PARTE PRIMA: LE PREMESSE DEL TARDO MEDIOEVO Capitolo 1: IL DIRITTO COMUNE E L’EUROPA 1. Ius commune, romano-canonico e ius proprium Lo ius commune si diffuse grazie alle Università nel 1100, dove veniva insegnato il Corpus Iuris Civilis. Assieme ad esso veniva insegnato il Corpus Iuris Canonici; questo, dipendendo dalla Chiesa ebbe diffusione già nel corso del XII secolo in tutta Europa. Il diritto romano fu recepito lentamente con tempi e modalità differenti da luogo a luogo, ma siccome veniva insegnato con gli stessi metodi, si finì per avere la creazione di un sistema di diritto uniforme in Europa basato sul diritto comune romanocanonico. Lo ius proprium, il diritto proprio di ogni ordinamento, invece, non costituiva oggetto di studio nonostante avesse una posizione prioritaria nella gerarchia delle fonti rispetto al diritto comune e veniva letto, interpretato ed applicato sulla base delle categorie concettuali romanistiche apprese nelle Università. Per questa ragione è errato parlare di una dicotomia tra ius commune e ius proprium. 1.1. L’Italia fu il Paese che ha visto una più rapida applicazione del diritto universitario, sia perché era quello in cui era nato e intensamente praticato, per la frequenza delle Università, sia ancora per la presenza del papato, divenuto nel 1100 la fonte principale del diritto canonico; sia infine per la precoce presenza di un ceto di notai molto numeroso. Tutto ciò non evitò però una larga diffusione di diritti locali, sia nelle aree monarchiche che in quelle delle Città-Stato. Perciò l’Italia fu il Paese che ha vissuto per prima il problema del rapporto tra diritto comune e diritto proprio ed ha avuto giuristi che dal 200 hanno discusso dei problemi emergenti dal concorso di fonti. Prendiamo in considerazione un istituto, quello della repressione della stregoneria, tipicamente medievale ed esclusivo del diritto canonico. Il Decretum di Graziano, primo testo di diritto canonico insegnato a Bologna, recava sul punto il canone Episcopi, esso trattava in maniera blanda le credenze circa le streghe ed i loro voli notturni al Sabba con i diavoli, ritenute essenzialmente superstizioni. Nel testo canonistico successivo oggetto d’insegnamento, il Liber Extra del 1234, si distingueva nettamente tra eresia, che veniva repressa duramente, e magia che compare per vietare le divinationes ed il ricorso alla sors ed all’astrolabio, nonché al sorteggio nelle procedure elettorali. A metà secolo l’Inquisizione deve essere stata anche troppo solerