimini, dalle copertine naïf ed eleganti. Scomparso nella
primaverile Giornata mondiale della Poesia, il 21 marzo 2012, Guerra
era della genia terragna per cui le liriche sono cielo, mare, albero, donna
e un paese più esteso dell’ombra di un campanile. L’amico Ermanno
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Olmi lo salutò con una frase semplice e magnifica: «Lo sai, Tonino,
seguo il tuo consiglio: ogni volta che passo davanti a un mandorlo in
fiore mi tolgo il cappello». Nei suoi borghi – Santarcangelo, Rimini e
Pennabilli nell’Alta Valmarecchia dove aveva casa – si esprimeva anche
disegnando fontane, piazze e scalinate. Un artista totale,
neorinascimentale. Nondimeno Guerra resta soprattutto lo sceneggiatore
principe con Antonioni e Fellini, dioscuri del Dio Cinema, gemelli
coltelli del dopoguerra italiano laconico e fantasioso che avrebbe
generato più epigoni che eredi in mezzo mondo. Ma egli scrisse anche
per il greco Anghelopoulos, il dissidente sovietico Tarkovskij e il tedesco
Wenders, per De Sica, Rosi e Monicelli, il cileno Littín e l’israeliano
Gitai, Tornatore e i Taviani, Mingozzi e Bellocchio, De Seta e Castellani,
Bolognini e Damiani. E sua è la sceneggiatura di Il mostro è in tavola…
barone Frankenstein di Paul Morrisey, Andy Warhol e Antonio
Margheriti, dal romanzo di Mary Shelley. Il segno di Guerra è sempre
riconoscibile nella propensione per l’inatteso che spesso coincide con
un’Attesa, per l’interstiziale, l’onirico, l’ironico. Suoi sono i «miracoli»
della vita quotidiana nel borgo: l’apparizione nivea del pavone e le
illusioni luccicanti sul mare di Rimini. Amarcord, diceva il generoso
Tonino, «ha regalato l’infanzia al mondo». Per i cineasti russi, da
Michalkov a Sokurov, e naturalmente per gli americani, nonché gli
iraniani, i cinesi, i neozelandesi e tutti gli altri, l’Italia è un mito in virtù
delle immagini di questa provincia affabulata da Fellini e Guerra. L’Italia
è un pianeta lucente e impenetrabile che orienta nella notte, un
frammento di universo sfuggito alla genesi per palesare i bagliori della
vita, a cominciare dalle relazioni tra le donne e gli uomini. Le donne alle
quali, lo sappiamo, «fanno male i capelli» (Monica Vitti in Deserto rosso
di Antonioni, 1964). Non c’è sarcasmo nello sguardo di Fellini sulla
Rimini del periodo fascista e pertanto non si ride del basco rosso della
Gradisca che è un po’ la parodia del copricapo indossato da Marlene
Dietrich e da Ingrid Bergman, né delle sue chiappe pronunciate,
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stuzzicanti quasi quanto quelle di una delle statue del monumento alla
Vittoria che turbano Titta. Non si ride del solone di paese bersagliato
dalle palle di neve, né di Teo lo zio matto (Ciccio Ingrassia), che si
arrampica su un albero e urla A vòi na dôôna! («Voglio una donna!»),
scendendo soltanto in seguito all’ordine di una monaca nana. Invece si
ride con loro, forti di un’appartenenza comune, nella chiave di un lunario
fantastico tipico di un’ineffabile «via emiliana» della nostra letteratura
(Gianni Celati, certo, ma anche Ermanno Cavazzoni, Francesco Guccini,
Paolo Nori…). L’immaginazione può più della razionalità, la memoria
più della coscienza, il sogno più della veglia, il silenzio più della parola,
e la Gradisca più di tutti e di tutto. Era il timido canone di Federico,
seppur dissimulato in migliaia di fotogrammi, di gag, di scenette, di
svagate osservazioni sulla grande nevicata, accolta dal «Pataca» davanti
al cinema Fulgor con una certa lungimiranza: «Mocché, questa è
acquaticcia, non si attacca micca». E pensiamo ancora alle «manine»
svolazzanti nell’aria, descritte in principio da «Giudizio» (Aristide
Caporale):
Sono delle manine di cui che girano, vagano qua e
vagano anche là. Sorvolano il cimitero di cui tutti
riposano in pace. Sorvolano il lungomare con i tedeschi
datesi che il freddo non lo sentono loro. Ai… Al…
Vagano,
vagano.
Girollanz…
Gironzano…
Gironzalon… Vagano, vagano, vagano!
Un monologo così oggi potrebbe stare in un film di Checco Zalone, il
quale in Che bella giornata di Gennaro Nunziante (2011) anima
un’esilarante festa di battesimo nel borgo natio di Alberobello, con una
sequela di gag al culmine quando Caparezza (Michele Salvemini) è
obbligato a cantare Non amarmi, un brano che detesta.
«Ma come farai a stare lontano dal borgo?» – chiede qualcuno a voce
alta nel finale di Amarcord, mentre parte l’automobile con a bordo la
Gradisca che ha appena impalmato un carabiniere, «il suo Gary Cooper».
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Allorché una decina di anni fa si venne a sapere del via vai di fanciulle
prezzolate e di solerti prosseneti nelle residenze dell’allora presidente del
Consiglio Silvio Berlusconi, era da poco uscito un libro dal titolo
Gradisca, Presidente, una parafrasi di Magali Noël in visita nella suite
regale del Grand Hotel: «Signor principe, gradisca». Ma nell’attrice e
cantante francese scomparsa nel 2015 palpitavano un’innocenza e
un’ironia estranee ai nostri tempi. Con il suo «cappottino rosso
fiammante davanti al Fulgor» – disse il sindaco di Rimini Andrea Gnassi
– resta un’icona del Peccato meno licenziosa di altre protagoniste in auge
negli anni Settanta: Laura Antonelli ed Edwige Fenech, Lilli Carati e
Gloria Guida. E quando la Gradisca saluta «il borgo», invero è Fellini a
dire «ciao» a un’Italia che non tornerà, apparentemente finita.
Eppure, Fuori e dentro il borgo è il titolo dell’esordio narrativo del
cantautore Luciano Ligabue, emiliano di Correggio, il paese dov’era nato
lo scrittore Pier Vittorio Tondelli, il grande talento della generazione del
movimento del Settantasette, scomparso troppo presto nel ’91, non prima
di aver dedicato un romanzo alla capitale dell’Adriatico kitsch, Rimini
(1985). Liga nel 1998, complice la Fandango del produttore Domenico
Procacci, porta sullo schermo i racconti del suo libro che a ben vedere
sono un tentativo di aggiornare il «Mondo piccolo» del parmense
Giovannino Guareschi. Le radio libere, la droga che uccide, l’amicizia
che salva, gli amori… Il film è Radiofreccia, una specie di amarcord
giovanilistico degli anni Settanta, un successo cui seguiranno Da zero a
dieci (2001) e Made in Italy (2018). Può apparire bizzarro che l’amor
loci sia custodito soprattutto dagli artisti, tradizionalmente «apolidi» per
statuto, ma in Italia continua ad essere così. Non v’è autore estraneo
all’influenza acuta dei luoghi, tanto più se provinciali, e a una sorta di
rabdomanzia visionaria, da Amelio a Moretti, da Tornatore a Rubini, da
Garrone a Özpetek, da Winspeare a Guadagnino, da Martone a Piccioni,
da Virzì a Piva, Papaleo, Quatriglio, Mainetti, Salvatores, Sollima,
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Carlei, Base, Costanzo, Caligari, Ferrario, Carpignano, Frammartino…
Un argine, a suo modo, alla slavina di disamore e di discredito che negli
ultimi trent’anni ha investito l’idea stessa del paese, vagheggiando il
separatismo settentrionale o le piccole patrie subalpine, non meno delle
chimere neoborboniche al Sud, con i riflessi di xenofobia oggi evidenti.
Certo, ad esempio, il «patriottismo» di Ligabue è sanguigno e un po’
«vitellonesco» (un altro aggettivo derivato da Fellini), ironico sebbene
non privo di echi struggenti (visto che siamo pur sempre nell’Emilia di
Verdi), proletario e ribelle (visto che siamo pur sempre nell’Emilia un
tempo «rossa», a Reggio e provincia). Made in Italy adotta la «presa
diretta» da un’Italia incattivita e immiserita, inquieta e tuttavia non doma
ai tempi della crisi, alternando situazioni ilari a vicende tragiche,
suggellate dal celebre passo di Pavese: «Un paese ci vuole…».
Scrive Fellini sul «Corriere della Sera» del 25 maggio 1971:
Io, a Rimini, non torno volentieri. Debbo dirlo. È una
sorta di blocco. La mia famiglia vi abita ancora, mia
madre, mia sorella: ho paura di certi sentimenti?
Soprattutto mi pare, il ritorno, un compiaciuto,
masochistico
rimasticamento
della
memoria,
un’operazione teatrale, letteraria. Certo, essa può avere
il suo fascino. Un fascino sonnolento, torbido. Ma
ecco: non riesco a considerare Rimini un fatto
oggettivo. Pensare a Rimini. Rimini: una parola fatta di
aste, di soldatini in fila. Non riesco a oggettivare.
Rimini è un pastrocchio, confuso, pauroso, tenero, con
questo grande respiro, questo vuoto aperto del mare; lì
la nostalgia si fa più limpida, specie il mare d’inverno,
le creste bianche, il gran vento, come l’ho visto la
prima volta. È piuttosto, e soltanto, una dimensione
della memoria. Infatti, quando mi trovo a Rimini,
vengo sempre aggredito da fantasmi già archiviati,
sistemati.
Ciononostante ad attendere Federico in paese, nel borgo, insomma a
Rimini, c’erano «le storie in briciole di una casalinga straripata», come
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s’intitola un gustoso libretto autobiografico della sorella Maria
Maddalena, in famiglia detta «il Bagolo», edito da Mario Guaraldi,
importante editore delle stagioni sessantottine e poi vicino a Comunione
e Liberazione (non dimentichiamo che Rimini dal 1980 ospita ogni anno,
dopo Ferragosto, il Meeting per l’amicizia tra i popoli organizzato da
CL). Ad aspettare Federico a Rimini c’erano le cene a base di vongole
poveracce o manzo della Valmarecchia nella trattoria «Dallo Zio», nella
casetta ottocentesca di via Santa Chiara, vicino all’arco d’Augusto. E
c’erano i passi perduti nei vicoli in cui gironzolò da ragazzo con la
cagnolina Titina. C’era il leggendario Grand Hotel scelto per i soggiorni
riminesi, sempre nella suite 316, dove trascorse la convalescenza da un
intervento chirurgico all’aorta, e il 3 agosto 1993 venne colpito dal primo
ictus. E a custodire il genius loci di Rimini, finalmente, dopo un lungo
disamore degli enti pubblici che ha mortificato la Fondazione Fellini, nel
2020 del centenario s’inaugurerà il Museo Federico Fellini, che riserverà
al visitatore visioni multimediali tra la rocca di Castel Sismondo, i piani
superiori di Palazzo Valloni con il cinema Fulgor e l’area attorno a
piazza Malatesta. A proposito di visioni, una storia riminese da non
trascurare è quella della Madonna della Misericordia, un’icona dipinta
nel 1796 da Giuseppe Soleri Brancaleoni per le suore clarisse della
chiesetta di Santa Chiara. Il 12 maggio 1859 la Madonna cominciò a
muovere gli occhi e lo fece per gli otto mesi successivi: le pupille –
raccontano le cronache dell’epoca – «si alzavano verso il cielo e si
abbassavano sui fedeli. A volte erano lucenti come stelle, altre si
velavano di pianto». Bene, una copia della sacra immagine miracolosa si
trova nella piccola chiesa romana di Santa Maria in Trivio, giusto
accanto alla fontana di Trevi, all’incrocio dell’antico trivium che secondo
una leggenda avrebbe dato il nome alla fontana. Un segno del destino?
Federico, come here.
74
C
75
Clown
Chissà quando è successo, ma la figura del clown assai cara a Federico
Fellini ha assunto nel corso degli ultimi decenni venature quasi horror.
Oggi il clown appartiene agli inferi come il mangiabambini fognario
Pennywise in It di Stephen King (1986), oppure è lo psicotico ribelle dal
sorriso irrefrenabile nell’inquietante Joker di Todd Phillips con Joaquin
Phoenix (2019). Non parliamo della vertigine o della paura che da
sempre, fra acrobati e saltimbanchi, è l’altra faccia dell’attrazione. No,
ormai il clown è spesso sinonimo di cannibalismo, di demone mai pago
di vendetta, di maschera che determina o confonde l’identità di chi la
indossa fino alla perdizione. Nella deriva dell’immaginario adulto che
regredisce in un infantilismo patologico, il clown è un fármakon, sia
veleno sia antidoto: esibisce il naso rosso del dottor Patch Adams (che ha
introdotto la terapia del sorriso negli ospedali) o riserva le valenze
funeree di cui sopra. Anche Fellini attribuisce al circo «un’aria di
mattatoio con il sangue in mezzo alla segatura» e riconosce nel clown il
suo dáimon benefico, nei termini della psicologia del profondo di Jung:
un promemoria di fedeltà alla vocazione-annunciazione originaria, al
«piccolo dio individuale, lo Shiva interiore». Non a caso Fellini sogna di
presentarsi truccato da clown negli uffici della produzione Federiz dopo
aver incontrato in un bar di periferia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia a
loro volta con fattezze da pagliaccio. Federico si lascia fotografare
volentieri truccato da pagliaccio dinanzi allo specchio e gli piace
raccontare l’episodio infantile – vero o falso che fosse – della sua prima
fuga da casa, ammaliato dai girovaghi di un circo. Lasciamo la parola a
lui:
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Il clown è come l’ombra, incarna i caratteri della
creatura fantastica, che esprime l’aspetto irrazionale
dell’uomo, la componente dell’istinto, quel tanto di
ribelle e di contestatario contro l’ordine superiore che è
in ciascuno di noi. È una caricatura dell’uomo nei suoi
aspetti di animale e di bambino, di sbeffeggiato e di
sbeffeggiatore. Il clown è uno specchio in cui l’uomo si
rivede in grottesca, deforme, buffa immagine. È
proprio l’ombra. Ci sarà sempre. È come se ci
chiedessimo: È morta l’ombra? Muore l’ombra? […]
San Francesco non si è definito, forse, giullare di Dio?
E Lao Tse diceva: Appena ti fabbrichi un pensiero,
ridici sopra.
A proposito di Lao Tse, la Cina non è estranea alla genesi del film I
clowns del 1970, concepito allo scoccare dei cinquant’anni del Nostro,
grazie al fallimento di un progetto commissionatogli da una rete
televisiva americana: una piccola galleria di special, come si diceva
allora, di 55 minuti ciascuno, dal titolo Experimental Hour. Fellini
sarebbe stato libero di fare qualunque cosa, perfino di rimanere 55 minuti
in silenzio a guardare il pubblico, come gli prospettò il produttore. «Mi
pagate?», chiese il maestro. «Certamente. Possiamo mettere al tuo posto
anche la tua fotografia, se ti stanchi», replicò «un certo Peter Goldfard,
in italiano Pietro Colordoro», annota Fellini, facendo sorgere il sospetto
di un dialogo inventato di sana pianta. In realtà si chiama Goldfarb e gli
ha appena prodotto Block-notes di un regista (1969), un finto
documentario fra le rovine del set immaginario di Il viaggio di G.
Mastorna, chimerico film felliniano che non sarà mai realizzato, e i
sopralluoghi per il Satyricon. Al dunque, Fellini propone di dedicare il
primo special a Mao Tse-tung che vorrebbe addirittura incontrare, tanto
da parlarne al critico d’arte e parlamentare comunista Antonello
Trombadori affinché l’aiuti a capire come arrivare al cospetto del Grande
Timoniere: «Se non fossi riuscito a intervistarlo, avrei raccontato come
non ero riuscito». Ma Fellini non ha alcuna seria intenzione di andare a
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Pechino, come invece farà Michelangelo Antonioni accompagnato dal
giornalista Andrea Barbato per girare Chung Kuo, Cina (1972), lo storico
documentario sulla rivoluzione culturale maoista. Così, anche in virtù
dell’eclissarsi della Tv americana, cui subentra la Rai, Fellini ripiega su
un progetto più domestico: «Facciamo i clowns, ambasciatori della mia
vocazione, fu la mia proposta. Con Bernardino Zapponi chiacchierammo
una domenica pomeriggio, a casa sua, a Zagarolo. Facemmo un viaggio a
Parigi alla ricerca non sapevo nemmeno di che cosa e al ritorno, in pochi
giorni, la sceneggiatura era fatta».
I clowns è una pellicola di solito sottovalutata nella filmografia
felliniana, eppure, ha ragione lo storico del cinema Gian Piero Brunetta,
è tra quelle invecchiate di meno e meglio, perché proietta l’infanzia oltre
l’età anagrafica e l’ammanta di un’aura mitica grazie a una felice
combinazione tra fiction e memoir, con Federico spesso in scena nelle
riprese francesi sulle tracce dei vecchi clown carichi di gloria, ma sulla
soglia dell’oblio. Fa testo l’incipit che pone il film al riparo dal rischio
degli stereotipi circensi affidandosi a una voce fuori campo:
incomprensibile, rauca, gutturale. Invocazione, incitamento, ordine che
sia, la voce ha un sentore romagnolo per la zeta prolungata, ma non per
questo è meno esotica, straniera, perturbante, ed è intervallata come un
refrain dalla musica di Nino Rota sui titoli di testa.
La prima scena del film, con la macchina da presa fissa, è il risveglio
di un bambino nella sua cameretta arredata laconicamente con un letto,
un comodino e una sedia risalenti agli anni Trenta. Probabilmente è la
stessa stanza di cui Fellini scrive nel Libro dei sogni, appuntando il 6
febbraio 1961 una tenera visione dell’amico con cui ha da poco rotto:
Nella cameretta a Rimini, dove ragazzetto studiavo
(trenta anni fa), sono a letto con Pasolini. Abbiamo
dormito insieme tutta la notte come due fratellini o
forse come marito e moglie perché ora che lui si sta
alzando in maglietta e mutandine per andare verso il
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bagno, mi accorgo che lo sto guardando con un
sentimento di tenerissimo affetto…
Ma la scena iniziale di I clowns ricorda altresì l’ambiente di 8 ½
ispirato ai ricordi estivi del piccolo Federico in vacanza dai nonni paterni
a Gambettola, in un casolare, ora in via di restauro, nei pressi del fiume
Rubicone (Alea iacta est…). Il bambino di I clowns è svegliato da quella
voce che si ripete con cadenza regolare all’esterno, si alza dal letto, porta
la sedia fino alla finestra, scosta la tenda e apre le persiane. Un
controcampo ne mostra il volto, ma è in ombra, non riconoscibile. Una
ripresa in soggettiva finalmente fa capire da dove proviene la voce:
stanno allestendo un piccolo circo, lì a pochi metri. La carovana giunta
nottetempo si è accampata in tondo, come i pionieri nei film western di
John Ford, e il tendone viene innalzato nella luce «a cavallo» – dicono i
cinematografari – fra la notte e l’aurora. Il recinto magico è a suo modo
un témenos, la porzione del reale che i greci riservavano a un culto: il
culto dell’infanzia, del prodigio e dello stupore.
Lo psicoanalista James Hillman scrive in Il sogno e il mondo infero
che
niente meglio del circo incarna il capovolgimento
dell’esperienza raffigurato nell’oltretomba egizio. Nel
circo tutto sembra convergere verso un unico scopo:
sovvertire l’ordine naturale delle cose, un opus contra
naturam che vince la forza di gravità… Dove altro, se
non al circo, possiamo vedere il mondo infero in pieno
giorno?
Nel film lo chapiteau viene issato come una vela da alcuni uomini con
le funi in riva al mare. Il lido è il luogo privilegiato delle epifanie
felliniane, siano esse iniziali o finali: in Lo sceicco bianco, I vitelloni, La
strada, Il bidone, La dolce vita, 8 ½, Amarcord, Casanova… Adesso il
bambino entra nella stanza dove la mamma sta stirando. «Ma che
cos’è?», le chiede. «È il zirco, se non stai buono ti faccio portar via da
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quei zingari». Allora il piccolo protagonista, vestito da marinaretto, va
verso la porta di casa da cui filtra una luce accecante e vede il tendone
piantato nella sabbia che comincia proprio sulla soglia, oltre la quale
l’accoglie il sibilo improvviso di una folata: il vento, altro motivo
ricorrente nei film di Fellini per scandire un passaggio emotivo. Il
bambino fa qualche passo, si ferma e poi decide di procedere. La
macchina da presa punta verso l’alto, svelando un uomo arrampicato sul
tendone che adesso appare molto più grande. Intanto un nano pettina i
capelli di una donna, un altro bambino con una pompa innaffia e
abbevera un elefante, e due lavoranti, cantando nella medesima lingua
ineffabile della voce misteriosa, fissano l’insegna «Circo Equestre» che
contiene degli animali da un lato e due clown dall’altro. L’inquadratura
successiva è un sipario che si apre sulla pista vuota del circo guardata dal
bambino, dove fa il suo ingresso un domatore con la frusta, il cappello a
cilindro, il papillon e i guanti bianchi. Strizza l’occhio al bambino e con
uno schiocco di frusta fa entrare i pony. Riparte improvvisa ed eclatante
la musica di Rota ed ecco la galleria delle facce felliniane, all’esterno
della tenda, ove sta imbrunendo: un mangiafuoco a torso nudo memore
di Zampanò di La strada, un pagliaccio col megafono per invitare gli
spettatori ad accorrere e la gente in fila che versa i soldi del biglietto a
una donna che sta mangiando gli spaghetti.
Scrive Giovanni Grazzini sul «Corriere della Sera»: «Fellini, con
mirabile purezza d’immagine e inimitabile forza icastica, accomuna nel
ricordo la meraviglia per la gente del circo e lo stupore per i personaggi
deformi della sua provincia natale». Volti e storie del passato
s’intrecciano infatti con quelli del presente: gli anziani saltimbanchi,
Liana Orfei, il clownologo Tristan Rémy, la «pantera» Anita Ekberg
sedotta dai felini/Fellini… Nell’arco di pochi minuti, il film passa dalla
realtà all’immaginazione, prendendo per mano e persuadendo all’istante
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lo spettatore, perché la mano è quella di un bambino che ha riconosciuto
il futuro in un circo.
Fellini spiega:
Quando dico: «il clown», penso all’augusto. Le due
figure sono, infatti, il clown bianco e l’augusto. Il
primo è l’eleganza, la grazia, l’armonia, l’intelligenza,
la lucidità, che si propongono moralisticamente come
le situazioni ideali, le uniche, le divinità indiscutibili.
Ecco quindi che appare subito l’aspetto negativo della
faccenda: perché il clown bianco, in questo modo
diventa la Mamma, il Papà, il Maestro, l’Artista, il
Bello, insomma «quello che si deve fare». Allora
l’augusto, che subirebbe il fascino di queste perfezioni
se non fossero ostentate con tanto rigore, si rivolta. Egli
vede che le «paillettes» sono splendenti; però la
spocchia con cui esse si propongono le rende
irraggiungibili. L’augusto, che è il bambino che si caca
sotto, si ribella a una simile perfezione; si ubriaca, si
rotola per terra e anima, perciò, una contestazione
perpetua. Questa è, dunque, la lotta tra il culto superbo
della ragione (che giunge a un estetismo proposto con
prepotenza) e l’istinto, la libertà dell’istinto. Il clown
bianco e l’augusto sono la maestra e il bambino, la
madre e il figlio monello; si potrebbe dire, infine:
l’angelo con la spada fiammeggiante e il peccatore.
Ma in fondo anche il bianco Freud e l’augusto Jung, stando ancora a
Hillman che così argomenta:
Non si tratta di diventare un clown ma di imparare la
sua lezione: farne un’arte delle nostre insensate
ripetizioni, dei nostri capitomboli e delle nostre
patologizzazioni, indossare la maschera della morte che
apre le porte al mondo onirico e osservare come esso
trasforma in immagini sorprendenti gli oggetti
quotidiani e in oggetto di risate la nostra persona
pubblica. Si segue il clown nel circo entrando in una
prospettiva di ribellione contro l’ordine del mondo
diurno; una ribellione senza causa e senza violenza.
Attraverso il clown entriamo nella prospettiva
81
dell’anima fantastica; il clown come psicologo del
profondo. Pensate un po’: Freud e Jung, due vecchi
clown.
Il set cinematografico e il setting psicoanalitico coincidono sotto la
tenda da circo: «È il zirco, se non stai buono ti faccio portar via da quei
zingari».
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D
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Dolce vita
Più di 13.600.000 persone nel corso del 1960 accorrono in sala per La
dolce vita di Federico Fellini, che secondo i dati Siae è il sesto tra i film
più visti in Italia dal 1950 a oggi nella classifica dominata da Guerra e
pace di King Vidor (1955). Tra gli spettatori non mancano i minori di 16
anni, nonostante il divieto della commissione ministeriale, che soltanto
nel 1975 sarà abbassato ai minori di 14. I ragazzi, soprattutto in
provincia dove il controllo è lasco, s’ingegnano pur di assaporare «il film
del peccato» (carta d’identità del fratello maggiore, affabile inganno
delle maschere, ingresso clandestino), evocandone quindi le meraviglie
con i coetanei che non hanno avuto il coraggio della trasgressione. Alla
vigilia, Peppino Amato, il co-produttore del film con Angelo Rizzoli, è
facile profeta e se ne esce con un malapropismo dei suoi: «Per questo
film l’attesa è sporadica!» (voleva dire «spasmodica»). Il 5 febbraio
1960 l’anteprima della pellicola al Capitol di Milano è l’inizio di una
bufera: c’è addirittura chi sputa contro Fellini e, immediate, giungono le
richieste di censura da parte ecclesiastica. La sconcia vita e Basta!
s’intitolano due anonimi commenti sulle colonne de «L’Osservatore
Romano», il quotidiano della Santa Sede, attribuiti al parlamentare
democristiano Oscar Luigi Scalfaro, che sarà poi presidente della
Repubblica, paradossalmente tacciato di «filocomunismo» nei
berlusconiani anni Novanta. Eppure la marcia trionfale del film non si
ferma, anzi. Il 20 maggio La dolce vita vince la Palma d’oro del Festival
di Cannes, la cui giuria è presieduta da Georges Simenon, creatore del
commissario Maigret e investigatore delle inquietudini esistenziali in
romanzi non solo polizieschi, che vede nel riminese Fellini un fratello
elettivo. «Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi stessi»,
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recita una battuta della sceneggiatura firmata dal regista con Ennio
Flaiano, Tullio Pinelli e Brunello Rondi. Nondimeno il grottesco messo
in luce dallo sguardo antropologico di Fellini è scambiato per un elogio
acritico dell’Italia euforica e mondana nelle stagioni del boom, o
«miracolo economico» che dir si voglia. Una svista dovuta al titolo
zuccheroso del film, la cui ironia è surclassata dallo scandalo. L’abbaglio
di massa permane e non ha risparmiato La grande bellezza di Paolo
Sorrentino (2013, premio Oscar nel 2014), opera di evidente derivazione
felliniana, considerata un inno al Belpaese del quale, invece, mostra i
malinconici trastulli e il sostanziale disfacimento.
Nel cinquantenario di La dolce vita «L’Osservatore Romano» ha
pubblicato un saggio elogiativo che fa ammenda dell’anatema
ecclesiastico e nel medesimo 2010 il grande regista italoamericano
Martin Scorsese ha propiziato il restauro del film. Le immagini di
Marcello Mastroianni e Anita Ekberg sono state riconsegnate
all’originario splendore del bianco e nero (la fotografia è di Otello
Martelli), scandito dalle musiche sublimi di Nino Rota. Ma appare più
difficile restituire a La dolce vita la sua autenticità nel merito, che certo
non stagna a mollo nella fontana di Trevi in cui la diva Sylvia irretisce il
protagonista Marcello Rubini. Questi è un giornalista votato a dissipare
sia il proprio talento sia l’idea stessa di notizia, perché Fellini – a ben
vedere – pronostica con largo anticipo la commistione tra cronache e
gossip o fake news, in cui da tempo viviamo. A quanto accade per strada,
nella via Veneto ricostruita sul set di Cinecittà, il protagonista presta
un’attenzione distratta: un ossimoro fecondo perché nell’ozio, nella noia,
nell’attesa, nella sua accidia dagli echi oblomoviani alligna un’insolita
capacità conoscitiva. Già, Fellini con La dolce vita cambia registro, si
accomiata dal neorealismo ben stemperato persistente da I vitelloni
(1953) a Le notti di Cabiria (1957), e prende a coltivare una
meravigliosa anarchia drammaturgica, una babele di lingue, pensieri,
85
visioni; davvero una «bella confusione», come Ennio Flaiano nel 1963
gli suggerirà – invano – di intitolare 8 ½. Ingannare Thanatos con Eros,
instaurare una tregua col tragico: questa è la vocazione sottesa a La dolce
vita, che esce pur sempre all’alba del decennio delle rivolte giovanili e
delle filosofie decostruttive o psichedeliche, da Feyerabend e Derrida a
Leary e Castaneda, che incuriosì molto Fellini.
Scrive Brunetta: «Uno dei fondamenti della poetica neorealistica, la
tendenza a far coincidere il reale con il visibile, viene tranquillamente
superato: il visibile si può aprire a dimensioni molto più vaste del reale».
Prima di La dolce vita il regista quarantenne ha vinto due dei cinque
Oscar che l’attendono, grazie a La strada (1954, Academy Award nel
’57) e a Le notti di Cabiria (premiato nel ’58), e ora può finalmente
consentirsi il lusso di assecondare una divinazione per immagini. La
dolce vita nasce dal grembo di «una specie di giungla tiepida, tranquilla,
in cui ci si può nascondere bene». È la definizione che Marcello conia di
Roma chiacchierando con l’inquieta aristocratica Maddalena (Anouk
Aimée), una notte in piazza del Popolo, prima di fare l’amore con lei in
casa di una prostituta. Così, nello scandaglio dell’Italia del 1960, Fellini
coglie la nascente comunicazione di massa calamitata dal chiacchiericcio
e la crisi delle élite sociali e culturali prossime a disertare per incapacità
o disperazione (l’episodio del suicidio dell’intellettuale Steiner). Il
Nostro è capace di stare dentro la Dolce vita e al contempo di osservarla
in prospettiva, senza indulgenza. Nella sua geniale mescolanza di
pettegolezzo e di documentazione «in diretta», di divismo e di vita
quotidiana, di spettacolo e di politica, il film riserva più di un’intuizione
di quanto si sarebbe inverato decenni dopo. «Io amo la Dolce vita», disse
Silvio Berlusconi, colto in castagna, parlando delle sue «cene eleganti»
con giovani donne (pagando, s’intende).
Nei mesi del 1960 in cui La dolce vita è in cartellone, il quotidiano
britannico «Financial Times» conferisce l’«Oscar delle valute» in
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circolazione alla lira e il reddito nazionale fa registrare un incremento del
5%. Il miracolo economico si nutre anche dell’inurbamento di forza
lavoro: milioni di emigranti lasciano le campagne del Sud per le città
industriali del Nord, la Torino della Fiat in primis. L’esodo
approfondisce il divario territoriale e non sana la storica incompiutezza
nazionale, nonostante la Rai-Tv riesca in parte a omologare la lingua (e i
costumi sociali, come lamenterà Pasolini). A dispetto della verdiana
«forza del destino» che destò il Risorgimento, l’unità italiana tende
periodicamente ad assopirsi ovvero a non compiersi. Tuttavia, lo storico
britannico Christopher Duggan scorge un’eccezione alla nostra perenne
lacuna di patria proprio nella Dolce vita. Vero. Il film diventa un’icona
dell’Italian Way of Life, esercita un fascino ipnotizzante all’estero, conia
neologismi come «paparazzo» ed è utilizzato per denominare negozi,
ristoranti, attività di ogni genere. È un marchio turistico che ancora
funziona, o un «attrattore culturale», per dirla nel gergo dell’euroburocrazia brussellese oggi in voga. I francesi vantano l’École Nationale
d’Administration e un senso dello Stato difficile da pareggiare? Bene,
noi replichiamo nell’inglese di una maggiorata svedese la cui nevrosi
baltica si annacqua nell’indolenza mediterranea: «Marcello, come here».
Il punto di vista di Fellini, fra incredulità e ammirazione, è lo stesso del
garzone in bicicletta che nell’alba romana, al bordo della fontana di
Trevi, assiste al bagno fatale di Marcello e Sylvia. Una comparsa cui mai
nessuno fa cenno descrivendo la celeberrima scena, ma è lì,
spettatore/testimone dell’evento, non superfluo nell’economia della
narrazione. Già, la magica apparizione acquatica nel cuore della capitale
è contemplata in prospettiva da un ragazzo e la sua percezione di quel
prodigio è quasi uno straniamento «brechtiano», un modo per prendere le
distanze da parte del regista. Non andrà così. Il bagno fatale della Ekberg
si oggettiva, si reifica e s’impone su tutto e su tutti, dissolvendo qualsiasi
remora. L’Italia diventa il Paese dei Balocchi in cui si possono
sperimentare amori passeggeri e grandi passioni, avventure notturne e un
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domani a occhi aperti. L’icona di Anita Ekberg contraddice le miserie
neorealistiche di Vittorio De Sica («i panni sporchi» lavati in pubblico
che Andreotti rimproverò a Umberto D. nel 1952) e del «Dottor
Rossellino», come una comparsa chiama Fellini in vena di sfottò del suo
stesso maestro Roberto Rossellini in Block-notes di un regista.
«La dolce vita è una cafonata, è il sogno di un provinciale», decreta
sul momento De Sica. «Ma quelli sono i nobili visti dal mio cameriere»,
commenta dal canto suo Luchino Visconti, che di nobili s’intendeva,
essendo il rampollo della casata patrizia milanese Visconti di Modrone.
Entrambi hanno torto. La dolce vita, che molti assumono alla stregua di
un’apologia del vizio o del tempo perso tra le braccia di una Roma
seducente e paralizzante, riserva piuttosto una panoramica
compassionevole sulla «vita agra», come la definirà Luciano Bianciardi,
di un paese in bilico tra passato e futuro. Del resto, anche Roma nel film
non è soltanto via Veneto o la fontana di Trevi; Roma è margini, borgate,
rovine, caos, scenari cari a Pasolini che in quei mesi prepara Accattone
fotografando volti e luoghi insieme a Tazio Secchiaroli, cui Federico
s’ispira per il personaggio di Paparazzo (Walter Santesso). I quartieri
sorvolati nel prologo di La dolce vita danno le coordinate di una città
lacerata fra arcaismo e malintesa modernità: bambini che calciano in
strade polverose e belle signore al bordo di una piscina sulla terrazza,
mentre un elicottero trasporta verso la basilica di San Pietro una statua di
Cristo a braccia aperte… La dolce vita, con le sue tre ore di andamento
disordinato episodico sincopato, si avvia alla conclusione nei decadenti
rituali aristocratici nel castello di Bassano Romano. Poi, ecco l’orgiastico
e patetico finale in una villa di Fregene, un crescendo del degrado che
soltanto la luce dell’alba interrompe. Marcello e gli altri, ormai stracchi,
attraverso una pineta raggiungono il mare, dove trovano la carcassa di un
pesce spiaggiato, un mostro con un che della balena di Pinocchio e
l’occhio sbarrato da un funebre stupore. Non lontano c’è Paola (Valeria
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Ciangottini), la ragazzina che Marcello aveva già incontrato in una
misera trattoria rivierasca. Lei gli sta dicendo qualcosa, ma lui non riesce
a sentire cosa e le replica con una smorfia di imbarazzo.
«Non è necessario che le cose mostrate siano autentiche. In genere è
meglio che non lo siano. Ciò che dev’essere autentico è l’emozione nel
vedere e nell’esprimere», amava dire Fellini. Il suo cinema, nel
controluce della finzione, si accosta al reale con infinita curiosità, senza
preconcetti, attento solo a coglierne i chiaroscuri e la vertiginosa bellezza
dell’ignoto nel noto: la dolce vita.
Post scriptum. Ah, nel film Marcello Mastroianni non indossa il
maglione «dolcevita» a collo alto e risvoltato («da non confondersi col
lupetto», specificano le riviste di moda). Ma tutto il mondo è convinto
del contrario e leggerete ovunque che il nome deriva dal film. Il che
naturalmente è falso, quindi fellinianamente vero.
89
E
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Ekberg
È carnale ed è «tanta», in un contesto ancora soggiogato dall’idea
della scarsità postbellica, eppure è celestiale, lattea e con un sentore di
divinità in terra o almeno di «marziana a Roma», per parafrasare un
titolo a venire di Ennio Flaiano. È la diva Sylvia in La dolce vita del
1960, una presenza mistica e mondana nel contempo. A darle corpo –
come sanno persino i sassi di Marte – è la svedese Kerstin Anita
Marianne Ekberg, nata a Malmö il 29 settembre 1931 e scomparsa a
Rocca di Papa, nei Castelli romani e prenestini, l’11 gennaio 2015. La
celeberrima scena del bagno nella fontana di Trevi, pochi anni dopo il
giro in Vespa di Audrey Hepburn con Gregory Peck in Vacanze romane
di William Wyler (1953), rifonda il fascino turistico di Roma e dell’Italia
intera nel lungo dopoguerra italiano. La Roma di Anita Ekberg non verrà
aggredita neppure dal Sessantotto, che, anzi, dell’eros libertario farà
l’ultima spiaggia su cui assistere al «riflusso» (alzi la mano chi se lo
ricorda il «riflusso», quante parole perdute…). Così, il connubio RomaAnita attraversa l’agonia tricolore di fine Novecentopoli, scollina il
principio del nuovo millennio e tutto sommato resiste fino a oggi,
nonostante il degrado capitolino e le cento vacue imitazioni, artistiche,
protestatarie o para-divistiche, di quel lavacro leggendario (da ultimo si è
cimentata Valeria Marini, sebbene nella Barcaccia di piazza di Spagna,
chissà perché, beccandosi una multa di 550 euro). Le buche nel manto
viario sono divenute l’emblema del declino dell’impero romano
d’accidente/incidente/niente, vieppiù pensando alle strade consolari dai
sanpietrini intatti dopo un paio di millenni, eppure l’Urbe resta una
calamita per la neozelandese in solitario tour europeo o per lo scrittore
americano in viaggio di bozze con signora. Ebbene sì, il merito è anche
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di Anitona, l’accrescitivo che è un lenitivo. Visione onirica e
incarnazione del desiderio in grado di ipnotizzare Marcello Mastroianni.
Un candore niveo l’ammanta e intorno a lei aleggia una distanza siderale
dalle vicende quotidiane, all’apice nel momento in cui Sylvia «battezza»
Marcello con alcune gocce dell’Acqua Vergine, l’antico acquedotto
romano che alimenta la Fontana di Trevi, dopo averlo attirato – sirena
bionda – nel vascone di matrice berniniana: «Marcello, come here».
Sospettiamo che in sceneggiatura non vi fosse il punto esclamativo; non
è un ordine, infatti, però neppure un semplice invito: è la promessa di
una beatitudine impossibile da disattendere.
La diva che nel film s’inerpica sulle scale della cupola di San Pietro
indossando un cappello da sacerdote e alle Terme di Caracalla danza a
piedi nudi al ritmo della voce rock del giovanissimo Adriano Celentano
che canta Ready Teddy di Elvis Presley, è un’irruzione perturbante nelle
stagioni iniziali del boom. Anita è un nome garibaldino, la sposa fedele e
sfortunata del Generale, ma al contempo è una Miss Svezia («Miss, mia
cara miss», cantava Totò) discesa «dalla montagna di ghiaccio» delle
nubili di cui narrano le leggende popolari della sua Malmö, la città più
importante della Svezia meridionale. La trentenne fatale proviene da
Hollywood e incarna un archetipo incestuoso, un fantasma della libidine
maschile senza confini. Così, in uno storico disco del 1963, The
Freewheelin’ Bob Dylan, il menestrello americano canta Blowin’ in the
wind, ma anche I shall be free che propone un dialoghetto immaginario
col presidente Kennedy. L’«amico John» chiede cosa serve «per far
crescere il paese» e Bob gli risponde laconico: «Brigitte Bardot, Anita
Ekberg, Sophia Loren». Eccolo, il miracolo economico.
Oltre mezzo secolo dopo, nel gennaio 2015, mentre Parigi è in piazza
contro il terrorismo islamista che ha colpito la sede del giornale satirico
«Charlie Hebdo» (12 morti e 13 feriti), su Twitter fa furore la frase C’est
Wolinski qui va être content d’accueillir Anita Ekberg là-haut… Ironia
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amara e libertina: Wolinski, il disegnatore tra le vittime della strage in
redazione, felice di accogliere lassù l’attrice appena scomparsa.
Nel 1962 Fellini ripropone Anita Ekberg in Le tentazioni del dottor
Antonio, episodio di Boccaccio ’70. Concepito con intenti beffardi verso
i critici più severi di La dolce vita, il film è centrato sugli incubi che il
sex appeal di un manifesto pubblicitario suscita in Peppino De
Filippo/dottor Antonio Mazzuolo, censore pugnace della libertà dei
costumi nell’Italia in impetuosa crescita. Una gigantesca Anita «scende»
dal cartellone nello scenario metafisico dell’Eur e s’incarna per sedurre
Antonio, irriso da un ritornello bambinesco: «Bevete più latte / il latte fa
bene / il latte conviene / a tutte le età». Un tintinnio in stile Carosello
elaborato da Nino Rota che suona come un de profundis per il moralismo
e sarà poi citato da Nanni Moretti nel suo film più commovente, Mia
madre (2015).
D’altronde, già da qualche tempo la pubblicità televisiva andava
diffondendo un aroma di trasgressione all’ora di cena grazie alle bionde
chiome di Virna Lisi che «con quella bocca può dire ciò che vuole» e
della stessa Ekberg, icona spumeggiante in favore di profumatissime
saponette e di una birra al fianco di Fred Buscaglione «dal whisky
facile». Lo stesso Buscaglione che si prende una cotta per lei e muore a
38 anni in un incidente d’auto dopo un’esibizione in un locale di via
Veneto e, si vocifera, un fugace passaggio dalla Ekberg. È la notte tra il 2
e il 3 febbraio 1960, la stessa in cui al cinema Fiamma danno in
anteprima La dolce vita.
Sono tutti pazzi per Anita, non esclusi Gianni Agnelli con cui vive «un
segreto bellissimo per anni», Frank Sinatra che avrebbe voluto farne la
sua terza o quarta moglie e Dino Risi che la corteggia invano, mentre va
a rotoli – e vorrei vedere – il matrimonio della Ekberg con l’attore
londinese Anthony Steel. La «bella bisteccona» svedese eccita la capitale
magmatica e febbrile, con caratteristiche popolari da una parte e,
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dall’altra, le scorribande sperimentali di artisti quali Franco Angeli,
Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Cy
Twombly, Mario Schifano, Pino Pascali… Una città immortalata in
quegli anni dall’obiettivo dissacrante e «felliniano» di William Klein. In
La dolce vita Anita discende la scaletta dell’aereo come una novella
Wanda Osiris sulla pista di Fiumicino affollata di fotografi e giornalisti.
Poco dopo le chiedono cosa mai indossi quando va a letto. «Due gocce di
profumo francese», è la replica copiata da una proverbiale frase della
Monroe che nei primi anni Cinquanta ha reso eterno lo Chanel N° 5.
«Cosa sa dire in italiano?» – «Amore, amore, amore», è quasi una
citazione della connazionale Ingrid Bergman che nel 1949 aveva sedotto
Rossellini scrivendogli la famosa lettera: «In italiano so dire solo ti
amo». «Qual è stato il giorno più bello della sua vita?» – «È stata una
notte, caro». È fatta. In poche battute Fellini ha creato un mito e un
mostro, una sintesi perfetta tra la bella e la bestia: la «pantera» Anita
Ekberg che continuerà a farsi domare soltanto da Federico almeno fino a
I clowns (1970).
E la pantera il 20 ottobre 1960, armata di arco e frecce, non esiterà ad
«attaccare» i paparazzi in sosta oltre i cancelli della sua villa di Genzano,
dove era felice di vivere con gli amati cani, fra i quali, nel corso del
tempo, il pastore tedesco Taurina e «Hamai, l’alano più bello del
mondo». Ballando sul motivetto di Arrivederci Roma, Mastroianni nel
film le sussurra: «Tu sei tutto, Sylvia. Ma lo sai che sei tutto? You are
everything, everything! Tu sei la prima donna del primo giorno della
creazione, sei la madre, la sorella, l’amante, l’amica, l’angelo, il diavolo,
la terra, la casa…». Nel buio, Anita ulula. È la lupa del Campidoglio
venuta dal Grande Nord, una martire del peccato alla maniera di Verga.
Fellini dirà: «Sostengo che la Ekberg, oltretutto, è fosforescente».
La febbre collettiva per Anita assume allora il valore di una proiezione
collettiva di cupidigia che è anche una sospensione della realtà. È
94
scoccata la Dolce vita. Nella luce artificiale di questo mito, lo scandalo e
l’innocenza sono indistinguibili, si tengono per mano e conducono il
paese
oltre
le
miserie
postbelliche,
fuori
dalla
fame,
verso
un’industrializzazione e uno sviluppo che costituiscono il calco
originario di quello che siamo diventati. Ma è un mito, appunto, come
Fellini invano tentò di far intendere.
Anita Ekberg è morta poverissima e anche il paese da un pezzo non se
la passa tanto bene.
95
F
96
Flaiano
La storia è sempre «contemporanea», secondo Benedetto Croce. Ma
anche la letteratura non scherza: ci sono autori ad orologeria destinati a
far brillare un tempo postumo del quale avevano intuito e presagito la
filigrana, le contraddizioni e, ma sì, lo spirito. Succede con Ennio
Flaiano: «Fra trent’anni – pronosticò – l’Italia sarà non come l’avranno
fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione». Detto, fatto. Nelle
sue pagine s’annida dunque un sorprendente e inquietante piacere
riservato al lettore d’oggi: riconoscersi grottesco e smarrito, tuttavia
rischiarato da un lampo di coscienza nell’orizzonte tragicomico degli
eventi. Sempre che non goda del privilegio di assopirsi. Per Flaiano
infatti il pisolino è lo stigma della perfezione davanti all’opera teatrale o
musicale, e, meditando di raccogliere le sue recensioni, scelse il titolo Lo
spettatore addormentato (il volume appare postumo per Rizzoli nel
1983). Nato a Pescara nel 1910, scompare a Roma nel 1972. Flaiano post
mortem è stato trascurato o sottostimato dalla critica letteraria con le rare
eccezioni di Geno Pampaloni, Cesare Garboli, Giorgio Manganelli, Enzo
Siciliano, Emma Giammattei, Giuseppe Rosato ed Elisabetta Sgarbi.
Tuttora le antologie scolastiche stentano ad annoverarlo tra i novecentisti
maggiori. D’altro canto, egli venne presto consegnato alla dimensione
del calembourista principe nelle stagioni pirotecniche del boom e ai
repertori cinematografici, donde lo sottrasse con sistematicità la filologa
Maria Corti. Sul finire degli anni Ottanta del Novecento, Corti ne
propose l’opera omnia in due volumi dei Classici Bompiani, curandola
insieme all’allieva Anna Longoni, la quale sta proseguendo
l’appassionato lavoro per le Opere scelte edite da Adelphi.
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Insomma, Flaiano merita ben più delle fugaci citazioni nelle
polemichette di rito precedenti o successive al premio Strega, di cui
inaugurò l’album dei vincitori nel 1947 con Tempo di uccidere. È il suo
primo e unico romanzo, in parte autobiografico, sull’avventura in Etiopia
come ufficiale di complemento del Genio, tra l’ottobre 1935 e il
novembre ’36. Possiamo dirlo? Un capolavoro. Si scuserà il ricorso
all’iperbole abusata ogni giorno nelle pagine culturali, per non parlare
dei social, ma è così. Tempo di uccidere è un allucinato, dolente,
straniato scandaglio di un mal d’Africa inestirpabile perché proveniente
da un più radicale mal d’Italia. Nessun esotismo. Lo scenario è
primordiale e feroce, innocente e sanguinario: l’Africa è una specie di
«America» più profonda e cosmogonica rispetto a quella di Elio Vittorini
e Cesare Pavese, di Emilio Cecchi e Mario Soldati, che negli stessi anni
– prima e dopo la guerra – cercavano oltreoceano le vie di fuga
dall’autarchia, dal provincialismo e da una regressione culturale che è un
morbo nazionale. Annoterà Flaiano nel suo Taccuino del 1956: «Un
giorno il fascismo sarà curato con la psicoanalisi».
Il protagonista e io narrante di Tempo di uccidere è un tenente sospeso
su un confine quasi beckettiano, lungo il quale per esempio un
camaleonte si aggira con una sigaretta in bocca! Durante una licenza per
curarsi il mal di denti – sognando il rimpatrio e il ritorno dalla promessa
sposa – il tenente si perde nell’altipiano, dove viene folgorato da
un’epifania femminile al lavacro in un fiume: Mariam, come decide di
chiamarla. La ama subito, giace con lei sotto le stelle e la uccide per
sbaglio nella stessa notte, allorché è colto dal panico per un gioco
d’ombre. Mira a una fiera, colpisce Mariam. Lo smarrimento
dell’italiano in divisa è sopraggiunto cercando «la scorciatoia», ma non
ve ne saranno mai più, di scorciatoie; le strade di polvere dilungano
l’enigma e il tormento di un paradossale nostos. Il tenente continua a
girovagare ossessionato dal delitto e intanto viene assalito dal dubbio che
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Mariam gli abbia trasmesso la lebbra. Non lo confortano, anzi, lo turbano
ancora di più gli incontri di un’odissea beffarda tra Poe e il ridicolo. A
Massaua appare prossimo all’imbarco clandestino per l’Italia (sarebbe
naufragato a Lampedusa ante litteram?), quando viene risucchiato dal
terragno abisso africano.
Tutto depone per la sua crisi e l’aggrava: è una febbre scettica, è un
divoramento del senso, in primis linguistico, nel corpo a corpo con la
vacuità della parola e i silenzi interiori o quelli degli indigeni. Una lotta
che prelude allo sminuzzarsi del logos nel Flaiano successivo, nel
mordace campione del breviloquio e del mot d’esprit. Il romanzo è la
storia di una diserzione esistenziale dal fascismo, che laggiù vagheggiò il
suo impero straccione, ma non da sé stessi, dal proprio volto bruciato
(altro che «faccetta nera dell’Abissinia») e da un destino iscritto nel
principio. L’afflato biblico è esplicito fin dal titolo, Tempo di uccidere.
Allo Strega il libro si impose fra gli altri su La romana di Alberto
Moravia, che sarebbe stato uno dei bersagli del Flaiano epigrammista:
«Il gatto di Moravia sta facendo le fusa, / arriva e se lo mangia il
Gattopardo di Lampedusa». Naturalmente – come usava allora e sempre
dovrebbe – l’ironia rima con l’empatia e quando La romana nel ’54
diventa un film di Luigi Zampa, la sceneggiatura porta le firme di
Moravia e di Flaiano, più quella di Giorgio Bassani.
Tempo di uccidere vide la luce in meno di tre mesi, perché il
giornalista e neo-editore Leo Longanesi, lo «strapaesano» impegnato a
pubblicare Caldwell e Isherwood (ne avessimo ora di «strapaesani» in tal
guisa), aveva urgenza di un romanzo italiano da mandare in vetrina e
incalzò Flaiano: «Se comincia subito le do un anticipo».
La guerra d’Africa è anche un «alibi» per la somma indolenza di
Flaiano. Richiamato alle armi, non si laurea in Architettura a Roma a
qualche esame dal traguardo e il diploma del liceo artistico resterà il suo
ultimo titolo di studio. L’abruzzese irrequieto e caparbio era l’ultimo di
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sette figli, cresciuto senza il padre che lasciò la famiglia poco prima della
nascita di Ennio, e gli toccò un’adolescenza da convittore nomade di
collegio in collegio, da Fermo a Brescia fino alla capitale. Ricorda nel
Diario notturno: «Nei miei ritratti infantili mi colpisce uno sguardo di
rimprovero, che non può essere diretto che a me. Sarei stato io la causa
della sua futura infelicità, lo presentiva». Come che sia, attraversa gli
anni Trenta fra bohème di prammatica (con ottima grammatica) e timida
fronda. Per distanziarsi dal regime, infatti, c’era almeno il
cinematografo. In barba all’enfasi sull’«arma più forte» mussoliniana,
recensire un film consentiva il lusso di «parlare d’altro». Flaiano diventa
critico cinematografico e teatrale, sceneggiatore e drammaturgo. Aveva
un bisogno disperato di soldi anche per badare alla figlia Luisa venuta al
mondo nel 1942, gravemente ammalata sin da piccola. «Lèlè» la chiama
lui in un diario paterno dai toni tenerissimi, ilari e via via più struggenti:
«Quando piange urla “lè-lè” a intervalli regolari. Si è affacciata l’ipotesi
che chieda del latte in francese». Luisa sarebbe morta nel 1992 a Lugano,
dove la madre Rosetta Rota (1911-2003, nessuna parentela col
compositore Nino Rota) scelse di trasferirsi, quasi in esilio dall’Italia
ingrata verso il talento del marito. A Lugano hanno sede la Fondazione
Luisa Flaiano titolare degli inediti e, presso la Biblioteca Cantonale,
l’Archivio Prezzolini diretto da Diana Rüesch che dall’85 custodisce il
Fondo Flaiano. La signora Rota, originaria di Vigevano e laureata in
Matematica, a Roma collaborò con i leggendari ragazzi di via Panisperna
riuniti intorno al Nobel per la fisica Enrico Fermi (Amaldi, Segrè,
Pontecorvo, Majorana) e nel dopoguerra insegnò nell’università di
Napoli.
Rosa sposa Ennio nel 1940, ne tollera le fughe e i tradimenti malcelati,
nonché le micidiali punture di spillo: «In amore bisogna essere senza
scrupoli, non rispettare nessuno. All’occorrenza, essere capaci di andare
a letto con la propria moglie».
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Dopo la Liberazione Flaiano è «redattore capo, anzi cupo» di «Il
Mondo», il settimanale concepito nel 1949 dal «fratello maggiore»
Mario Pannunzio, il giornalista toscano che nel 1943 aveva fondato in
clandestinità il «Risorgimento liberale». Questi è un altro pugnace
minoritario nell’Italia degli eterni guelfi e ghibellini avviluppati nella
lotta, sovente per pagnotta, talora con mignotta. I due, oltretutto nati nel
medesimo giorno, mese e anno, il 5 marzo 1910, si stimano e si vogliono
bene dacché Pannunzio commissionò a Flaiano nel 1931-32 i primi
articoli, brevi recensioni letterarie, per la rivistina «Oggi», da non
confondersi con l’ebdomadario che il medesimo Pannunzio e Arrigo
Benedetti avvieranno nel 1939.
Nella redazione di «Il Mondo» le amicizie – o le improvvise
inimicizie – contano non meno dell’identità laica, venata di radicalismo,
terzista fra i democristiani maggioritari nelle urne e i comunisti egemoni
nella nascente industria culturale. Si impaginano articoli di Ernesto
Rossi, Giovanni Spadolini, Enzo Forcella, Antonio Cederna, Tommaso
Landolfi, Vitaliano Brancati, Sandro De Feo, Eugenio Scalfari, per non
parlare degli anziani maestri Benedetto Croce e Gaetano Salvemini
(dall’estero collaborano Thomas Mann e George Orwell). Li accusarono
di snobismo, forse perché sospettosi della massificazione incipiente. «Mi
si avvicina Mino Maccari e mi dice: “Ho poche idee, ma confuse”»,
trascrive Flaiano sussumendo un’epoca tuttora inconclusa. Quelli del
«Mondo» sono «una schiacciante minoranza»…
Di Flaiano in vita escono soltanto sette libri. Oltre a Tempo di
uccidere, sono la raccolta di frammenti e apologhi Diario notturno
(Bompiani, 1956), Un marziano a Roma (Einaudi, 1960), il dittico
narrativo di Una e una notte (Bompiani, 1959), Il gioco e il massacro
che contiene i racconti lunghi Oh Bombay! e Melampus (Rizzoli, 1970),
il volume teatrale Un marziano a Roma e altre farse (Einaudi, 1971), e
una silloge degli elzeviri intitolata Le ombre bianche (Rizzoli, 1972).
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Non sono tanti, meno di quelli apparsi dopo la sua morte, per lo più
raccolte di schizzi, adagi, satire e recensioni, per esempio L’uovo di
Marx (Scheiwiller, 1988). Bastano a fare dell’autore un modello del
secolo scorso? Sì, è «un piccolo maestro postumo», sostiene Arbasino. In
dispetto perfino di sé stesso, aggiungiamo. Certo, lui disdegnerebbe il
titolo, sbertucciandolo su un foglio di via Veneto, con una battuta delle
sue da Café Doney o de Paris: «La vita è un Hemingway inimitabile»;
«L’italiano è una lingua parlata dai doppiatori»; «Ha fatto un altro film?
Non vedo l’ora di perdermelo!». Tuttavia il carattere aforistico,
frammentario, esperienziale, diaristico, assorto e caustico delle note
sparse e dei pezzi facili (in apparenza, facili), quel carattere da lacerto
agile e sfuggente quando non si bea al sole è pur sempre epigonico di un
canone italiano – lo Zibaldone di pensieri di Leopardi – che spesso
dimentichiamo di poter giocare nella comparazione letteraria europea.
Il provinciale Flaiano, inurbatosi precocemente rispetto ai «vitelloni»
del dopoguerra, adotta la prospettiva dell’«inazione», lemma leopardiano
per eccellenza, che s’incarna in Marcello Rubini (Mastroianni),
protagonista di La dolce vita. Marcello, che si sarebbe ben potuto
chiamare Ennio, è tanto ozioso quanto vigile nel cogliere un umore, un
passaggio e una «notizia» sul fronte di via Veneto. Il suo fascino
sensuale è afflitto da una noia incurabile, del resto coerente con
l’orizzonte nazionale: «L’Italia? Un enorme mostro di noia», dirà Flaiano
poco prima di morire. Ma perdere tempo davvero equivale a perdersi?
Per gli autori di La dolce vita l’inerzia è una virtù o un antidoto
plausibile al tedio. Longoni riscontra l’elemento salvifico dell’accidia in
Flaiano e ne ricorda la predilezione per un aforisma di Jules Renard: «La
vita è corta, ma la noia l’allunga». A proposito di arte e vita, una volta gli
chiedono quale opera salverebbe se il Louvre andasse a fuoco e lui,
d’istinto: «Quella più vicina all’uscita». Atrabiliare in primis verso sé
stesso, per esempio quando predice la voce «Flaiano» di un’immaginaria
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enciclopedia del 2050: «Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un
romanzo, Tempo di morire. Scrittore minore satirico dell’Italia del
Benessere». Lo ricorda Leonardo Sciascia in Nero su nero, facendo
notare la sublime autocitazione errata: Tempo di morire, invece di Tempo
di uccidere.
Eppure è il cinema, sul quale pesa il sospetto crociano verso la «roba»
poco o punto grave, ad aver lungamente velato Flaiano, reo di incassi al
botteghino e di un’insuperabile freddura nella quale non pochi debbono
essersi riconosciuti: «L’insuccesso mi ha dato alla testa». Egli sceneggia
non solo le pellicole felliniane da Luci del varietà (regia a due con
Lattuada, 1951) fino a 8 ½ (1963) e a Giulietta degli spiriti (1965), ma
anche un exploit di Marcello Pagliero dell’immediato dopoguerra, Roma
città libera (La notte porta consiglio), e alcune fortunatissime commedie
anni Cinquanta di Steno e Monicelli (Guardie e ladri, Totò e Carolina) e
di Blasetti (Peccato che sia una canaglia, tratto da Moravia, e La fortuna
di essere donna; entrambe con l’aurea coppia Loren-Mastroianni).
Flaiano contribuisce, fra molti altri, a film di Rossellini, Eduardo De
Filippo, Majano, Risi, Quilici, Pietrangeli, Emmer, Berlanga, Petri,
Deray e al Tonio Kröger di Thiele dal racconto di Thomas Mann. Così,
l’ombra bianca dello schermo s’allunga a infirmare la qualità dello
scrittore, oltretutto aforista. Il che tradisce la persistenza di un’idea del
«letterario» a dir poco scolastica: soltanto il Romanzo – maiuscolo, di
derivazione ottocentesca e magari francese o russo – meriterebbe lo
statuto di letteratura. Eppure già nei primi anni Sessanta Arbasino,
Sanguineti e Balestrini considerano La dolce vita e 8 ½ di Fellini, con La
notte di Michelangelo Antonioni, i capitoli vivi della cultura italiana.
Parimenti sceneggiati da Flaiano, questi film mostrano l’Italia del
miracolo economico quale un mosaico in frantumi. «La civiltà del
benessere porta con sé proprio l’infelicità», sentenzia Flaiano. E sul
«Corriere della Sera» il 13 marzo 1969 annota:
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La stupidità ha fatto progressi enormi. È un Sole che
non si può più guardare fissamente. Grazie ai mezzi di
comunicazione, non è più nemmeno la stessa, si nutre
di altri miti, si vende moltissimo, ha ridicolizzato il
buon senso, spande il terrore intorno a sé.
Sembra o no vergata poco fa, magari per glossare certe performance
elettorali su Facebook?
Invero è Flaiano il Marziano a Roma dell’omologa pièce. Motteggia
per non morire di noia. Milita nella Dolce vita perché, con Bianciardi,
trova che la vita sia «agra». Alla vigilia dell’uscita di quel film epocale,
ne scrive a Enzo Forcella:
Vuotando il bicchiere abbiamo visto che in fondo c’era
il verme. Ognuno ha reagito secondo la sua natura: chi
ha ingollato anche il verme, chi ha gettato via il
bicchiere, chi ha vomitato. Io continuo a vomitare. Ma
senza recriminazioni. Non mi è restato che la libertà di
capire e il conforto di amare il prossimo per quello che
mostra di essere, senza più giudicarlo, nella certezza
che la disperazione è nell’animo di tutti, come nel
nostro, e che viene «da più lontano».
Flaiano litigherà con Fellini per futili motivi (la miccia sarebbe stata
un posto in economy sul volo per gli Usa in occasione dell’Oscar a 8 ½,
mentre Federico viaggiò in business), riconciliandosi qualche anno dopo
in nome della «vecchia amicizia che ci disunisce». Il titolo dell’ultima
opera, rappresentata al Festival dei Due Mondi di Spoleto nell’estate del
1972, pochi mesi prima della morte – La conversazione continuamente
interrotta – esprime la sfiducia in una drammaturgia salda e tetragona,
impermeabile alla realtà. Flaiano invece è poroso, permeabile, assorbe e
restituisce senso e nonsenso attraverso il suo «intuito randagio». Un
intellettuale di specie rara, un satiro malinconico rassegnato al futuro:
«Coraggio, il meglio è passato».
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G
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Giulietta
G come Giulietta, tenera e piccola, fedele al diminutivo battesimale fin
sulla soglia del mistero. «Non voglio sapere cos’ho», diceva del mostro
che l’avrebbe stroncata il 23 marzo 1994. Aveva il cancro, Anna Giulia
Masina, per tutti Giulietta e per Fellini «Giuliettina», ma forse si sarà
ricordata delle divagazioni del marito scomparso solo cinque mesi prima,
che spesso ammoniva sul potere salvifico della finzione: le bugie come
via di scampo da realtà crudeli. «Era serena e non ha sofferto molto»,
rivelarono la sorella minore Mariolina, il nipote radiologo Riccardo
Tavanti e il medico di famiglia Gianfranco Turchetti, i pochi intimi che
da settimane ne custodivano l’esile figura adagiata in un letto della
clinica Columbus di Roma. Sin da prima del calvario ospedaliero di
Fellini, nell’ottobre del 1993, Giulietta era apparsa provata da qualcosa
di oscuro e di implacabile, che era stato facile attribuire al dolore per il
primo ictus del regista, nell’agosto di quell’anno. Aveva diradato le
inseparabili sigarette, unico vizio di una donna orgogliosamente virtuosa
(nella casa di via Margutta 110 un salotto conteneva il fumoir riservato a
lei), sempre confortata da un’educazione cattolica molto salda, che fra
l’altro nel 1980 le fa incidere a due voci con Romolo Valli un disco delle
poesie di papa Wojtyla. In un’intervista che Fellini concede poco prima
della fine gli chiedono se abbia mai pensato a Dio. «Perché, è mai
possibile pensare ad altro?», risponde. Padre Angelo Arpa, gesuita
cinefilo e amico della coppia, dirà:
Fellini è altamente cristiano, ma è estraneo, più che
ribelle, estraneo al dogmatismo di un Cristianesimo
storicamente codificato. Ne sono certo: il Signore
riconosce i suoi prediletti. Lui lo era, come i bambini.
Al suo funerale abbiamo letto questo: «Se non
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diventerete come i bambini non entrerete». Insieme con
la fede di Giulietta è il suo lasciapassare.
Giulietta viene al mondo il 22 febbraio 1921 a San Giorgio di Piano, a
20 chilometri da Bologna, un anno e un mese dopo l’uomo della sua vita.
È la prima di quattro figli in una famiglia piccolo-borghese, la mamma
Angela Flavia Pasqualini è un’insegnante elementare nella scuola di San
Venanzio di Galliera, il papà fa il cassiere in una fabbrica della
Montecatini, ma è anche violinista e liutaio. I suoi acconsentono a
mandarla a Roma quando è ancora una bimbetta perché conviva con una
zia rimasta vedova, Giulia Sardi, appartenente alla famiglia lombarda
proprietaria del Calzaturificio di Varese e appassionata di teatro, tanto
che già nel 1925 porta la nipotina su un palco affinché veda da vicino un
certo… Luigi Pirandello. Nella capitale papalina e fascista Giulietta
studia dalle Orsoline e abita nella bella casa di zia Giulia ai Parioli, in via
Lutezia 11, la stessa in cui verrà celebrato il «matrimonio di guerra» con
Federico. La Masina comincia ad appassionarsi allo spettacolo
bazzicando compagnie teatrali universitarie e dopo la laurea in Lettere,
in pieno conflitto, mette piede negli studi della favolosa Eiar nel Palazzo
della Radio di via Asiago 10, un orgoglio del regime progettato da Carlo
Marchesi Cappai, ancora oggi sede Rai. La giovane attrice interpreta le
scenette comiche della coppia di fidanzatini Cico e Pallina in una rubrica
intitolata Terziglio, varata nel settembre del 1942. Pallina naturalmente è
lei, Cico ha la voce di Angelo Zanobini. Il fantasioso autore dei testi è il
dinoccolato, allampanato e affamatissimo Federico con dimora romana
ben più modesta in un residence di via Nicotera 26, che la ragazza è
felice prima di saziare con porzioni extra di tagliatelle o tortellini e
quindi di sposare, sabato 30 ottobre 1943. Il fascismo è caduto, ma
quello è un giorno di coprifuoco come gli altri nella Roma città aperta
che nel 1945 darà il titolo al capolavoro di Roberto Rossellini, grazie al
quale l’anno successivo il ventiseienne Fellini, incredulo, riceve la prima
nomination all’Oscar per la sceneggiatura insieme con Sergio Amidei,
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più esperto e impegnato politicamente a sinistra (la statuetta per lo
screenplay fu poi vinta da I migliori anni della nostra vita del
commediografo Robert E. Sherwood, con la regia di William Wyler).
Roma è occupata dai tedeschi e sabato 16 ottobre 1943 le squadre
speciali della Gestapo hanno circondato e rastrellato il Ghetto: saranno
1.023 gli ebrei romani deportati nei campi di sterminio in Germania e in
Polonia, donde ne torneranno 16, nessuno dei circa 200 bambini
catturati. Intanto si moltiplicano le azioni resistenziali, come l’assalto del
20 ottobre al Forte Tiburtino presidiato dalle SS: i partigiani di Pietralata
della formazione «Bandiera Rossa» vengono respinti e 9 di loro
giustiziati due giorni dopo con un colpo alla nuca, insieme a una decima
vittima, un ragazzo di 14 anni che passava per caso in bicicletta nella
zona dell’eccidio, nei pressi di Rebibbia. Questa è la temperie in cui
Federico e Giulietta si sposano. I testimoni sono l’attore Vittorio Caprioli
per lei e il pittore Rinaldo Geleng per lui. Giuliettina in persona prepara
le lasagne e la zuppa inglese per il pranzo nuziale e Federico ha
disegnato la partecipazione raffigurandosi con una testa a forma di
cuoricino, come ha raccontato in anni recenti la nipote Francesca Fabbri
Fellini, figlia di Maddalena, la sorella del regista. In «viaggio di nozze»
vanno al cinema Galleria in piazza Colonna – scrive Tullio Kezich nella
sua biografia felliniana – dove è di scena Alberto Sordi, che avrebbe
dovuto fare da testimone di Federico, ma non si presentò perché aveva lo
spettacolo pomeridiano. Accorgendosi dell’arrivo della coppia in platea,
Sordi invita ad accendere le luci in sala e chiama l’applauso:
Si è sposato proprio oggi il più grande amico mio, io
non sono potuto andare al suo matrimonio e allora è
venuto lui qui in teatro. Si chiama Federico Fellini, è
un grande umorista e un giorno forse sarà un regista.
Non so se lo diventerà, ma il vostro applauso sarà
sicuramente di buon auspicio per lui.
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L’Urbe era anche questa immediatezza o disponibilità al sodalizio
colto e popolano al tempo stesso, in auge nel cinema, nelle lettere e
nell’arte fino agli anni Settanta, come documenta Sandra Petrignani nel
suo libro Addio a Roma. Meno di un anno dopo, Giulietta perde un
bambino cadendo per le scale. Porta a termine una seconda gravidanza il
22 marzo 1945, dando alla luce Pierfederico detto Federichino, che,
colpito da encefalite letargica, muore undici giorni dopo, il 2 aprile. Oggi
è sepolto con il papà e la mamma nella tomba monumentale del cimitero
di Rimini, una scultura bronzea di Arnaldo Pomodoro a forma di prua su
una lama di acqua, che evoca il Rex. Il dolore per quella perdita cementa
l’unione di Giulietta e Federico, il Maestro Giocoliere e la sua buffa
compagna. Già, la «clownerie» di Giulietta, Female-Chaplin come la
definirono i britannici dopo che l’immenso Charlot ebbe a dichiarare: «È
l’attrice che ammiro di più». A lei in principio non andò affatto bene che
Federico la rendesse grottesca imbruttendola in La strada (1954), nel
quale è Gelsomina, orfanella lunare e stupefatta che girovaga per paesi e
campagne col rozzo Zampanò-Anthony Quinn. Oltretutto, non deve
essere stato confortante per la giovane moglie che il coniuge cominciasse
a essere attorniato e lusingato da fantasmagoriche carnalità, anche se
Fellini non tradirà mai il cuore e la fiamma della loro relazione. Una
storia d’amore intensa come una promessa contro la morte: «Tu sai di
essere veramente la mia vita… Tu soltanto mi fai tornare sereno e sai
farmi veramente compagnia, sempre insieme dolce Giulietta. Auguri di
mille stagioni con me». Sono stralci delle lettere inedite di Fellini inviate
alla moglie nel 1992 e rese pubbliche solo dopo la scomparsa di
Mariolina, la sorella di Giulietta, che le aveva in custodia. Per non
parlare delle «fughe d’amore», come le definirono i giornali, nell’estate e
nell’autunno del 1993, quando Federico si fa portare con una spaziosa
autovettura, di quelle a noleggio per le esigenze del set, da Ferrara, dove
era ricoverato, a Roma, pur di trascorrere qualche ora con Giulietta, che
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a sua volta sta male. Pochi giorni dopo è lei a ricambiare, recandosi a
Ferrara nonostante la chemioterapia in corso.
La Masina era apparsa sul grande schermo per la prima volta nel 1946
in Paisà di Rossellini, co-sceneggiato da Fellini che ne è anche aiuto
regista. Il film ripercorre in sei episodi l’avanzata degli Alleati
angloamericani dalla Sicilia al Po e costituisce il seguito ideale di Roma
città aperta, girato a pochi mesi dai tragici eventi che racconta. «Creare
Paisà – scrive lo storico John Foot – fu in un certo senso una rinascita.
La materia prima del film venne raccolta tra le macerie». Giulietta, che
Rossellini chiama «Patatina» (altro diminutivo), è una comparsa non
accreditata nei titoli di coda di Paisà: scende le scale quando la coppia
protagonista lascia di corsa l’appartamento fiorentino in cerca del
partigiano Lupo (scena girata nel palazzo romano di via Lutezia 11,
grazie al placet di zia Giulia). Nell’episodio di Firenze si vede il
cinquecentesco Corridoio del Vasari, realizzato per gli spostamenti di
Cosimo de’ Medici tra Palazzo Pitti e la Galleria degli Uffizi, che i
partigiani percorrono per attraversare la linea dell’Arno nella città
occupata dai nazisti nel 1943-44. Al numero 14 di piazza de’ Pitti su cui
si affaccia il Palazzo, in quei mesi di guerra si nasconde lo scrittore,
pittore e medico Carlo Levi, ebreo torinese e antifascista, ospite della
partigiana Anna Maria Ichino, con la quale Levi intreccerà una relazione
amorosa mentre scrive con un lapis Cristo si è fermato a Eboli, una
memoria del suo confino in Lucania di otto anni prima. Il Cristo esce nel
1945 per Einaudi e già nel ’48 Fellini cerca di comprare i diritti per farne
un film, che invece sarà realizzato soltanto nel 1979 da Francesco Rosi.
Anche Federico fa una comparsata in Paisà, nell’episodio romano,
mentre Carlo Pisacane, il «Capannelle» de I soliti ignoti di Mario
Monicelli (1958) e di tante altre pellicole di successo, appare in una
minuscola parte nell’episodio siciliano. Paisà è insomma un’opera
germinale del neorealismo italiano, che gli americani chiamano Paisan e
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del quale nel 1949 candidano la sceneggiatura all’Oscar, ma per Fellini
neppure quella è la volta buona (vincerà un altro film di guerra,
Bastogne, scritto da Robert Pirosh, con la regia di William A. Wellman).
Intanto Giulietta nel ’48 è stata valorizzata da Alberto Lattuada in
Senza pietà e nel 1950 è tra le ragazze di Persiane chiuse di Luigi
Comencini, che si inserisce nel dibattito per l’abolizione dei postriboli
avviato dalle prime proposte parlamentari della senatrice socialista Lina
Merlin (bisognerà attendere il 1958 affinché venga approvata la legge
che porta il suo nome, tutt’oggi vituperata dall’Italietta maschietta).
Ancora, nel 1951, la Masina figura nella parte della soubrette Melina
illuminata dalle pallide Luci del varietà, film diretto da Lattuada e
dall’esordiente co-regista Fellini. Eccola quindi in Lo sceicco bianco,
l’autentica opera prima di Federico, dove si presta a una fugace
apparizione nei panni della prostituta Cabiria. Un nome quasi
«profetico» per la Masina, che grazie all’elegia da marciapiede di Le
notti di Cabiria nel 1957 vincerà il premio per la migliore
interpretazione femminile ai Festival di Cannes e di San Sebastian, il
Nastro d’argento e la Grolla d’oro (il film si aggiudica l’Oscar nel 1958).
Meno icastiche, ma altrettanto eccelse saranno le sue altre
interpretazioni felliniane, da Il bidone (1955) a Giulietta degli spiriti
(1965), fino all’amarcord di due ballerini melanconici ma felici di
ritrovarsi nel circo televisivo di Ginger e Fred (1985, lui è naturalmente
Marcello Mastroianni). Non tantissime, meno di trenta, le sue prove
d’attrice con altri registi, italiani e stranieri, da Eduardo De Filippo
(Fortunella) a Renato Castellani (Nella città l’inferno), da Jurai
Jakubisko (Frau Holle – La signora della neve) a Julien Duvivier, che la
trasforma in una bionda platino pseudo-Marilyn in La gran vita, fino a
Jean-Louis Bertuccelli, col quale nel 1991 recita per l’ultima volta in Un
giorno forse. Per molti spettatori ormai di una certa età il volto della
Masina resta legato a due popolari serie televisive: lo sceneggiato
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Eleonora, scritto dall’amico di sempre Tullio Pinelli e diretto da Silverio
Blasi (1973), ritratto di una donna nell’Ottocento milanese della
Scapigliatura e dei fermenti risorgimentali; e Camilla, con la regia di
Sandro Bolchi (1976), tratto da Un inverno freddissimo, il romanzo di
Fausta Cialente sulla difficile vita di una madre nel dopoguerra. E la sua
voce un po’ cantilenante è rimasta cara agli ascoltatori delle Lettere a
Giulietta Masina, fortunata rubrica radiofonica andata in onda dal 1966
al 1969.
«Spippolo» è il nomignolo romagnolo che le affibbia Federico, per
alludere ancora una volta alla sua piccolezza, a una fragilità invero solo
apparente che cela il rigore dell’attrice e il coraggio della donna.
Giulietta non smetterà per un attimo di accudire il marito malato,
raggiungendolo e lasciandosi raggiungere su e giù per l’Italia, fra Roma
e Rimini, durante quelle «evasioni» dai reparti ospedalieri – s’è detto di
Ferrara – che commossero l’opinione pubblica. Il 29 marzo 1993, un
anno prima di morire, la Masina è in prima fila nella grande sala di Los
Angeles dove l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences premia
Fellini con l’Oscar alla carriera in virtù delle sue «qualità
cinematografiche che hanno entusiasmato e deliziato il pubblico di tutto
il mondo». Sul palco, Sophia Loren chiama prima Marcello Mastroianni,
e quindi fa entrare Federico, che avanza un po’ sghembo, quasi
timidamente, accolto da una standing ovation. Scherza con Sophia
(«Certo che voglio un bacio») e stringe la mano al vecchio amico:
«Grazie Marcellino, sei venuto ad onorarmi». Fellini pronuncia il suo
breve discorso di ringraziamento in inglese, con il fiato che a tratti gli
manca:
Per favore, sedetevi, restate a vostro agio! Se c’è uno
qui che deve sentirsi un po’ a disagio, quello sono io.
Vorrei avere la voce di Placido Domingo per dirvi un
lungo, lungo grazie. Che posso dire? Bè, non me lo
aspettavo davvero… O forse sì, ma non prima di altri
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venticinque anni! In ogni caso, è meglio che arrivi ora.
Vengo da un paese e appartengo a una generazione per
i quali l’America e il cinema erano quasi sinonimi, e
ora essere qui con voi, miei cari americani, mi fa
sentire a casa. Voglio ringraziarvi tutti per questa
sensazione. In queste circostanze è facile essere
generosi e ringraziare tutti. Vorrei naturalmente, prima
di tutto, ringraziare tutte le persone che hanno lavorato
con me. Non posso nominare tutti, quindi lasciate che
faccia un solo nome, quello di un’attrice che è anche
mia moglie. Grazie, carissima Giulietta, e per favore,
smettila di piangere!
«Thank you, dearest Giulietta, and please, stop crying!». Un rimbrotto
amorevolissimo che resterà, forse persino più di tante immagini
cinematografiche, al pari del braccio alzato – il rosario serrato fra le dita
– con il quale Giulietta saluta Federico nella basilica di Santa Maria degli
Angeli a Roma, il 31 ottobre 1993, il giorno dopo il loro cinquantesimo
anniversario di nozze, il giorno in cui pure lei comincia ad andar via. «Se
una fa la diva non ha proprio capito niente, vuol dire che è una stronza…
Ma come si fa, dico io: il pubblico ti dà tanto e tu fai anche l’altezzosa?»,
disse una volta al giornalista Umberto Rondi, figlio di Brunello. E
Federico confidò: «C’è una parte di incantesimi e magie, visioni e
trasparenze, la cui chiave è proprio Giulietta, proprio così. Mi prende per
mano e mi porta in zone dove da solo non sarei mai arrivato». Un amore
lungo la strada.
113
H
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Hollywood
29 marzo 1993. The visionary is the only true realist, recita l’epigrafe
al breve montaggio di stralci dei film felliniani che prelude all’ingresso
di Federico sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles,
introdotto da Sophia Loren, per la consegna dell’Honorary Academy
Award, il premio Oscar alla carriera. Prima di quel giorno Fellini ha
vinto quattro Oscar al miglior film non in lingua inglese nel 1957, 1958,
1964 e 1975, rispettivamente per La strada, Le notti di Cabiria, 8 ½ e
Amarcord. Complessivamente, Fellini è stato candidato dodici volte
come regista e sceneggiatore di film suoi, nonché per lo script di Roma
città aperta e Paisà di Roberto Rossellini nell’immediato dopoguerra. È
«di casa» a Hollywood, insomma, sebbene la sua vena aurea non
potrebbe essere più italiana e provinciale, più estranea al cuore
dell’Impero, come conferma una gustosissima sequenza di Il tassinaro
diretto da Alberto Sordi che ne è pure protagonista (1983). Albertone
prende Fellini a bordo del taxi «Zara 87» in via Margutta e festeggia il
cliente di prestigio in un crescendo iperbolico da cui Federico un po’ si
schermisce e un po’ no. Qui il meta-testo dice di due vecchi amici che si
sfotticchiano con il medesimo affetto degli esordi, quando insieme
facevano la fame e insieme talora la ingannavano, grazie alla
benevolenza della cuoca di una latteria di via Frattina che, racconterà
Sordi, nel piatto di spaghetti «con due forchette», sotto la pasta
nascondeva una bistecca e un paio di uova. Alla fine della corsa diretta a
Cinecittà, il tassinaro insiste sulla distanza dei sogni dell’eterno bambino
riminese da «tutti quei film spaziali con Frankenstein e Mazingo che
s’incendiano per aria, si inabissano nel profondo del mare…». E
conclude in puro carattere romanesco:
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Scusi dottor Fellini, a lei je potrebbe servì un ingegnere
con tutti quei mari artificiali, le navi, i palazzi, i
ponti… Je lo posso mannà? Si chiama Luca, mio figlio,
ingegner Luca Marchetti, er figlio del tassinaro. Je lo
mando. Grazie dottor Fellini. Già che c’è, mi dia un
bacione a quel gran chiappone di Sophia Loren, me fa
diventa’ matto a me.
Già, Federico Fellini, Alberto Sordi e Sophia Loren. Nel configurare
l’identità italiana oltreconfine, e non soltanto negli Usa, il cinema gioca
un ruolo primario, come ribadirà l’Oscar attribuito nel 2014 a La grande
bellezza di Paolo Sorrentino, il quale conclude il discorso di
ringraziamento esprimendo gratitudine per le sue «fonti di ispirazione:
Federico Fellini, Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando
Maradona». Nel solco felliniano, ma decisamente più barocco,
Sorrentino affida al protagonista Jep Gambardella (Toni Servillo) il
compito del rabdomante dell’agonia tricolore che si estenua tra feste
frenetiche e disperate con «trenini che non vanno da nessuna parte»,
nobili decaduti, turisti giapponesi, belle ragazze invecchiate, prelati più
interessati a Masterchef che al Paradiso, cascami di stagioni
«impegnate», nella Roma dove tutto muore eppure non muore, come i
resti dell’acquedotto Claudio cantati da Pasolini. La Roma degli zombie
e delle rovine – intuì Fellini – è stigma e metafora della postmodernità.
Dappertutto nel mondo capita di sentirsi definire italiani, o di definirli,
con poche e incisive parole. Italia? «Dolce vita, Fellini». Italia?
«Neorealismo». Italia? «Sophia Loren». Sono icone che rappresentano il
paese nel segno della fantasia, dell’esuberanza e del riscatto da stagioni
avverse come la Loren di La ciociara, Oscar per la migliore attrice nel
1962 (Sophia vincerà l’Oscar onorario nel 1991). Il cinema, la moda,
l’opera lirica e il cibo, che nella lingua di Dante ormai si dice food,
contribuiscono a delineare un «sogno italiano» impastato di arcaismi e
futuro. È una dimensione collegata all’amabilità del vivere, ovvero alla
nostalgia di un piacere perduto e forse recuperabile almeno nel tempo
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libero, al rallentamento dei ritmi, alla sapienza artigianale, a un orizzonte
poetico, a una melodia dell’esistenza. In definitiva, a una contemplazione
estetica ed estatica del mondo. La percezione dell’Italia povera ma bella
nell’immaginario internazionale è confermata dall’ambientazione, dai
temi, dai personaggi di numerosi film premiati con l’Oscar, in aggiunta
alle statuette vinte da Fellini. Un breve elenco: Sciuscià (1948) e Ladri di
biciclette (1950) di Vittorio De Sica, Anna Magnani per La rosa tatuata
di Daniel Mann (1956), Divorzio all’italiana (sceneggiatura, 1963) di
Pietro Germi, Ieri, oggi, domani (1965) ancora di De Sica, Nuovo
cinema Paradiso (1990) di Giuseppe Tornatore, Mediterraneo (1992) di
Gabriele Salvatores, Il postino di Michael Radford con Massimo Troisi
(cinque nomination e Oscar per le musiche di Luis Bacalov nel 1996).
Girato tra Procida e Salina, Il postino rovescia la nozione insulare nel
suo contrario: soltanto un’isola mediterranea consente al celebre scrittore
Pablo Neruda, interpretato da Philippe Noiret, e al portalettere Troisi di
non essere più soli o isolati, di stringere legami di affetto e di amicizia
che altrove andrebbero e andranno dissipati. Il mito della Dolce vita
prende piede in una stagione ancora segnata dall’eredità del dopoguerra
di un paese sconfitto e dalla speranza di affrancarsene. E negli ultimi
decenni l’Italian dream – ma sì, in inglese – rincuora e spesso tradisce
centinaia di migliaia di migranti asiatici e africani che al largo delle
nostre coste, da Brindisi a Lampedusa, vagheggiano uno straccio di terra
promessa. Lungo le frontiere da sempre il Cinema prospera: è il lato
visionario del Capitale, ne serba l’iridescenza del profitto e la rapacità, e,
d’altro canto, è il culto delle storie senza confini. Gli stessi pionieri
dell’industria cinematografica statunitense scelsero Los Angeles invece
della più evoluta ed «europea» New York, argomenta lo storico Silvano
Cavatorta, «perché vicina al Messico, dove i produttori indipendenti
potevano riparare velocemente quando venivano scoperti dai detective
dei trust, e dove il mercato del lavoro era molto più conveniente: Los
Angeles era una città senza sindacati».
117
L’esodo segna la storia del XX secolo, ricorda la scrittrice americana
Susan Sontag, e l’Italia è uno dei passaggi a nord-ovest, al pari del
Messico non a caso fecondo di talenti visionari spesso calamitati da
Hollywood (Alfonso Cuarón, Alejandro Gonzáles Iñárritu, Guillermo
Del Toro, Guillermo Arriaga, Carlos Reygadas, Rodrigo Plá). Hollywood
identifica l’Italia quale mediterranea tout court, nella scia lunga del
classico Grand Tour che nel Novecento annovera viaggiatori letterati
come André Gide in cerca di pace nella «persistenza dell’azzurro» e
George Gissing, Wilhelm von Gloeden e Norman Douglas, Norman
Lewis e a suo modo Carlo Levi, fino a Ingeborg Bachmann e a Julian
Barnes. Per non parlare dei viaggi meridiani di grandi registi,
dall’«olandese volante» Joris Ivens, che nel 1960 realizzò L’Italia non è
un paese povero prodotto dall’ENI di Enrico Mattei, fino al «filosofico»
maestro americano Terrence Malick, che a forza di girovagare in
motocicletta nelle lande più brulle del Sud, nel 2019 ha deciso di
ambientare tra Matera e Gravina in Puglia parte di un suo film. La
fortuna mondiale di Elena Ferrante, corroborata dalla serie Tv L’amica
geniale diretta da Saverio Costanzo (un’intuizione produttiva di
Domenico Procacci), cos’altro è se non il portato di quel medesimo
desiderio di visioni misere e ardenti, laconiche e incantate? Da Rimini a
Napoli, da Milano a Palermo, l’Italia è innanzitutto luce, ma conosce la
saggezza dell’ombra, della pausa, della comunità; è aliena dal teorema
del dimostrare, cui preferisce di gran lunga il mostrare. Nulla di più
felliniano! «Una mischia di lutto e luce» per dirla con lo scrittore
Gesualdo Bufalino, che parlava della sua Sicilia; oppure a metà strada
fra… la miniserie e il sole, parodiando Camus. Per gli italiani La vita è
bella persino in pieno nazifascismo o nel lager, e il lavoro di Roberto
Benigni nel 1999 si aggiudica tre Oscar: al film, al protagonista e alla
colonna sonora di Nicola Piovani, uno degli eredi di Nino Rota, benché
in quel caso a conquistare l’Academy – crediamo – fu soprattutto la
redenzione in chiave lieve dagli orrori della Shoah. Sophia Loren è sul
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palco anche nel ’99. «And the Oscar goes to… Robberto», dice
raddoppiando la B alla napoletana e sventolando il foglietto con il nome
del vincitore, preludio di un irresistibile stravolgimento del cerimoniale
che vede Benigni balzare in piedi sullo schienale delle sedie e
camminarvi sopra, di fila in fila, fino a raggiungere il palco, dove cita fra
l’altro l’ultimo verso della Divina Commedia: «L’amor che move il sole
e l’altre stelle». Italo Calvino nel 1984 inserisce la «Visibilità» tra le sei
proposte per il prossimo millennio raccolte postume nelle Lezioni
americane e spiega l’immaginazione dantesca sotto forma di visioni che
si presentano a mo’ di proiezioni cinematografiche. «Secondo Dante –
scrive Calvino – c’è una specie di sorgente luminosa che sta in cielo e
trasmette delle immagini ideali, formate o secondo la logica intrinseca
del mondo immaginario o secondo il valore di Dio». Sembra scritto per
La voce della luna, l’ultimo film di Fellini, che ha proprio Benigni quale
protagonista insieme a Paolo Villaggio.
Nel 2016 Jim Jarmusch, regista statunitense che diresse Benigni in
Daunbailò (1986), concepisce l’idea di un’immaginetta «votiva» di
Dante Alighieri custodita nella borsa della colazione di un giovane
autista di pullman (Adam Driver) che si chiama come la città nel New
Jersey in cui vive, Paterson, titolo del film. È la città cara ai poeti
William Carlos Williams e Allen Ginsberg, e agli anarchici italiani che vi
trovarono rifugio, tra cui Enrico Malatesta, appena fuggito dal confino a
Lampedusa, e Gaetano Bresci che da Paterson muoverà verso l’Italia per
il regicidio di Umberto I. È un anarchico il capomastro Aurelio
(Armando Brancia), il padre di Titta in Amarcord, al quale i fascisti
fanno bere l’olio di ricino nella scena più drammatica e toccante del film
che vincerà l’Oscar nonostante in un altro passaggio risuonino le note
dell’Internazionale. L’idealismo di Aurelio è congruo con la tradizione
garibaldina e cospiratoria di Rimini al culmine nella Conferenza anarcosocialista dell’agosto 1872 presieduta da Carlo Cafiero, la cosiddetta
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«Internazionale riminista» cui partecipò Bakunin e che perciò fu subito
invisa a Engels.
Poesia e anarchia… Il Fellini di 8 ½ in fondo è tutto qui. Non si può
dire lo stesso di Nine di Rob Marshall, tratto dal musical omonimo di
Arthur Kopit e Maury Yeston ispirato a un testo teatrale di Mario Fratti,
con cui Hollywood nel 2009 pensa di rendere omaggio al genio riminese.
Nonostante le parentele del Guido di Nine (Daniel Day-Lewis) con i
caratteri del personaggio felliniano interpretato da Mastroianni, Marshall
non ha la raffinatezza necessaria per rivisitare un testo talmente
complesso da essere quasi ineffabile. Piuttosto, adotta 8 ½ quale pretesto
drammaturgico, ricalcandone i personaggi femminili che affollano
l’harem del tormentato protagonista: la moglie Luisa (Marion Cotillard),
l’amante Carla (Penélope Cruz), la sensuale e angelica Claudia (Nicole
Kidman), la prostituta Saraghina (Fergie). E ancora: una sorta di «grillo
parlante» della coscienza del regista che è anche la sua costumista
(l’eccellente Judi Dench), e la madre defunta di Guido (Sophia Loren,
guarda caso). Con l’aggiunta di una provocante giornalista di moda
d’oltreoceano, ruolo affidato a Kate Hudson, e di un produttore che si
chiama… Dante (Ricky Tognazzi). Nine è «felliniano» nella maniera più
scontata del termine, quindi è sì sovrabbondante, smisurato, polifonico
come 8 ½, tuttavia privo della tensione interiore verso il silenzio
agognato da Federico. Il protagonista è egocentrico come l’originale,
senza però l’approdo comunitario del finale, il celeberrimo girotondo in
cui tutti si prendono per mano, unico antidoto al mal di vivere. Sullo
sfondo l’Italia è una cartolina della Dolce vita, una meta da «vacanze
romane» al ritmo di canzoni che s’intitolano Be Italian e Cinema
italiano. Delude anche l’appuntamento «felliniano» di Woody Allen, che
dell’Italia frequenta soprattutto Venezia, ma fa una puntata… To Rome
with Love nel 2012, quando molti scomodano il paragone con La dolce
vita. Invero To Rome with Love riecheggia Lo sceicco bianco (1952),
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storia di un bislacco viaggio di nozze nella capitale. Ricordate il film del
giovane Fellini? Lei si chiama Wanda Cavalli (Brunella Bovo) e nella
città eterna si mette sulle tracce del protagonista dei fotoromanzi Nando
Rivoli detto «lo sceicco bianco» (Alberto Sordi), incontrandolo nella
pineta di Fregene, dove Fellini avrebbe comprato un villino e che gli è
stata intitolata nel 2014. Nella giostra di episodi di To Rome with Love
c’è la sposina di provincia Alessandra Mastronardi in visita col marito
agli zii influenti e benpensanti, tentata dall’avventura con il bellimbusto
dello spettacolo Antonio Albanese, mentre lui è irretito dalla ragazzasquillo Penélope Cruz.
A Hollywood ha assunto i contorni di un progetto «infinito» il copione
del 2012 intitolato Fellini Black and White, che avrebbe dovuto essere
portato sullo schermo dallo sceneggiatore e producer Henry Bromell,
con il brasiliano Wagner Moura nel ruolo di Federico (Moura è stato
Pablo Escobar nella popolare serie televisiva Narcos). Bromell è morto
nel 2013 e da allora lo sviluppo del film, passato di mano in mano, viene
periodicamente annunciato prossimo al ciak. Poi, se ne perdono le tracce.
Fellini Black and White dovrebbe raccontare la storia, ambientata nella
California del 1957, del primo viaggio americano di Fellini in occasione
dell’Oscar assegnato a La strada, durante il quale scomparve per due
giorni. Cosa accadde in quelle quarantotto ore resta un mistero, come il
film che vorrebbe scandagliarle (incautamente?). Ritardi notevoli ha
accumulato anche l’Academy Museum of Motion Pictures, in via di
completamento nell’area Miracle Mile di Los Angeles, là dove c’era il
centro commerciale in disuso May Co. Il progetto di Renzo Piano per il
museo del cinema più grande del mondo voluto dall’Academy of Motion
Pictures, Art and Sciences che assegna gli Oscar, include una sfera di
cristallo con un migliaio di posti a sedere per le premiazioni e altri
eventi. Preventivo 250 milioni di dollari, costo finale stimato intorno ai
390 milioni. I vertici dell’Academy, David Rubin e Dawn Hudson, e il
121
neodirettore del museo Bill Kramer, tra le prime iniziative hanno
annunciato per il 2020 un tributo a Fellini nel centenario della nascita.
L’omaggio è stato promosso in partenariato con Istituto Luce – Cinecittà
presieduto da Roberto Cicutto, che ha già attinto dal suo archivio i brevi
filmati del «Fellini in pillole» presentati nel 2019 alla Biennale Cinema
di Venezia presieduta da Paolo Baratta e diretta da Alberto Barbera.
Infine, Federico torna a Hollywood. Era ora.
122
I
123
Infanzia
«Amor di fratelli, amor di coltelli», recita l’adagio. Le cose però sono
spesso più complicate. Metti il caso dei due ragazzi nati dall’unione di
Urbano Fellini e Ida Barbiani. Lui era commerciante di generi alimentari
a Gambettola nel Cesenate, il paese anche del sindacalista Luciano
Lama. Fellini conosce la giovane Ida durante un viaggio di lavoro a
Roma e la sposa contro il parere dei genitori di lei. Si stabilirono a
Rimini, una buona «piazza» grazie al nascente turismo, all’epoca di élite,
prima che Benito Mussolini desse la spinta decisiva alla riviera
romagnola. I fratelli Fellini sono quasi coetanei (1920 e 1921), entrambi
interessati al cinematografo e il maggiore – Federico – diventerà il
regista italiano più famoso nel mondo. Ebbene, quale condizione pensate
abbia vissuto il fratello minore, Riccardo, l’«altro Fellini»?
Per dirne solo una, nel 1963-64 Federico fa su e giù tra l’Italia e
l’America, la Russia e vattelappesca, scendendo dalle scalette degli
aeroplani con il sorriso del quarantenne di genio seppur in crisi
esistenziale e in mano l’ennesima statuetta ottenuta grazie a 8 ½, che
s’aggiudicò pure l’Oscar ai costumi di Piero Gherardi. Riccardo nel
medesimo 1963 si presenta al Lido di Venezia col suo esordio da regista,
Storie sulla sabbia. L’accoglienza non è delle migliori. Ecco per esempio
la recensione di Francesco Dorigo su «Cineforum»: «Essenzialmente
gracile, il film s’imposta su tre racconti. Di gusto felliniano, Riccardo
riesce a prenderne qua e là qualche spunto felice, qualche intuizione
intelligente». Per certi versi, è peggio di una stroncatura feroce,
soprattutto per quel riferimento al «gusto felliniano» che ascrive
un’estetica nascente, le fatiche poetiche e il destino di un autore a una
dimensione familiare, punto. Storie sulla sabbia è appena un’eco di
124
Federico e Riccardo ne è un epigono. Terribile, vero? D’altronde
Riccardo, fino a quel momento attore, aveva ottenuto il primo ruolo
importante grazie a Federico, interpretando praticamente sé stesso in I
vitelloni del 1953. Era reduce da una gavetta decennale di particine in
pellicole magari di successo, come I tre aquilotti e I bambini ci
guardano. E per un altro ruolo di rilievo avrebbe dovuto attendere il
1963, quando recita in L’ape regina di Marco Ferreri, da un’idea di
Goffredo Parise.
L’altro Fellini si intitola un bel documentario dei romagnoli Stefano
Bisulli e Roberto Naccari (2013): mostra Federico e Riccardo bambini e
adolescenti nella Rimini degli anni Venti-Trenta del secolo scorso (la
sorella Maddalena nasce nel 1929), poi giovanotti inurbati nella capitale
alla vigilia della Seconda guerra mondiale, aspiranti artisti a Cinecittà e
dintorni. Riccardo frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia in
via Tuscolana, a poche centinaia di metri da Cinecittà, ma Federico anni
dopo eleggerà a «fratellino più piccolo» un altro ex allievo del Centro, il
regista catalano Jordi Grau Solà. I due si conoscono a Roma nel 1959 e
Fellini lo chiama «Giorgino» assecondando la sua predilezione
«pascoliana» per il diminutivo (Pasolini dixit). «Caro Giorgino – gli
scrive nel maggio 1961 a proposito della perdita di un bambino appena
nato – mi dispiace di quello che ti è accaduto, anche a Giulietta e a me
molti anni fa successe la stessa triste cosa… Buon lavoro e buona fortuna
e un bacetto sulla fronte a tua moglie».
All’indomani della Liberazione, Federico – che si è fatto un nome
quale autore radiofonico e vignettista del «Marc’Aurelio» con lo
pseudonimo Fellas – prende a collaborare con Rossellini: è l’inizio di
una carriera straordinaria. Frequenta gli amici Ruggero Maccari e Aldo
Fabrizi che lo introduce nel mondo del cinema e intanto ha sposato
Giulietta Masina. Riccardo invece si arrabatta con scarsa fortuna sui set.
125
È andato a nozze anche lui, ma il matrimonio fallisce per incompatibilità
caratteriali, come racconta la figlia nel documentario di Bisulli e Naccari.
Dopo il fiasco di Storie sulla sabbia, Federico chiede a Riccardo di
rinunciare a usare il cognome Fellini per firmare eventuali altri film. La
richiesta è in verità assurda e provoca una lacerazione tra i fratelli sanata
soltanto negli ultimi anni di vita di entrambi. L’«altro Fellini» nei
decenni successivi realizzerà alcuni documentari televisivi dedicati al
mondo degli animali, una sua grande passione (il circo e i clown nel
cuore anche di Federico). Riccardo muore nel marzo 1991, rasserenato
dal connubio con una giovane compagna, sognando di dirigere
finalmente l’opera seconda, una favola zoofila dal titolo Stella cavalla da
circo. Federico, che nelle settimane finali lo aveva assistito con amore,
due anni e mezzo dopo – è il 31 ottobre 1993 – spira nelle stesse stanze
del policlinico romano Umberto I in cui era deceduto il fratello.
Una coincidenza? Chissà. Mica tanto, si direbbe, alla luce del
documentario, quanto mai accurato nella filologia degli affetti. Gli autori
evocano la figura chiave dello psicoanalista junghiano Ernst Bernhard,
che fu il terapeuta di Federico e, simbolicamente, il suo «vero padre».
Così viene definito nel Libro dei sogni del grande regista. Nelle pagine
istoriate di disegni onirici nell’arco di un trentennio e fitte di appunti del
dormiveglia, Federico rappresenta il giovane Riccardo come lo vedeva il
papà e quale in effetti fu: bello, atletico, elegante, sensuale, accattivante.
In quel disegno Federico – da ragazzo soprannominato «Gandhi» per la
magrezza e il pallore – si relega in un angolo, molto più basso di quanto
non fosse, e si ritrae nero di rabbia al cospetto dell’erede al trono, del
fratello prediletto da Urbano, di Riccardo cuor di leone.
La vita fa e disfa: come è andata lo sappiamo. Federico raccontava di
essere stato in collegio con la divisa da soldatino che vediamo indossata
dal piccolo Guido in 8 ½ e costretto dai preti a inginocchiarsi sui ceci.
Tutto falso! Quei ricordi appartenevano a Riccardo, alla sua infanzia. Per
126
carità, nel cinema felliniano solo la finzione esprime una paradossale
verità: nell’ombra fraterna, Federico avrà sognato splendori che
finiranno per oscurare l’«altro Fellini», autentico alter ego. «Sii felice»,
amava ripetere Federico agli amici, pensando forse alla propria infelicità
rispetto al fratello (e viceversa). Da vecchi, si somigliavano moltissimo:
guardare le foto per credere. Del resto, la fratellanza ritrovata o
finalmente avvalorata è un topos in grado di sospendere il tempo
consueto, prosaico e sofferente degli adulti in nome dell’infanzia e
dell’adolescenza ritrovate, con il candore poetico e l’energia vitale di
allora, talvolta in vista della fine di uno dei due, ovvero di un genitore.
Esempi se ne potrebbero fare a iosa: da Fratelli di Carmelo Samonà, un
capolavoro non abbastanza conosciuto, alla commovente agnizione del
talento altrui nel film La famiglia di Ettore Scola, da La casa nel bosco
di Gianrico e Francesco Carofiglio al graphic novel Fratelli di
Alessandro Tota. A Riccardo e Federico sopravvive Maddalena, a sua
volta attrice con Marco Tullio Giordana, Damiano Damiani e Carlo
Verdone, moglie del pediatra Giorgio Fabbri, amatissimo a Rimini, e
fondatrice della Fondazione Fellini. Un’eredità culturale curata oggi da
sua figlia Francesca Fabbri Fellini, che al celebre «zio Chicco» ha
dedicato un cortometraggio onirico e svagato, Fellinette, in programma
come prologo in molte manifestazioni del centenario nel 2020.
127
J
128
Jung
La J è l’i lunga, la iota, una variante grafica della I di Infanzia. J come
Jung, Carl Gustav Jung, «uno dei grandi spiriti dell’umanità» secondo
Federico Fellini, che ne legge avidamente i trattati teorici e clinici
quando approda in psicoterapia dallo junghiano Ernst Bernhard. Questi è
un ebreo berlinese già allievo e assistente dello stesso Jung a Zurigo,
fuggito dalla Germania nazista per sottrarsi alle persecuzioni razziali e
stabilitosi a Roma con la moglie e collega Dora Friedlaender a metà
degli anni Trenta, dopo che il governo britannico gli ha rifiutato il visto
d’ingresso perché sospettoso, si favoleggia, delle sue pratiche
astrologiche ed esoteriche. Il fascismo lo confina nel 1940 nel campo di
Ferramonti di Tarsia, in Calabria, una sorta di involontario e grande
«kibbutz» per ebrei di mezza Europa, fra i quali il greco Moris Ergas,
che diventerà un importante produttore cinematografico e il marito di
Sandra Milo, l’attrice poi a lungo amante per così dire «ufficiale» di
Federico. Ma a Ferramonti furono internati anche una settantina di cinesi
che si trovavano in Italia al momento dell’inizio della guerra e chissà che
non siano stati loro a introdurre Bernhard allo studio di I King – Il Libro
dei Mutamenti. Sarà Bernhard a far pubblicare I King dall’Astrolabio, la
medesima casa editrice della prima traduzione italiana de
L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, propiziata dal letterato
triestino Bobi Bazlen, a sua volta paziente dell’analista berlinese. Tra
l’altro Bazlen nei suoi primi tempi romani, scrive Cristina Battocletti,
risiede in una camera ammobiliata di via Margutta, di fronte al palazzo
dove sarebbe andato a vivere Fellini. A parlare di Bernhard a Fellini nel
pieno del successo di La dolce vita è il regista Vittorio De Seta, uno dei
discepoli intellettuali del «guru» che aveva la casa-studio in via
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Gregoriana 20, frequentata anche da Natalia Ginzburg, Giorgio
Manganelli, Cristina Campo, Adriano Olivetti… De Seta, aristocratico
siciliano attratto dal mondo degli ultimi cui ha dedicato magnifici
documentari, nel 1960 porta la sceneggiatura di Banditi a Orgosolo alla
neonata società di produzione Federiz, battezzata dalle iniziali di
Federico e di Angelo Rizzoli, con una partecipazione del produttore
esecutivo Clemente Fracassi. Grazie all’amicizia fraterna con Fellini,
Pier Paolo Pasolini conta sulla Federiz per esordire al cinema con il suo
Accattone, e un altro giovane documentarista, Ermanno Olmi, si rivolge
alla società alla ricerca di risorse per dirigere il suo primo
lungometraggio, Il posto. Tullio Kezich ricorda che i tre film
costituiranno la selezione italiana della Mostra di Venezia nel 1961, ma
che nessuno dei tre è infine varato dalla Federiz per le riserve puntigliose
di Fracassi, mentre Fellini, «concentrato sulle cose sue, non legge
neppure i copioni». Le «cose sue» in quel periodo coincidono in parte
con il tormento esistenziale del quarantenne di successo e con l’estasi
della psicologia analitica che durerà fino alla morte di Bernhard nel
1965. Così Federico «scopre» Jung e addirittura si reca a visitarne la
dimora a Zurigo, si avvicina allo gnosticismo e, soprattutto, comincia ad
annotare appunti e a disegnare bozzetti sui sogni nei quaderni che
confluiranno in Il libro dei sogni. È Bernhard a parlargli per primo del
puer aeternus, di cui, gli dice, Federico sarebbe un’incarnazione. Per un
altro psicoanalista junghiano, James Hillman, ch’era ammirato da Fellini
e a sua volta ammirava il maestro del cinema, «la figura del Puer
aeternus è la visione della nostra natura prima, la nostra primordiale
Ombra d’oro, la nostra affinità con la bellezza, la nostra essenza angelica
come messaggera del divino, come messaggio divino».
Quell’aurea Ombra è la qualità prima del cinema di Fellini: una fonte
limpida di suggestioni, pensieri, visioni che si rinverdiscono nel corpo a
corpo con il Tempo e con l’età del regista, ma anche dello spettatore,
130
perché un film non è una sostanza ristagnante o un verbo sempiterno,
«cambia» in relazione al vissuto di chi lo guarda. Il cinema di Fellini –
esemplare resta 8 ½ – setaccia il caos alla ricerca di un senso e, aderendo
a uno sperimentalismo che Alberto Arbasino riconobbe fra i primi, fa del
perdersi il presupposto del ritrovarsi (come nelle fiabe), è un provvido
esorcismo del delirio di onnipotenza insito nelle linee rette del racconto,
nei metodi «infallibili», nelle geometriche potenze, nella ragione
tetragona e nella rimozione della memoria. Certo, Fellini prende le
mosse dal neorealismo «americano» di cui scrive Vittorio Boarini
riferendosi all’influenza che Steinbeck, Caldwell, Dos Passos
esercitarono sulla cultura italiana dei Pavese e dei Vittorini, e certo
Fellini non può non dirsi rosselliniano, ma, annota in un saggio
essenziale l’italianista americano Peter Bondanella, progressivamente
tende a distaccarsi dalla mimesi della realtà. La rabdomanzia felliniana si
esercita dai primi anni Sessanta in un mondo interiore, onirico, via via
più metafisico, sia pure senza rinunciare a echi sociali, politici e religiosi
come in La dolce vita.
In tale approccio non razionalistico di Fellini non v’è alcunché di
«misticheggiante», a dispetto dei detrattori dell’eredità di Jung. Fellini,
prima di incontrare Bernhard, a metà degli anni Cinquanta era stato per
un breve periodo paziente del freudiano Emilio Servadio, ebreo fuggito
in India durante la guerra e interessatissimo alle discipline orientali, che
una decina di anni più tardi farà assumere al regista sotto stretto controllo
medico una dose di acido lisergico, l’Lsd, che nella controcultura beat è
la chiave per aprire le porte della percezione: un’esperienza, secondo
Servadio, in parte confluita nella genesi di Giulietta degli spiriti. Per non
parlare dell’amicizia di Fellini con il sensitivo torinese Gustavo Adolfo
Rol, un’altra prova dell’estremo interesse che il Nostro riserva al mistero
con la sua straordinaria valenza «spettacolare». Fellini, intervistato da
Giovanni Grazzini in un volume edito da Laterza nel 1983, definisce
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Carl Gustav Jung «un compagno di viaggio, un fratello più grande, un
saggio, uno scienziato veggente». Per lui l’universo simbolico e gli
archetipi sono forme primitive dell’Essere e del pensiero, alle radici
dell’inconscio collettivo che del resto diventerà oggetto di studio nella
Hollywood del dopoguerra in cerca di nuovi modelli narrativi, in verità
arcaici, alla luce del saggio dello psicologo junghiano Joseph Campbell,
L’eroe dai mille volti (1949). In effetti non v’è film americano di
successo che esuli da un mitologico «viaggio dell’eroe» con le classiche
prove da superare e la relativa ricompensa finale. Tuttavia Fellini nella
sua ricerca onnivora non nega l’anima, ovvero la dimensione religiosa,
latina e mediterranea, a dispetto della proverbiale alternativa tra la
«scienza ebraica» fondata da Freud e la tradizione cattolica. Al centro di
tutto c’è sempre l’infanzia, com’è evidente ancora una volta in Giulietta
degli spiriti, con una Masina tanto essenziale da essere eponima e
impegnata suo malgrado in un «dialogo» tortuoso, fantasmagorico,
inquietante con sé stessa bimbetta. Può darsi che Giulietta degli spiriti
sia, come vuole una vulgata, la versione femminile di 8 ½, oppure che
sia il film «femminista» di Fellini in cui confluirono il disagio,
l’inadeguatezza, l’ansia libertaria di stagioni già segnate dalla ribellione
delle donne. In favore di quest’ultima ipotesi deporrebbe un intento
dichiarato dall’autore:
Penso ora all’osservazione di Jung sulla difficoltà per
l’uomo di parlare della donna e mi chiedo se sono stato
onesto […] L’ambizione del film è comunque di voler
restituire alla donna una sua indipendenza vera, una sua
indiscutibile e inalienabile dignità. L’uomo libero,
voglio dire, non può fare a meno di una donna libera.
Forse Giulietta degli spiriti non è ancora un discorso
onesto, esauriente, completo che si può fare
sull’argomento. Forse non riesce ad affermar con forza
neppure una mezza verità, ma tenta di farlo.
L’indipendenza della donna è il tema degli anni futuri.
132
Certo è che il clima del film è completamente onirico, scandito da un
senso del barocco portato a sontuose estremità figurative e dal bric-àbrac erotizzato di situazioni torbide o di incursioni morbose
nell’immaginario coniugale. Al professore nonno della protagonista (Lou
Gilbert) – in fuga con una ballerina a bordo di una macchina volante
leonardesca alla maniera di Luca Ronconi – bastava declamare, con
sommo disdoro del suo preside: «Una bella donna mi fa sentire più
religioso». Ma per Giulietta Boldrini, come si chiama il personaggio,
quella trasgressione è addirittura rassicurante, non desta scandalo, è
un’eredità familiare, come dimostrano l’esuberanza e la sensualità della
madre (Caterina Boratto) e delle sorelle Sylva Koscina e Luisa Della
Noce, tutte e tre elegantissime, curatissime e inclini a rimproverarle la
sciatteria nel vestire nonché, s’intende, una certa apatia nel ménage con
il marito Giorgio (Mario Pisu, il Mezzabotta di 8 ½, che in entrambi i
film ha un’amante molto più giovane di lui). Fossero ancora solo quelli
gli spiriti! Qui invece s’agitano ossessioni più oscure che scompigliano
la vita quotidiana della «tranquilla» signora borghese nella sua linda villa
di Fregene. Nella ricorrenza dell’anniversario di matrimonio di Giulietta
e Giorgio, viene organizzata una seduta spiritica. Dall’aldilà si fanno
vivi, alla lettera, fantasmi di ieri e di oggi che non le daranno più tregua,
mentre l’assale il dubbio che il marito la tradisca, poi certificato dalle
prove conseguite tramite un’agenzia di investigazioni. Giulietta ne è
turbata, divisa tra la tentazione di assecondare certi impulsi e un
sostanziale perbenismo. Non l’aiuta il milieu, tipicamente felliniano, nel
quale spicca la vicina di casa Susy (Sandra Milo, interprete anche di altri
ruoli), che pare essere lì apposta per far aumentare la sua «brutta
confusione». Né sembra giovarle il ricorso a uno psicoanalista, giacché
in presenza di questi, sulla spiaggia, Giulietta è vittima di uno dei suoi
incubi peggiori, che resta forse la visione più funerea e terrificante del
cinema felliniano. Uno sconosciuto le offre di tirare una corda in riva al
mare e, in acqua, ecco un corpo affiorante, un barcone con la stiva colma
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di zombie, una tavola alla deriva sulla quale vi sono dei cavalli ma anche
presenze cadaveriche con un sentore della Zattera della Medusa, il
celebre dipinto di Théodore Géricault (1819). Giulietta chiede aiuto al
dottore che vede lì a pochi passi, ma il suo grido implode in un sussurro
sillabato, e soltanto il rombo di un aeroplano a bassa quota spezza il
sortilegio e la riporta alla realtà. Gli occhi aperti e quelli chiusi
coincidono in Giulietta degli spiriti, che a ben vedere può considerarsi
una matrice del capolavoro testamentario di Stanley Kubrick, Eyes Wide
Shut (1999), apologo erotico e odissea nella coppia ispirato al racconto
Doppio sogno di Arthur Schnitzler (1926).
Le angosce di Giulietta non si placano quando è vigile. Anzi, basta un
dettaglio, uno sguardo, un incontro, un soffio di vita a suscitarne la
regressione. I fantasmi di ieri sono ovunque intorno a lei, adesso. Dio,
per esempio. Dio si cela dietro «un grande sportello sempre chiuso nel
teatrino delle monache» e quel passaggio è la porticina per un’infanzia
pervasa di apprensioni e di rappresentazioni che si concretano nella
figura della piccola Giulietta legata a un’altalena e circondata dalle
fiamme di carta, vittima sacrificale in uno spettacolo da oratorio. Una
«graticola» sulla quale la bambina non ha mai smesso di ardere, finché
non viene liberata dalla Giulietta adulta, in uno dei sogni più toccanti del
film. L’epilogo è prossimo e una sorridente Giulietta in abito bianco si
offre al vento che spira dal mare verso di lei, sfiorata dall’improvvisa
grazia ereditata, forse per vie magiche, dal primo piano finale di Cabiria.
Come in Le notti di Cabiria, non c’è di certo un happy end, ma nel
suggello di una storia amara vibra una speranza, forse la consapevolezza
– tutta analitica – che la «guarigione» consista nell’aver capito che è
impossibile guarire da sé stessi e dal Tempo. Ricorda l’attore Sergio
Rubini, interprete del giovane Federico di Intervista (1987) e amico del
maestro, che negli ultimi tempi Fellini era tornato da uno psicoanalista,
lo junghiano Giovanni Caputo. In uno dei primi colloqui aveva estratto
134
una fotografia di sé stesso quattordicenne e mostrandogliela aveva detto:
«Ecco, dottore, io vengo da lei perché vorrei tornare a essere così».
135
K
136
Kezich
Annoverato a suo tempo dalla storica rivista statunitense «Variety»,
per quel che contano certe classifiche, tra i dieci maggiori critici
cinematografici del mondo, Tullio Kezich è stato anche drammaturgo,
sceneggiatore, scrittore, nonché biografo di Federico Fellini, più che
«autorizzato» in virtù d’una lunga amicizia personale con il regista. «No,
non voglio prenderne atto», dice la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico
quando le danno la notizia della scomparsa di Kezich, il 17 agosto 2009,
frase scelta come titolo per un fascicolo in memoriam che gli dedica due
mesi dopo il Festival Internazionale del Film di Roma, con brevi scritti
di Raffaele La Capria, Carlo Lizzani, Giuliano Montaldo, Italo Moscati,
Ermanno Olmi, Gian Luigi Rondi, Francesco Rosi, Armando Trovajoli,
Lina Wertmüller, Paolo e Vittorio Taviani. Praticamente tutti i «senatori»
del cinema italiano o almeno i superstiti degli anni d’oro. Ma ad aprire la
galleria dei ricordi è il collega Callisto Cosulich, che nel 1947 con
Kezich aveva fondato la sezione cinematografica del Circolo della
Cultura e delle Arti di Trieste. Entrambi sono triestini e nella
combriccola cinefila ci sono anche Lelio Luttazzi e il più giovane Franco
Giraldi, destinati a diventare famosi l’uno come musicista-showman e
l’altro come regista. Callisto è nato nel 1922 e Tullio nel 1928 da una
famiglia istriana con papà avvocato antifascista; abbandonano gli studi
universitari rispettivamente in Ingegneria navale e in Lettere per
dedicarsi al cinema (Cosulich, scomparso nel 2015, era un erede della
dinastia lussignana di armatori, pionieri della navigazione mercantile
nell’Adriatico). I due sono i primi critici cinematografici della nuova
Italia dai microfoni di Radio Trieste o sulle colonne del «Piccolo», non
foss’altro perché i film a stelle e strisce, dopo i lunghi anni di autarchia
137
culturale del fascismo e la guerra, ricominciano a circolare a partire dal
Territorio Libero di Trieste, delineato nel 1947 in seguito ai trattati di
pace e posto sotto il controllo civile e militare degli angloamericani (agli
jugoslavi fu attribuita la zona di Capodistria). Non a caso, il cinema Usa
sarà il grande amore di entrambi, in particolare il western per Kezich,
che nei primi anni Cinquanta si trasferisce a Milano dove collabora con
Roberto Leydi. Questi è il critico musicale dell’«Avanti!», appassionato
di jazz, e con Kezich pubblica un libretto per le edizioni del quotidiano
socialista, Ascolta, mister Bilbo!, che raccoglie i testi dei canti popolari
americani di protesta contro il senatore Theodore G. Bilbo, il campione
del suprematismo bianco dell’epoca. «Con Tullio ci chiedemmo perché
in Italia non ci fossero analoghe esperienze. La risposta fu che nessuno le
aveva mai cercate», racconterà Leydi, in seguito partecipe delle
spedizioni antropologiche nel Mezzogiorno con Ernesto De Martino,
Diego Carpitella, il fotografo Franco Pinna e la giovane Annabella Rossi,
e a fine anni Settanta tra gli animatori del neonato Dams di Bologna con
il grecista e fondatore Benedetto Marzullo, Umberto Eco, Adelio
Ferrero, Luciano Anceschi, Ugo Volli, Gianni Celati e Giuliano Scabia.
Quella piccola antologia antirazzista incoraggia gli studi
etnomusicologici in Italia, ma è il Cinema il nord della bussola di
Kezich, che già nel 1952 è «consigliere redazionale» al pari di Renzo
Renzi del neonato quindicinale «Cinema nuovo» diretto da Guido
Aristarco, per poi passare al rotocalco «Settimo giorno». Nel 1961
eccolo attore, in camice bianco nel ruolo dell’«esaminatore
psicotecnico» di Il posto, l’esordio di Ermanno Olmi, il quale sul set
s’innamora di Loredana Detto, sposandola nel ’63. Olmi e Kezich
fondano la piccola e combattiva casa di produzione «22 dicembre»,
partecipata dalla Edison (il cinema a Milano era allora più o meno una
coraggiosa eresia), e il critico ne diventa direttore artistico, realizzando,
fra gli altri titoli, Il terrorista di Gianfranco De Bosio sulla Resistenza a
Venezia, con Gian Maria Volonté e Anouk Aimée, e I basilischi, esordio
138
dietro la macchina da presa di Lina Wertmüller, che sarà la prima donna
candidata all’Oscar per la migliore regia con Pasqualino Settebellezze
nel 1977, premiata con la statuetta alla carriera nel 2019. Wertmüller è
nata a Roma da un’aristocratica famiglia lucana e ha collaborato ai testi
di Canzonissima nel 1959, quando la sua amica più cara, l’attrice Flora
Carabella, moglie di Marcello Mastroianni, la presenta a Federico
Fellini, di cui è aiuto regista per 8 ½ nello stesso 1963 di I basilischi,
nient’altro che i vitelloni del Sud, persino più accidiosi dei fratelli
maggiori riminesi.
Alla fine dell’esperienza della «22 dicembre», Kezich diventa
produttore e sceneggiatore in Rai, dove vara Sandokan di Sergio Sollima
e le cinque puntate di L’età del ferro di Roberto Rossellini, che ne affida
la regia al figlio Renzo. Continua tuttavia a collaborare con l’amico Olmi
del quale firmerà La leggenda del santo bevitore, Leone d’oro alla
Mostra di Venezia nel 1988, dedicato alla moglie di Tullio, la scrittrice
Lalla Kezich, scomparsa da poco, che aveva suggerito a Ermanno la
lettura del racconto di Joseph Roth cui il film è ispirato. A proposito di
Venezia, Tinto Brass nel 1985 porta sullo schermo la sua versione erotica
e contemporanea della settecentesca Locandiera di Carlo Goldoni:
s’intitola Miranda, e lancia Serena Grandi nel firmamento delle grandi
forme. Nel finale quel mattacchione di Brass inquadra un monumento ai
caduti e sulla lapide si leggono distintamente i nomi di Kezich e di
Cosulich, che più volte avevano stroncato i suoi film: «Tullio non la
prese bene, invece Callisto accettò lo scherzo».
I punti cardinali del lavoro eclettico e incessante di Kezich nella
nascente industria culturale sono, da una parte, la Trieste mitteleuropea
di Italo Svevo, del quale nel 1964 riduce per il teatro La coscienza di
Zeno, con la regia di Luigi Squarzina e Alberto Lionello protagonista;
dall’altra, la Roma della Dolce vita e di Federico Fellini. Firma
prestigiosa di «Panorama», «la Repubblica» fin dal primo numero nel
139
1976 e quindi del «Corriere della Sera» dal 1990, Kezich è tra i primi
«fellinologi» che si dedicano alla Biografia infinita, titolo della sapida
rubrica che teneva sulla rivista «Fellini Amarcord» della Fondazione
riminese intitolata al Nostro.
Tra i fellinologi di varie generazioni, chiedendo venia per le inevitabili
dimenticanze (maddeché, mi toglieranno il saluto), menzioniamo in
ordine sparso: Sergio Zavoli da sempre amico e confidente di Federico,
Mario Verdone, Enzo Biagi, Giovanni Grazzini, Lietta Tornabuoni,
Gideon Bachmann, Italo Moscati, Beniamino Placido, Vittorio Boarini,
Paolo Fabbri e Mario Guaraldi che hanno curato una provvida edizione
digitale integrale del Libro dei sogni, Aldo Tassone, Goffredo Fofi e
Gianni Volpi, Pier Marco De Santi dedicatosi soprattutto alla disamina
dei disegni felliniani, Claudio G. Fava, Gian Piero Brunetta, Vincenzo
Mollica, Marco Missiroli, Alessandro Nicosia, Pietro Citati, Milan
Kundera, Felice Laudadio che ha istituito il Federico Fellini Platinum
Award for Cinematic Excellence assegnato ogni anno al Bif&st di Bari,
Ennio Cavalli, Oreste Del Buono che con Liliana Betti scrisse un libro
dal titolo Federcord, Jean Antoine Gili, Irene Bignardi, Françoise Pieri,
Jean-Paul Manganaro, Paolo Mereghetti, Adriano Aprà, Peter
Bondanella, Francesco Casetti, Mario Sesti, Hollis Alpert, Tatti
Sanguineti, i gesuiti Angelo Arpa, Nazareno Taddei e Virginio Fantuzzi,
Costanzo Costantini, Silvio Danese che ha raccontato il romanzo del
cinema italiano in Anni fuggenti, Antonio Costa, Natalia Aspesi, Patrizia
Carrano, Gian Luca Farinelli che dirige la Cineteca di Bologna cui si
deve il restauro di Amarcord e Lo sceicco bianco, Gérald Morin, Andrea
Minuz, Orio Caldiron, Stefania Miccolis, Marina Sanna, Fabrizio
Natalini, Gianfranco Angelucci che fu stretto collaboratore di Federico,
la tenace produttrice Tilde Corsi che cominciò sul set di Casanova, Sam
Stourdzé, Alessandro Carrera, Jacqueline Risset, il poeta Andrea
Zanzotto che raccolse in Filò le filastrocche in dialetto veneto votate a Il
140
Casanova di Federico Fellini, Gianni Canova, Emiliano Morreale… E
naturalmente c’è l’amico bolognese Dario Zanelli, critico di «il Resto del
Carlino», che nel 1982 riuscì a «strappare» a Federico una lista dei suoi
film prediletti di tutti i tempi: «Cinquanta, ma vuoi scherzare? Mai visti
tanti…». Alla fine furono 42 titoli, tra cui figurano Chaplin, Bergman,
Visconti, Rossellini, Capra, Ford, Disney, Wilder, Polanski, Losey,
Kubrick, Germi, ben due film della serie 007, Totò, Peppino e… la dolce
vita di Sergio Corbucci (1961); invece mancano Ejzenštejn, Dreyer e von
Stroheim, «perché non li ho proprio visti». Oriana Fallaci, Nello Ajello,
Giovannino Russo, Eugenio Scalfari, Stephen Gundle, Aurelio Magistà,
nonché Domenico Monetti e Giuseppe Ricci sul fronte dell’archivio
delle fonti sono tra gli autori di volumi utili a cogliere l’atmosfera degli
anni della Dolce vita, laddove Roberto Cotroneo nello struggente
romanzo-memoir Niente di personale racconta il tramonto del mondo di
Fellini e Moravia, Calvino e Sciascia.
Ci sarebbero poi i registi «felliniani», un elenco lunghissimo dal quale
estraiamo almeno i nomi di Ettore Scola e Pupi Avati, Marco Ferreri e
David Lynch, Gianfranco Mingozzi, Emir Kusturica con i suoi fellinismi
balcanici, Pedro Almodóvar il cui recente Dolor y gloria appare
modellato su 8 ½, Giuseppe Tornatore che nel finale di Baarìa sospeso
tra passato e presente evoca Amarcord e 8 ½, Nanni Moretti e Woody
Allen per il geniale autobiografismo di fondo, Sergio Rubini e Ferzan
Özpetek per la passione nel racconto di gruppo, il Matteo Garrone di
Reality e Dogman, François Truffaut di Effetto notte, Wes Anderson,
Eugenio Cappuccio, Juan Manuel Chumilla-Carbajosa che rivisita la
Saraghina nel cortometraggio ¡La Rumba!, Roberto Andò che in Viva la
libertà mostra un Fellini sdegnato per gli spot durante i film, Gabriele
Mainetti nei meandri dell’amara vita a Tor Bella Monaca di Lo
chiamavano Jeeg Robot, Peter Greenaway autore di un lascivo 8 ½
Women, Ken Russell, Tim Burton, Alexander Payne, Paul Mazursky che
141
diresse Federico nel ruolo di sé stesso in Alex in Wonderland, Juan José
Bigas Luna e naturalmente Sorrentino…
Per non parlare delle maestranze di Cinecittà, dei fotografi di scena e
dei paparazzi, dei cronisti, delle comparse, persino di una serie di
simpatici o canaglieschi affabulatori/impostori della provincia italiana. A
sentir loro, ci fu chi una notte si mise alla guida da San Pietro Vernotico
per portare al mattino i taralli pugliesi a Federico o chi in una balera di
Piacenza presentò al maestro una bellissima aspirante attrice veneta. Una
sorta di bizzarro cerchio magico a cerchi concentrici, di cui scrive
ironicamente in Lo sciamano di famiglia il poeta e francesista Valerio
Magrelli, figlio di un’allieva dell’omeopata Antonio Negro da cui Fellini
si recò qualche volta negli anni Settanta. Negro segnala al regista il
giovane Magrelli, che così diventa «assistente raccomandato» durante le
riprese di Casanova:
Ero inserito nel cerchio più esterno (a occhio e croce
sarà stato il ventesimo) di quella rosa mistica formata
dal set. Perché Fellini, Fellini il Tolemaico, occupava il
cuore di un vastissimo sistema gerarchico che si
diradava via via alle estreme propaggini.
Di quel sistema Kezich era a sua volta una specie di «governatore», in
grado di distinguere il vero e il falso sul conto del maestro, tuttavia
indulgente verso le fandonie (non le perfidie), visto che lo stesso Fellini
si divertiva ad alimentare sapide frottole sul proprio conto: «Mai
conosciuto un uomo più bugiardo di Federico!», diceva con affetto
Alberto Sordi. La critica di Kezich,
nell’Enciclopedia del Cinema Treccani, è
scrive
Bruno
Roberti
concepita anche come una sorta di «diario in
pubblico», che compendia riflessione, profilo
biografico, dialogo con personaggi cinematografici
eletti interlocutori privilegiati. È il caso del suo
rapporto con Federico Fellini, protrattosi nel tempo e
142
cominciato proprio con un diario Su La dolce vita con
Federico Fellini.
Seguiranno vari tomi di fellinologia culminati nelle biografie per le
edizioni Camunia di Raffaele Crovi (1987) e quindi per i tipi di
Feltrinelli (2002), come pure altri libri, tra i quali vi sono le raccolte Il
MilleFilm e Il CentoFilm edite dal Formichiere a mo’ di pendant alle
antologie laterziane di Grazzini, e Dino De Laurentiis, la vita e i film
scritto da Tullio insieme alla seconda moglie Alessandra Levantesi.
Quando e come diventano amici Kezich e Fellini? Nel 1958 Pietro
Bianchi, il mitico «Pietrino» direttore del «Settimo giorno» e critico
cinematografico del rivoluzionario quotidiano milanese «Il Giorno» di
Italo Pietra, spedisce il giovane inviato a Roma per un’inchiesta sul
cinema italiano:
Avevo appena pubblicato un articolo dal titolo
lacrimevole, Il caro estinto, alludendo al neorealismo,
la gloriosa bandiera del nostro recente passato. Ma
Pietrino, che non era stato mai neorealista, mi strillò
dietro: «Sei un pesce! Vai, informati e butta giù un
servizio ottimista!». Aveva ragione, come spesso
succedeva. In pochi giorni parlai con tanti registi,
produttori, attori […] Ma l’incontro fatale in un
luminoso ufficio sul Palatino, fu quello con Federico
Fellini, aureolato da decine di fotografie di cronaca
(spogliarelli, zuffe in via Veneto, echi di mondanità e
una statua di Cristo appesa a un elicottero…) che sulla
parete dietro la scrivania componevano una specie di
affresco. Quante volte sarebbe tornata questa parola
riferita al nuovo film, che si intitolava La dolce vita?
[…] Passammo insieme un paio di giornate, tipiche
delle molte che avremmo trascorso (o dovrei dire
dissipato?) in modo analogo. Lui sulla pista del suo
film, ma non era un sentiero solo: erano dieci,
cinquanta, cento […] Telefonai a Bianchi che ci
sarebbe voluto un po’ di tempo e intanto, non più in
lutto per il neorealismo, trotterellavo dietro a Federico
fra palazzi e baracche, a scoprire ambienti e
143
personaggi, a incontrare un film che sembrava annidato
dappertutto e pronto a balzar fuori dalle pieghe della
realtà.
Lo stesso Bianchi, due anni dopo, sarà tra i recensori più lucidi di La
dolce vita:
Senza certo volerlo, perché nessuno è più lontano di lui
dall’atteggiarsi a moralista o a profeta, Fellini ha
ribadito una vecchia verità cara ai romantici; che cioè
negli anni di crisi, di trapasso da una civiltà troppo
conosciuta a un’altra che si intuisce, solo l’artista riesce
a conferire stile e coerenza vitale ai fatti immotivati
della realtà che lo circonda. Ecco perché La dolce vita,
oltre ad essere un film eccezionale, è anche uno
spettacolo che non dà un minuto di respiro, che
trasporta lo spettatore oltre i limiti della favola lunga e
potente rappresentata sullo schermo.
Federico Fellini. Il libro dei film è il titolo dell’ultimo volume di
Kezich, apparso postumo nell’autunno del 2009, un viaggio «dentro un
labirinto illustrato con 25 stazioni» per dirla con la premessa che
rinverdisce il gioco del computo dei titoli felliniani, ingarbugliato a bella
posta da Federico sin dai tempi di 8 ½. Ottavo film «e mezzo» del regista
che allude forse al suo esordio in coppia con Alberto Lattuada (Luci del
varietà) o, chissà, ai due cortometraggi Agenzia matrimoniale e Le
tentazioni del dottor Antonio nei film a episodi Amore in città (1953) e
Boccaccio ’70 (1962), quest’ultimo con l’irresistibile Peppino De Filippo
ossessionato dall’icona gigante della sensuale Anita Ekberg.
Rossellini dà il via alle riprese di Roma città aperta il 17 gennaio 1945
in uno studio cinematografico di fortuna in via degli Avignonesi 30, a
500 metri dalla fontana di Trevi. Per Fellini, lì presente, è la nascita di
una vocazione per la regia. Negli stessi mesi a Trieste, sotto le bombe,
per Kezich scocca una chiamata speculare e non meno utile alle arti.
Rispetto al luogo comune secondo cui il critico spara sull’esercito di cui
fa parte, Kezich s’iscrive al partito paradossale dello storico dell’arte
144
Roberto Longhi: «Critici si nasce, artisti si diventa». «E io modestamente
lo nacqui», scherzerebbe magari Tullio, citando Totò, se oggi fosse qui
ad assistere alla progressiva scomparsa della critica dai giornali, che
anche per questo sono quasi scomparsi.
145
L
146
Luna
La voce della luna nell’omonimo film di Fellini è davvero l’unica a
parlarci o forse a zittirci. Ma l’elogio della follia, e della semplicità degli
idioti, non è tutto quel che resta di un capolavoro. L’ultima opera di
Federico, sceneggiata con lo scrittore Ermanno Cavazzoni dal cui Poema
dei lunatici prende le mosse, e con il vecchio amico Tullio Pinelli, esce il
31 gennaio 1990. Non pochi recensori avanzano una serie di cautele,
distinguo, raffronti con i titoli precedenti del maestro settantenne,
tentando di non perdersi nella fitta trama di luoghi, figure e macchiette
della pellicola. D’altro canto, le reverenze sui giornali si traducono in
un’accademia dell’entusiasmo quasi timorosa di lasciarsi sedurre dal
fortunato incontro con la creatività felliniana. Sono articoli «con le
pinze» sotto titoli soggiogati dal fascino dell’astro notturno, proni di
fronte alla luce lattea che il visionario Federico mostra imprigionata sulla
Terra in una delle sequenze più suggestive. La voce della luna arriva
nelle sale a un anno di distanza dalla manifestazione della sinistra contro
le interruzioni pubblicitarie nei film trasmessi in Tv, che si tenne nel
Teatro Eliseo di Roma il 13 febbraio 1989. Fellini conia lo slogan «Non
si interrompe un’emozione» che sarà poi utilizzato nella campagna
referendaria del 1995, ma infine il voto popolare sulla legge Mammì si
esprime a favore degli spot durante la trasmissione dei film: le emozioni
si possono interrompere. Fra l’altro, Fellini non si era sottratto alle regie
pubblicitarie, da Oh, che bel paesaggio, con Silvia Dionisio e Victor
Poletti (Bitter Campari, 1984), al celebre Rigatoni Alta Società, con
l’allusione erotica finale, per la pasta Barilla nell’85, fino ai tre episodi di
Il sogno, con Paolo Villaggio, Fernando Rey, Anna Falchi, Michele
Giovanni Di Castro per Banca di Roma (1992 – ultimo impegno
147
felliniano). Mentre rifiuta con garbo, perché già malfermo nella salute, di
girare il videoclip Rain per la canzone tratta dall’album Erotica di
Madonna (1993).
Il Fellini «politico» certo in quegli anni ha in uggia il «decisionismo»
craxiano e il berlusconismo trionfante nei costumi ben prima che nelle
urne (la «discesa in campo» di Berlusconi ci sarà solo nel gennaio 1994).
Sono dimensioni caratterialmente lontane dalle sue corde di eterno
indeciso e di svagato satirista, come certifica la sublime battuta scritta
per La dolce vita: «Siamo rimasti così in pochi a essere scontenti di noi
stessi». Amico personale di Giulio Andreotti e cattolico inquieto, vicino
ai repubblicani sia pure in pigro ossequio alla tradizione romagnola di un
Pri anarcheggiante, Fellini si dichiarava «riminese e politicamente
esquimese» e, di tanto in tanto, di sinistra, senza esserlo mai stato, ovvio,
almeno non nei termini dell’ideologia marxista che tramonta nel 1989,
con il crollo del Muro di Berlino. Come non riconoscere, in ogni caso,
che egli sa cogliere l’Italia presente e indovinare quella a venire? Ancora
una volta Fellini inquadra la deriva grottesca che altri – beffardamente –
definiranno «felliniana», scambiando la diagnosi per la malformazione!
Il degrado irreparabile fa capolino tra i lustrini senili di Ginger e Fred
(1985) con la vecchia coppia formata da Amelia e Pippo (Masina e
Mastroianni), che torna a ballare insieme per un programma sul piccolo
schermo a trent’anni dall’ultima esibizione, in una vigilia natalizia
magmatica e poco promettente, se non minacciosa, a giudicare dai
centauri che circondano Amelia. È una metafora lungimirante
dell’antropologia culturale che andava appena affacciandosi e il finale di
Ginger e Fred, col martellare degli spot nelle reti televisive dopo il
successo degli anziani ballerini ormai in partenza da Termini, fa il paio
con lo strepitoso epilogo di Intervista di due anni dopo. Qui il commiato
è un attacco degli indiani d’America al piccolo mondo antico dei
cinematografari e le lance dei «selvaggi» sono semplicemente delle
148
antenne televisive! Tra le «ideuzze» accarezzate negli ultimi tempi da
Fellini c’era uno spunto su Silvio Berlusconi che compra Venezia e
ribattezza «Canale 5» il Canal Grande. In La voce della luna il Cavaliere
in qualità di presidente del Milan viene effigiato sull’anta di una porta va
e vieni tipo saloon, presa a calci dai camerieri del ristorante. Nel contesto
di un’Italia involgarita giganteggiano lo stralunato prefetto Gonnella
(Paolo Villaggio) e il lunatico Ivo Salvini (Roberto Benigni). E vi sono
la lunare Aldina (Nadia Ottaviani) che ha lo stesso nome di una
ragazzina di Amarcord, il luna park quotidiano che qui prende il posto
della classica galleria circense felliniana, ovvero un lunario padano di
timori, superstizioni, speranze. Ma qualcuno, o qualcosa, cerca
continuamente di rubare la scena alla luna. Improvvise eclissi ne
oscurano l’estro. La vecchia civiltà contadina risulta confusa da
comportamenti e valori odierni: ecco, qualcuno addirittura spara alla
luna… Quel mondo che si basava sulla luna per la semina come per il
raccolto, per riconoscere la follia e la ragione, perfino per alludere alla
fecondità femminile, ora ha la luna di traverso. È corrotto
scenograficamente da una babele urbanistica, aggredito linguisticamente
dalla babilonia di gerghi esotici di «vu’ cumpra’» o giapponesi, di
allocuzioni roboanti (il vescovo, il sottosegretario), di congiunzioni
senza senso (Salvini: «Vengono e mi dicono solo: quindi, comunque,
dunque…»), dei suoni assordanti della discoteca. Non c’è il rimpianto
pasoliniano per la fine della solidarietà dell’Italia preindustriale, e il film
è punteggiato dalle lucciole, che invece Pier Paolo in un famoso articolo
del febbraio 1975 lamentava scomparse per sempre insieme alla pietas.
Ma egualmente Fellini appunta strali contro un potere più anarchico della
società che domina. Un potere radicato nella frenesia del mercato, del
consumo, delle ganasce spalancate, del diffuso strapaese. Come
interpretare altrimenti, nel film, la grande abbuffata di cibi e di sensi
durante la «gnoccata»? Davvero vale attribuirla a un improvviso
fumettistico? Pietà l’è morta, per Fellini, e nel film il parroco dice: «Del
149
Paradiso non si sente parlare da un bel po’ di tempo, forse esiste al
cinquanta per cento».
L’apocalisse in La voce della luna è tutt’uno con la rassegnazione e
l’integrazione. Gli unici sani sono i matti, perché naturalmente
disinteressati al resto del mondo, non corrotti dal commercio di dialoghi
«sensati», perennemente ignari dell’attualità e della cronaca. Ma se il
personaggio interpretato da Benigni è un rapsodo che s’interroga nel
paese degli orrori, rassegnato ad attraversarlo con animo leggiadro, il
prefettizio Villaggio brilla per furore. L’ex alto funzionario statale è un
fantasma roso dal tradimento dello Stato che ha servito per tutta la vita:
immagina d’ingaggiar battaglie, un’armata in rivolta dietro il suo
ombrello, una riscossa contro il caos. Sogna, Gonnella, quell’ordine di
una comunità che non poteva prevedere il governo del disordine, o
fantastica di un valzer subito negato dal rock. In un dialogo c’è l’eco del
«meglio ricordare che vivere» spesso appioppato frettolosamente a
Fellini tout court e in un altro passaggio risuona l’aforisma «nulla si sa,
tutto si immagina». Un muto colloquio dell’autore con la luna è il
sottotesto di un film dall’impressionante semplicità, tragico ma gioioso,
impastato con il coraggio degli umili, degli eroi silenziosi del Novecento
– come il padre di Titta in Amarcord – che hanno lavorato e si sono
battuti per ritrovarsi infine in un mondo senza misure né valori. Fellini
non è uno di loro. Ha avuto molto dalla fortuna grazie a una vena aurea
che qualcuno riteneva esaurita; invece, in La voce della luna, squarcia le
nebbie che avvolgono il film e parla all’ostinata volontà di capire dove
vanno i vivi e i morti. Chiede silenzio, Federico. L’«inventore» della
Dolce vita mostra quanto sia diventata assai più crudele rispetto ai tempi
di via Veneto: una notte buia, dove la luna rischia di scomparire per
sempre. Ritornano le domande radicali di Leopardi: «Che fai tu, luna, in
ciel? dimmi, che fai, / Silenziosa luna? / Sorgi la sera, e vai, /
Contemplando i deserti; indi ti posi».
150
La luna di Fellini è un timido monito a non oscurare quella sorgente
con l’eccesso di visioni domestiche, claustrali, fobiche. A non
dimenticare che solo oltre la frenesia della «realtà» (da scrivere tra
virgolette come ammoniva Nabokov) v’è forse una felicità che nessuna
Tv potrà mai darci e che va perseguita tutti i giorni. In altri termini, la
politica come ricerca del bene. Una luna nel pozzo? Restate con noi, la
risposta dopo la pubblicità…
151
M
152
Marcello
M come Mastroianni? Meglio M come Marcello o Marcellino,
all’anagrafe felliniana vedi anche alla voce: «vecchio Snaporaz». Il
soprannome fumettistico risuona per la prima volta in una battuta
sussurrata fra sé e sé dal protagonista di 8 ½, Guido Anselmi, diventando
poi cognome e mantra di Marcello in La città delle donne (1980). Nel
cinema di Fellini qualunque azione non vale un gesto giocoso né può
eguagliare la forza e il mistero di un volto. È il prodigio di un incanto
che produce disincanto, e, viceversa, di un disincanto che perpetua
l’incanto. L’autobiografia immaginaria del corpus felliniano diventa a
suo modo un antidoto alla «timidezza rispetto al caos del mondo» di cui
parla il sociologo tedesco Niklas Luhmann, tra i primi a cogliere l’aporia
di quanti – studiosi o artisti – analizzino la società senza considerare di
far parte dell’orizzonte osservato. Non è il caso di Fellini, che d’istinto
corre il rischio di mettersi in campo; anzi, è esattamente questa la leva
del suo affabulare, al culmine in 8 ½, «con l’improvvisa e quasi magica
capacità di riordinare gli elementi e trovare la chiave per ricongiungere i
fili sparsi e incomprensibili del reale e del vissuto», come scrive
Brunetta.
Tra i mille e mille fotogrammi che lo testimoniano, il più «iconico»,
com’è di moda dire oggi, è un fermo immagine tratto da La dolce vita.
Mastroianni indossa una giacca bianca a due bottoni che gli viene giù
morbida su una camicia scura chiusa da un piccolo foulard in tinta.
Dimostra una mezza età indefinibile, ha gli occhi illuminati da una
specie di sorriso e un riccio sulla fronte, con gli avambracci verso l’alto
in un gesto che somiglia a una preghiera postconciliare. Un’istantanea di
scena scattata prima del ciak sulla spiaggia di Fregene mostra Fellini che
153
indica a Mastroianni l’espressione da assumere davanti alla macchina da
presa. Ricordate, vero? In quella inquadratura Marcello sta tentando
invano di comunicare con la ragazzina nel finale di La dolce vita: il
rumore delle onde e il sibilo del vento impediscono che si sentano, ma
forse si capiscono egualmente. La sua è un’espressione ineffabile di
nichilismo mite: vanitas vanitatum, et omnia vanitas («Vanità delle
vanità, e tutte le cose vanità», Ecclesiaste 1,2). Nell’apparente vuoto di
senso fa capolino una rassicurante ironia; nello sconcerto, un lampo di
conforto: è la marachella del cinema, è il segreto di Federichino
illuminato dal volto di Marcellino. Fra i due amici correvano poco più di
quattro anni, visto che l’attore era nato il 28 settembre 1924 a Fontana
Liri, in provincia di Frosinone, a metà strada fra Roma e Napoli. La sua è
una famiglia di artigiani e falegnami come il nonno Vincenzo,
dipendente del Polverificio militare di Fontana Liri, che avrà due mogli e
dieci figli, tra i quali Umberto Mastroianni, destinato a diventare un
importante scultore. Il padre di Marcello, Ottorino, è a sua volta un
impiegato del Polverificio che viene assorbito dall’Arsenale di Torino,
dove nel 1928 si trasferiscono tutti i Mastroianni, in cerca di lavoro,
scarseggiante in quella provincia tra Campania, Molise e Lazio che pure
allora si chiamava Terra di Lavoro. Ma sotto la Mole le cose non vanno
bene e la famiglia nel ’33 si stabilisce a Roma, nel quartiere Tuscolano.
Da quelle parti sta per sorgere Cinecittà e Marcello, appena
quattordicenne, prende a bazzicarla grazie ai buoni pasto per le comparse
che gli passano gli amici della famiglia De Mauro, gestori del ristorante
nel recinto dei teatri di posa. Le sue prime fugaci apparizioni sono nel
1939 in Marionette di Carmine Gallone e nel 1941 in Tosca di Jean
Renoir (sul set conosce l’assistente alla regia Luchino Visconti).
Comincia così la carriera del giovane Mastroianni, ciociaro come
Vittorio De Sica e come Nino Manfredi al quale «soffia» Flora
Carabella: entrambi s’innamorano della raffinata attrice, allieva di Orazio
Costa e già diretta in teatro da Visconti, ma Marcello è più lesto nel
154
dichiararsi e la sposa nel 1950. I due avranno una figlia, Barbara,
costumista, e di fatto si separano quando lui si trasferisce a Parigi per
vivere la storia d’amore con Catherine Deneuve, che nel 1972 mette al
mondo Chiara Mastroianni: diventerà una bravissima attrice e la sosia al
femminile del papà. Marcello e Flora non divorzieranno mai.
Era un rubacuori involontario, Mastroianni: «Non mi piaccio, non mi
sono mai piaciuto, neanche fisicamente», dichiara a «L’Europeo» nel
1971. Un divo suo malgrado, un uomo scanzonato, scettico e autoironico
al pari di Fellini. Fra i due – bellissima battuta di Federico – vige «un
rapporto di grande lealtà e fedeltà, basato sulla reciproca sfiducia». Il
vecchio Snaporaz non incarna certo l’autobiografia della nazione, come
toccò in sorte ad Alberto Sordi, sebbene due studiose anglosassoni della
mascolinità nel cinema italiano, Jacqueline Reich e Catherine O’Rawe,
annotino che
sullo schermo i personaggi di Marcello Mastroianni
incarnano la natura instabile della virilità italiana
attraverso la figura dell’inetto, in un clima politico,
sociale, sessuale, economico e culturale in rapido
sviluppo nell’Italia del secondo dopoguerra… L’inetto
non è attivo ma passivo, non coraggioso ma codardo,
ed è fisicamente o emotivamente impotente, sempre in
chiara opposizione con i modelli virili codificati dalla
cultura italiana.
Ecco, il latin lover è servito, altro che maschilismo! Impotente in Il
bell’Antonio di Bolognini e omosessuale in Una giornata particolare di
Scola, per non parlare della costante crisi esibita nei sei film che
interpretò con Fellini, Mastroianni è in effetti un campione dell’inazione,
lemma ricorrente nello Zibaldone leopardiano, che preferiamo a
«inettitudine». È un Oblomov novecentesco, un pigrone che Salman
Rushdie eleggerà a «suprema incarnazione» dell’accidia mentre, in via
Veneto e dintorni, «vaga tra feste immobili e decadenti, rapito dall’ozio,
da un’incapacità di compiere scelte o di far progredire la sua vita, una
155
paralisi dello spirito». Del resto, La dolce vita segna il cambio di registro
antinarrativo di Fellini che sarà «perfezionato» in 8 ½, e, in pieno boom
economico anni Sessanta, nega l’idea del progresso quale linea retta,
inarrestabile, inesorabile; contraddice «le magnifiche sorti e progressive»
di un Novecento «superbo e sciocco» almeno quanto l’Ottocento di cui
dubitava Leopardi. «Non ho nulla da dire, ma voglio dirlo lo stesso»,
sarà il motto di Guido in 8 ½ sotto il segno di una sublime imperfezione.
Una decostruzione narrativa e simbolica che anticipa gli approcci contro
il metodo di Jacques Derrida e Paul Feyerabend. Se volete, il
postmoderno al lavoro sul volto di Marcello…
«Sono stato fortunato», diceva Mastroianni con il sorrisetto di
ordinanza per schermare l’imbarazzo nel ricevere uno dei tanti
riconoscimenti, inclusi il Leone d’oro alla carriera di Venezia 1990, la
Légion d’honneur consegnatagli nel 1993 dal ministro francese della
Cultura Jack Lang, e tre candidature all’Oscar per Divorzio all’italiana
(1963), Una giornata particolare (1978) e Oci ciornie (1988), senza però
mai vincere la statuetta (premi che teneva in bagno, stando a
un’indiscrezione di Alfonso Signorini rivelata in un programma di Piero
Chiambretti). Fortunato pure con le bellissime donne amate: Flora e
Catherine, e le altre prima, dopo e durante. La sua compagna di speranze
negli anni squattrinati si chiama Silvana Mangano, l’unica per la quale
Sordi avrebbe rinunciato al celibato, che invece sposerà il produttore
Dino De Laurentiis. La relazione con Faye Dunaway, esplosa in pieno
Sessantotto sul set di Amanti, titolo galeotto di uno dei film meno riusciti
di Vittorio De Sica, rinverdisce oltreoceano la leggenda dell’amante
latino, nonostante Marcello provi in ogni modo a spogliarsi
dell’«eredità» di Rodolfo Valentino e Rossano Brazzi. E poi c’è l’eterna
complicità, un’intesa umana e professionale perfetta, con Sophia Loren,
da Peccato che sia una canaglia di Blasetti (1954) a Ieri, oggi, domani
di De Sica (1963), nel quale Marcello ulula assistendo al leggendario
156
striptease di lei, rimesso in scena dalla stessa coppia trent’anni dopo in
Prêt-à-porter di Robert Altman (1994). Fino a Una giornata particolare
di Scola, in cui l’omosessualità del radiocronista viene rivelata alla
casalinga disperata sul terrazzo del Palazzo Federici mentre Hitler è in
visita a Roma. Il tratto innegabilmente italiano – e felliniano – di
Mastroianni è il principio di piacere assecondato per andare oltre gli
affanni e i dolori. È l’idea che, dopo tutto, la vita sia una festa collettiva
(il suggello di 8 ½), l’inclinazione a coltivare il «fanciullino» di
Giovanni Pascoli, sfuggendo alle responsabilità dell’età adulta e alla
crescita della psiche. «Noi mediterranei abbiamo l’anima, non la psiche»,
ricorda Mastroianni in Sostiene Pereira, diretto nel 1995 da Roberto
Faenza e tratto dal romanzo omonimo di Antonio Tabucchi, una fra le
sue ultime interpretazioni. Ma ciò che nella vita può essere un problema,
nell’arte diventa una risorsa: è la felicità del mestiere dell’attore, un
destino che Marcello non smette di ringraziare, senza prendersi sul serio,
anzi, sfotticchiando certe manie perfezionistiche alla De Niro. Per
Mastroianni il cinema significa viaggiare, conoscere persone nuove e,
naturalmente, fumare tra un bicchiere di vino e l’altro con la troupe dopo
le riprese nella Grecia arcaica di Anghelopoulos, nella Lisbona di
Pessoa, o in qualche remoto e ventoso angolo del Sud argentino.
Neanche l’incipiente senilità e il cancro riescono a fermarlo. Poco tempo
prima della fine dichiara in un’intervista: «Sento l’alito della morte sul
collo». Il fratello minore, il montatore Ruggero Mastroianni che lo
precederà di qualche mese nell’ultimo viaggio, gli telegrafa la replica:
«Mettiti un maglione col collo alto». E sia, lui indossa un «dolcevita» e
torna a recitare in teatro dov’era nato attore con Luchino Visconti. In Le
ultime lune, un testo di Furio Bordon per la regia di Giulio Bosetti,
Mastroianni è un anziano professore che si risolve a lasciare la casa del
figlio per trasferirsi in un ospizio, e ogni sera chiude lo spettacolo con la
battuta «Vorrei andarmene verso Natale». Muore a Parigi il 19 dicembre
157
1996. «Quando si dice il culo, eh Marcellino?», avrebbe scherzato
Fellini.
Al titolo Amarcord s’affratella il commovente documentariomonologo di Mastroianni già malato, realizzato dalla sua ultima
compagna, la regista Anna Maria Tatò: Mi ricordo, sì, io mi ricordo
viene presentato postumo al Festival di Cannes nel 1997 e nella versione
integrale di quasi quattro ore alla Mostra di Venezia di quello stesso
anno. Il film si apre con il ricordo di un grande albero di nespole e va
avanti con le memorie del bacio dato a una sconosciuta sul treno, una
notte del 1943, l’anno in cui fugge dalla Germania nazista, dove era
finito a lavorare, e ripara a Venezia insieme al pittore Remo Brindisi. Poi
ecco gli amici amatissimi a cominciare da Federico, la madre e il padre,
il fratello Ruggero, le figlie, gli incontri con i maestri dello schermo.
Non mancano dettagli, flash, epifanie, città, casi della vita che
costituiscono la trama imponderabile della memoria, apparentemente
rapsodica nelle scelte, in realtà selettiva nei meandri del tempo: «Tutto
quello che hai visto ricordalo, perché quello che dimentichi ritorna a
volare nel vento».
Una volta il giornalista del «Tempo» Enrico Roda gli chiede: «Qual è
la cosa che la spaventa di più?» – «Il domani», risponde (citata da Enzo
Biagi nel libro La bella vita. Marcello Mastroianni). Bravissimo a fare le
pernacchie improvvisando spettacolini nel Teatro 5 di Cinecittà, a volte
in coppia con Paolo Panelli, che mandavano Fellini in brodo di
giuggiole, l’attore viene colto dall’obiettivo di Paolo Di Paolo in un clic
senza data – saranno gli anni Sessanta – nel bar di Cinecittà dove,
compitissimo e con lo sguardo nel vuoto, sorseggia un caffè. Potrebbe
essere tranquillamente il perito edile Marcello Mastroianni impiegato da
disegnatore tecnico all’Istituto Geografico Militare di Firenze, diploma e
lavoro ottenuti durante la guerra, se non fosse per i raggi di luce che,
filtrando dai finestroni, tratteggiano l’aura di un mito controvoglia.
158
N
159
Nino, l’amico magico
Non si riesce a pensare ai film di Fellini senza avere nella testa e nel
cuore le note di Nino Rota, il maestro milanese, barese d’adozione,
scomparso a 67 anni nel 1979 per un attacco cardiaco. Insieme, dal 1952
al 1979, Federico e Nino realizzano una galleria di meraviglie che allinea
Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria,
La dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio, 8 ½, Giulietta degli
spiriti, Toby Dammit (episodio di Tre passi nel delirio), Block-notes di un
regista, Fellini Satyricon, I clowns, Roma, Amarcord, Il Casanova di
Federico Fellini e Prova d’orchestra. Una lunga collaborazione che per
ogni film comincia ben prima delle riprese, quando i due si ritrovano per
scambiarsi visioni, idee e suggestioni, finché Nino al pianoforte non
accenna a una melodia o al tema di una certa scena, infondendo un tono
e contribuendo allo spirito stesso del cinema di Fellini. A saldarli in un
legame tanto scanzonato quanto profondo contribuì fra l’altro il comune
interesse per l’esoterismo e la teosofia, che soprattutto Rota coltivò per
tutta la vita. La grande sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico era tra le
amicizie più strette del musicista fin dal 1927, quando questi venne
accolto a Roma nella casa del padre di lei, lo scrittore Emilio Cecchi, e
raccontava delle nottate trascorse con Nino Rota a interrogare carte e
tarocchi per entrare in contatto con una dimensione «altra» che, a ben
vedere, aleggia nella prodigiosa leggiadria dei suoi motivi musicali. Il
maestro fra l’altro collezionò insieme allo scrittore Vinci Verginelli una
mole di testi alchemici, poi donati all’Accademia dei Lincei, mentre
l’Archivio Rota è inventariato presso la Fondazione Cini dell’isola di
San Giorgio a Venezia, testimonianza di una produzione poderosa:
composizioni da concerto, da camera e per il teatro (195 dossier
160
contenenti materiali preparatori, stesure ed edizioni a stampa);
composizioni per il cinema e la televisione (152 dossier contenenti
materiali preparatori e di supporto all’esecuzione, stesure, edizioni a
stampa e supporti audio); corrispondenza (circa 1.000 documenti tra
lettere e telegrammi, in originale e fotocopia).
Fu Gabriele D’Annunzio a denominare con l’esortativo «Vinci» il
sedicenne pugliese Vincenzo Verginelli accorso ad arruolarsi
nell’impresa di Fiume, prima di diventare un discepolo dell’alchimista
Giuliano Kremmerz (alias Ciro Formisano di Portici), i cui scritti
godettero di ampia fortuna sino alla fine degli anni Venti del secolo
scorso. Sarà Verginelli a scegliere e tradurre i testi – da Virgilio e Orazio
fino a Belli e Goethe – di Roma capomunni, la cantata per baritono, coro
e orchestra commissionata a Rota dalla Rai nel 1971 per il centenario di
Roma capitale d’Italia, ma che lui riesce a comporre solo l’anno dopo:
«L’evento e il carattere celebrativo non suscitavano in me alcun motivo
di ispirazione, anzi lo inceppavano».
Il fecondo sodalizio con Fellini non esclude affatto dal panorama
musicale tradizionale Giovanni Rota Rinaldi, come si chiamava
all’anagrafe con l’aggiunta del cognome materno in omaggio al nonno, il
pianista e compositore ottocentesco Giovanni Rinaldi. Stando alle
memorie della madre Ernesta Rinaldi, anche lei pianista, confluite nel
volume Mio padre e Storia di Nino, a 8 anni Nino compone un pezzo per
pianoforte a mo’ di colonna sonora di una fiaba testé inventata, Storia
del mago doppio e della fata Giglia, e a undici il primo oratorio,
L’infanzia di san Giovanni Battista, su libretto di Silvio Pagani, eseguito
in pubblico con successo a Milano e a Tourcoing in Francia, nonché una
lirica per voce e pianoforte ispirata al poeta indiano Rabindranath
Tagore, premio Nobel per la Letteratura nel 1913. Molto tempo dopo,
quando Rota è già direttore del conservatorio di Bari, riconoscerà una
precoce vocazione simile alla propria in un quindicenne di Molfetta
161
candidatosi agli esami di ammissione al quinto corso con un’esecuzione
strepitosa della Polacca in sol diesis minore di Chopin: «Questo è un
ragazzo di cui si parlerà in tutto il mondo», dice dello studente, un tale
Riccardo Muti…
Allievo di Ildebrando Pizzetti e a Roma del torinese Alfredo Casella
(fra l’altro, a sua volta nonno materno dell’attrice Daria Nicolodi), nel
1930 Rota vince una borsa di studio al Curtis Institute of Music di
Filadelfia, dove prosegue gli studi con Rosario Scalero e Fritz Reiner.
Negli Usa, oltre a Toscanini che lo aveva segnalato a Filadelfia,
frequenta Gian Carlo Menotti e Aaron Copland, autori connessi alle
avanguardie e alle sovversioni linguistiche della melodia tradizionale che
invece Rota non abbandonerà mai, sebbene la sua propensione per il
centone, la giocosa libertà e il candore essenziale nei temi felliniani,
secondo il musicologo Fedele d’Amico (marito di Suso), lo avvicinino a
Ravel e a Stravinskij (che conobbe di persona a Roma) nell’alveo del
modernismo che trascolora nel postmoderno. «Plagio e pastiche, genere
e convenzione, ironia e sentimento» costituiscono la cifra autentica di
Rota, anche secondo lo studioso britannico Richard Dyer. Alberto
Arbasino ricorda che nella prima proiezione di prova di La dolce vita,
una copia del montaggio non ancora doppiata, ogni
attore parlava la sua lingua, nel sottofondo c’era la
voce di Fellini che dava indicazioni, invece della
musica di Nino Rota c’era in modo ossessivo L’opera
da tre soldi di Kurt Weill che aiutava a fare atmosfera
durante le riprese: affascinantissimo.
Insomma, al contrario di quanto solitamente si ritiene, Rota non è
meno sperimentale di Ennio Morricone, a sua volta di estrazione
accademica e compositore di avanguardia con il gruppo Nuova
Consonanza, il quale ha introdotto chitarre, trombe, organi da chiesa,
scacciapensieri nella musica da film, e concepito per Sergio Leone sia il
brano «fischiato» da Alessandro Alessandroni in Per un pugno di dollari
162
sia l’urlo finale di Il buono, il brutto, il cattivo. Lo stesso Morricone che,
a colloquio con Francesco Merlo, gli confida quale colonna sonora
vorrebbe per il suo funerale: «Solo silenzio». C’è una scuola italiana
nelle «visioni sonore» che va da Goffredo Petrassi a Ludovico Einaudi,
passando per Mario Nascimbene, Armando Trovajoli, Franco Mannino,
Giorgio Gaslini, Pino Donaggio, Piero Piccioni, Carlo Siliotto, Roman
Vlad, Riz Ortolani, Carlo Rustichelli, Dario Marianelli, i fratelli Guido e
Maurizio De Angelis, Fabio Frizzi, e naturalmente Nino Rota, per il
quale però contano innanzitutto l’afflato «magico» dell’ispirazione, il
segno dell’orchestra, l’allegria del ritmo… Ed è subito Fellini.
A dispetto dell’epiteto di «cinematografaro» affibbiatogli dagli
invidiosi, Rota non ha composto soltanto «musica applicata», ma ha
lasciato opere liriche tutt’oggi molto eseguite come Il cappello di paglia
di Firenze dalla commedia ottocentesca di Eugène-Marin Labiche (1945,
prima esecuzione al Massimo di Palermo nel 1955), balletti, musica
sacra e strumentale, sebbene il suo nome sia legato al cinema fin dal
1933, quando dagli Stati Uniti torna a Milano e lavora alla sua prima
colonna sonora, per Treno popolare di Raffaello Matarazzo (1933).
Qualche anno dopo comincia a insegnare Armonia e Solfeggio nel liceo
musicale Paisiello di Taranto e quindi nel 1939 ottiene la cattedra di
Composizione al conservatorio Piccinni di Bari, dove si stabilisce con la
madre – fino alla morte di lei nel ’54 – in una casa a piano terra nella
frazione di Torre a Mare, in via Leopardi 40, a pochi passi dal porticciolo
di pescatori, oggi frequentato dai turisti che spesso ignorano quel genius
loci. Dal 1950 al 1978 sarà anche direttore del conservatorio barese, che
spesso raggiungeva in bicicletta all’alba coprendo i 10 chilometri di
distanza da casa e talora restandovi a dormire pur di non sacrificare
l’organizzazione della didattica rispetto ai successi che intanto coglieva
in tutto il mondo. Un direttore amatissimo, come testimonieranno allievi
quali Michele Marvulli, Anselmo Susca, Pierfrancesco Moliterni, Rino
163
Marrone, Elena Vigliano, Franco Giannelli, Adriano Cirillo, Benedetto
Lupo, Paolo Lepore, Agostina Zecca Laterza e Nicola Scardicchio.
Pianisti del valore di Emanuele Arciuli e Angela Annese, fra gli altri,
eseguono o studiano le composizioni rotiane, mentre a Bari la musica da
film, sebbene assai lontana da tale matrice, annovera compositori come
Ivan Iusco o il giovanissimo Mattia Vlad Morleo. Scardicchio, che al
maestro ha dedicato vari saggi, considera riduttiva l’etichetta di
«esoterista» per Rota, visto l’orizzonte filosofico cui era interessato fin
dalla laurea in Lettere conseguita a Milano nel 1936. Vero. Tesi in
Estetica sulla musica rinascimentale del veneziano Gioseffo Zarlino,
relatore il filosofo Antonio Banfi, maestro di antifascismo per un paio di
generazioni di studenti fra i quali c’erano Vittorio Sereni, Enzo Paci,
Remo Cantoni, Antonia Pozzi, Raffaele De Grada, Giancarlo Vigorelli,
Alberto Mondadori, Luciano Anceschi e la più giovane Rossana
Rossanda. Il professor Banfi scrive ad Anceschi che nel 1937 ha avuto la
docenza all’istituto magistrale di Taranto, dove si trova anche Rota per
insegnare al liceo musicale: «Mi saluti Nino e cercate di farvi
compagnia».
«L’angelico Nino», lo definisce Suso Cecchi d’Amico che sovente è
sua ospite a Torre a Mare, mentre nei periodi romani il compositore abita
in piazza delle Coppelle 64, in pieno centro, in un appartamento colmo di
simboli arcani e di tomi cabalistici, le cui finestre s’affacciano dirimpetto
alla casa in cui viveva l’amico Ugo Gregoretti, cui si deve la regia della
magnifica edizione televisiva di Il cappello di paglia di Firenze (1974).
Rota scrive colonne sonore di altri film celeberrimi, a cominciare dai
capolavori di Visconti, una collaborazione avviata con l’adattamento
della Settima sinfonia di Anton Bruckner per Senso (1954) e proseguita
con Le notti bianche (1957), Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il gattopardo
(1963) nella cui partitura riluce la rielaborazione da Verdi del «valzer
brillante», il ballo di Burt Lancaster e Claudia Cardinale, scena clou del
164
film. Il Padrino – Parte II nel 1975 frutta a Rota il premio Oscar per la
colonna sonora a metà con Carmine Coppola, a parziale risarcimento di
quanto accaduto nel ’72, quando Rota era stato prima inserito e poi
estromesso dalla cinquina delle nomination perché alcuni temi di Il
Padrino non risultarono originali, incluso il leggendario Parla più piano,
adattamento di un suo brano composto per Fortunella di Eduardo De
Filippo (1958). Un’abitudine artigianale al riciclo, all’auto-plagio e alla
citazione non acribiosa che quella volta gli costò cara, ma che è con ogni
evidenza la sapienza prima del lavoro di Rota, nella filmografia
felliniana e oltre. Dal motivo della tromba di Gelsomina in La strada
(1954) alla commovente marcia circense di 8 ½ (1963), fino agli
accordi/disaccordi di Prova d’orchestra (1979), egli crea per l’universo
di Federico un’inesausta partitura di melodie e di variazioni armoniche
della tradizione melodrammatica, dando fiato a un debito d’amore verso
il repertorio bandistico che ha modo di conoscere bene nei lunghi anni
pugliesi. Bande chiamate nelle piazze di paese – amarcord la provincia –
a colmare la distanza mai certa tra il sacro e il profano, a scandire un
senso del tempo disancorato dalla storia e dominato piuttosto dalla
natura, dai giochi del caso, dall’imprevedibile altalenare di felicità e
angoscia. Come avrebbero mai potuto le bande del Sud essere estranee al
mondo di Fellini?
Dopo la morte dell’«amico magico», il regista si rivolge a Luis
Bacalov per La città delle donne, a Gianfranco Plenizio per E la nave va
e stringe quindi un sodalizio con Nicola Piovani che firma le colonne
sonore di Ginger e Fred, Intervista e La voce della luna. Grandi
musicisti, per carità, ma nulla riserverà più l’incanto della sequenza
finale di 8 ½ in cui «precipita» la crisi creativa ed esistenziale di Guido
Anselmi (Marcello Mastroianni), incalzata dalla musica ansiogena di
Rota con una serie di note che si rincorrono fino a stridere e
ricominciano daccapo. La colonna sonora di 8 ½ è decisiva sia nel
165
restituire la tensione del protagonista sia nel placarla, poco oltre, quando
sulla spiaggia si concretano figure in bianco: le donne del passato che
camminano (una con un bimbo in braccio), la Saraghina, i genitori di
Guido, l’amante Carla (Sandra Milo), il cardinale e un altro prelato, la
moglie Luisa (Anouk Aimée)… Una sinfonietta per flauto e trombone è
suonata da quattro clown con il piccolo Guido al seguito, col vestito e il
cappellino da collegiale che abbiamo visto nelle scene dedicate
all’infanzia, ma stavolta la divisa è bianca invece che nera. L’esigua
banda avanza, un cagnolino vi si accoda per un istante. Guido allarga le
braccia in una definitiva resa a sé stesso e chiama i clown, li sprona a
proseguire, si affianca per un attimo al Guido bambino e, senza fermarsi,
gli sussurra qualcosa in un orecchio. Il bambino continua a marciare e a
suonare. È un attimo, ma basta affinché il passato e il presente si
ricongiungano e si riconcilino. L’infanzia è il futuro. Guido afferra il
megafono, ha il cappello in testa, viene verso lo schermo ed è già in
piena «Azione!», mentre le note dell’orchestra sul palco si aggiungono a
quelle della piccola banda. «Aspetta, te lo do io il segnale», dice al
bambino che intanto si sposta. «Ecco, adesso vai verso la tenda…
Aprite!». Il piccolo Guido non smette di suonare il suo flauto, la
macchina da presa indugia un paio di secondi su di lui, quindi il sipario
si apre e mostra una grande scalinata in tubi Innocenti donde scende
un’autentica folla: i personaggi di 8 ½ sfilano, parlando tra loro davanti
all’obiettivo ed escono di campo. Sta imbrunendo. Con il megafono
Guido invita tutti a prendersi per mano e ad allargare il cerchio. Tre
squilli di tromba danno il la alla vera e propria marcetta finale, il
girotondo è cominciato. Guido si toglie il cappello e va verso la moglie
Luisa, la prende per mano e con dolcezza si muove con lei: entrambi si
inseriscono nella catena. È notte, ormai. Un occhio di bue isola i quattro
clown e il piccolo Guido che, indefessi, continuano a suonare e a
marciare. Il bambino alza il braccio e sembra dirigere la «sua» minuscola
banda che fa retromarcia, mentre la cinepresa «allarga» l’inquadratura a
166
mostrare la pista circense e il cordolo del girotondo ormai deserti. I
clown escono di scena. Il bambino col flauto li segue subito dopo,
sempre inquadrato dal fascio di luce. Procede baldanzoso e tenerissimo,
solo nel buio. L’occhio di bue si spegne. Il piccolo Guido svanisce nella
tenebra, ma il suo flauto si ascolta ancora… Titoli di coda. Mario Soldati
scrisse: «È un momento indimenticabile […]: una manina tiene il piffero,
l’altra batte il tempo con prodigiosa energia, con trionfale autorità».
Invece quell’autorità è andata perduta, insieme alla speranza, in Prova
d’orchestra, l’apologo di Fellini e Rota ispirato dall’omicidio di Aldo
Moro: un paese che non riesce più ad accordare i suoi suoni, se non sotto
diktat; una parabola del caos. Il film si apre sulla vigilia di un concerto
sinfonico in un antico oratorio, là dove i musicisti prima dell’inizio
vengono intervistati da un giornalista della Tv, finché non giunge il
maestro che impartisce le prime direttive con accento tedesco. La prova
comincia nella calma. All’improvviso scoppiano le proteste degli
orchestrali e il maestro abbandona il podio, mentre nella sala impazza un
clima «rivoluzionario» che non risparmia alcunché: l’anarchia regna
sovrana persino sulle pareti imbrattate di slogan ribelli. D’un tratto le
mura tremano, scosse dai colpi sempre più forti di una gigantesca palla
di acciaio. Crollano le pareti e c’è una vittima fra gli orchestrali. Dopo la
confusione e le grida e la paura, torna il silenzio e la prova riprende. Di
nuovo sul podio, il direttore d’orchestra scandisce gli ordini come un
dittatore. Al netto degli equivoci politici che costarono a Fellini accuse di
filototalitarismo, la metafora è tanto fosca quanto chiara e, più che il
Sessantotto, che molti vollero individuare quale tardivo bersaglio
felliniano, mette in luce l’individualismo imperante nelle stagioni del
«riflusso», speculare alla violenza degli anni di piombo. Il tema del film
è il declino della ragione, accompagnato dalla virulenza delle parole e
dei comportamenti. Altro che film «fascista»! È la fine dell’armonia il
basso continuo di Prova d’orchestra, un incubo forse più che mai nelle
167
corde di Nino Rota, che muore poco prima dell’uscita della pellicola in
sala.
168
O
169
8½
Avrebbe dovuto essere «La bella confusione» il titolo di 8 ½ che nel
1963 rivoluzionò la struttura del racconto e tra l’altro ottenne due premi
Oscar, assegnati al miglior film straniero (la terza statuetta
hollywoodiana delle cinque che avrebbe vinto Fellini) e ai costumi di
Piero Gherardi. Il titolo suggerito dal co-sceneggiatore Ennio Flaiano fu
scartato da Fellini che lo ritenne didascalico. Eppure, Federico il Grande
si divertiva a raccontare di quando un tassista – che aveva visto 8 ½ in
occasione della tesi di laurea della figlia – gli disse: «A dotto’, mi scusi
se glielo dico, ma non ci ho capito un cazzo!». Il regista postillava: «È la
migliore recensione che abbiano mai fatto per questo film» (sempre che
la storiella sia vera).
In 8 ½ Guido Anselmi (Marcello Mastroianni) è un famoso regista alla
ricerca di riposo in una stazione termale. Realtà e fantasia si mescolano
nella sua mente, e il luogo che dovrebbe garantirgli un po’ di relax si
trasforma invece in un’angosciante ribalta di personaggi, memorie e
chimere. L’arrivo dell’amante Carla (Sandra Milo), poi della moglie
Luisa (Anouk Aimée) e dell’attrice Claudia (Cardinale), nonché i
colloqui con il suo produttore e con altri ospiti delle terme, aumentano il
turbamento di Guido e ne fanno venire a galla i ricordi: il collegio
dell’infanzia e i genitori scomparsi da tempo. Quando il regista appare
sul punto di rinunciare al film cui intanto sta lavorando, sul set occupato
dalla scenografia di una rampa di lancio per un’astronave, un momento
magico dà vita a una sorta di «social catena» leopardiana. È il celebre
girotondo dei personaggi del film, scandito dalla musica circense di Nino
Rota.
170
Come La dolce vita tre anni prima, 8 ½ si accosta al reale con infinita
curiosità, senza preconcetti, attento a registrarne i battiti nascosti, i
chiaroscuri, l’enigma. Molti, allora, per partito preso (cattolico o
comunista) intravidero nella «bella confusione» felliniana una minaccia
per quelle «grandi narrazioni» (illuminismo, idealismo, marxismo)
invero già in declino. In tal senso, involontariamente, Fellini anticipa la
condizione postmoderna senza però compiacersi della «debolezza» del
pensiero. E lo fa d’istinto, di pancia, di cuore, grazie al suo onnivoro
desiderio di conoscere, di toccare, di smontare il giocattolo della vita e di
toccare con mano un oggetto, una forma, un’idea e lasciarli cadere per
vedere l’effetto che fa, per scoprire la vertiginosa bellezza dell’ignoto nel
noto. Non un intellettuale, ma, sia concesso il neologismo, un principe
«affettuale» bravissimo a percepire prima che a razionalizzare, a
proiettare l’infanzia nell’età adulta, a scommettere sul sorriso del
bambino, il piccolo Guido del finale di 8 ½, unico rimedio alla
malinconia del vivere.
D’altro canto, possono ben poco i rimedi della società affluente o
piccolo-borghese che sul farsi degli anni Sessanta sembrano coincidere,
mentre proprio lì si gettano le premesse dell’attuale impoverimento del
ceto medio. Le acque curative, i bagni turchi, i fanghi terapeutici di 8 ½
dovrebbero ristorare il protagonista, esplicito alter ego felliniano sin dal
titolo che riepiloga il numero dei film girati da Federico fino ad allora,
ma l’andirivieni di emozioni, ansie, aspettative, passioni procura a Guido
un’ulteriore spossatezza. Egli è alla ricerca del dono di un senso. Fa testo
la beffarda domanda del medico termale al regista paziente-impaziente:
«Che ci prepara di bello? Un altro film senza speranza?». Anselmi ha 43
anni, esattamente l’età di Federico, ed è in preda a un autentico ingorgo
esistenziale oggetto dell’incubo claustrofobico nell’incipit del film,
allorché lo vediamo imprigionato in un’automobile circondata da altre
vetture nelle quali persone che scopriremo essergli familiari lo guardano
171
stupefatte, indifferenti, o addirittura amoreggiano tra loro. Guido non
riesce a uscire dalla macchina, se non librandosi verso l’alto fra nebbie e
nuvole. Eccolo, sorvola una torre-scenografia sulla spiaggia, dove però
un uomo a cavallo ingiunge a un altro che ha in mano una fune di metter
fine al volo strattonandolo verso il basso: «Giù definitivamente».
Perfino il ricorso alla gioia dell’infanzia contadina, con il bagno nella
grande botte, il letto riscaldato ad arte e l’avvolgente affetto materno,
non basta più. L’ineffabile sciarada/ritornello «Asa Nisi Masa» del film
evoca misteriosamente le radici popolari nella domestica penombra
vespertina. È la medesima cifra delle sequenze dedicate alla «mostruosa»
Saraghina (Edra Gale) sulla spiaggia di Rimini: fotogrammi accelerati
come in una comica da cinema muto, gioia e tremori per l’iniziazione
erotica. Intanto tornano alla luce altri episodi dell’infanzia in famiglia e
nel collegio improntato a una rigida educazione cattolica. «Eminenza, io
non sono felice», confessa Guido al cardinale che gli concede udienza
nelle terme. L’alto prelato lo gela: «Perché dovrebbe essere felice? Il suo
compito non è questo. Chi le ha detto che si viene al mondo per essere
felici?». Tuttavia Guido, in mezzo ai «suoi» personaggi che sono in
fondo altrettante proiezioni di un’identità moltiplicata e frammentata (più
di Pirandello, qui conta Pinocchio), alla fine impartisce direttive con un
megafono e tutti gli danno retta, si prendono per mano.
Così 8 ½ accompagna lo spettatore nell’esplorazione della zona grigia
del genio, ma anche nelle incertezze e negli affanni di chiunque. Il film,
grazie al restauro in digitale della Cineteca Nazionale e della Medusa,
nel 2013 è stato restituito all’originario splendore in bianco e nero opera
del direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, con Mastroianni
silhouette più glamour che mai nel candore delle sovraesposizioni
(Marcello con gli occhiali da sole fu l’icona scelta da Cannes quale
poster del Festival 2014). All’anteprima della versione restaurata del
Torino Film Festival, Sandra Milo rivelò svagatamente: «Federico
172
sapeva parlare di tutto meno che di amore». Certo, Fellini riesce a
comporre la confusione in una summa catartica, in un’autentica
liberazione, in un ilare agnosticismo senza conversioni né pentimenti. È
come se la fune iniziale che nell’incubo àncora Guido/Federico alla terra
fosse recisa e gli permettesse finalmente di prendere il volo. Il modo
stesso di girare e di narrare, quell’episodieggiare fascinoso e pigro
all’insegna dell’improvvisazione, dell’occhio di bue puntato su figure in
apparenza minori, ovvero sui capricci dell’arabesco, testimoniano la
straordinaria capacità sintetica di Fellini, il suo canone anti-sistemico, la
sua sofferta e feconda «esperienza della modernità».
Sì, 8 ½ è un film immenso per grazia ricevuta dall’artista, vivificato
dalla visione baluginante di Guido bambino che dirige la banda dei
clown con il suo abito da collegiale. Lasciamo infine che sia il
protagonista a parlare:
Ma che cos’è questo lampo di felicità che mi fa tremare
e mi ridà forza, vita? Vi domando scusa dolcissime
creature, non avevo capito, non sapevo, com’è giusto
accettarvi, amarvi, e com’è semplice… Ecco, tutto
ritorna come prima, tutto è di nuovo confuso, ma
questa confusione sono io, io come sono, non come
vorrei essere, e non mi fa più paura. Dire la verità,
quello che non so, che cerco, che non ho ancora
trovato. È una festa la vita, viviamola insieme.
173
P
174
Paparazzo
«Paparazzo» è il soprannome del fotografo interpretato da Walter
Santesso in La dolce vita, che Ennio Flaiano definisce «compagno
indivisibile» del giornalista Marcello Rubini (Mastroianni). Ma
Paparazzo è esistito davvero e si chiamava Tazio Secchiaroli, scomparso
a 72 anni nel 1998, fotoreporter d’assalto battezzato con il nome che fu
dell’adrenalinico pilota Nuvolari. E questa è una storia di nomi nella
Roma fine anni Cinquanta e in particolare sulla ribalta di via Vittorio
Veneto, là dove, secondo il titolo di un quotidiano dell’epoca,
«l’intellighentia strizza l’occhio ai bassifondi» (Fellini però ricostruirà il
set di via Veneto negli studi di Cinecittà). Una vulgata fa risalire la
nascita stessa della Dolce vita alla sera del 14 agosto 1958, quando
Secchiaroli bersaglia di flash il re egiziano Faruq in esilio romano dal
’52, dopo il colpo di Stato del colonnello Nasser. Faruq è seduto ai
tavolini del Café de Paris con la giovanissima fiamma Irma Capece
Minutolo, una nobile d’origine pugliese che diventerà la sua terza
moglie, oddio presto vedova, e in seguito apprezzata cantante d’opera. Il
fotografo subisce addirittura un goffo tentativo di reazione muscolare da
parte del sovrano in sovrappeso. Aveva rischiato di peggio l’anno
precedente, quando a inseguirlo lungo via Veneto era stato l’atletico e
infuriato Walter Chiari, sorpreso in compagnia di Ava Gardner: una
scena immortalata da un altro paparazzo, Elio Sorci. Più di una volta
Secchiaroli rischia di buscarle anche dall’attore londinese Anthony Steel,
ex paracadutista dell’esercito britannico dal bicchiere facile, marito di
Anita Ekberg tra il ’56 e il ’59, per aver fissato su pellicola le frequenti
liti della coppia a causa della gelosia di lui, non proprio ingiustificata.
175
Secchiaroli è il figlio di un muratore marchigiano cresciuto a
Centocelle, la più antica delle borgate romane risalente a prima del
fascismo, e non a caso Pier Paolo Pasolini chiede a lui di fotografare
volti e luoghi delle periferie, in vista del suo travagliato esordio nella
regia con Accattone (1961). Mauro Bolognini ha da poco diretto Il
bell’Antonio e La giornata balorda sceneggiati da Pasolini quando vede
nello studio di Pier Paolo la galleria delle facce impresse da Secchiaroli,
restandone conquistato, tanto da proporre con successo al produttore
Alfredo Bini la sceneggiatura di Accattone, appena rigettata dalla Federiz
di Fellini e Rizzoli. È ancora Secchiaroli a scattare il 5 novembre 1958 la
storica sequenza dello striptease dell’attrice e ballerina Aïché Nana,
un’audace Sherazade turca-armena-libanese che eccita gli invitati di una
festa privata nel ristorante Rugantino di Trastevere, affittato da un
miliardario americano per celebrare il venticinquesimo compleanno della
contessa Olghina di Robilant. Il rullino fotografico del sabba trasteverino
viene portato fuori dal locale grazie all’abilità di Matteo Spinola, in
quegli anni ancora impegnato come attore, ma destinato a diventare un
famoso press agent del cinema italiano in coppia con il pirotecnico
Enrico Lucherini, il geniaccio che avrebbe brevettato il gossip quale
veicolo promozionale. Il «Rugantino» è uno scandalo epocale, con tanto
di processo a carico del ristoratore, che Fellini richiama in La dolce vita
inscenando lo spogliarello di Nadia Grey nella villa di Fregene. Invece il
nome «Paparazzo» si deve a uno degli sceneggiatori del film, Ennio
Flaiano, che lo scova in un libro pubblicato nel 1901, Sulle rive dello
Jonio: appunti di un viaggio nell’Italia meridionale del classicista
britannico George Gissing, un tour della Magna Grecia. L’autore
racconta di aver fatto tappa nel 1887 a Catanzaro, soggiornando
nell’Albergo Centrale di cui è proprietario tale Coriolano Paparazzo (una
targa sull’ex facciata dell’hotel in corso Mazzini, un tempo corso Vittorio
Emanuele, evoca l’origine del termine felliniano). Lo stesso Flaiano dà
176
conto della genesi del fortunatissimo neologismo in un articolo su
«L’Europeo» del 15 luglio 1962, poi confluito in La solitudine del satiro:
Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome
esemplare perché il nome giusto aiuta molto e indica
che il personaggio «vivrà». Queste affinità semantiche
tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione
di Flaubert, che ci mise due anni a trovare il nome di
Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non
sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso
quell’aureo libretto di George Gessing (sic) che si
intitola Sulle rive dello Jonio troviamo un nome
prestigioso: «Paparazzo». Il fotografo si chiamerà
Paparazzo. Non saprà mai di portare l’onorato nome di
un albergatore delle Calabrie, del quale Gessing parla
con riconoscenza e con ammirazione. Ma i nomi hanno
un loro destino.
I paparazzi vanno su e giù a piedi, in Vespa o in Lambretta lungo i
300-400 metri di via Veneto fra porta Pinciana, adesso preceduta da largo
Federico Fellini, e il curvone che costeggia l’ambasciata degli Stati
Uniti, poco oltre l’Excelsior con i suoi portieri in livrea e cilindro, prima
della discesa verso piazza Barberini, dove l’Hard Rock Cafe, brand
globale acquistato dagli indiani d’America della tribù Seminole, ormai
da un ventennio è l’unica attrazione di uno stradone altrimenti desertico
e alla sera un po’ spettrale. E dire che negli anni d’oro della Dolce vita
quel breve tragitto è una festa mobile, un febbrile andirivieni di
ambizioni e vocazioni, amori e tradimenti, fan e divi, stelline e curiosi,
perdigiorno e saltimbanchi del barnum romano. Qui sbocciano o
vengono rivelate love story da copertina, grazie ai paparazzi che in fondo
assecondano la voglia dei protagonisti di far sapere a tutti di un nuovo
partner o di una maliziosa scappatella. Altrimenti, perché mai andare a
cena proprio in via Veneto? Ecco Mario Bandini, conte, ingegnere e
playboy che avrebbe volentieri sposato Kim Novak – dice – se solo non
fosse stata un’attrice (son problemi!). Alain Delon e Romy Schneider
177
mangiano spaghetti guardandosi occhi negli occhi, perdutamente
innamorati. E poi Brigitte Bardot, Rock Hudson, Elsa Martinelli,
Charlton Heston, la strip-teaseuse Dodò d’Hamburg e Nadia Parr che
una notte prende a spogliarsi in piena via Veneto, Pelé, Rita Hayworth,
Warren Beatty e Nathalie Wood, la transessuale salentina Giò Stajano,
nipote del gerarca fascista Achille Starace, che negli ultimi anni di vita,
da signora dedita agli esercizi spirituali, si disse comunque fiera di aver
anticipato il Gay Pride: «Ero l’unico frocio d’Italia!».
Ai tavoli del Doney Richard Burton e la plurimaritata Liz Taylor
bevono un Dry Martini dopo l’altro brindando alla passione nata nella
Hollywood sul Tevere, dove stanno girando Cleopatra di Joseph L.
Mankiewicz (Fellini citerà La contessa scalza di Mankiewicz del ’54 tra
le fonti di ispirazione di La dolce vita). Sul set, dopo averla baciata per
esigenze di copione, Antonio dice a Cleopatra: «Sei troppo grassa, ma te
l’hanno mai detto che sei bellissima?». Annamo, daje!, commentano gli
elettricisti di Cinecittà, i primi a capire che tra i due è fatta, complici i
sensuali costumi plissettati di Cleopatra concepiti dalle sorelle Antonini,
lo storico atelier di via Quintino Sella a due passi da via Veneto, chiuso
nel 2019, che realizzò anche il fatale abito bianco di Marilyn Monroe in
Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955). E di una certa
Faustina Antonini, figlia di un oste, si era invaghito Goethe che annota
nelle sue Elegie romane di fine Settecento: «Un mondo in verità, o
Roma, sei tu; infatti senza l’amore il mondo non sarebbe il mondo. E
anche Roma non sarebbe Roma». La coppia Burton-Taylor sarà una delle
più ardenti e di gran lunga la più burrascosa della storia del cinema: «Liz
è la mia perenne notte in piedi», confessa l’attore gallese ai cronisti. La
frase potrebbe valere per Roma e magari per l’Italia tutta fremente di
futuro nelle stagioni della Dolce vita e del miracolo economico con
incrementi del Pil che oggi definiremmo «cinesi». La sera andavamo in
via Veneto, recita il titolo di un fortunato memoir politico-giornalistico di
178
Eugenio Scalfari, il quale è tentato dall’accreditare l’idea che Marcello
Rubini sia «un giornalista “impegnato” sia pure a modo suo, dalle cui
tasche ogni tanto spuntava un “Espresso”». Chissà. Si riconoscono in
Marcello anche il giornalista e regista Gualtiero Jacopetti che lancia la
moda dei film-verità tipo Mondo cane (1962) e Victor Ciuffa, giornalista
e piccolo editore che all’epoca seguiva la cronaca mondana della capitale
per il «Corriere d’Informazione» milanese, sebbene Ciuffa ammetta che
la rubrica La Dolce vita nella capitale apparve su «La Notte» a firma di
un suo ex collaboratore, Nino Vendetti. D’altro canto, abbiamo certezza
dei nomi degli autori delle fotocronache innovative e aggressive che
annunciano una rivoluzione del costume e una trasformazione
dell’immaginario. Sì, i flash dei paparazzi scandiscono il passaggio dal
paese retrogrado e contadino, cattolico e comunista, neorealista e
postbellico, all’Italia mondana, attrattiva, erotica, piena di contraddizioni
che sarebbero esplose solo in seguito, eppure fascinosa. Voilà, la Dolce
vita! Dunque, oltre a Secchiaroli e Sorci, tra i paparazzi più attivi
troviamo Velio Cioni, Marcello Geppetti, Sergio Spinelli, Bruno
Tartaglia, Massimo Vergari, Marco Pelosi, Bruno Bruni, il giovanissimo
Rino Barillari detto poi «Il principe» o «The King of Paparazzi». Già,
perché molti avevano un soprannome, ricorda lo storico della fotografia
Italo Zannier nell’introduzione al catalogo Alinari di una mostra
veneziana dell’88, uno dei tanti omaggi che i musei di mezzo mondo
negli ultimi decenni hanno reso ai paparazzi. Secchiaroli era «Bounty
Killer» sebbene non ne abbia affatto l’aspetto nella foto del 1952 che lo
ritrae in motocicletta con il collega Luciano Mellace, scattata da Franco
Pinna. Lo stesso Pinna, sodale di Ernesto De Martino nelle prime
spedizioni etnoantropologiche nel Sud della taranta e dei riti ancestrali,
di lì a poco sarà fotografo di scena dei film felliniani. Debuttano da
paparazzi altri grandi nomi del fotogiornalismo o della fotografia d’arte:
Arturo Zavattini, figlio del grande scrittore e sceneggiatore Cesare
Zavattini, a sua volta partecipe delle ricerche demartiniane a Tricarico e
179
poi operatore alla macchina da presa dei film felliniani Il bidone, La
dolce vita, Le tentazioni del dottor Antonio, Carlo Bavagnoli, Pierluigi
Praturlon, Ugo Mulas e Chiara Samugheo che diventerà la ritrattista
preferita del Fellini privat, come s’intitola una sua mostra del 2007. Un
ex paparazzo è Carlo Riccardi, grande fotografo che ha documentato
settant’anni di storia italiana raccolti in uno straordinario archivio che
allinea pontefici, presidenti, cineasti, artisti, scrittori e gente comune,
oggi curato dal figlio ed erede del flash Maurizio Riccardi.
Da Carlo Riccardi viene un’interpretazione lessicale alternativa sulla
genesi di «paparazzo»:
Un giorno incontrai Fellini e Flaiano fuori da Cinecittà.
All’epoca non stavano ancora lavorando alla
sceneggiatura di La dolce vita ma credo stessero
studiando il soggetto. Chiesi a Flaiano – frequentavo
entrambi dai tempi della guerra, Flaiano in particolare
perché conoscenza di mio padre libraio –: Professore,
Fanfani mi definisce «pappatacio/paparazzo», ma che
vuol dire? Lui rispose che probabilmente si riferiva al
fastidio arrecato da quell’insetto.
Il termine «paparazzo» passa alla storia, è utilizzato in molte lingue
del mondo e si carica di valenze farsesche, e persino tragiche come nel
caso della morte di Lady Diana Spencer e del suo compagno Dodi AlFayed, il 31 agosto 1997, in un incidente stradale avvenuto nella galleria
sotto il Pont de l’Alma a Parigi, mentre la coppia era in fuga dai
fotografi. Sebbene talune ricostruzioni considerino i paparazzi il capro
espiatorio piuttosto che la causa della disgrazia. Sul momento non la
pensa così «l’Unità», quotidiano fondato da Antonio Gramsci, che titola
a tutta pagina: Scusaci, Principessa. In ogni caso, Fellini con La dolce
vita intuisce la deriva a venire del giornalismo coincidente con
l’immagine, di cui costituisce poco più della didascalia. Siamo già sulla
soglia dell’infotainment, la miscela di information (informazione) ed
entertainment (intrattenimento) che ha soppiantato l’inchiesta. Per
180
Marcello Rubini non vi è più alcunché da raccontare, nulla è degno di
essere scritto nero su bianco, approfondito, analizzato, e quindi mediato
come sarebbe nelle corde del giornalismo in rapporto con l’opinione
pubblica. Egli è il testimone reticente, insaturo, restio alle altrui
interrogazioni, di un orizzonte rannuvolato dalla fine di un’epoca e
abbagliato da un indefinito nuovo corso. In La dolce vita difatti
convivono «pratiche alte» e «pratiche basse» secondo le categorie
sociologiche che Alberto Abruzzese contribuirà a diffondere: letteratura
e giornalismo, divismo e pettegolezzo, centro e periferie, arcaismo e
postmodernità… Il testimone e la sintesi di questo milieu è Paparazzo.
Sì, i paparazzi presagiscono il primato della finzione, pur senza il tono
oracolare di Andy Warhol che ispirava una certa simpatia a Fellini: «Nel
futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti». Fellini pronostica lo
tsunami pop e l’involgarimento dell’immaginario su cui tornerà a
riflettere in Ginger e Fred e La voce della luna, e fiuta l’invecchiamento
precoce di una serie di ruoli: il giornalista, il fotoreporter, il regista
stesso… Oggi ciascuno di noi può «paparazzare» chicchessia a
cominciare da sé stesso, pubblicando le foto un secondo dopo sui social
network: Facebook, Instagram, Twitter. Gli stessi divi e i politici in
primis si avvalgono di social media manager e spin doctor che sono
determinanti, sulla base dei like ottenuti od ottenibili, nelle scelte di che
cosa dire fare baciare, non escluso il santo rosario mariano esibito in
Parlamento dal leader leghista Matteo Salvini. Il blog di Chiara Ferragni
– sia detto senza scandalo – muove quote crescenti di mercato e i modi
per diventare influencer sono l’oggetto di una laurea triennale appena
istituita. La modalità del clic e del post (modalità postnovecentesca per
eccellenza) in un amen determina mode, crea carriere, fa vincere le
elezioni… Fabrizio Corona, denominato «re dei paparazzi» benché
impegnato piuttosto su altri fronti, qualche anno fa ha scritto il giallo Chi
ha ucciso Norma Jean?, protagonista appunto un paparazzo-detective
sulle tracce dell’assassino di una sua vecchia fiamma. Ebbene, si direbbe
181
che a eliminare il fantasma di Marilyn Monroe (nome d’arte di Norma
Jean Baker, morta nel 1962 sul finire della Dolce vita) sia stato lo stesso
«mondo nuovo» che ha reso superflui Tazio e i suoi fratelli. D’altronde,
quali segreti potrebbero mai carpire i fotografi in uno scenario che
include l’#Aftersex, il selfie di coppia o partouze dopo aver fatto
l’amore? Eppure i paparazzi esistono ancora, talvolta convocati fuori
dell’albergo o del ristorante dalle medesime «vittime» in vena di
pubblicità, talaltra avventurosamente a caccia di un nuovo amore o di
una passione clandestina delle maschere della Tv, del cinema e della
politica. Ecco, nella vocazione a cogliere l’attimo ovvero uno status
nascente c’è forse la residua essenza felliniana del paparazzo digitale,
quel tocco «profetico» ma con disincanto, molto molto romano, che
anima La dolce vita.
Il Café de Paris, serrato da tempo, appare intatto negli interni
polverosi e fermi nel passato come gli ambienti di una moderna Pompei,
i cui splendori sono riprodotti nelle vestigia fotografiche rimaste sulle
vetrine. Qui Orson Welles si dissetava con una mezza dozzina di Bloody
Mary – vodka, succo di pomodoro, limone, pepe e altre spezie – nelle
pause della lavorazione di La ricotta di Pasolini (1963), uno dei quattro
episodi di RoGoPaG, titolo che mette insieme le iniziali di Rossellini,
Godard, Pasolini, Gregoretti. Welles interpreta un regista al quale
chiedono: «Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico
Fellini?». «Egli danza… Egli danza!», è la risposta sarcastica del genio
americano, doppiato dalla voce dello scrittore Giorgio Bassani. Con
Fellini, i paparazzi entrano in ballo e presto escono di pista a nome
dell’Italia che verrà: «Via Veneto sempre più irriconoscibile – annota il
satiro Flaiano già nel giugno 1962 –, travolta dalla sua stessa fama,
lasciata ai turisti, ai facili incontri e al cinematografo».
182
Q
183
Quid
Un quid in Fellini? V’è «un certo che» di incantevole e pur sempre
sfuggente nei suoi film, dove la felicità e l’angoscia sono le braccia di un
unico amplesso. Svagato cronista come il Marcello di La dolce vita o
narratore «proustiano» del tempo perduto (e perso), tuttavia Federico è –
suo malgrado – l’autore italiano del secondo Novecento che forse più di
chiunque ha interiorizzato, elaborato e oltrepassato il lascito delle
avanguardie storiche. Lo testimoniano la primazia e l’ossessione del
linguaggio e della forma rispetto alla trama e al contenuto, in maniera
particolare nell’unò-duè che scandisce l’andatura dei primi anni
Sessanta, La dolce vita e 8 ½, proprio quando sembra rallentarla con i
dubbi e i tormenti del Nostro. «Mi ha guardato come Socrate avrebbe
guardato Critone scoprendo che il discepolo era improvvisamente
impazzito», raccontò Fellini a proposito della reazione di Roberto
Rossellini, il suo maestro, all’uscita dalla visione di La dolce vita. Ma
Federico non è impazzito. D’istinto e anche per cultura, nonostante
simulasse d’essere un po’ selvatico, sa di vivere da «uomo postumo», e
non soltanto perché è scampato all’immane tragedia della guerra, visto
che era riuscito a non farsi arruolare a forza di rinvii concessi agli
universitari e ai giornalisti, nonché certificando la patologia dell’occhio
basedowiano, cioè sporgente (in effetti, metaforicamente ne fu affetto).
Egli è «postumo» nei termini di un altro Federico, Herr Nietzsche:
Gli uomini postumi – io, per esempio – sono meno ben
compresi di coloro che si sono conformati alla loro
epoca, ma li si intende meglio. Per esprimermi ancora
più esattamente: non ci si comprende mai – ed è da ciò
che viene la nostra autorità.
184
Senza farla troppo lunga, la Roma felliniana può evocare in tal senso i
paradossi della Vienna di Wittgenstein e Musil, di Hofmannsthal e Roth,
di Schiele e Schönberg, e dell’aforista Kraus, che, volendo, sarebbe un
antenato di Flaiano. «Un paesaggio di pellegrinaggi infiniti e follie
interminabili», la definisce Massimo Cacciari nel suo classico Dallo
Steinhof che si apre con un’epigrafe perfetta anche per dire Fellini:
«Merita di essere raggiunto dalla sua epoca colui il quale si limita ad
anticiparla» (Ludwig Wittgenstein). Via Veneto come la chiesa di San
Leopoldo della capitale austriaca? Due imperi in disfacimento, rovine
che guardiamo e ci riguardano, assenze/presenti nel labirinto del
pensiero. «Noi non sappiamo se nel labirinto vi sia un centro edenico o
demoniaco», ammoniva Jorge Luis Borges, l’aedo dantesco che trasognò
quel centro sotto forma di anfora: un totem dell’infanzia, chissà se
salvifico. Fellini «abita la distanza» dal centro smarrito (Rovatti) e sogna
Borges: «Davanti a me al di là del tavolo c’è Borges che vuol parlare con
me, anzi vuol sentirmi parlare e si sporge in avanti per ascoltare meglio.
Ma io non so cosa dire». Così come fa con Picasso, che ricorre quattro
volte nel Libro dei sogni: «Tutta la notte con Picasso che mi parlava, mi
parlava… Eravamo molto amici, mi dimostrava un grande affetto, come
un fratello più grande, un padre artistico, un collega che mi stima alla
pari, uno della stessa famiglia, della stessa casta…». Fellini e Picasso
erano accomunati dalla passione per il circo, ma non s’incontrarono mai.
Il regista era ammaliato dallo stregone spagnolo della scomposizione
figurativa e della «quarta dimensione» simbolica, ne subiva la malia
demiurgica. Audrey Norcia, curatrice della mostra parigina Quand
Fellini rêvait de Picasso (Cinémathèque française, 2019) riscontra
quest’influenza in due scene del Satyricon: quella di Encolpio nella
pinacoteca dove «la coppia Marte e Venere è un richiamo al Picasso
classico degli anni Venti» e il labirinto, considerato dalla storica dell’arte
«una discendenza del Picasso surrealista degli anni Trenta».
185
«Avete fatto voi questo orrore, maestro?», chiede un ufficiale nazista
davanti alla grande tela di Guernica. «No, l’avete fatto voi», risponde
Picasso, riferendosi al bombardamento della Luftwaffe che il 26 aprile
1937 devastò la piccola città dei Paesi Baschi. Avete fatto voi la Dolce
vita? No, l’avete fatta voi… «È una cafonata, il sogno di un provinciale»,
sbottò Vittorio De Sica. È vero che solo il provinciale si accosta al nuovo
con divorante curiosità, attento a registrarne i battiti nascosti, i
chiaroscuri e l’enigma. Perciò Fellini diventa il cronista partecipe e
visionario di una trasformazione radicale dell’Italia, la cosiddetta
«cafonata», in cui i famosi per il lampo di un flash e i non famosi
cominciano ad anelare a un’ambigua nomea, convivono in un’alternanza
di esuberanza e di depressione, di fiction e di scaltrezza cinica. Un
processo, colto nel suo nascere, che finirà per congiurare ai danni del
principio di realtà, oggi infermo in ogni dove, labile, difficile da
distinguere in mezzo alle menzogne spacciate per autentiche (le fake
news).
Il raffinato scrittore britannico Aldous Huxley – che negli anni Venti
risiede a lungo in Italia e trascorre più di un periodo di vacanza a Rimini
– è un precursore del misticismo filosofico e nell’uso degli allucinogeni
per allargare i confini della mente (ante litteram un approccio in stile
Castaneda). Morirà a Hollywood, dopo aver sofferto per tutta la vita di
seri problemi alla vista, cui dedica il trattatello «terapeutico» L’arte di
vedere: «Esiste un rapporto indissolubile, per il bene come per il male,
tra l’immagine visiva prodotta dalla memoria, dall’immaginazione o
dall’interpretazione dei sensa, e la condizione fisica degli occhi». In
quelle pagine Huxley scrive anche di cinema con tocchi simili a quelli di
Lo spettatore addormentato di Flaiano, di cui anticipa l’invito
all’occasionale e salubre assopimento in sala, e conclude asseverando il
bisogno di una «vigile passività» che più felliniana non potrebbe
essere… Vigile quando si dice inerte, attento al quadro d’insieme, alle
186
facce del mondo e alle possibili moltiplicazioni del reale, inattuale nella
temperie della cronaca: ce n’è abbastanza per un quid, forse due.
187
R
188
Rex
L’apparizione notturna del favoloso piroscafo Rex al largo di Rimini in
Amarcord (1973) chiude una sequenza che comincia in piena luce.
«Buongiorno, mezzanotte», potremmo dire con il verso struggente di
Emily Dickinson. Un’epifania impossibile perché il sole non tramonta
nel mare Adriatico. Racconta il direttore della fotografia del film
Giuseppe Rotunno:
La scena fu girata dentro le piscine di Cinecittà. Invece
l’imbarco per la serata del passaggio del Rex l’abbiamo
realizzato a Fiumicino, stavamo girando un tramonto e
gli ho detto: «Federico, abbiamo il sole dalla parte
sbagliata! A Rimini non tramonta in mare» – «Sto qui
per quello!», mi ha risposto.
Geografico e antropologico come pochi, il cinema di Federico Fellini
spiazza proprio quando sembra essere più rassicurante nel segno della
nostalgia. Del resto, l’Adriatico si presta a tale ambivalenza: orienta e
disorienta. Mare «chiuso» e verticale fino alla «strozzatura» all’altezza di
Otranto, dirimpettaia delle montagne albanesi donde viene la «sessa»,
come si definisce l’onda lunga che provoca l’acqua alta in laguna,
l’Adriatico fu propaggine della Serenissima che per secoli lo dominò e
ribattezzò «golfo di Venezia» o «nostro canal». Ma l’ipoteca linguistica
non è bastata a farne limaccio per gondolieri e se la Venezia dell’era
postmoderna appare a Régis Debray come una lugubre Disneyland
scandita dal minaccevole passaggio delle grandi navi da crociera (la
libido al crepuscolo è anche lo stigma del Casanova di Fellini, 1976),
l’Adriatico resta pur sempre un mare di storie vivide, tramandate nel
congedo del Novecento e oltre. Così è nel Breviario mediterraneo di
Predrag Matvejević, nelle raccolte di saggi di Sergio Anselmi, nel
189
Pensiero meridiano di Franco Cassano, nell’homo Adriaticus di Sante
Graciotti e nei reportage di frontiera di Alessandro Leogrande: pagine
variamente in debito con Albert Camus, per il quale perdersi significa
ritrovarsi.
Non v’è portolano che tenga per racchiudere l’Adriatico fra margini
sicuri o segni tranquillizzanti. Scrive lo storico Egidio Ivetic: «Ragionare
sull’Adriatico (come per ogni contesto del Mediterraneo) significa fare i
conti con il suo essere un confine. Ogni pensiero adriatico, ogni ricerca
sulle sue identità, diventa un pensiero di confine». Il cinema di Fellini
non fa eccezione. Da parecchi anni ormai a Rimini persino le marine
ansiolitiche formato famiglia care alla Gradisca o alla prostituta Volpina
di Amarcord sono punteggiate di caratteri in cirillico per i russi della
classe media, trasportati con i charter nell’aeroporto intestato a Fellini al
pari delle pizzerie e degli hotel nella sua città natale, mentre i ricchi
moscoviti prediligono Forte dei Marmi e gli oligarchi del gas svernano
su yacht più lunghi del Rex. La lingua slava, apparentemente paradossale
alla foce del Marecchia (deviato artificialmente, oggi costeggia San
Giuliano Mare, il quartiere che contiene il borgo di Amarcord), è una
conferma turistica dell’Adriatico quale propaggine del Muro di Berlino:
una barriera fluttuante e invisibile che, senza subire crolli apparenti,
fluidificò frontiere e confuse mondi laddove la geopolitica non aveva
neppure immaginato potessero lambirsi, come in un film… L’esodo
comincia proprio in Adriatico con l’eclatante arrivo l’8 agosto 1991 della
Vlora nel porto di Bari. Ammassati a bordo i 20.000 albanesi in fuga
dalla satrapia comunista del Paese delle Aquile, sognavano di
raggiungere Lamerica che sarà evocata poi nel titolo del film di Gianni
Amelio (1994). Quel trauma fra le due sponde dell’Adriatico, raccontato
in altri film tra cui La nave dolce di Daniele Vicari (2012), fu il preludio
dei naufragi di Lampedusa raccontati da Fuocoammare di Gianfranco
Rosi (2016), dei campi profughi di Lesbo e del Mediterraneo quale via di
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fuga e incerto approdo, esilio e speranza. Simbolicamente la Vlora resta
un drammatico controcampo del Rex: il punto di vista è ribaltato, dalla
nave si fantastica la terraferma – un po’ come in Novecento di
Alessandro Baricco (1994) –, dopo aver attraversato un mare di storie
che imporrebbe un bagno di umiltà, sapendo che il sole può tramontare
là dove sorge…
Ma il Rex è una visione di confine anche tra realtà e sogno. Rivela
ancora Rotunno:
La sagoma del Rex fu costruita come un puzzle,
migliaia di pezzi realizzati in un teatro di posa e poi
incollati sul fondale della piscina di Cinecittà. Le
uniche cose vere del Rex erano il fumo dei fumaioli,
direzionato dai ventilatori, le lampadine dei pavesi e
degli oblò e un getto d’acqua che io osai mettere
davanti alla prua per dare l’impressione del movimento
della nave. Quando Federico l’ha vista, mi ha chiesto
preoccupato: «Non sembrerà vera?». Gli risposi: «No,
stai tranquillo, darà solo l’emozione del movimento».
La cinepresa che inquadrava il passaggio del Rex era
posizionata su una grande piattaforma con sopra
sistemate le sezioni di alcune barche sulle quali erano
seduti i personaggi del film per assistere e festeggiare il
passaggio della fantastica nave. Per dare l’impressione
del movimento, la piattaforma carrellava nella
direzione opposta a quella del Rex con tutto il suo
carico, cinepresa e sezioni di barche con dentro alcuni
personaggi. Lo stesso artificio lo abbiamo usato in
misura più vasta nella partenza della nave nel film E la
nave va.
«Trenta piani, ha undici fumaioli», dice un ragazzo nella prima gioiosa
inquadratura di una serie di riprese sul lungomare o nei pressi della casa
della famiglia di Titta Biondi (Bruno Zanin), scandite da un brioso
crescendo musicale di Nino Rota. «Giudizio» si rivolge direttamente alla
macchina da presa e s’interroga in un italiano gergale: «Ma dovo va tutta
questa gente? Dovo va col cuore in subbuglie?». Sui bianchi
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terrazzamenti del Grand Hotel, che Fellini ricostruisce nell’edificio
liberty del «Paradiso sul Mare» di Anzio lungo il litorale romano,
qualcuno ha installato un cannocchiale. La Volpina sopraggiunge fra i
massi frangiflutti di un molo, osservando in prospettiva le barche già
lontane e su uno scafo i passeggeri si domandano «quanto peserà» (il
Rex, che nessuno ha ancora nominato), concludendo che sarà «due volte
e mezzo il Grand Hotel». Non manca l’iperbole, tipica della provincia:
«Due volte e mezzo il Grand Hotel, più l’Arco di Augusto». Su un altro
natante il bagnino grasso e rauco intona/stona «Sul mare luccica…», i
primi versi della canzone Santa Lucia di Nisa e Calzia (1948). L’erudito
del borgo declama invece i versi «tu passi – e il tuo fato / io seguo nel
flutto guardando la scia luccicare», dalle Odi navali di Gabriele
D’Annunzio e in particolare da A una torpediniera nell’Adriatico (1892),
la nave ammirata dal vate nel porto di Ancona nel 1887 in occasione di
una parata della risorta squadra navale italiana dopo la sconfitta di Lissa.
Il «Pataca» zio di Titta (Nandino Orfei) con la cuffia da nuotatore ha
raggiunto una barca dalla riva a forza di bracciate «stile libero».
Un’impresa che gli ha fatto diventare «le palle come due fagioli sfritti»,
confessa accasciandosi stremato sul ponte prima d’intonare strofe
malinconiche: «Voglio ballare con te, tutta la notte così». Qualcuno
fuma, una coppia danza, un omino strampalato mangia una fetta
d’anguria e racconta che una volta un delfino si è sporto sulla sua barca e
lo ha chiamato «mamma». Nel crepuscolo assistiamo al dialogo tra la
madre e il padre di Titta: Aurelio il capomastro (Armando Brancia)
almanacca sulle stelle che si reggono senza mattoni né calcestruzzo e si
offre di coprire con la sua giacca la moglie Miranda (Pupella Maggio)
stanca di attendere: «Dobbiam star qui ancora molto? È l’una!». E lui:
«E che ne so, avevan detto verso mezzanotte… E poi anche se tarda un
po’, sta venendo dall’America, oh». Ecco il cieco di Cantarel (Domenico
Pertica) che, imbracciando la fisarmonica, intona una nenia che fa da
192
preludio alla confessione della Gradisca (Magali Noël), in abito bianco
da marinaia con le stelline in rosso, una maglietta da gondoliere e una
lunga collana di perle:
Ogni volta mi sono illusa e invece finiva tutto subito…
Vorrei avere una famiglia, dei bambini, un marito,
qualcuno con cui scambiare due parole alla sera,
magari bevendo il caffellatte. E poi ogni tanto fare
anche l’amore, perché quando ci vuole, ci vuole. Ma
più che l’amore, contano i sentimenti. E io ne ho tanto
di sentimento dentro di me, ma a chi lo do? Chi è che
lo vuole?
La Gradisca si commuove fino alle lacrime, consolata da un’amica più
giovane che le sta accanto. Ora dormono tutti nella nebbia, in mezzo al
mare. Il primo a vedere la sagoma del Rex è quindi lo spettatore:
imponente e solenne, eppur tenue lucore nelle tenebre, Moby Dick
mansueta, profilo di una bellezza folgorante nella sua estrema semplicità.
La nave lancia un suono acuto e prolungato e solo allora un bambino
urla: «Eccoloooo». Titta si risveglia: «Babbo, il Rex, il Rex!». Sagome
festose, riprese di spalle, si sbracciano per salutare il passaggio e
qualcuno grida: «Viva l’Italia!». Il cieco con la fisarmonica, appoggiato
all’albero maestro dello scafo e attorniato da compaesani che sorridono e
saltano, chiede «Com’è? Com’è?». Si toglie gli occhialini neri e,
accennando a sua volta a un sorriso, chiede di nuovo: «Com’è?». Adesso
vediamo più da vicino le luci delle cabine, i pavesi inghirlandati di
lampadine, il ponte gigantesco sul quale s’innalza un edificio che, pur
esibendo tre file di finestre, appare poco più di una miniatura, e i due
grandi fumaioli da cui si librano pennacchi bianchi di vapore, verso cui
si dirige impercettibilmente la macchina da presa. Tocca a un primo
piano della Gradisca che sta ancora piangendo, ma non sappiamo più se
per il marito di là da venire o per il prodigio del Rex, cui manda baci con
le mani dopo averle congiunte in una preghiera, in un voto. Ancora il
sibilo della nave giunge a scandire la colonna sonora, mentre il papà di
193
Titta accenna a un saluto con la paglietta e c’è di nuovo la Gradisca che
adesso si asciuga le lacrime.
Poi una panoramica va dal Rex – che già si allontana – verso il buio,
verso il nulla. La festa è finita. L’ondeggiare minaccioso e rumoroso del
mare, vistosamente finto come nella scena iniziale di Casanova,
conclude la sequenza. Le immagini successive, a conferma della libertà
creativa di Fellini anche in moviola, non sono affatto solari come
prescriverebbe la canonica alternanza tra il giorno e la notte, anzi… Il
nonno di Titta si perde nella nebbia davanti a casa sua, un’allegoria citata
nel romanzo Il colibrì di Sandro Veronesi (2019).
All’indomani della vittoria del suo quarto Oscar per Amarcord, nel
1975, Fellini concede un’intervista svogliata o reticente al giornalista
della Rai Alberto Michelini e, un po’ infastidito dall’incalzare delle
domande, dichiara: «La verità è che io non ho voluto dimostrare un bel
niente. Non ho messaggi da inviare all’umanità. Mi dispiace proprio.
Considero il cinematografo un giocattolo meraviglioso, un favoloso
passatempo». È il giocattolo che gli permette di dare vita a una nave e a
un popolo in festa fin da terra per il passaggio lungo la costa di Rimini e
di farlo in una piscina di Cinecittà o sulle rive del Tirreno. Fellini suscita
lo stupore della sua infanzia ed evoca l’indugio adolescenziale
dell’Italietta fascista, incerta tra colonialismo straccione e inconsapevole
voglia di lontananza: Dux et Rex. Amarcord è ambientato nel 1932, sette
anni dopo Mussolini occupa l’Albania e vagheggia di un Adriatico
«imperiale» che avrà la sua nemesi storica con la Vlora, l’8 agosto 1991,
il giorno in cui «naufraga» la cortina di ferro tra Est e Ovest d’Europa, e
i russi cominciano a preparare i bagagli per le vacanze a Rimini.
194
S
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Sogno
Il sogno è un segno, anzi un disegno. Nella prima pagina del Libro dei
sogni, datata 30 novembre 1960, Federico Fellini appunta: «Nei sogni io
mi vedo quasi sempre di spalle e coi capelli e più magro, così com’ero
venti o trenta anni fa. Ecco mi vedo così, e così mi disegnerò nei sogni
che appunterò in questo libro. Invece dovrei disegnarmi così…». E
tratteggia un uomo ben più corpulento e vistosamente affetto da calvizie.
Mica male come incipit per la favolosa raccolta dei disegni onirici di
Fellini riportati in due libri mastri dal 1960 al 1982, con un «buco» di
circa quattro anni e mezzo, tra l’estate del 1968 e il febbraio del ’73,
forse per una lunga pausa «onirica» o perché gli originali sono andati
smarriti in uno dei traslochi dello studio del maestro, prima di stabilirsi
in Corso d’Italia angolo via Po, a 150 metri dalla sede nazionale della
Cgil («Lavoratoriii…» – lo sberleffo iniziale di I vitelloni). Ampia opera
postuma, data alle stampe solo nel 2007 dopo talune traversie ereditarie
(l’originale è custodito dal Comune di Rimini), Il libro dei sogni prende
le mosse dalla terapia di Fellini con lo psicoanalista junghiano Ernst
Bernhard e fra l’altro contiene una pagina in cui Federico presagisce la
morte del terapeuta, meno di due mesi prima che accada, il 29 giugno
1965:
Dal cadavere si alza evanescente, altissimo lo spirito
del professore che mi stringe le mani con grande forza
come a testimoniare che l’anima è immortale ed è più
forte di tutto. «Amore mio!» dico travolto dalla
commozione, ma temo che Bernhard possa notare nel
mio dolore una sfumatura istrionesca, di
compiacimento letterario.
196
Un altro brogliaccio onirico felliniano, molto significativo, è datato 18
ottobre 1974: Giuseppe Garibaldi è sul letto di morte «con la sua faccia
di sempre, quella dei libri di storia e dei francobolli. Solo un po’ più
gonfia e rossa. Sembra quasi una maschera di plastica». All’improvviso
il generale urla «Basta! Via! Via questa maschera che porto da sempre!
Voglio morire con la mia vera faccia» e se la strappa dal volto,
mostrando sotto «un altro volto più giovane, più simpatico, più virile».
Un omino calvo applaude: «Bravo Garibaldi!! Bravo! Hai fatto
benissimo! Evviva!!». Nella vignetta figura anche «la solita Betti»,
l’assistente del regista Liliana Betti, citata con il nome proprio nel testo
che affianca lo schizzo. A parte la «premonizione» di un effetto
spettacolare sulla doppia identità divenuto ricorrente a Hollywood
almeno a partire da Face/Off di John Woo (1997), il giubilo per la catarsi
garibaldina dice tutto il desiderio felliniano di non aderire al «copione»
che la vita può importi, per quanto eroico sia. La realtà e il sogno per
Fellini hanno il tratto giocoso del fumetto e della parodia che esaltano
una caratteristica o un dettaglio del personaggio, rivelandone la sua
natura autentica di là dalle convenzioni sociali e dalla percezione diffusa,
foss’anche Garibaldi!
Del resto, questa propensione all’ilarità è contenuta nell’aggettivo
«felliniano», che, secondo il vocabolario Zingarelli, «ricorda l’atmosfera
onirica, le situazioni o i personaggi grotteschi o caricaturali dei film di
Fellini», donde derivano l’avverbio «fellinianamente» e il neologismo
fellinesque coniato da Roberto Benigni in un’intervista nel 1999 e
puntualmente registrato nei repertori linguistici. Scherzava Federico:
«Mio babbo voleva che facessi l’avvocato e mia mamma voleva che
facessi il dottore, ma io ho fatto l’aggettivo: il felliniano». Nel febbraio
del 1993, pochi mesi prima di morire e alla vigilia della cerimonia di Los
Angeles in cui avrebbe ritirato il premio Oscar alla carriera, Fellini
confida all’amico giornalista Vincenzo Mollica:
197
Se dovessi scrivere delle battute per un attore chiamato
a interpretare la parte di un regista premiato con
l’Oscar, probabilmente me la caverei abbastanza bene.
Ma il fatto che sono proprio io coinvolto in questa
vicenda mi rende balbettante e insicuro. Inoltre, devi
essere: spiritoso, intelligente, grato, appassionato,
elegantemente distaccato e anche felliniano.
Quest’ultimo è il ruolo più difficile, perché nonostante
sia lusingato di essere diventato anche un aggettivo,
non so cosa voglia dire.
Un aggettivo che rischia di diradare l’opera dell’artista,
ridimensionandola sul geniale caricaturista intento a spilluzzicare il
mondo intorno a sé. «La natura non mente, ognuno ha la faccia che si
merita» è uno dei motti di Fellini, perfetto per i volti e i caratteri della
commedia umana da cui attingere ispirazione fin dalla scelta degli attori
e delle comparse. A proposito di comparse, vanno almeno ricordati i
cinque fratelli Spoletini, trasteverini doc, che dal dopoguerra in avanti
hanno cercato «le facce giuste» per il cinema italiano o per i film
americani girati a Roma. In particolare, Antonio Spoletini era
legatissimo a Federico, come testimonia il documentario Nessun nome
nei titoli di coda di Simone Amendola (2019), in cui una vita è detta in
una battuta: «Sono più vecchio di Cinecittà. Siamo tutti e due del ’37, ma
lei è di aprile e io sono di marzo».
Nel «fatale» 1937 Fellini sta frequentando il liceo classico Giulio
Cesare di Rimini e fra i banchi sboccia il suo talento per il ritratto
canzonatorio dei professori e dei compagni di classe, che gli frutterà i
primi piccoli guadagni allorché il gestore del cinema Fulgor, oggi fra le
strutture partecipi del sistema museale riminese intitolato al Nostro, lo
ingaggia per abbozzare i profili dei divi dell’epoca da esporre nelle
vetrine per attirare il pubblico: Jean Gabin, Katharine Hepburn, la
scandalosa Doris Duranti che qualche anno dopo si mostrerà a seno nudo
sullo schermo al pari di Clara Calamai, il Paul Muni di Scarface – Lo
198
sfregiato, Stanlio e Ollio in Italia noti all’epoca come Cric e Croc (Ollio
dal 1939 verrà doppiato con tono baritonale e buffissimo da Alberto
Sordi). Giusto nell’estate del ’37, lo stesso Sordi – diciassettenne,
coetaneo di Federico – debutta nel cast del film La principessa
Tarakanova, diretto da Mario Soldati e dal russo Fëdor Ozep alias Fëdor
Aleksandrovič Ocep, recitando la minuscola parte di un ragazzo condotto
al patibolo (qualche mese prima aveva fatto la comparsa in Il feroce
Saladino di Mario Bonnard, nei panni di un… leone). In quell’estate
Federico dà vita alla bottega Febo con l’amico pittore Demos Bonini che
propone caricature dei villeggianti; poi nel 1938 comincia a disegnare
vignette su «La Domenica del Corriere», da affezionato lettore-autore
della rubrica epistolare Cartoline dal pubblico. Ma la predisposizione di
Fellini verso il mosaico carnascialesco non è solo un gergolo goliardico
che, una volta a Roma, gli farà riconoscere in Sordi uno dei primi
compagni d’avventura. Il fumetto è una chiave di traduzione e lettura del
mondo onirico, che continuerà ad appassionarlo per tutta la vita. A
ispirare Federico è il ritorno all’età del «vitellino», dello scugnizzo
riminese che nelle stringhe a colori allude a un’invincibile vitalità.
Tornare bambino e restarlo per sempre? Suvvia, sarà pur possibile, in
modo che la perdita insita nel crescere e i difetti, i peccati, i disastri della
vita adulta siano quanto meno esorcizzati.
Scrive Tullio Kezich:
Per tutta la vita Federico ha anelato al sonno e al
sogno, considerato un sollievo, uno spazio aperto della
mente, un progetto libertario. Qualcosa che da un certo
momento diventa difficile, una consolazione sempre
più rara nell’aumentare di una forma progressiva di
impotenza psicologica. Nell’ultimo Fellini avviene una
fatale convergenza fra pubblico e privato. Il sistema
cinema non gli produce più i film, il suo fisico
indebolito ha smesso di servirgli il sonno che permette
di sognare […] Nel tempo Fellini perde colpi: il suo
brio si smorza, l’umorismo senza mai scomparire si fa
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più intermittente. Aumentano l’indecisione nelle scelte,
i tratti superstiziosi, il fatalismo, una perenne
scontentezza di ciò che lo circonda e la conseguente
rassegnazione.
La deriva malinconica coincide con la fine dell’abitudine di Fellini di
trascrivere e disegnare i sogni nel Libro, che «si chiude» nel 1982, e ha
dei riflessi evidenti sul grande schermo. Un film di certo senile, sebbene
il regista abbia soltanto 63 anni, è E la nave va (1983). Susciterà una
ridda di ipotesi sulla metafora del rinoceronte nella stiva, tra cui le più
acute restano quella di Giovanni Festa che accosta l’animale ad Alien di
Ridley Scott (1979) e l’interpretazione del semiologo Paolo Fabbri, il
quale ricorda
l’enorme figura femminile che infesta i sogni del
protagonista nelle Tentazioni del dottor Antonio:
«Bevete più latte, il latte fa bene, il latte conviene a
tutte le età». Figura complessa, angelo e demone, come
la Saraghina, che ha il seno materno e la faccia da
drago. Anche il nostro pachiderma è ambivalente.
Ma chissà che Fellini non sia stato semplicemente impressionato dal
meraviglioso Rinoceronte di Pietro Longhi (1751), un pittore
«goldoniano» per ironia e attenzione alla vita quotidiana della Venezia
settecentesca, custodito nel museo Ca’ Rezzonico. E la nave va comincia
a bordo del transatlantico Gloria N., deliberatamente artefatto nello
sfarzo scenografico di Dante Ferretti: è una scia funerea del Rex di
Amarcord che sta trasportando le ceneri di una famosa cantante d’opera
da Napoli al largo dell’isoletta di Erimo, nel mar Egeo. Fra i passeggeri
il giornalista Orlando (Freddie Jones) ha il sufficiente distacco per
descrivere un mondo al crepuscolo – siamo nel luglio del 1914, quando
già incombe la Prima guerra mondiale –, e infine per rassegnarsi alla
condizione di naufrago. Difatti nel corso d’una caotica battaglia navale
scoppiata quasi per caso vanno a picco sia la Gloria N. sia la corazzata
austroungarica che l’ha cannoneggiata per intimare al suo capitano la
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consegna di un gruppetto di profughi serbi. Orlando su una scialuppa
rema verso chissà dove e con lui a bordo c’è il rinoceronte che appuzza
la stiva, il cui latte – «Non lo sapevate? È ottimo», dice rivolgendosi al
pubblico – gli consente di sopravvivere in mezzo al mare. Intanto, un
movimento di macchina all’indietro svela il set, scopre il gioco,
sottolinea la finzione manifesta nelle immagini cinematografiche, in
precedenza proiettate da un solitario ammiratore della cantante mentre
l’acqua invade le cabine e i grandi ambienti comuni. Declinazione
tragica del festoso elogio del cinema di La città delle donne (1980) in cui
Snaporaz-Mastroianni rievoca i film visti con una platea di ragazzini
sotto un gigantesco lenzuolo, una vela ondeggiante di emozioni rispetto
ai volti mitici e caricaturali, appunto, di Greta Garbo e Marlene Dietrich.
E la nave va è insomma un Titanic felliniano con la principessa cieca che
tuttavia «vede» la gamma dei colori attraverso la musica, interpretata
dalla grande coreografa tedesca Pina Bausch. Sarà lei a intonare una
nenia con riferimenti all’infanzia per rincuorare il fratello granduca
(Fiorenzo Serra) quando il disastro è imminente. «Un film tutto posto
sotto il segno del lutto, ma sereno e come dolcemente distaccato»,
scriverà Morando Morandini. Ma già in 8 ½ la crisi emotiva del
protagonista Guido si aggrava dopo un sogno edipico di sconcertante
nitore sui genitori scomparsi: il papà si congeda entrando in una fossa
nella nuda terra, la mamma lo bacia e si trasforma in sua moglie Luisa.
Checché se ne dica, Fellini non è mai stato «felliniano» nel senso di
un’allegra semplificazione esistenziale o di un’erotizzazione grottesca
della vita quotidiana. Anzi, egli di fondo avrebbe un temperamento
malinconico se non fosse mitigato dalla disponibilità a sognare ad occhi
chiusi spalancati (Eyes Wide Shut, per dirla con Kubrick) e dalla
brulicante passione per il disegno. Quest’ultima è coltivata persino al
ristorante sui tovaglioli scarabocchiati di ritrattini e vignette per far
sorridere i commensali ai tavoli della Cesarina di via Piemonte o di Al
201
59 dalle parti di piazza del Popolo (entrambi di tipica cucina emiliana) e
del Fico Vecchio di Grottaferrata, prediletto quando l’autore sta
lavorando a Cinecittà. L’interesse per disegni e fumetti non verrà mai
meno, come provano le tavole di Topor realizzate per il Casanova e gli
incontri del regista con Charles Schulz e Milo Manara richiamati da un
illuminante collage di interviste, dialoghi, appunti e abbozzi inediti
curato da Vincenzo Mollica. Federico amava valorizzare giovani talenti
come Andrea De Carlo, Susanna Tamaro e Sergio Rubini, talora
chiamandoli al telefono nelle prime ore del mattino (dormiva poco). A
un certo punto nel suo radar di Gran Curioso entra Andrea Pazienza detto
«Paz», protagonista emblematico della rivolta nel movimento del
Settantasette a Bologna, autore di fumetti con personaggi libertini
anarchici lisergici chiamati Pentothal, Zanardi e Pompeo, scomparso
appena trentaduenne nel 1988. Pazienza firma la locandina di La città
delle donne di Fellini: il primissimo piano di una fanciulla dalla
memorabile chioma medusea, simbolo dell’ennesima incursione e
sublimazione onirica nelle difficoltà o forse nell’impossibilità di un
rapporto felice con l’altro sesso. Protagonista del film è appunto l’alter
ego felliniano Snaporaz-Mastroianni, sedotto e irretito in un vagone
ferroviario da una bella sconosciuta (Bernice Stegers) che lo conduce in
una specie di castello o Grand Hotel affollato di presenze e di ritualità
femminili allegre, combattive e radicalmente ostili al Maschio. Un harem
di segno diverso rispetto a 8 ½: lì il protagonista vagheggiava di far
schioccare la frusta, qui viene sottoposto a interrogatori da ragazze col
volto mascherato dal passamontagna come se fossero delle brigatiste
rosse! Così, la curiosità del vecchio Snaporaz lascia presto il posto alla
paura di non riuscire a sottrarsi a un sortilegio che oscilla fra le grazie di
una formosa e ambigua soubrette ventenne (Donatella Damiani) e il
tentativo di amplesso cui lo sottopone un’orrida lavorante. L’incontro
con quest’ultima avviene nei sotterranei della villa del dottor Santino
202
Katzone (Ettore Manni), il fallocrate assediato dalle baccanti ed ex
compagno di classe di Snaporaz.
Nella festa organizzata da Katzone c’è anche la moglie di Snaporaz
(l’interpreta la cantante franco-polacca Anna Prucnal) che gli rinfaccia
tutte le inadeguatezze coniugali, la viltà, la mancanza di libido,
l’indifferenza, l’incapacità di dialogare. Che fare? Lui crede di trovare
una via di fuga nel sogno all’interno del sogno, nel passato favolistico di
sé bambino intento a spiare le gambe della donna di servizio mentre
stira, ovvero nella sempiterna clownerie del circo e del cinema,
sull’ottovolante della fantasia che infine prende il volo su una gigantesca
mongolfiera dalle fattezze dell’agognata soubrettina. La stessa che spara
sul… pallone gonfiato facendolo precipitare e provocando il risveglio di
Snaporaz nella carrozza ferroviaria, dove ora c’è la moglie e, poco prima
che il treno entri in una galleria, sopraggiunge la seduttrice del prologo:
entrambe gli sorridono, sottilmente beffarde. Sorride anche lui,
provvisoriamente «salvo». Un sogno.
E un sogno o un incubo avrebbe dovuto essere Il viaggio di G.
Mastorna detto Fernet, il soggetto «maledetto» risalente a metà anni
Sessanta e alla cui sceneggiatura Fellini lavorò con lo scrittore Dino
Buzzati, con il regista Brunello Rondi, amico tra i più cari di Federico, e
con il giornalista televisivo Alfredo Pigna, in seguito a lungo conduttore
di La domenica sportiva. Il film, mai realizzato nonostante i provini
documentati in un volume fotografico di Tazio Secchiaroli, è una «Dolce
morte» dal sapore metafisico tra Pirandello e Kafka, in grado di nutrire le
successive visioni di Fellini da Toby Dammit, con il capo mozzato del
divo Terence Stamp raccolto da una bambina come se fosse una palla (il
Sessantotto perde la testa…), fino a E la nave va, come scrive Aldo
Tassone, tra i massimi esperti del cinema di Fellini. Il regista concederà a
Milo Manara di pubblicare una versione a fumetti del Mastorna, il cui
protagonista ha le sembianze di Paolo Villaggio, a differenza dell’idea
203
iniziale che vedeva Mastroianni nei panni del violoncellista disperso
nell’Ade innevato. Alla fine dell’album magnificamente illustrato da
Manara per un errore di stampa uscì la parola «Fine» al posto di
«Continua» e Federico, scaramantico, non volle che fossero pubblicate le
parti successive. Già, non vedrete mai il cartello «Fine» nei suoi film:
«Era tale la delusione che avevo da ragazzo quando veniva fuori questa
parola Fine, che ho giurato a me stesso, se avessi fatto film, di non
scriverla in fondo ad un film». Fellini fine mai s’intitola un commovente
documentario che nel 2019 gli ha dedicato il regista Eugenio Cappuccio,
ex giovane assistente e amico di famiglia di Federico sin da piccolo
perché sua madre e Maddalena Fellini si frequentavano in quel di
Rimini. Lo stesso Manara aveva elaborato qualche tempo prima del
Mastorna un altro copione felliniano non giunto fino al ciak: è Viaggio a
Tulum, ispirato alle atmosfere sciamaniche dello scrittore peruviano e
guru della controcultura Carlos Castaneda. La storia è frutto di una
misteriosa scorribanda di Fellini dalla California al Messico in
compagnia di De Carlo, il quale ne scriverà nel romanzo Yucatan (1986),
suscitando il disappunto del maestro.
I due lavori attestano un’amicizia di Manara con Fellini sbocciata nei
primi anni Ottanta sotto il segno dell’eros e del perenne gioco – Il gioco
s’intitola una famosa serie erotica del fumettista – con la Venere di turno
o di Milo nel senso di Sandrocchia. Il Riminese riconosce in Manara la
stessa febbre per il fantastico e l’onirico. Oltretutto, gli chiederà di
dipingere le locandine di Intervista (1987) e La voce della luna (1990).
Dice Fellini:
Pensiamo che il bambino sia un grande errore che ha
sempre bisogno di essere corretto. E invece abbiamo
proprio a che fare con un essere un po’ strano,
insolito… che è ancora consapevole di cose con le
quali noi abbiamo perso il contatto, e che conosce cose
che noi abbiamo dimenticato, forse cancellate per
sempre dalla nostra memoria.
204
Cose che rivivono solo in sogno… Ma sarà poi vero? Wanda Cavalli
(Brunella Bovo), la sposina in viaggio di nozze a Roma che fugge dal
marito (Leopoldo Trieste) per conoscere il bellimbusto Fernando Rivoli
(Alberto Sordi) alias «lo sceicco bianco», a un certo punto chiama in
hotel per dare finalmente sue notizie e, in lacrime, si confessa: «La vera
vita è quella del sogno. Ma a volte il sogno è un baratro fatale». Il
portiere d’albergo indolente le risponde: «Baratro?… B come Bologna?
Vuole ripetere?».
205
T
206
Teatro 5 – Cinecittà
Che strano chiamarsi Federico, ovvero c’eravamo tanto divertiti.
L’ultimo film di Ettore Scola, scomparso il 19 gennaio 2016, è un
omaggio a Fellini presentato alla Mostra di Venezia nel 2013. Di scena
l’amarcord di un’amicizia tra due provinciali a Cinecittà – Scola era nato
nel 1931 a Trevico nella Campania irpina – sotto il segno dell’autoironia,
dei vagabondaggi notturni, di un disincanto non privo di tenerezza.
Sergio Rubini, già interprete del giovane Federico nell’autobiografia
felliniana Intervista (1987), nel film di Scola è un madonnaro che ha
appena disegnato per terra un san Nicola di Bari, «nero, anzi marrone»,
del quale è scontento perché non riesce a rendere bene le mani nei
dipinti: «Solo Caravaggio e Michelangelo sanno disegnare le mani». Il
madonnaro accetta un passaggio da Scola e Fellini, li riconosce e –
sorseggiando vino da un fiasco – parla con loro del primato della pittura
rispetto al cinema, dell’ispirazione e dei segreti dell’arte. Rubini venne
scelto cabalisticamente per il ruolo di Federico in Intervista anche perché
ha lo stesso cognome del protagonista di I vitelloni, Moraldo Rubini, e di
La dolce vita, Marcello Rubini. E, a proposito di «pittura», quando in
Intervista Rubini mette piede per la prima volta nel Teatro 5 di Cinecittà
assiste alla scenetta di due imbianchini che, sospesi sui ponteggi, stanno
affrescando il cielo azzurro su una grande parete scenografica. Il
laconico dialogo tra i due riportato sulla pagina non potrebbe mai
renderne il tono che è tutt’uno con il cinismo e il fascino di Roma e di
Cinecittà, all’insegna di un ripetuto Vattela a pija… D’altronde, come
dice Fellini all’amico Simenon nel 1977, «a Roma gli operai del cinema
sono i discendenti diretti degli uomini che andavano al circo a vedere i
cristiani sbranati dai leoni».
207
Che strano chiamarsi Federico inizia con i versi del poeta spagnolo
Federico García Lorca:
Vengono le mie cose essenziali.
Sono ritornelli di ritornelli.
Fra i giunchi e la sera bassa,
che strano chiamarsi Federico!
Il film si sfoglia come un album dei ricordi, una mescolanza
immaginifica secondo la formula felliniana della raccolta di pensieri,
visioni, aneddoti, vincoli, sodalizi, amori (sebbene per pudore non vi sia
che un accenno a Giulietta Masina). Federico era un fratello maggiore
per Ettore: si riconobbero grazie alla comune passione per le vignette, le
storielle e quindi per i sogni in celluloide. Entrambi muovono i primi
passi, come il film racconta, nella redazione della rivista umoristica
«Marc’Aurelio». Il prosieguo li mostra già affermati e quindi anziani,
tuttavia mai privi di curiosità quando incontrano alcuni dei personaggi
della filmografia felliniana, per esempio la prostituta di La dolce vita.
Scola ricostruisce alcune tappe della biografia felliniana nel Teatro 5 di
Cinecittà. «Un reclusorio, un rifugio antiatomico» secondo Federico, che
elegge a suo regno onirico lo studio più grande d’Europa, 3.000 metri
quadri, all’epoca dotato di una piscina nascosta sotto il pavimento. Qui
Fellini gira molti dei suoi film e si ricava addirittura un
microappartamento «segreto» nel sottotetto, con una brandina per
riposare e il fornello per improvvisare una spaghettata con
l’organizzatore generale Pietro Notarianni, amico e confidente, o con
l’assistente personale Fiammetta Profili. Notarianni era comunista,
cugino di Pietro Ingrao (a sua volta diplomato in Regia al Centro
Sperimentale nel 1937), da sempre vicino a Luchino Visconti e a
Michelangelo Antonioni, prima di diventare l’insostituibile fiduciario di
Federico, che, beffardamente, in Intervista gli fa recitare un ruolo da
gerarca fascista in stivali e orbace. Al marxista Scola riuscirà il prodigio
di commediare la lotta di classe in C’eravamo tanto amati (1974),
208
struggente elegia del trasformismo, in cui fra l’altro Fellini compare nel
ruolo di sé stesso sul set di La dolce vita, alla fontana di Trevi. Nel
Teatro 5 il Nostro concedeva interviste con la sua vocina, spesso
riluttanti o menzognere su questo o quell’argomento, o sottoponeva a
provini esilaranti e un po’ crudeli gli amici Alberto Sordi, Vittorio
Gassman, Ugo Tognazzi, Marcello Mastroianni quand’invece aveva già
scelto Donald Sutherland per il ruolo di Casanova (Mastroianni un po’ se
la prese e avrebbe interpretato in seguito il Veneziano in Il mondo nuovo
dello stesso Scola).
Nel Teatro 5 Fellini può essere quel che sempre fu: un sempiterno
Pinocchio. Ed è davvero degno di Collodi il finale di Che strano
chiamarsi Federico: durante l’estremo saluto che i romani tributarono a
Fellini sfilando per tre giorni davanti al feretro, il morto rivive e scappa,
inseguito da due carabinieri in alta uniforme fra le scenografie di
Cinecittà. Bisognerebbe percorrere a piedi almeno il tratto finale prima
di Cinecittà, il cui indirizzo è via Tuscolana 1055, non lontano dal
Centro Sperimentale di Cinematografia, al civico 1520. Perché soltanto
camminando e guardandosi intorno si riesce a intuire il viaggio che un
tempo s’intraprendeva verso questi luoghi «fuori porta». I volumi
architettonici di stampo modernista progettati su mandato del duce da
Gino Peressutti (Cinecittà, 1937) e da Antonio Valente (Centro
Sperimentale, 1940) instaurano una paradossale relazione con le aree
periurbane verso i Castelli romani, all’insegna di una dimensione
atemporale, ai confini della realtà o del reality… Infatti oggi Cinecittà è
in parte «colonizzata» dagli show televisivi realizzati negli studi di Quo
vadis?, Ben-Hur e Cleopatra. Correvano i tempi della fastosa
«Hollywood sul Tevere» di Vacanze romane di William Wyler (1953), i
cui interni furono girati in un palazzo di via Margutta 51, a pochi passi
dal numero 110 dove una targa ricorda la casa di Fellini e della Masina,
venduta poco dopo la morte di Giulietta. Da qualche anno è sorto un
209
parco divertimenti chiamato «Cinecittà World», oltre Ciampino, lungo la
statale Pontina sui terreni dove c’era la Dinocittà di Dino De Laurentiis,
che Fellini scelse per ambientarvi La voce della luna. Però si va
perdendo la memoria delle generazioni di comparse che si tramandavano
aneddoti prendendo il cappuccino al bar vestiti da centurione o da
schiava dell’antica Roma. I turisti associano Fellini a via Veneto o alla
fontana di Trevi, giusto. Ma il suo perenne carnevale senza quaresima
era Cinecittà, in particolare il Teatro 5 andato a fuoco nel 2007 e nel
2012, per fortuna con danni non gravi, dove Paolo Sorrentino ha
ricostruito le segrete stanze vaticane e la Cappella Sistina per le serie Tv
The Young Pope (2016) e The New Pope (2020). Grazie a Fellini, il
cinematografo si rivela un mezzo espressivo prezioso perché disarmato,
scompaginato, anarchico in dispetto alla definizione mussoliniana –
mutuata da Lenin! – di «arma più forte», che campeggiava su un muro
della Cinecittà concepita dal fascismo per centralizzare il controllo del
regime sulla propaganda, strappando a Torino lo storico primato nella
produzione cinematografica. Quella propaggine urbanistica capitolina in
fondo alla Tuscolana avrebbe stregato anche Pier Paolo Pasolini:
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.
Giro per la Tuscolana come un pazzo,
per l’Appia come un cane senza padrone.
O guardo i crepuscoli, le mattine
su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,
come i primi atti della Dopostoria,
cui io assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta…
210
D’altronde, tra il 1944 e il 1950, Cinecittà è stata un campo profughi
per gli sfollati della capitale, gli esuli giuliano-dalmati e i reduci dei
lager nazisti, che trovano alloggio nel dormitorio del Teatro 5, come
racconta il cortometraggio Israel che visse a Cinecittà (2019).
Cinecittà è un recinto di assenze metafisiche e di scenografie
sopravvissute all’effimero delle riprese, è una sequela di rovine e di
simulacri, che possono evocare le pagine di Walter Benjamin e di Jean
Baudrillard sulle macerie del Novecento angelico e terribile. Non a caso,
Fellini ricostruisce qui persino la Venezia di Casanova, iscrivendo in tal
modo sotto il segno della simulazione assoluta la virilità del
protagonista: deliberatamente scenografico è l’isolotto del primo
amplesso con la monaca allegra; artificiosi appaiono la laguna, le
procelle, gli alberi, le calli e i campielli della Serenissima settecentesca.
Per non parlare della gigantesca polena con il volto di donna, la
«Venusia» (Venezia), realizzata da Giantito Burchiellaro per le
scenografie di Danilo Donati (Oscar per i costumi nel 1977). Per anni
dopo le riprese la Venusia continuò a «galleggiare» in un angolo di
Cinecittà, tenace persistenza felliniana, e oggi fa bella mostra di sé al
centro di un prato all’ingresso. La lavorazione di Intervista, racconta il
fidato Gianfranco Angelucci, iniziò in piena estate,
giacché Fellini detestava l’idea delle vacanze, e nella
notte lungo i viali di Cinecittà si creavano meravigliosi
bivacchi, arrivavano amici e conoscenti con la
prospettiva di godersi il venticello e di assistere in
diretta, da privilegiati, alla nuova creazione.
Il Teatro 5 è per Fellini il teatrino delle marionette dove mettere in
scena l’infanzia, l’eros, il circo dell’esistenza, e misurarsi con la finitezza
dell’essere al mondo. Perciò, come trascrive nel Libro dei sogni,
l’annuncio onirico della morte sopraggiunge con l’allontanarsi
involontario da Cinecittà.
211
Ho vissuto a Cinecittà e continuo a viverci perché è la
casa del mio lavoro, è il posto dove faccio i miei film
che fra preparazione, riprese, montaggio, doppiaggio e
missaggio durano l’un per l’altro circa un anno, che io
passo tutto a Cinecittà uscendone solo la notte per
andare a letto… La prima volta che ci sono arrivato in
tram, un tramvetto azzurro che partiva dalla stazione
attraversando chilometri e chilometri di campagna,
costellata da rovine dell’acquedotto romano, alla vista
del lungo muro di cinta che racchiudeva tutti quei
casermoni rossastri, rimasi un po’ deluso…
Il tramvetto azzurro… Sembra il titolo di una favola. Nel
vezzeggiativo, un universo. Il viaggio per diventare adulto – o «grande»
– è rievocato sotto il segno della piccolezza e della favola, istoriato di un
azzurro marino e leggendario, qualunque fosse davvero il colore del
veicolo. È un tragitto deliberatamente regressivo, il suo, verso una Roma
non più Roma, insediamento extra moenia nel quale il diciannovenne
Federico mette piede all’inizio del 1939. Fellini lo ricostruisce appunto
in Intervista, laddove il suo alter ego da giovane, il cronista alle prime
armi Sergio Rubini, e l’aspirante attrice Antonella Ponziani, a bordo del
mitico tramvetto costeggiano delle cascate, vengono spiati dagli indiani
d’America sulle alture delle vestigia lungo l’Appia antica, incrociano gli
elefanti… Ciak, si sogna.
212
U
213
Urbe
Oltre un varco appena aperto, in una camera stagna si palesano dei
magnifici affreschi, che subito svaniscono al contatto con l’aria, nello
stupore impotente degli studiosi-esploratori. È una sequenza di Roma
(1972) di Federico Fellini, dedicata alla scoperta casuale di vestigia
dell’età imperiale durante gli scavi per la costruzione della
metropolitana, un’attività perennemente in corso nella capitale fino ai
giorni nostri. L’archeologia «felliniana» è una metafora della
disparizione che riguarda la storia, l’arte e la bellezza, non meno dei
sentimenti. In 8 ½ i fantasmi dei genitori parlano al protagonista Guido
(Marcello Mastroianni) aggirandosi fra i resti dell’acquedotto Claudio
nel parco delle rovine fra l’Appia e la Tuscolana, ma della rivelazione
presto non resta nulla: solo le pietre del tempo, mute. Contro quelle
stesse millenarie pietre si coltiva l’arte di battere la testa in La grande
bellezza (2013) di Paolo Sorrentino, film sapido di maschere ed episodi à
la manière de Fellini, ambasciatore nel mondo del masochismo nirvanico
di cui Jep Gambardella/Toni Servillo è un osservatore, nonché un
elegante interprete con tanto d’abito di lino bianco e l’immancabile
Borsalino. L’incipit di L’orologio del torinese Carlo Levi, il grande
romanzo sul dopoguerra italiano (1950), rinnova l’aura della città eterna:
La notte, a Roma, par di sentire ruggire leoni. Un
mormorio indistinto è il respiro della città, fra le sue
cupole nere e i colli lontani, nell’ombra qua e là
scintillante; e a tratti un rumore roco di sirene, come se
il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per
chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e
selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza,
il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case.
214
Selvatica Roma, anzi «l’unica città mediorientale senza un quartiere
europeo», scherza Ennio Flaiano, ch’era abruzzese di Pescara, un altro
provinciale adriatico, come Fellini soggiogato dalla sensuale capitale. Il
diciannovenne Federico ne è preda fin da quando vi mette piede – non da
turista – nel gennaio del 1939. Il giovanotto lascia Rimini e il mare dove
non si bagnava che di rado («Federico non sapeva nuotare», raccontò
Luigi «Titta» Benzi). Lui e la sorellina Maddalena si trasferiscono a
Roma con la madre Ida Barbiani, romana di nascita, andata in sposa al
commerciante romagnolo Urbano Fellini, il quale rimane a casa con
l’altro figlio, Riccardo. Siamo alla vigilia della guerra e Fellini,
firmandosi Fellas, da un po’ pubblica le sue cose sul settimanale
fiorentino fascista «420» edito da Nerbini.
Nell’Urbe comincia la collaborazione – via via più stabile – con
alcune testate satiriche dal largo seguito: «Il travaso delle idee», già
orfano del suo primo direttore Filiberto Scarpelli (futurista napoletano,
padre dello sceneggiatore Furio Scarpelli), e il «Marc’Aurelio –
Bisettimanale romano» fondato nel 1931 da due giornalisti del
fascistissimo «Popolo d’Italia», Oberdan Cotone e Vito De Bellis. Sul
«Marc’Aurelio» il 18 settembre 1940 Fellini disegna una vignetta che
rivela un mondo: «Io faccio il regista», dice un uomo e un altro ribatte:
«Anch’io non so far niente». In redazione bazzicano personalità destinate
a diventare famose sul grande schermo e qualcuno già popolare in teatro:
Steno, Totò, Cesare Zavattini, Agenore «Age» Incrocci, che con Furio
Scarpelli darà vita alla premiata ditta della commedia all’italiana, e in
seguito il giovane Ettore Scola.
Il Nostro intanto si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, senza
sostenere neppure un esame… La sua Sapienza si raffina piuttosto nel
retrobottega dell’avanspettacolo che sta cedendo il posto alla rivista e al
primato della radio, mentre stringe legami di amicizia e lavoro con Aldo
Fabrizi, Erminio Macario e Marcello Marchesi, cominciando a scrivere
215
gag e brevi storie. Negli studi dell’Eiar conosce Giulietta Masina e presto
la sposa. Durante la guerra Fellini collabora ad Avanti c’è posto e Campo
de’ Fiori di Mario Bonnard e a Chi l’ha visto? di Goffredo Alessandrini,
e all’indomani della Liberazione è fra i protagonisti del neorealismo, il
carattere poetico della nuova Italia, sceneggiando con Roberto Rossellini
Roma città aperta e Paisà, con Pietro Germi In nome della legge, Il
cammino della speranza e La città si difende, con Alberto Lattuada Il
delitto di Giovanni Episcopo, Senza pietà e Il mulino del Po. Con
Rossellini fa anche un’esperienza da interprete nell’episodio Il miracolo
del dittico L’amore (1948). Di quel film si tende a ricordare il primo
episodio, Una voce umana, dall’omonimo atto unico teatrale di Jean
Cocteau, per il virtuosismo del monologo telefonico di Anna Magnani.
Fellini firma il soggetto di Il miracolo tratto da un suo racconto originale
e a Maiori nella costiera amalfitana è impegnato da aiuto regista e nel
ruolo di un barbuto vagabondo biondo. Questi viene scambiato per san
Giuseppe da una contadina insana di mente (la stessa Magnani) che si è
fatta mettere incinta da lui e attende la nascita del bimbo come un
prodigio: sbeffeggiata da tutti nel paese, la donna partorirà da sola in una
torre campanaria.
Fellini esordisce nella regia con Luci del varietà (1951), firmato con il
più esperto e affermato Alberto Lattuada e prodotto grazie a
un’innovativa formula in cooperativa di cui sono partecipi le mogliattrici di entrambi, Giulietta Masina e Carla Del Poggio. Il film è un
insuccesso, ma rende palese sia l’autobiografismo di fondo del regista sia
la sua attenzione per gli ambienti dello spettacolo dietro le quinte: due
costanti d’ora in poi. Il fiasco al botteghino avrebbe spinto più d’uno a
lasciar perdere il ciak e a rientrare nei ranghi della scrittura, se non che
l’industriale piemontese del legno e produttore per caso Luigi Rovere
persuade Fellini a dirigere un soggetto di Michelangelo Antonioni –
Caro Ivan il titolo –, che da qualche mese nessuno vuole realizzare.
216
Sposini meridionali in viaggio di nozze nella capitale con tragicomica
incursione di lei, che si firma «bambola appassionata», nel mondo del
fotoromanzo dove viene semi-sedotta e abbandonata dallo «sceicco
bianco»; finale tra le coppie in fila a piazza San Pietro per un’udienza
papale al ritmo della «marcetta» di Nino Rota, la prima di una lunga
serie cine-musicale. Il set è un canto delle sirene per il trentaduenne
Federico, che ha il timore/furore panico di Fare un film, come intitolerà
un suo libro per Einaudi nel 1980. Mette conto riportarne una pagina:
Il primo giorno della lavorazione dello Sceicco bianco
cominciò male, proprio male. Si doveva girare in
esterni. Ero partito da Roma all’alba, salutando
Giulietta con il batticuore di chi va a sostenere un
esame. Avevo una Cinquecento e l’avevo fermata
davanti a una chiesa, ero entrato addirittura a pregare.
Nell’ombra mi era parso di intravedere un catafalco, e
mi ero lasciato prendere dalla superstizione che si
trattasse di un cattivo presagio, ma poi il catafalco non
c’era, nella chiesa non c’era nessuno, né morto né vivo.
C’ero solo io, che non mi ricordavo più nemmeno una
preghiera. Feci alcune vaghe promesse di ravvedimento
e uscii un po’ inquieto. Sulla strada di Ostia, alla
Cinquecento era scoppiata una gomma, allora quando
scoppiava una gomma bisognava cambiarla con le
proprie mani. Io comunque non me ne sentivo capace,
così stavo lì, abbastanza disperato, pensando che ero
già in ritardo per la mia prima regia. Per fortuna passò
un camionista siciliano di buon umore, e fece il cambio
lui. Arrivai a Fregene alle nove e tre quarti mentre
l’appuntamento era per le otto e mezza. Si erano
imbarcati tutti in un barcone che era a un chilometro di
distanza su un mare immenso. Mi parevano
lontanissimi, irraggiungibili. Mentre un motoscafo mi
portava verso di loro, il barbaglio del sole mi
confondeva gli occhi. Non solo erano irraggiungibili,
non li vedevo più. Mi domandavo «E ora cosa
faccio?». Non ricordavo la trama del film, non
ricordavo nulla, desideravo tagliare la corda e basta.
Dimenticare. Poi, però, di colpo tutti i dubbi mi
217
svanirono quando posai il piede sulla scala di corda. Mi
issai sul barcone. Mi intrufolai tra la troupe. Ero
curioso di vedere come sarebbe andata a finire.
Qui comincia l’avventura felliniana, perché Lo sceicco bianco
contiene in nuce una serie di temi, personaggi, situazioni, archetipi, e
addirittura il nome o l’agnizione di Cabiria, attribuito qui al personaggio
della prostituta di buon cuore Giulietta Masina. Sono parecchie, infatti,
le situazioni che ritroveremo nei film successivi di Fellini: l’arrivo in
treno di una coppia alla stazione Termini, le scene del ballo in spiaggia
con la relativa sospensione della realtà in virtù del primato onirico, il
sopraggiungere improvviso del maltempo come cambio di sequenza…
Sicché, Fellini può tornare con la sicurezza di essere un regista dai suoi
amici ai tavoli di Otello alla Concordia o della Fiaschetteria Beltramme,
immortalata da una rima sarcastica di Flaiano: «Tra una coscia di pollo /
e la cicoria / da Cesaretto aspetto la gloria». Roma, Cinema, Fellini
diventa una triade sillabata dagli stranieri in vacanza. La dolce vita sarà
identificata ambiguamente con Roma per una lunga stagione non ancora
del tutto conclusa. Nel Fellini Satyricon (1969) la Roma imperiale di
Petronio incornicia la decadenza del presente con una lettura non
benevola degli hippie, di recente rilanciata in chiave truculenta da
Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood (2019), forse il più
«felliniano» dei suoi film per la giocosa analisi delle contraddizioni della
Mecca del cinema negli anni Sessanta. «Potrei dire che gli eroi del
Satyricon, Encolpio e Ascilto, rassomigliano molto agli hippies, come
loro obbediscono unicamente al proprio corpo, cercano una nuova
dimensione nella droga, rifiutano i problemi», scrive Fellini. La
frammentarietà della narrazione di Petronio non viene rimossa, anzi, nel
film è rivendicata: un’avventura «fantascientifica nel passato» che
coincide con la disponibilità a immergersi in un sogno o un incubo
dell’antica Roma. Un viaggio visionario popolato di immagini, colori,
volti, anticipato da una messe di disegni che prefigurano icasticamente,
218
come nota Pier Marco De Santi, «una specie di contaminazione tra la
temperie delirante della fantasia e la realtà di un mondo scomparso».
Invece in Roma un ragazzo di nome Federico (Peter Gonzales) scopre
il volto prosaico e il fascino contagioso dell’Urbe – degno dei sonetti
plebei e struggenti di Giuseppe Gioachino Belli – nella pensione
popolare dove dorme avendo tra i coinquilini un cinese (con uso e abuso
di cucina orientale), durante i pranzi in trattoria all’aperto a base di
rigatoni con la pajata o spaghetti alla carbonara, nelle strade affollate di
umanità: «A Fernanda, vie’ giù», urla il fidanzato all’apice della
galanteria di cui è capace. Il film è un amarcord romano e la carrellata
della macchina da presa con cui viene reso l’arrivo del protagonista alla
stazione Termini è evocativa del passo decisivo nella biografia felliniana:
un battesimo di fuoco (o di fuco?) che non a caso è suggellato dal
manifesto di una pellicola del 1939, Grandi magazzini di Mario
Camerini, con Assia Noris e Vittorio De Sica, cui collaborarono letterati
o giornalisti di prestigio come Mario Pannunzio e Giacomo Debenedetti,
che non firmò la sceneggiatura per via delle leggi razziali antiebraiche.
Ma Roma è anche un’incursione nell’atmosfera del 1972. Ecco infatti
una sorta di apocalisse sul grande raccordo anulare di una metropoli
levantina e panciuta, arcana e per certi versi futuribile: il delirio del
traffico e delle auto incolonnate sotto la pioggia, l’astrattismo delle luci
prossime a un’immagine della pop art, gli animali trasportati su veicoli
bizzarri, l’ingorgo memore dell’incubo iniziale di 8 ½, e poi i cortei di
protesta e il contenimento sbirresco, il caos all’ombra d’un Colosseo
emblematico della città madre e mignotta che non riesce più a governare
il viavai dei suoi figli o clienti, un’eccentrica sfilata di moda
ecclesiastica, la Festa de’ Noantri a Trastevere, e i centauri rombanti
nella notte… C’è un’eco della proustiana Recherche del tempo perduto,
però le madeleines sono «maritozzi spesso con la panna. Indigesti
magari, ma che fanno gola, e attraggono lo spettatore con un tanto di
219
morboso» (Goffredo Fofi). Mentre gli Alleati bombardano il quartiere di
San Lorenzo il 19 luglio 1943 – un evento cruciale nella memoria
popolare – i personaggi del film si ritrovano nel rifugio in pigiama e ne
riaffiorano come sagome stordite, terrorizzate, fuggitive, evanescenti;
ombre quasi espressionistiche con un che dei lemuri di Murnau o Lang,
che si sfiorano nel tunnel. Il genius loci è l’illusione, afferma lo scrittore
Gore Vidal, in libera uscita dalla sua magnifica villa «La Rondinaia» di
Ravello per sunteggiare lo spirito romano:
Qua c’è il cinema, la Chiesa, il governo; la fabbrica
delle illusioni; il mondo si avvicina alla fine perché è
troppo popolato, ci sono troppe macchine, c’è
l’inquinamento. Quale posto migliore, perciò, di questa
città morta tante volte e tante volte rinata, per aspettare
la fine e per vedere se tutto finisce o no.
L’epilogo di Roma è affidato al disincanto di Anna Magnani, nella sua
ultima apparizione (muore il 26 settembre 1973 a 65 anni). Fuori campo
la voce di Fellini scandisce: «Anna Magnani è un’attrice romana,
simbolo stesso di Roma, vista come lupa e vestale, aristocratica e
stracciona, tetra, buffonesca, potrei continuare all’infinito». Lei si gira e
con un accenno di sorriso replica: «A Federi’, vattene a dormi’». Lui
insiste: «Ti posso fare una domanda?». «No, non mi fido. Buonanotte».
Già, buonanotte Roma, i leoni ruggiscono per te.
220
V
221
Vitelloni
«Lavoratoriii…». È lo sberleffo di Alberto Sordi, imbacuccato a
foggia di bebè con una sciarpa in testa contro il freddo padano, sul sedile
posteriore di una decappottabile. A bordo con lui ci sono Leopoldo
Trieste e Riccardo Fellini, nel film I vitelloni (1953), il più personale e
speranzoso del giovane regista riminese. Spavaldo e vile, infingardo e
subito pentito, l’attore che tutti avrebbero appellato Albertone è qui un
Albertino che coltiva l’eterna incoscienza-adolescenza di una vita senza
sforzo, distinguendosi da quei «lavoratori della mazza» («malta» o
«massa», secondo altre versioni) che stanno faticando sul ciglio della
strada. Rivolge loro il gestaccio dell’ombrello e va oltre, verso la
prossima beffa, chissà. Però l’automobile si blocca dopo qualche decina
di metri, è in panne, e gli operai accorrono per vendicarsi dell’insulto. Il
cuor di leone prova a battersela nei campi, mentre l’intellettuale del
gruppo, Leopoldo, non trova autodifesa migliore che farfugliare d’essere
«socialista» quando già viene preso a pedate.
La scena è il sigillo di un carattere italiano, almeno dalle novelle
secentesche degli emiliani Adriano Banchieri e Giulio Cesare Croce, che
nel corso del tempo si è «perfezionato» allargando il divario
generazionale fra Bertoldo e Cacasenno, senza neppure la «mediazione»
di Bertoldino. Cacasenno oggi fa valere l’etimo sui social, è il cortigiano
che primeggia nel codazzo virtuale, ignaro della fatica di campare.
Nell’Italia dei poveri ma bulli, presagita da Fellini, siam tutti più o meno
spavaldi sui tasti del telefonino e inermi nella realtà. Forse si combatte
così la malinconia dell’invecchiare cui i vitelloni tentano di opporsi
scadendo nel patetico. Essi indugiano in vari modi lungo la linea
d’ombra invernale e padana di un’adolescenza perpetuata ben oltre il
222
limite naturale o consentito. La presunzione di impunibilità e il cullarsi
nell’idea di una persistente età aurea in cui tutto è possibile senza
pagarne le conseguenze, nel film attengono in primis a Fausto (Franco
Fabrizi, doppiato da Nino Manfredi). Nonostante sia diventato papà,
Fausto continua a tradire la moglie Sandra (Leonora Ruffo), infine
fuggitiva col neonato a casa del suocero, che prenderà a cinghiate il
rampollo dissoluto. Né gli viene riservato un trattamento meno
sprezzante dal titolare del negozio di arredi sacri (Carlo Romano), del
quale Fausto prova a sedurre la bella moglie Giulia (Lida Baarova,
l’attrice praghese che era stata l’amante del ministro nazista Joseph
Goebbels). Un tentativo fallimentare, ad onta delle apparenze, che inoltre
procura a Fausto il precoce licenziamento. Altre illusioni s’infrangono:
Leopoldo cerca invano di persuadere della bontà di un suo testo teatrale
un vecchio capocomico che è interessato invece a un incontro
omosessuale; una festa carnascialesca finisce in sbronza triste per
Alberto, che per di più scopre la sorella pronta a fuggire con un uomo
sposato. Soltanto il fratello di Sandra, Moraldo (Franco Interlenghi),
riuscirà finalmente ad andarsene e quando il treno in partenza sferraglia
(verso Roma?) egli ripensa ai suoi amici per i quali nulla cambia. «E
state attenti, a Roma, ad attraversare le strade…» ingiunge dal
marciapiede della stazione di Rimini la signora Rubini (Paola Borboni)
agli sposini Fausto e Sandra in partenza per il viaggio di nozze. Di Roma
in I vitelloni non c’è una sola immagine eppure l’afflato della fuga verso
la metropoli coincidente con l’«addio alla giovinezza», come lo definirà
Tullio Kezich, è ovunque nel film. E il punto di vista di Moraldo si può
senza dubbio assumere quale autobiografico da parte di Fellini, che nel
nome del protagonista rende affettuosamente omaggio al suo amico
Moraldo Rossi, veneziano a Roma e fratello dell’attrice Cosetta Greco,
in quegli anni collaboratore inseparabile, tanto che tra i progetti non
realizzati dal Nostro giace il copione di Moraldo in città, seguito ideale
di I vitelloni.
223
Alla luce della carriera di Fellini, il distacco di Moraldo è l’unico
modo per rimanere fedeli all’infanzia, per continuare a giocare, per
rinverdire lo stupore che si sarebbe altrimenti inaridito nel lento,
inesorabile rientro nei ranghi che attende al varco i vitelloni stanziali,
destinati nel migliore dei casi a diventare una banda di goliardi alla
maniera di Amici miei di Mario Monicelli (1975). La provincia non
perdona, assegnando a ciascuno un ruolo in commedia. Il giovane
Federico lo sa e preferisce il commiato subito al rimpianto futuro di ciò
che non fu osato. Perciò… A Roma, a Roma! Il «nostalgico» Fellini, a
lungo considerato il cantore di un fazzoletto di spiaggia romagnola, è in
realtà un giovane artista che nell’inurbamento intravede l’unica chance
di esprimersi.
«Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti
il sorriso». Sono gli ultimi versi del lucano Rocco Scotellaro, poeta e
sindaco contadino, morto trentenne nell’anno di I vitelloni, a sua volta
tentato dal cinema nonostante il contesto della natia Tricarico fosse
molto differente da quello riminese. Naturalmente il buon esito della
carta romana non è scontato neppure nella finzione, se ricordiamo che
dieci anni dopo il protagonista di I basilischi di Lina Wertmüller (1963),
dalla capitale torna nel Sud immobile dei lucertoloni-vitelloni che
all’azione prediligono il sogno impotente:
Parla, parla… Tanto che non partirà più tutti l’hanno
capito, e pure lui. Perché? Eh, e ci u sape! Può essere
che ad Antonio gli manca qualche cosa, o forse ci
manca a tutti noi… Oppure può essere che siamo quelli
che la razza, il clima, il luogo, la storia hanno voluto
che fossimo, come dice quel grand’uomo del Sud.
Bah…
D’altro canto, la dinamica di Moraldo presagisce il movimento che
investirà migliaia di migranti acculturati negli anni Sessanta del boom,
dal Mezzogiorno verso Roma, Milano e Torino. Per Fellini lo spirito
224
«fanciullesco» non può rimanere immobile nell’età anagrafica ma
neanche nella geografia originaria.
I vitelloni esce nelle sale il 17 settembre 1953. Meno di un mese
prima, il 19 agosto, Nanni Moretti nasce in quel di Brunico. Uno dei suoi
tormentoni diventerà «Ma che siamo, in un film di Alberto Sordi? Te lo
meriti, Alberto Sordi!», rivolto all’avventore di un bar che sta blaterando
improperi sull’Italia dove… «rossi, neri, alla fine sono tutti uguali». Il
film è Ecce bombo (1978), lo stesso di un altro dialogo proverbiale,
l’ironico «manifesto» di una generazione che rifiutava il lavoro, prima
che il lavoro rifiutasse le generazioni successive:
– Come non sai, cioè, che lavoro fai?
– Nulla di preciso.
– Be’, come campi?
– Mah, te l’ho detto: giro, vedo gente, mi muovo,
conosco, faccio delle cose.
– E l’affitto?
– Vivo con mio fratello e non lo pago.
– Be’, dico, i vestiti?
– Eh, a un amico, per esempio, che va a Londra, gli
dico di portarmi delle cose, degli abiti…
Nel paese della pernacchia, prosaico surrogato del pernacchio che per
Eduardo De Filippo vale una rivoluzione (L’oro di Napoli di Vittorio De
Sica, 1954), ce la siamo meritata la maschera di Alberto Sordi. Sì, perché
lungo quella strada lo sfregio del vitellone ai lavoratori è una pernacchia
allo specchio. Presto arriveranno gli ombrelli di Cipputi nei disegni del
geniale Altan: l’autolesionismo è made in Italy, inimitabile, non v’è
prodotto cinese in grado di simulare quel «Lavoratoriii».
225
Z
226
Zampanò
E se fosse Zampanò l’alfa e l’omega dell’immaginario felliniano? È lo
zingaro di La strada nel 1954, interpretato da Anthony Quinn (doppiato
da Arnoldo Foà) che solo un anno prima s’è aggiudicato l’Oscar come
migliore attore non protagonista di Viva Zapata! nella parte di Eufemio,
il fratello del capo rivoluzionario messicano Emiliano Zapata (Marlon
Brando), con la regia di Elia Kazan e la sceneggiatura di John Steinbeck,
e scusate se è poco. Di origini messicane, con passaporto statunitense,
Quinn si è appena trasferito in Italia per interpretare Antinoo, il più
tracotante dei Proci omerici (sarà doppiato da Mario Pisu) nell’Ulisse di
Mario Camerini, protagonista Kirk Douglas, con Silvana Mangano nella
doppia veste di Penelope e di Circe, sì da far risparmiare il marito Dino
De Laurentiis, produttore della pellicola insieme a Carlo Ponti, in
sodalizio con la leggendaria Lux Film ormai declinante, fondata a Torino
nel 1934 da Riccardo Gualino. Quest’ultimo è l’imprenditore di Biella,
magnate e grande collezionista d’arte spedito al confino da Mussolini nel
1931, che sarà anche vicepresidente della FIAT e fondatore della SNIAViscosa. È lui ad avere assunto sia Ponti sia De Laurentiis come
produttori esecutivi della Lux. Dino, in particolare, viene convocato a
Roma dal musicologo Guido Maggiorino Gatti, torinese d’adozione e
fiduciario di Gualino. A Gatti deve il primo contratto con la Lux Tullio
Pinelli, compagno di banco di Cesare Pavese e amico di Leone Ginzburg
all’ombra della Mole, e futuro sceneggiatore di alcuni capolavori
felliniani, che al momento della selezione per l’unico posto in ballo viene
preferito agli scrittori Vitaliano Brancati ed Elio Vittorini.
Nella cerchia della Lux postbellica, ancora grazie a Gatti, gravitano
anche il critico musicale Fedele d’Amico e soprattutto Nino Rota, che
227
per una ventina d’anni sarà sotto contratto con la società di Gualino.
Messisi in proprio già da un po’, Ponti e De Laurentiis nel 1954 oltre
all’Ulisse producono Attila di Piero Francisci, ancora con Quinn, e Senso
di Visconti. Federico conosce l’attore americano sul set di Donne
proibite prodotto e diretto dal verace Peppino Amato, non proprio un
esponente dell’intellighenzia. Nel cast di Donne proibite, un
melodramma sulla redenzione di alcune ex prostitute, figura Valentina
Cortese, all’epoca sposata con un altro attore americano, Richard
Basehart, che Fellini chiama per il ruolo del «Matto» in La strada,
facendolo doppiare dal livornese Stefano Sibaldi con un toscanismo di
fondo nella cadenza. La scelta di Basehart è un’amarissima delusione,
racconta Tullio Kezich, per le aspettative di Alberto Sordi che all’uopo
aveva invocato un provino con l’amico regista: «Nella sua concreta
grintosità, Alberto al limite potrebbe fare Zampanò (e in qualche modo
lo rifarà in Fortunella), ma è l’opposto esatto del Matto aereo e poetico».
Il ruolo di Gelsomina era destinato a Silvana Mangano, finché De
Laurentiis non decise di scommettere sulla Masina, consacrata così in
una dimensione tragicomica e grottesca, dolce e vagamente surreale che
le resterà addosso per tutta la vita, soprattutto dopo che La strada ebbe
vinto l’Oscar per il miglior film straniero il 27 marzo 1957, il primo
passo della marcia trionfale di Federico a Hollywood. È semplice la
storia di Gelsomina, misera ragazza di paese, venduta da una vedova per
10.000 lire al gitano Zampanò. Questi si esibisce nelle piazze in numeri
circensi da mangiafuoco e spezzacatene grazie alla capacità di gonfiare
la cassa toracica fino allo spasimo, o, ripete lui con l’enfasi
dell’imbonitore, fino al rischio di far scoppiare una vena o collassare il
nervo ottico. Tanto lei è fragile, sensibile, tenera, volubile nell’umore,
lunare nelle esplicite fattezze clownesche che – a partire dal trailer di
lancio del film – ne fanno parlare come di una versione femminile di
Charlot; quanto lui è rude, massiccio, con tratti animaleschi, terrigeno in
228
tutto, sebbene insegni a suonare la tromba alla compagna di viaggio.
Zampanò è un gigante burbero lungo le strade di un paese povero,
un’Italia «di rive sterpose e borghi assopiti nella neve o nel sole», chiosa
lo scrittore Giuseppe Marotta, che tuttavia contesta si possa scomodare
l’appellativo «poetico» per il film in un articolo su «L’Europeo»
intitolato Dio salvi Federico Fellini. Il principale di quei borghi della
Tuscia romana è Bagnoregio dove, fra piazza Cavour e la chiesa di San
Nicola e San Donato, sono ambientate le scene più importanti di La
strada, con incursioni nella frazione di Civita sospesa sui calanchi, uno
dei luoghi più vividi nell’immaginario collettivo degli ultimi lustri, a
dispetto della fama del «paese che muore».
Fra i due personaggi principali, nonostante il trasporto emotivo della
giovane donna, alla lunga non v’è connubio possibile e Gelsomina
vorrebbe andarsene, smettere di suonare tre volte il suo tamburello per
annunciare il numero di Zampanò e finalmente liberarsi di quel brutale
compagno di viaggio. Ma un altro girovago del circo, il soave
equilibrista toscano detto «il Matto», riesce a persuaderla che ogni cosa
corrisponde a un disegno celeste, per quanto enigmatico possa apparire,
persino «questo sassetto… E anche tu, anche tu servi a qualcosa con la
tu’ testa di carciofo». È così, le dice, anche per il legame con Zampanò al
quale lei deve restar vicina, dunque. Lo storico del cinema Roberto
Campari fa notare che l’apparizione del «Matto» agli occhi di «una
specie di angelo inconsciamente toccato dalla Grazia come Gelsomina»
ricorda la soluzione scelta da Fellini in Lo sceicco bianco:
Con la differenza che lui è davvero in alto, sta
camminando su una corda tesa fra due case del paese,
si esibisce nelle sere di festa e porta, sul trucco e sul
costume da clown, due candide ali. Gelsomina lo vede
come un angelo, lo mitizza come Wanda aveva
mitizzato il suo «sceicco»; ma questa volta non si
tratterà di una vuota illusione: sarà infatti proprio il
Matto a dare alla giovane infelice, nel momento della
229
sua disperazione, il senso del significato e del valore
dell’esistenza col famoso esempio del sassolino.
Gelsomina rimane, finché un giorno Zampanò viene alle mani col
«Matto» e lo uccide. Lei ne soffre al punto da rischiare di impazzire e di
lì a poco prende a pronunciare parole che, nella loro inconcludenza,
lasciano intendere la colpa di Zampanò e quindi rischiano di farlo finire
dietro le sbarre. Lo zingaro allora decide di piantare in asso la sua
compagna di strada. Tre/quattro anni dopo gli diranno che Gelsomina è
morta e Zampanò ha di colpo la rivelazione del significato di quella vita
che abbandonò a sé stessa e dell’assurdità della propria esistenza. Piange
disperatamente su una spiaggia deserta, in un finale struggente.
Il film si aggiudica il Leone d’argento della 15a Mostra internazionale
d’arte cinematografica di Venezia ex aequo con ben altre tre pellicole
parimenti non trascurabili, visto che si tratta di Fronte del porto di Elia
Kazan, I sette samurai di Akira Kurosawa e L’intendente Sansho di
Kenji Mizoguchi, mentre l’oro va al non memorabile Giulietta e Romeo
di Renato Castellani, e la Coppa Volpi di Misurata per l’interpretazione
maschile incorona il francese Jean Gabin in gara con due film (Grisbi e
Aria di Parigi). Non viene assegnata la Coppa Volpi femminile, sebbene
la meritassero pienamente sia la Masina sia Alida Valli, la contessa Livia
Serpieri di Senso di Luchino Visconti, a sua volta in concorso. E sono
ignorati dal verdetto film come La finestra sul cortile di Alfred
Hitchcock e Il fiume e la morte di Luis Buñuel. Insomma, una cappella
dopo l’altra da parte della giuria internazionale presieduta dallo scrittore
Ignazio Silone, nella quale c’erano altri quattro italiani su nove membri,
tutti letterati ed esperti di cinema: Pasquale Ojetti, Mario Gromo, Filippo
Sacchi e Piero Regnoli. La cerimonia finale della Mostra si trasforma in
un putiferio soprattutto per il mancato premio a Visconti, il conte rosso e
beniamino della cinefilia di sinistra che considera Fellini alla stregua di
un bigotto o giù di lì. La sera del 7 settembre 1954 al Lido di Venezia i
230
«compagni» in platea e il clan Visconti scatenano le proteste
all’annuncio dell’argento assegnato a La strada, che tra l’altro era stato
accolto tiepidamente alla proiezione ufficiale del giorno prima. È la
premessa di un’inimicizia quasi decennale tra Fellini, comunque
gratificato da un premio, e Visconti che invece lascerà la Laguna a mani
vuote. Anche per questo La strada non viene accolto con favore dalla
critica marxista, ma, attenzione, neppure da quella cattolica. Da una parte
fa testo Guido Aristarco che su «Cinema nuovo» il 10 novembre 1954
decreta:
Il fenomeno Fellini va ricollegato con tutto un modo di
concepire e intendere l’arte, di assumere verso di essa e
la vita un atteggiamento simile a quello della nostra
letteratura d’anteguerra, e anche in parte e per molti
versi, di quella contemporanea. In questo senso Fellini
appare come un regista anacronistico, irretito com’è in
problemi e dimensioni umane largamente superate.
Sul côté vaticano basterà ricordare che il Centro Cattolico
Cinematografico consiglia di riservare la visione al solo pubblico adulto.
Ma Federico è e rimarrà convinto di avere realizzato «un film
coraggioso», rivendicando una tantum il giudizio di un critico, il
raffinato Pietro Bianchi. Ancora trent’anni dopo, nel 1983, Fellini ne fa
menzione a Giovanni Grazzini nell’Intervista sul cinema, argomentando
con un piglio storico-sociologico per lui abbastanza inusuale:
In mezzo a questa esaltata, tumultuosa, contrastata
accoglienza, mi sembrò che il commento di Pietrino
Bianchi fosse diverso da tutti gli altri: «Che film
coraggioso!», disse, e ripensandoci, anche oggi mi
sembra che almeno in quel momento il suo giudizio
fosse il più giusto. La strada era un film che raccontava
contrasti più profondi, infelicità, nostalgie e
presentimenti del trascorrere del tempo non
puntualmente riconducibili a problematiche sociali ed
impegno politico; quindi, in piena ubriacatura
neorealistica, La strada era un film da rinnegare,
231
decadente e reazionario. Mi sembra che Bianchi avesse
scorto nel mio film il coraggio di andare
controcorrente.
Quanto a Zampanò, può ricordare il Mangiafoco di Pinocchio,
passione di una vita del Nostro. Ve n’era traccia già nel personaggio
minore del figurante beduino Oscar di Lo sceicco bianco, senza
trascurare, a proposito di beduini, che nel 1942 Fellini contribuisce a I
cavalieri del deserto (Gli ultimi tuareg), esordio dietro la macchina da
presa del divo Osvaldo Valenti in coppia con Gino Talamo, il quale però
si ammala durante le riprese in Libia. Federico vola a Tripoli nel
tentativo di dare manforte al comparto regia e – sostiene – poco dopo
torna rocambolescamente in Italia, ottenendo un passaggio su un aereo
militare tedesco diretto in Sicilia. Vero? Falso? Chissà. Certo è che il
film non fu ultimato a causa della guerra e che la sceneggiatura, tratta da
un romanzo di Emilio Salgari, porta le firme di Fellini, di Tito Silvio
Mursino (alias Vittorio Mussolini, figlio del duce) e dello stesso Valenti.
Quest’ultimo, reo di collaborazionismo con i nazisti, insieme alla
compagna Luisa Ferida sarà giustiziato dai partigiani il 30 aprile 1945 a
Milano, per ordine di Sandro Pertini (negli ultimi decenni la storiografia
e alcuni film sulla tragica vicenda hanno riabilitato in parte la Ferida).
Del film tripolino, che aveva nel cast anche Primo Carnera, restano una
dozzina di disegni fatti da Fellini raffiguranti scene del set, caricature dei
personaggi e due autoritratti, uno a dorso di un cammello e il secondo a
passeggio nel deserto.
Il y a encore un dernier moment d’émotion, quand une
trompette s’époumone dans une variation sur le thème
de Gelsomina: la note monte, monte dans le choeur,
dernier soupir d’un génie qui disparaît – et tout un
monde avec lui.
[C’è ancora un ultimo momento di emozione, quando
una tromba suona a perdifiato in una variazione sul
tema di Gelsomina: la nota sale, sale nel coro, l’ultimo
232
respiro di un genio che scompare e un intero mondo
con lui].
È Gilles Jacob, all’epoca direttore del Festival di Cannes, a restituire
la commozione del motivo musicale eseguito ai funerali di Fellini, il 2
novembre 1993 nella basilica romana di Santa Maria degli Angeli e dei
Martiri. La variazione sul tema di Gelsomina è L’improvviso dell’angelo,
dall’opera La visita meravigliosa (1970) di Nino Rota, eseguito da
Mauro Maur alla tromba e Luigi Celeghin all’organo. L’assolo di tromba
per Gelsomina, che in La strada era suonato da Nini Rosso, echeggia
qualche mese dopo a Santa Maria in Montesanto in piazza del Popolo, la
Chiesa degli Artisti, per l’addio a Giulietta Masina, affidato ancora una
volta a Maur su espressa volontà di… Gelsomina. A ricordare Zampanò
provvede un altro musicista, il cantautore Vinicio Capossela, con un
brano a lui intitolato dell’album Camera a sud (1994):
Esco da me
in tutto non m’amavo granché
il nano mi guarda felice
non sa quel che dice
e se la canta per sé
Tutta per me
la giostra di Zampanò tace
e gira con gli occhi di brace
il cavallo di Troia
che alla zingara piace…
Poi, Zampanò esce di scena. Troppo lontana la «sua» Italia perché
oggi possa essere ricordato da qualcuno, figurarsi dai più giovani.
Durante uno dei periodici scioperi della fame e della sete come forma di
battaglia politica, ai primi di luglio del 2002, il leader radicale Marco
Pannella (scomparso nel 2016) se ne esce con questa dichiarazione: «Io
forse sono Zampanò. La strada, il marciapiede sono gli alti luoghi della
storia radicale. Come diceva Pasolini, abbiamo frequentato gli angoli più
oscuri, non abbiamo avuto paura di niente, di puttane e fascisti. Noi
233
andiamo avanti». Singolare l’accostamento di Zampanò a Pasolini, ma
neanche tanto: sua è la «disperata vitalità» che in forme diverse anima e
tormenta Pier Paolo e Federico, i quali per un certo periodo si contagiano
a vicenda, in un dialogo con la vita della strada, persino la più fragile e
dannata, dai borghi alle borgate, fino a via Veneto. Chi dovesse capire il
forzuto, prepotente, allucinato Zampanò, che oggi traluce come uomomassa nel nostro circo quotidiano, saprebbe qualcosa delle risposte
all’incarognirsi della vita pubblica che invano cerchiamo da un bel po’.
234
Nota bibliografica
Ogni film è riportato nel testo con il titolo italiano e fra parentesi
l’anno della prima proiezione pubblica. I riferimenti bibliografici sono
citati «in ordine di apparizione», oppure in progressivo riferimento al
testo nei singoli capitoli.
La bibliografia felliniana è smisurata e in costante crescita, da
Federico Fellini. Romance di Jean-Paul Manganaro apparso in Francia
nel 2009 e tradotto dal Saggiatore (Milano, 2014) a L’Italia vista dalla
luna. Un paese in divenire tra letteratura e cinema di Marco Antonio
Bazzocchi (Milano-Torino, Bruno Mondadori, 2012); da Viaggio al
termine dell’Italia. Fellini politico, di Andrea Minuz (Soveria Mannelli,
Rubbettino, 2014) a Nino Rota: La dolce vita. Sources of the Creative
Process di Giada Viviani (Turnhout, Brepols Publishers, 2018);
dall’inedito soggetto felliniano L’Olimpo. Il racconto dei miti, a cura di
Rosita Copioli e Gérald Morin (Milano, Sem, 2016) a Fellini’s Eternal
Rome: Paganism and Christianity in the Films of Federico Fellini di
Alessandro Carrera (London-New York, Bloomsbury Academic, 2018);
da L’Italia secondo Fellini di Goffredo Fofi, Piergiorgio Giacchè,
Emiliano Morreale e Gianni Volpe (Roma, e/o, 2019) al Dizionario
intimo per parole e immagini di Federico Fellini, a cura di Daniela
Barbiani (Milano, Piemme, 2019).
Per i riferimenti aggiornati fino al 2004 si rinvia ai tre puntuali volumi
della BiblioFellini a cura di Marco Bertozzi, con la collaborazione di
Giuseppe Ricci e Simone Casavecchia (Scuola Nazionale di Cinema e
Fondazione Federico Fellini, Roma-Rimini, 2002-04), che raccolgono
rispettivamente: Monografie, soggetti e sceneggiature, saggi in volume
(vol. I); Saggi, recensioni e articoli nella stampa periodica (vol. II);
235
Recensioni sui quotidiani, vignette e scritti umoristici, programmi
radiofonici, regie e collaborazioni cinematografiche, pubblicità, film e
documentari, programmi televisivi su Fellini, scritti di Fellini (vol. III).
236
Un sogno lungo un secolo
Alberto Savinio, Pronomi, in Nuova Enciclopedia, Milano, Adelphi,
2017.
Federico Fellini, Lettere a Giulietta Masina, in «Famiglia Cristiana»,
25 ottobre 2018.
Claude Gauteur e Silvia Sager (a cura di), Carissimo Simenon Mon
cher Fellini. Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon, Milano,
Adelphi, 1998.
Paolo Fabbri, Sotto il segno di Federico Fellini, Bologna, Luca
Sossella editore, 2019.
237
Amarcord
Bianca Berlinguer, Storia di Marcella che fu Marcello, Milano, La
nave di Teseo, 2019.
Roberto Campari, Film della memoria. Mondi perduti, ricordati e
sognati, Venezia, Marsilio, 2005.
Renzo Renzi, L’ombra di Fellini. Quarant’anni di rapporti con il
grande regista e uno Stupidario degli anni Ottanta, Bari, Dedalo, collana
«Ombra Sonora» diretta da Guido Aristarco, 1994.
Gianni Celati, Cinema naturale, Milano, Feltrinelli, 2001.
Luigi Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio
italiano, testi di Gianni Celati, Milano, Feltrinelli, 1989.
Federico Fellini, Lettera a Giuliano Geleng, novembre 1973, il testo
integrale è disponibile all’indirizzo www.ilcinemaritrovato.it.
Gianni Celati, Fellini e il maschio italiano, «Binder Lecture» alla
University of California, San Diego, maggio 2006. Uno stralcio è stato
pubblicato dal quotidiano «l’Unità» il 3 gennaio 2008; un estratto più
ampio è nella rivista «Riga» n. 28, a cura di Marco Belpoliti e Marco
Sironi, 2008.
238
Borgo (ovvero Rimini)
Cesare Pavese, La luna e i falò, Torino, Einaudi, 1950.
Federico Fellini e Tullio Pinelli, Napoli-New York. Una storia inedita
per il cinema, a cura di Augusto Sainati, Venezia, Marsilio, 2013.
Paolo Fabbri, Sotto il segno di Federico Fellini, cit.
Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Torino, Einaudi, 2017
(I ed. it. 1989, Milano, Ubulibri).
Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’Anti-Edipo. Capitalismo e
schizofrenia, Torino, Einaudi, 1975.
Bertolt Brecht, Poesie politiche, a cura di Enrico Ganni, con
introduzione di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 2014.
Tonino Guerra, L’infanzia del mondo. Opere (1946-2012), a cura di
Luca Cesari, Milano, Bompiani, 2018.
Tonino Guerra, La valle del Kamasutra. Segni, sogni e altro scelti dal
poeta, a cura di Salvatore Giannella, Milano, Bompiani, 2010.
Patrizia D’Addario, con Maddalena Tulanti, Gradisca, Presidente.
Tutta la verità della escort più famosa al mondo, Roma, Aliberti, 2009.
Luciano Ligabue, Fuori e dentro il borgo, Milano, Baldini & Castoldi,
1997.
Pier Vittorio Tondelli, Rimini, Milano, Bompiani, 1985.
Maddalena Fellini, Storia in briciole d’una casalinga straripata,
Rimini, Guaraldi, 1992.
239
Clown
Federico Fellini, I clowns, a cura di Renzo Renzi, con fotografie a
colori di Franco Pinna, Bologna, Cappelli, 1970.
Federico Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980.
Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, Milano, Feltrinelli,
2002.
Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo da «La dolce
vita» a «Centochiodi», Roma-Bari, Laterza, 2007.
Federico Fellini, Il libro dei sogni, a cura di Tullio Kezich e Vittorio
Boarini, con una testimonianza di Vincenzo Mollica, Milano, Rizzoli,
2007 (nuova edizione a cura di Sergio Toffetti, Milano, Rizzoli, 2019).
James Hillman, Il sogno e il mondo infero, Milano, Adelphi, 2003.
Giovanni Grazzini, in «Corriere della Sera», 31 agosto 1970.
240
Dolce vita
Oscar Iarussi, C’era una volta il futuro. L’Italia della Dolce Vita,
Bologna, Il Mulino, 2011.
Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo, cit.
Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a
oggi, Roma-Bari, Laterza, 2008.
Luciano Bianciardi, La vita agra, Milano, Rizzoli, 1962.
241
Ekberg
William Klein, Roma, Milano, Contrasto, 2009.
242
Flaiano
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opere dell’autore.
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Leonardo Sciascia, Nero su nero, Milano, Adelphi, 1991.
243
Giulietta
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(Ri), Edizione Sabinae, 2010.
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2019.
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244
Hollywood
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Italo Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
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Infanzia
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Jung
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Kezich
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l’originale, Tutto ciò che è solido svanisce nell’aria, Bologna, 2012).
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Ennio Flaiano, La solitudine del satiro, Milano, Adelphi, 1996.
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(questo volume e il precedente contengono le dichiarazioni di Fellini su
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Pietro Ingrao, Tradizione e progetto, Bari, De Donato, 1982.
Pier Paolo Pasolini, Le poesie, Milano, Garzanti, 1975.
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258
Urbe
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Torino, Einaudi, 2004 contiene una raccolta dei pezzi scritti per il
«Marc’Aurelio» tra il 1939 e il 1942.
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Goffredo Fofi, in «Quaderni piacentini», n. 48-49, 1973.
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Vitelloni
Oscar Iarussi, Rocco Scotellaro, in «Belfagor», LXI, n. 362, 2006.
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Zampanò
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Giuseppe Marotta, Dio salvi Federico Fellini, in «L’Europeo», n. 41,
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Moraldo Rossi e Paolo Pelliccia, Il set Tuscia di Federico Fellini,
Roma, Armando, 2008.
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cinema, Venezia, Marsilio, 2008.
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Gilles Jacob, La vie passera comme un rêve, Paris, Robert Laffont,
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Goffredo De Marchis, intervista a Marco Pannella in «la Repubblica»,
Roma, 8 luglio 2002.
261
Indice dei film
Accattone, P.P. Pasolini (Italia, 1961), 14, 44, 90, 138
Agenzia matrimoniale, F. Fellini, episodio di Amore in città, 105
Alien, R. Scott (Usa, 1979), 163
L’altro Fellini, R. Naccari, S. Bisulli (Italia, 2013), 84
Amanti, V. De Sica (Italia, 1968), 117
Amarcord, F. Fellini (Italia 1953), 8, 10, 13-20, 22, 26, 35, 73, 78, 101,
102, 109, 111, 118, 121, 151, 152, 157, 164
L’amica geniale, S. Costanzo, serie Tv (Italia-Usa, 2018), 77
Amici miei, M. Monicelli (Italia, 1975), 189
L’amore, R. Rossellini (Italia, 1948), 181
Amore in città, M. Antonioni, F. Fellini, A. Lattuada, C. Lizzani, F.
Maselli, D. Risi, C. Zavattini (Italia-Francia, 1953), 105
L’ape regina, M. Ferreri (Italia-Francia, 1963), 84
Aria di Parigi, M. Carné (Francia-Italia, 1954), 197
Attila, P. Francisci (Italia-Francia, 1954), 194
Avanti c’è posto, M. Bonnard (Italia, 1942), 181
L’avventura, M. Antonioni (Italia, 1960), 17
Baarìa, G. Tornatore (Italia-Francia, 2009), 102
I bambini ci guardano, V. De Sica (Italia, 1943), 84
I basilischi, L. Wertmüller (Italia, 1963), 99
Bastogne, W.A. Wellman (Usa, 1949), 68
Il bell’Antonio, M. Bolognini (Italia-Francia, 1960), 116, 138
Ben-Hur, W. Wyler (Usa, 1959), 174
Il bidone, F. Fellini (Italia, 1955), 35, 69, 121, 142
Block-notes di un regista, F. Fellini (Usa, 1969), 32, 43, 121
Boccaccio ’70, V. De Sica, F. Fellini, M. Monicelli, L. Visconti (Italia,
1962), 49, 105
Il buono, il brutto, il cattivo, S. Leone (Italia-Spagna-Germania Ovest,
1966), 124
Camilla, S. Bolchi, sceneggiato Tv (Italia, 1976), 69
Il cammino della speranza, P. Germi (Italia, 1950), 181
Campo de’ Fiori, M. Bonnard (Italia, 1943), 181
Il Casanova di Federico Fellini, F. Fellini (Italia, 1976), 8, 13, 35, 101,
103, 121, 152, 156, 165, 173, 175
262
C’era una volta a… Hollywood, Q. Tarantino (Usa, 2019), 184
C’eravamo tanto amati, E. Scola (Italia, 1974), 173
Che bella giornata, G. Nunziante (Italia, 2011), 26
Che strano chiamarsi Federico, E. Scola (Italia, 2013), 171-173
Chi l’ha visto?, G. Alessandrini (Italia, 1945), 181
Chung Kuo, Cina, M. Antonioni (Usa, 1972), 33
La ciociara, V. De Sica (Italia, 1960), 75
La città delle donne, F. Fellini (Italia-Francia, 1980), 113, 127, 164, 166
La città si difende, P. Germi (Italia, 1951), 181
Cleopatra, J.L. Mankiewicz (Usa-Regno Unito-Svizzera, 1963), 140,
174
I clowns, F. Fellini (Italia, 1970), 11, 32-34, 51, 121
Da zero a dieci, L. Ligabue (Italia, 2002), 27
Daunbailò, J. Jarmusch (Usa-Germania Ovest, 1986), 78
Il delitto di Giovanni Episcopo, A. Lattuada (Italia, 1947), 181
Deserto rosso, M. Antonioni (Italia-Francia, 1964), 25
Divorzio all’italiana, P. Germi (Italia, 1961), 75, 117
Dogman, M. Garrone (Italia-Francia, 2018), 102
La dolce vita, F. Fellini (Italia, 1960), 10, 15, 21, 35, 39-42, 44, 47, 49,
50, 59, 60, 90, 91, 104, 105, 108, 113, 114, 116, 121, 123, 132, 137, 138,
140, 142-145, 147, 149, 171-173, 184
Dolor y gloria, P. Almodóvar (Spagna, 2019), 102
Donne proibite, G. Amato (Italia, 1954), 194
E la nave va, F. Fellini (Italia, 1983), 8, 127, 154, 163-165, 167
Ecce bombo, N. Moretti (Italia, 1978), 190
Effetto notte, F. Truffaut (Francia-Italia, 1973), 102
Eleonora, S. Blasi, sceneggiato Tv (Italia, 1973), 69
L’età del ferro, R. Rossellini, programma Tv (Italia, 1965), 99
Eyes Wide Shut, S. Kubrick (Usa-Regno Unito, 1999), 95, 165
Face/Off – Due facce di un assassino, J. Woo (Usa, 1997), 160
La famiglia, E. Scola (Italia-Francia, 1987), 86
Fellinette, F.F. Fellini (Italia, 2019), 87
Fellini Satyricon, F. Fellini (Italia, 1969), 9, 32, 121, 149, 184
Il feroce Saladino, M. Bonnard (Italia, 1937), 162
La finestra sul cortile, A. Hitchcock (Usa, 1954), 197
Il fiume e la morte, L. Buñuel (Messico, 1954), 197
La fortuna di essere donna, A. Blasetti (Italia, 1956), 60
Fortunella, E. De Filippo (Italia-Francia, 1958), 69, 126, 194
Fratelli, A. Ferrara (Usa, 1996), 86
263
Frau Holle – La signora della neve, J. Jakubisko (Cecoslovacchia,
1985), 69
Fronte del porto, E. Kazan (Usa, 1954), 196
Fuocoammare, G. Rosi (Italia, 2016), 153
Il gattopardo, L. Visconti (Italia-Francia, 1963), 126
Ginger e Fred, F. Fellini (Italia, 1986), 8, 69, 108, 109, 127, 144
La giornata balorda, M. Bolognini (Italia, 1960), 138
Una giornata particolare, E. Scola (Italia, 1977), 116, 117
Un giorno forse, J.L. Bertuccelli (Francia, 1991), 69
Giulietta degli spiriti, F. Fellini (Italia, 1965), 15, 60, 69, 92, 93, 121
Giulietta e Romeo, R. Castellani (Italia-Regno Unito, 1954), 197
La gran vita, J. Duvivier (Italia-Francia-Germania Ovest, 1960), 69
La grande bellezza, P. Sorrentino (Italia-Francia, 2013), 40, 74, 179
Grandi magazzini, M. Camerini (Italia, 1939), 185
Grisbi, J. Becker (Francia, 1954), 197
Guardie e ladri, M. Monicelli, Steno (Italia, 1951), 60
Guerra e pace, K. Vidor (Italia-Usa, 1956), 39
Ieri, oggi, domani, V. De Sica (Italia-Francia, 1963), 75, 117
In nome della legge, P. Germi (Italia-Francia, 1949), 181
L’intendente Sansho, K. Mizoguchi (Giappone, 1954), 196, 197
Intervista, F. Fellini (Italia 1987), 10, 95, 109, 127, 168, 171, 173, 176,
177
Joker, T. Phillips (Usa, 2019), 31
Ladri di biciclette, V. De Sica (Italia 1948), 75
Lamerica, G. Amelio (Italia-Francia-Svizzera, 1994), 153
La leggenda del santo bevitore, E. Olmi (Italia-Francia, 1988), 99
Lo chiamavano Jeeg Robot, G. Mainetti (Italia, 2016), 102
Luci del varietà, A. Lattuada, F. Fellini (Italia, 1950), 60, 69, 105, 182
Made in Italy, L. Ligabue (Italia, 2018), 27, 28
Mi ricordo, sì, io mi ricordo, A.M. Tatò (Italia, 1997), 118
Mia madre, N. Moretti (Italia-Francia, 2015), 49
I migliori anni della nostra vita, W. Wyler (Usa, 1946), 65
Il miracolo, R. Rossellini, episodio di L’amore, 181
Il mondo di Alex (Alex in Wonderland), P. Mazursky (Usa, 1970), 102
Il mostro è in tavola… barone Frankenstein, P. Morrisey, A. Warhol, A.
Margheriti (Italia-Francia-Usa, 1973), 24
Il mulino del Po, A. Lattuada (Italia, 1949), 181
Narcos, C. Brancato, C. Bernard, D. Miro, serie Tv (Usa-Colombia,
2015-17), 80
La nave dolce, D. Vicari (Italia-Albania, 2012), 153
264
Nessun nome nei titoli di coda, S. Amendola (Italia, 2019), 161
The New Pope, P. Sorrentino, serie Tv (Italia-Francia-Spagna, 2020), 174
Nine, R. Marshall (Italia-Usa, 2009), 78, 79
La notte, M. Antonioni (Italia, 1961), 17, 60
Le notti bianche, L. Visconti (Italia, 1957), 126
Le notti di Cabiria, F. Fellini (Italia-Francia, 1957), 41, 69, 73, 95, 121
Novecento, B. Bertolucci (Italia-Francia-Germania Ovest, 1976), 20
Nuovo cinema Paradiso, G. Tornatore (Italia-Francia, 1988), 13, 75
Oci ciornie, N.S. Michalkov (Italia-Urss, 1987), 117
L’oro di Napoli, V. De Sica (Italia, 1954), 191
8 ½, F. Fellini (Italia, 1963), 15, 18, 22, 34, 35, 41, 60, 61, 73, 78, 79, 83,
86, 91, 93, 94, 99, 102, 105, 113, 116, 117, 121, 127, 128, 131, 132, 134,
147, 165, 166, 179, 185
Il padrino – Parte II, F.F. Coppola (Usa, 1974), 14, 126
Paisà, R. Rossellini (Italia, 1946), 67, 68, 73, 181
Pasqualino Settebellezze, L. Wertmüller (Italia, 1975), 99
Paterson, J. Jarmusch (Usa, 2016), 78
Peccato che sia una canaglia, A. Blasetti (Italia, 1954), 60, 117
Per un pugno di dollari, S. Leone (Italia-Spagna-Germania Ovest, 1964),
124
Persiane chiuse, L. Comencini (Italia, 1950), 68
Il postino, M. Radford, M. Troisi (Italia-Francia-Belgio, 1994), 75
Il posto, E. Olmi (Italia, 1961), 90, 99
Prêt-à-porter, R. Altman (Usa, 1994), 117
La principessa Tarkanova, F. Ozep, M. Soldati (Italia-Francia, 1938),
162
Prova d’orchestra, F. Fellini (Italia, 1979), 8, 121, 127, 129, 130
Quando la moglie è in vacanza, B. Wilder (Usa, 1955), 141
Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, M. Laurenti (Italia,
1972), 16
Quo vadis?, M. LeRoy (Usa, 1951), 174
Radiofreccia, L. Ligabue (Italia, 1998), 27
Reality, M. Garrone (Italia, 2012), 102
La ricotta, P.P. Pasolini, episodio di RoGoPaG, 145
Rocco e i suoi fratelli, L. Visconti (Italia-Francia, 1960), 126
RoGoPaG, R. Rossellini, J.-L. Godard, P.P. Pasolini, U. Gregoretti
(Italia, 1963), 145
Roma, F. Fellini (Italia-Francia, 1972), 121, 179, 184-186
Roma città aperta, R. Rossellini (Italia, 1945), 65, 67, 73, 105, 181
265
Roma città libera (La notte porta consiglio), M. Pagliero (Italia, 1946),
60
La rosa tatuata, D. Mann (Usa, 1955), 75
¡La Rumba!, J.M. Chumilla-Carbajosa (Spagna, 2013), 102
Sandokan, S. Sollima, sceneggiato Tv (Italia-Francia-Germania OvestRegno Unito, 1976), 99
Lo sceicco bianco, F. Fellini (Italia, 1952), 35, 69, 79, 101, 121, 182,
183, 196, 198
Sciuscià, V. De Sica (Italia, 1946), 75
Senso, L. Visconti (Italia, 1954), 126, 197
Senza pietà, A. Lattuada (Italia, 1948), 68, 181
I sette samurai, A. Kurosawa (Giappone, 1954), 196
I soliti ignoti, M. Monicelli (Italia, 1958), 68
Sostiene Pereira, R. Faenza (Portogallo-Italia-Francia, 1994), 118
Storie sulla sabbia, R. Fellini (Italia, 1963), 83-85
La strada, F. Fellini (Italia, 1954), 18, 35, 36, 41, 67, 73, 80, 121, 127,
193-195, 197, 198, 200
Il tassinaro, A. Sordi (Italia, 1983), 73
Le tentazioni del dottor Antonio, F. Fellini, episodio di Boccaccio ’70,
49, 105, 121, 142, 163
To Rome with Love, W. Allen (Italia-Usa, 2012), 79, 80
Toby Dammit, F. Fellini, episodio di Tre passi nel delirio, 121, 167
Tonio Kröger, R. Thiele (Germania Ovest, 1964), 60
Totò, Peppino e… la dolce vita, S. Corbucci (Italia, 1961), 101
Totò e Carolina, M. Monicelli (Italia, 1955), 60
I tre aquilotti, M. Mattoli (Italia, 1942), 84
Tre passi nel delirio, F. Fellini, R. Vadim, L. Malle (Francia-Italia, 1968),
121
Treno popolare, R. Matarazzo (Italia, 1933), 125
Ulisse, M. Camerini (Italia, 1954), 193
Umberto D., V. De Sica (Italia, 1952), 43
Vacanze romane, W. Wyler (Usa, 1953), 47, 174
La vita è bella, R. Benigni (Italia, 1997), 77
I vitelloni, F. Fellini (Italia, 1952), 14, 17, 35, 41, 84, 121, 159, 171, 187,
189, 190
Viva Zapata!, E. Kazan (Usa, 1952), 193
La voce della luna, F. Fellini (Italia, 1990), 8, 18, 23, 78, 107, 109-111,
127, 144, 168, 174
Una voce umana, R. Rossellini, episodio di L’amore, 181
266
The Young Pope, P. Sorrentino, serie Tv (Italia-Francia-Spagna, 2016),
174
267
Indice dei nomi
Abruzzese, A., 144
Agnelli, G., 50
Aimée, A. (F. Sorya Dreyfus), 42, 99, 127, 131
Ajello, N., 101
Albanese, A., 80
Alessandrini, G., 181
Alessandroni, A., 124
Allen, W. (A.S. Königsberg), 79, 102
Almodóvar, P., 102
Alpert, H., 101
Altman, R., 117
Amaldi, E., 57
Amato, P., 39, 194
Amelio, G., 27, 153
Amendola, S., 161
Amidei, S., 65
Anceschi, L., 98, 126
Anderson, W., 102
Andò, R., 102
Andreotti, G., 43, 108
Angeli, F., 50
Angelucci, G., 101, 176
Anghelopoulos, T., 24, 118
Annese, A., 125
Anselmi, S., 152
Antonelli, L., 27
Antonioni, M., 17, 23-25, 33, 60, 173, 182
Aprà, A., 101
Araya, Z., 13
Arbasino, A., 58, 60, 91, 123
Arciuli, E., 125
Aristarco, G., 17, 99, 197
Arpa, A., 64, 101
Arriaga, G., 76
268
Aspesi, N., 101
Avati, P., 102
Baarova, L., 188
Bacalov, L., 75, 127
Bachmann, G., 100
Bachmann, I., 76
Bakunin, M., 78
Balestrini, N., 60
Banchieri, A., 187
Bandini, M., 140
Banfi, A., 125, 126
Baratta, P., 81
Barbato, A., 33
Barbera, A., 81
Barbiani, I., 83, 180
Bardot, B., 49, 140
Baricco, A., 153
Barillari, R., 142
Barnes, J., 76
Base, G., 27
Basehart, R., 194
Bassani, G., 56, 145
Battocletti, C., 90
Baudrillard, J., 175
Bausch, P., 165
Bavagnoli, C., 142
Bazlen, B., 89
Beatty, W. (H.W. Beaty), 140
Belli, G., 122, 184
Bellocchio, M., 24
Benedetti, A., 58
Benigni, R., 7, 77, 78, 109, 110, 160
Benjamin, W., 175
Benzi, L. detto Titta, 14, 180
Bergman, Ingmar, 101
Bergman, Ingrid, 25, 50
Berlanga, L.G., 60
Berlusconi, S., 9, 26, 40, 42, 108, 109
Bernhard, E., 85, 89, 90, 92, 159, 160
Berté, L., 17
269
Bertolucci, B., 20
Bertuccelli, J., 69
Betti, L. (L. Trombetti), 101, 160
Biagi, E., 100, 119
Bianchi, P., 104, 198
Bianciardi, L., 44, 61
Bignardi, I., 101
Bilbo, T.G., 98
Bini, A., 138
Bisulli, S., 84, 85
Blasetti, A., 60, 117
Blasi, S., 69
Bo, C., 24
Boarini, V., 91, 100
Bobbio, N., 22
Bolchi, S., 70
Bolognini, M., 24, 116, 138
Bondanella, P., 91, 101
Bonini, D., 162
Bonnard, M., 162, 181
Boratto, C., 93
Borboni, P., 188
Bordon, F., 118
Borges, J.L., 148
Bosetti, G., 118
Bovo, B., 79, 169
Brancati, V., 58, 194
Brancia A., 15, 78, 155
Brando, M., 193
Brass, G. detto Tinto, 99, 100
Brazzi, R., 117
Brecht, B., 23
Bresci, G., 78
Brindisi, R., 119
Bromell, H., 80
Bruckner, A., 126
Brunetta, G.P., 33, 41, 100, 113
Bruni, B., 142
Bufalino, G., 77
Buñuel, L., 197
270
Burchiellaro, G., 176
Burton, R., 140, 141
Burton, T., 102
Buscaglione, F., 50
Buzzati, D., 167
Cacciari, M., 148
Cafiero, C., 78
Calamai, C., 162
Caldiron, O., 101
Caldwell, E., 56, 91
Caligari, C., 27
Calvino, I., 24, 77, 78, 102
Calzia, E., 154
Camerini, M., 185, 193
Campari, R., 16, 108, 196
Campbell, J., 92
Campo, C., 90
Camus, A., 77, 152
Canova, G., 101
Cantoni, R., 125
Caporale, A., 26
Capossela, V., 200
Cappuccio, E., 102, 168
Capra, F., 101
Caprioli, V., 65
Caputo, G., 95
Carabella, F., 99, 115
Carati, L., 27
Caravaggio, Michelangelo Merisi detto il, 171
Cardinale, C., 13, 126, 131
Carlei, C., 27
Carofiglio, F., 86
Carofiglio, G., 86
Carpignano, J., 27
Carpitella, D., 98
Carrano, P., 101
Carrera, A., 101
Casetti, F., 101
Cassano, F., 152
Castaneda, C., 41, 150, 168
271
Castellani, R., 24, 69, 197
Cavalli, E., 101
Cavatorta, S., 76
Cavazzoni, E., 25, 107
Cecchi, E., 54, 121
Cecchi d’Amico, S., 97, 121, 123, 126
Cederna, A., 58
Celati, G., 17, 19, 25, 98
Celeghin, L., 200
Celentano, A., 48
Ceroli, M., 50
Chaplin, C.S., 101
Chiambretti, P., 117
Chopin, F., 123
Chumilla-Carbajosa, J.M., 102
Cialente, F., 70
Ciangottini, V., 44
Cicutto, R., 81
Cioni, V., 142
Cirillo, A., 125
Citati, P., 100
Ciuffa, V., 141
Cocteau, J., 181
Comencini, L., 68
Contini, G., 24
Cooper, G., 26
Copland, A., 123
Coppola, C., 14, 126
Coppola, F.F., 14
Corbucci, S., 101
Corona, F., 144
Corsi, T., 101
Cortese, V., 194
Corti, M., 54
Costa, A., 101
Costa, O., 115
Costantini, C., 101
Costanzo, S., 27, 77
Cosulich, C., 97, 98, 100
Cotillard, M., 79
272
Cotone, O., 180
Cotroneo, R., 102
Cristaldi, F., 13
Croce, B., 53, 58
Croce, G.C., 187
Crovi, R., 103
Cruz, P., 79, 80
Cuarón, A., 76
Cuny, A., 21
Damiani, Damiano, 24, 87
Damiani, Donatella, 166
d’Amico, F., 123, 194
Danese, S., 101
D’Annunzio, G., 122, 154
Dante Alighieri, 75, 77, 78
Day-Lewis, D., 78
Dean, J., 7
De Angelis, G., 124
De Angelis, M., 124
De Bellis, V., 180
Debenedetti, G., 185
De Bosio, G., 99
Debray, R., 151
De Carlo, A., 166, 168
De Feo, S., 58
De Filippo, E., 60, 69, 126, 191
De Filippo, P., 49, 105
De Grada, R., 125
De Laurentiis, D., 117, 174, 193, 194
Del Buono, O., 101
Deleuze, G., 22
Della Noce, L., 93
De Lollis, O., 16
Delon, A., 140
Del Poggio, C., 182
Del Toro, G., 76
De Martino, E., 98
De Mauro, famiglia, 115
Dench, J., 79
Deneuve, C. (C.F. Dorléac), 115
273
De Niro, R., 118
Deray, J., 60
Derrida, J., 41, 116
De Santi, P.M., 100, 184
De Seta, V., 24, 90
De Sica, V., 24, 43, 44, 75, 115, 117, 149, 185, 191
Detto, L., 99
D’Hambourg, D. (D. Slavinsky), 140
Di Castro, M.G., 108
Dickinson, E., 151
Dietrich, M., 25, 165
Di Folco, M., 16
Di Giacomo, F., 18
Dionisio, S., 108
Disney, W., 101
Di Venanzo, G., 134
Donaggio, P., 124
Donati, D., 176
Dorigo, F., 83
Dos Passos, J., 91
Douglas, K., 193
Douglas, N., 76
Dreyer, C.T., 101
Driver, A., 78
Duggan, C., 42
Dunaway, F., 117
Duranti, D., 162
Duvivier, J., 69
Dyer, R., 123
Dylan, B. (R.A. Zimmerman), 49
Eco, U., 9, 98
Einaudi, G., 22
Einaudi, L., 124
Ejzenštejn, S.M., 101
Ekberg, A., 9, 36, 40, 43, 47-51, 105, 138
Emmer, L., 60
Engels, F., 78
Ergas, M., 16, 89
Fabbri, G., 87
Fabbri, P., 10, 22, 100, 163
274
Fabrizi, A., 85, 181
Fabrizi, F., 188
Faenza, R., 118
Falchi, A., 108
Fallaci, O., 101
Fanfani, A., 143
Fantuzzi, V., 101
Farinelli, G., 101
Fava, C.G., 100
Al-Fayed, D., 143
Fellini, F. Fabbri, 66, 87
Fellini, M.M., 28, 66, 84, 87, 168, 180
Fellini, R., 83-87, 180, 187
Fellini, U., 83, 86, 180
Fenech, E., 16, 27
Fenoglio, B., 24
Fergie (S.A. Ferguson), 79
Ferida, L., 199
Fermi, E., 57
Ferragni, C., 144
Ferrante, E., 77
Ferrario, D., 27
Ferreri, M., 84, 102
Ferrero, A., 98
Ferretti, D., 164
Ferro, M., 16
Festa, G., 163
Festa, T., 50
Feyerabend, P., 41, 116
Fioroni, G., 50
Firpo, L., 22
Flaiano, E., 40, 41, 47, 53-61, 131, 137, 139, 143, 145, 148, 150, 180,
184
Flaiano, L., 56, 57
Flaubert, G., 139
Foà, A., 193
Foa, V., 22
Fofi, G., 100, 185
Foot, J., 67
Forcella, E., 61
275
Ford, J., 34, 101
Fracassi, C., 90
Frammartino, M., 27
Francesco d’Assisi, 32
Franchi, F. (F. Benenato), 31
Francisci, P., 194
Fratti, M., 78
Freud, S., 37, 89, 92
Friedlaender, D., 89
Frizzi, F., 124
Gabin, J., 162, 197
Gale, E., 133
Gallone, C., 115
Garbo, G. (G.L. Gustafsson), 165
García Lorca, F., 172
Gardner, A., 137
Garibaldi, G., 160
Garrone, M., 27, 102
Gaslini, G., 124
Gassman, V. (V. Gassmann), 173
Gatti, G.M., 193, 194
Geleng, G., 19
Geleng, R., 19, 65
George, S., 13
Geppetti, M., 142
Géricault, T., 94
Germi, P., 75, 101, 181
Gherardi, P., 83, 181
Ghirri, L., 17
Giammattei, E., 53
Giannelli, F., 125
Gide, A., 76
Gilbert, L., 93
Gili, J.A., 101
Ginsberg, A., 78
Ginzburg, L., 22, 193, 194
Ginzburg, N., 90
Giordana, M.T., 87
Giovanni Paolo II (K. Wojtyła), 63
Giraldi, F., 97
276
Gissing, G., 76, 139
Gitai, A., 24
Gloeden, W., 76
Gnassi, A., 27
Godard, J.-L., 145
Goebbels, J., 188
Goethe, J.W., 122, 141
Goldfarb, P., 32
Goldoni, C., 100
Gonzales, P., 184
Graciotti, S., 152
Gramsci, A., 143
Grandi, S., 100
Grazzini, G., 36, 92, 100, 104, 198
Greco, C., 189
Greenaway, P., 102
Gregoretti, U., 126, 145
Grey, N., 138
Gromo, M., 197
Guadagnino, L., 27
Gualino, R., 193, 194
Guaraldi, M., 29, 100
Guareschi, G., 27
Guattari, F., 22
Guccini, F., 25
Guerra, T., 14, 18, 22-25
Guida, G., 27
Gundle, S., 101
Hayworth, R. (M.C. Cansino), 140
Hemingway, E., 59
Hepburn, A. (A.K. Ruston), 47
Hepburn, K., 162
Heston, C. (J.C. Carter), 140
Hillman, J., 35, 37, 91
Hitchcock, A., 197
Hofmannsthal, H., 148
Hudson, D., 79, 81
Hudson, K., 140
Huxley, A., 149, 150
Ichino, A.M., 68
277
Iñárritu, A.G., 76
Incrocci, A., 181
Ingrassia, C. detto Ciccio, 25, 31
Interlenghi, F., 188
Isherwood, C., 56
Iusco, I., 125
Ivens, J., 76
Ivetic, E., 152
Jablockina, E., 23
Jacob, G., 199
Jacopetti, G., 141
Jakubisko, J., 69
Jarmusch, J.R., 78
Jones, F., 164
Jung, C.G., 22, 31, 37, 89-95
Kafka, F., 10, 167
Kazan, E. (E. Kazanjoglous), 193, 196
Kezich, L., 99
Kezich, T., 11, 66, 90, 97-106, 163, 189, 194
Kidman, N., 79
King, S., 31
Klein, W., 50
Kopit, A.L., 78
Koscina, S., 93
Kounellis, J., 50
Kramer, B., 81
Kraus, K., 148
Kremmerz, G., pseud. di C. Formisano, 122
Kubrick, S., 10, 95, 101, 165
Kundera, M., 100
Kurosawa, A., 10, 196
Kusturica, E., 102
Labiche, E.M., 124
La Capria, R., 97
Lama, L., 83
Lancaster, B., 126
Landolfi, T., 58
Lang, F., 186
Lang, J., 117
Lao Tse, 32
278
Lattuada, A., 60, 68, 69, 105, 181, 182
Laudadio, F., 100
Laurenti, M., 16
Leary, T., 41
Leogrande, A., 152
Leone, S., 124
Leopardi, G., 59, 111, 116
Lepore, P., 125
Levi, C., 68, 76, 179
Lewis, N., 76
Leydi, R., 98
Ligabue, L., 27, 28
Lionello, A., 100
Lisi, V. (V. Pieralisi), 49
Littín, M., 24
Lizzani, C., 97
Longanesi, L., 56
Longhi, P., 164
Longhi, R., 105
Longoni, A., 54, 59
Loren, S. (S. Villani Scicolone), 49, 60, 70, 73-75, 77, 79, 117
Losey, J., 101
Lucentini, F., 24
Lucherini, E., 138
Luna, B., 102
Lupo, B., 125
Luttazzi, L., 97
Lynch, D., 102
Macario, E., 181
Maccari, M., 58
Maccari, R., 85
Madonna (L.V. Ciccone), 108
Maggio, P., 15, 155
Magistà, A., 101
Magnani, A., 75, 181, 186
Magrelli, V., 103
Mainetti, G., 27, 102
Majano, A.G., 60
Majorana, E., 57
Malatesta, E., 78
279
Malick, T., 76
Manara, M., 165, 167, 168
Manfredi, N., 115, 188
Manganaro, J.P., 101
Manganelli, G., 53, 90
Mangano, S., 117, 193, 194
Mankiewicz, J.L., 140
Mann, D. (D. Chugerman), 75
Mann, T., 58, 60
Manni, E., 166
Mannino, F., 124
Mao Tse-tung, 33
Maradona, D.A., 74
Marchesi, M., 64, 181
Marchesi Cappai, C., 64
Margheriti, A., 24
Marianelli, D., 124
Marini, V., 47
Marotta, G., 195
Marrone, R., 125
Marshall, R., 78, 79
Martelli, O., 40
Martinelli, E., 140
Martone, M., 27
Marvulli, M., 125
Marzullo, B., 98
Masina, G., 7, 9, 63-71, 84, 85, 92, 108, 172, 174, 181-183, 194, 197,
200
Mastroianni, B., 115
Mastroianni, C., 115
Mastroianni, M., 10, 15, 23, 40, 45, 48, 51, 59, 60, 69, 70, 79, 99, 108,
113-119, 127, 131, 134, 137, 164, 166, 168, 173, 179
Mastroianni, O., 114
Mastroianni, R., 118
Mastroianni, U., 114
Mastroianni, V., 114
Mastronardi, A., 80
Matarazzo, R., 125
Mattei, E., 76
Matvejević, P., 152
280
Maur, M., 200
Mazursky, P., 102
Mellace, L., 142
Menotti, C., 123
Mereghetti, P., 101
Merlin, L., 69
Merlo, F., 124
Miccolis, S., 101
Michalkov, N.S., 25
Michelangelo Buonarroti, 171
Michelini, A., 157
Milo, S. (E.S. Greco), 15, 16, 89, 94, 127, 131, 134, 168
Mingozzi, G., 24, 102
Minuz, A., 101
Missiroli, M., 100
Mizoguchi, K., 197
Moliterni, P., 125
Mollica, V., 100, 161, 166
Mondadori, A., 126
Monetti, D., 101
Monicelli, M., 24, 60, 68, 189
Monroe, M. (N.J. Baker), 50, 141, 144, 145
Montaldo, G., 97
Monti, A., 22
Morandini, M., 165
Moravia, A. (A. Pincherle), 55, 56, 60, 102
Moretti, N., 27, 49, 102, 190
Morin, G., 101
Morleo, M.V., 125
Moro, A., 8, 129
Morreale, E., 101
Morricone, E., 124
Morrisey, P., 24
Moscati, I., 97, 100
Moura, W., 80
Mulas, U., 142
Muni, P., 162
Murnau, F.W., 186
Mursino, T.S., pseud. di V. Mussolini, 199
Musil, R., 148
281
Mussolini, B., 20, 83, 157, 193
Muti, R., 123
Nabokov, V., 111
Naccari, R., 84, 85
Nana, A., 138
Nascimbene, M., 124
Natalini, F., 101
Negro, A., 103
Neruda, P., 75
Nicolodi, D., 123
Nicosia, A., 100
Nietzsche, F., 147
Nisa, pseud. di E. Salerno, 154
Noël, M. (M.N. Guiffray), 15, 26, 155
Noiret, P., 75
Norcia, A., 149
Nori, P., 25
Noris, A. (A. Noris von Gerzfeld), 185
Notarianni, P., 173
Novak, K., 140
Nunziante, G., 26
Ojetti, P., 197
Olivetti, A., 90
Ollio (O. Hardy), 162
Olmi, E., 24, 90, 97, 99
O’Rawe, C., 115
Orazio Flacco, Quinto, 122
Orfei, L., 36
Orfei, N., 15, 154
Ortese, A.M., 24
Ortolani, R., 124
Orwell, G. (E.A. Blair), 58
Osiris, W. (A. Menzio), 50
Ottaviani, N., 109
Ozep, F., 162
Özpetek, F., 27, 102
Paci, E., 125
Pagani, S., 123
Pagliero, M., 60
Pampaloni, G., 53
282
Panelli, P., 119
Pannella, M., 200
Pannunzio, M., 57, 58, 185
Papaleo, R., 27
Paparazzo, C., 139
Parise, G., 84
Parr, N., 140
Pascali, P., 50
Pasolini, P.P., 9, 14, 21, 23, 34, 42, 44, 74, 84, 90, 110, 138, 145, 175,
200, 201
Pasqualini, A.F., 64
Pavese, C., 21, 22, 24, 28, 54, 91, 193
Payne, A., 102
Pazienza, A., 166
Peck, G., 47
Pelé (E.A. do Nascimento), 140
Pelosi, M., 142
Peressutti, G., 174
Pertica, D., 155
Pertini, S., 199
Pessoa, F., 118
Petrassi, G., 124
Petri, E., 60, 66
Petrignani, S., 66
Petronio Arbitro, 9, 184
Phillips, T., 31
Phoenix, J., 31
Piano, R., 80
Picasso, P., 148, 149
Piccioni, P., 27, 124
Pieri, F., 101
Pietra, I., 104
Pietrangeli, N., 60
Pigna, A., 167
Pinelli, T., 21, 40, 69, 107, 193
Pinna, F., 98, 142
Piovani, N., 77, 127
Pirandello, L., 64, 134, 167
Pirosh, R., 68
Pisacane, C., 68
283
Pisu, M., 94, 193
Piva, A., 27
Pizzetti, I., 123
Plà, R., 76
Placido, B., 100
Plenizio, G., 127
Poe, E.A., 55
Polanski, R., 101
Poletti, V., 108
Pomodoro, A., 66
Pontecorvo, B., 57
Ponti, C., 193, 194
Ponziani, A., 177
Pozzi, A., 125
Praturlon, P., 142
Presley, E., 48
Procacci, D., 23, 77
Profili, F., 173
Prucnal, A., 167
Quatriglio, C., 27
Quilici, F., 60
Quinn, A., 67, 193, 194
Radford, M., 75
Ramazzotti, E., 18
Ravel, M., 123
Reich, J., 115
Reiner, F., 123
Rémy, T., 36
Renard, J., 59
Renoir, J., 115
Renzi, R., 16, 17, 98
Rey, F., 108
Reygadas, C., 76
Riccardi, C., 142, 143
Riccardi, M., 142
Ricci, G., 101
Rinaldi, E., 122
Rinaldi, G., 122
Risi, D., 50, 60
Risset, J., 101
284
Rizzoli, A., 39, 90, 138
Roberti, B., 103
Roda, E., 119
Rol, G.A., 92
Romano, B., 99
Romano, C., 188
Ronconi, L., 93
Rondi, B., 40, 71, 167
Rondi, G.L., 97
Rondi, U., 71
Rosato, G., 53
Rosi, F., 24, 68, 97
Rosi, G., 153
Rossanda, R., 126
Rossellini, Renzo, 99
Rossellini, Roberto, 43, 50, 60, 65, 67, 68, 73, 85, 99, 101, 105, 145,
147, 181
Rossi, A., 98
Rossi, E., 58
Rossi, M., 189
Rosso, N., 200
Rota, R., 57
Rota Rinaldi, N., 8, 14, 33, 36, 40, 49, 77, 121-130, 132, 154, 182, 194,
200
Roth, J., 99, 148
Rothko, M., 20
Rotunno, G., 151, 153
Rovere, L., 182
Rubin, D., 80, 81
Rubini, S., 27, 95, 102, 166, 171, 177
Rüesch, D., 57
Ruffo, L., 188
Ruggeri, E., 17
Rushdie, S., 116
Russell, K., 102
Russo, G., 101
Rustichelli, C., 124
Sacchi, F., 197
Salgari, E., 199
Salvatores, G., 27, 75
285
Salvemini, G., 58
Salvemini, M., 26
Salvini, M., 144
Samonà, C., 86
Samugheo, C., 142
Sanguineti, E., 60
Sanguineti, T., 101
Sanna, M., 101
Santesso, W., 44, 137
Sardi, G., 64, 68
Savinio, A. (A. De Chirico), 8
Scabia, G., 98
Scalero. R., 123
Scalfari, E., 58, 101, 141
Scalfaro, O.L., 39, 40
Scardicchio, N., 125
Scarpelli, Filiberto, 180
Scarpelli, Furio, 180, 181
Schiele, E., 148
Schifano, M., 50
Schneider, R. (R.M. Albach-Retty), 140
Schnitzler, A., 95
Schönberg, A., 148
Schulz, C.M., 165
Scola, E., 86, 102, 116, 117, 171-173, 181
Scorsese, M., 40, 74
Scotellaro, R., 189
Scott, R., 163
Secchiaroli, T., 44, 137, 138, 142, 167
Segrè, E., 57
Sereni, V., 125
Serra, F., 165
Servadio, E., 92
Servillo, T., 74, 179
Sgarbi, E., 53
Shelley, M. Wollstonecraft, 24
Sherwood, R.E., 65
Sibaldi, S., 194
Siciliano, E., 53
Signorini, A., 117
286
Silone, I., 197
Simenon, G., 9, 40
Sinatra, F., 50
Socrate, 147
Sokurov, A., 25
Solà, J.G., 84
Soldati, M., 54, 129, 162
Soleri Brancaleoni, G., 29
Sollima, S., 27, 99
Sontag, S., 76
Sorci, E., 16, 137, 142
Sordi, A., 66, 73, 74, 79, 80, 103, 115, 117, 162, 169, 173, 187, 190, 191,
194
Sorrentino, P., 40, 74, 174, 179
Spadolini, G., 58
Spencer, D., 143
Spinelli, S., 142
Spinola, M., 138
Spoletini, fratelli, 161
Spoletini, A., 161
Squarzina, L., 100
Stajano, G., 140
Stamp, T., 167
Stanlio (Stan Laurel, pseud. di A.S. Jefferson), 162
Starace, A., 140
Stecchetti, L. pseud. di O. Guerrini, 24
Steel, A., 50, 138
Stegers, B., 166
Steinbeck, J., 91, 193
Steno (S. Vanzina), 60, 181
Stourdzé, S., 101
Stravinskij, I., 123
Stroheim, E. von, 101
Susca, A., 125
Sutherland, D., 8, 173
Svevo, I. (A.H. Schmitz), 100
Tabucchi, A., 118
Taddei, N., 101
Tagore, R., 123
Talamo, G., 198
287
Tamaro, S., 166
Tarkovskij, A., 23, 24
Tartaglia, B., 142
Tassone, A., 100, 167
Tatò, A.M., 118
Tavanti, R., 63
Taviani, P. e V., 24, 97
Taylor, E., 140, 141
Thiele, W., 60
Tognazzi, R., 79
Tognazzi, U., 173
Tolstoj, L., 23
Tondelli, P.V., 27
Topor, R., 165
Tornabuoni, L., 100
Tornatore, G., 13, 24, 27, 75, 102
Toscanini, A., 14, 123
Tota, A., 87
Troisi, M., 75
Trombadori, A., 33
Trovajoli, A., 97, 124
Truffaut, F., 102
Turchetti, G., 63
Tullio Altan, F. detto Altan, 191
Twombly, C., 50
Valente, A., 174
Valenti, J., 13
Valenti, O., 198, 199
Valentino, R., 117
Valli, A., 197
Valli, R., 63
Vendetti, N., 141
Verdi, G., 28, 126
Verdone, C., 87
Verdone, M., 100
Verga, G., 51
Vergari, M., 142
Verginelli, V., 121, 122
Verlaine, P., 7
Veronesi, S., 157
288
Vicari, D., 153
Vico, G., 20
Vidal, G., 186
Vidor, K., 39
Vigliano, E., 125
Vigorelli, G., 125, 126
Villaggio, P., 78, 108-110, 168
Virgilio Marone, Publio, 122
Virzì, P., 27
Visconti, L., 44, 101, 115, 118, 126, 173, 194, 197
Vitti, M., 17, 25
Vittorini, E., 21, 24, 54, 91, 194
Vlad, R., 124
Volli, U., 98
Volonté, G.M., 99
Volpi, G., 100
Warhol, A. (A. Warhola), 24, 144
Weill, K., 124
Welles, O., 145
Wellman, W.A., 68
Wenders, W., 24
Wertmüller, L., 97, 99, 190
Wilder, B., 101, 141
Williams, W.C., 78
Winspeare, E., 27
Wittgenstein, L., 147
Wolinski, G., 49
Woo, J., 160
Wood, N., 140
Wyler, W. (W. Weiller), 47, 65, 174
Yeston, M., 78
Zalone, C. (L.P. Medici), 26
Zampa, L., 56
Zanelli, D., 101
Zanin, B., 14, 154
Zannier, I., 142
Zanobini, A., 65
Zanzotto, A., 101
Zapponi, B., 33
Zarlino, G., 125
289
Zavattini, A., 142
Zavattini, C., 142, 181
Zavoli, S., 100
Zecca Laterza, A., 125
290
Crediti
FIGG.
1, 2, 5, 6: Foto di Carlo Riccardi. Fonte: Archivio Riccardi di
Maurizio Riccardi; ricerca iconografica Marino Paoloni e Giovanni
Currado (Agr).
FIGG.
FIG.
3, 8, 9, 10, 11: Alamy Stock Photo.
4: Cineteca di Bologna.
291
Figure
Roma, primi anni Sessanta. Due ragazzine alla fontana di Trevi,
sognando la Dolce vita.
1.
292
2.
Roma, 1959. Anita Ekberg arriva sul set della Dolce vita.
293
Roma, 1960. Federico Fellini con Anita Ekberg ed Ennio
Flaiano.
3.
294
4.
Marcello Mastroianni nella scena finale de La dolce vita (1960).
295
5.
Roma, 1957. Giulietta Masina in aeroporto con il cognato
Riccardo Fellini, fratello minore di Federico.
296
6.
Di ritorno da Los Angeles, marzo 1958. Con aria furbetta,
Giulietta Masina mostra ai fotografi l’oscar vinto da Le notti di
Cabiria.
297
7.
La locandina di Amarcord (1973) venne disegnata dal pittore
Giuliano Geleng, ispirato dalle suggestioni dello stesso Federico
Fellini: «Il manifesto dovrebbe a colpo d’occhio sprigionare la
lietezza squillante di una cartolina natalizia o meglio pasquale…».
298
I vitelloni scrutano l’orizzonte in una scena del film (1953). Da
sinistra: Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Leopoldo Trieste,
8.
Riccardo Fellini.
299
9.
Marcello Mastroianni nel carosello finale di 8 ½, sulle celebri
note di Nino Rota (1963).
300
Amarcord. Una folla «galleggiante» saluta il passaggio del Rex
dinanzi alle coste di Rimini. Nella realtà il più grande transatlantico
italiano non solcò mai le acque dell’Adria- tico, se non in occasione
10.
del suo affondamento da parte dell’aviazione britannica, nei pressi di
Trieste (1943).
301
11.
Federico Fellini, appunti e disegni per il suo libro dei sogni.
302
Table of Contents
Frontespizio
Un sogno lungo un secolo
Amarcord
Borgo (ovvero Rimini)
Clown
Dolce vita
Ekberg
Flaiano
Giulietta
Hollywood
Infanzia
Jung
Kezich
Luna
Marcello
Nino, l’amico magico
8½
Paparazzo
Quid
Rex
Sogno
Teatro 5 – Cinecittà
Urbe
Vitelloni
Zampanò
Nota bibliografica
2
53
58
66
75
83
90
96
105
114
123
128
136
146
152
159
169
174
183
188
195
206
213
221
226
235
Un sogno lungo un secolo
Amarcord
237
238
303
Borgo (ovvero Rimini)
Clown
Dolce vita
Ekberg
Flaiano
Giulietta
Hollywood
Infanzia
Jung
Kezich
Luna
Marcello
Nino, l’amico magico
8½
Paparazzo
Quid
Rex
Sogno
Teatro 5 – Cinecittà
Urbe
Vitelloni
Zampanò
239
240
241
242
243
244
245
246
247
248
250
251
252
253
254
255
256
257
258
259
260
261
Indice dei film
Indice dei nomi
Crediti
Figure
262
268
291
292
304
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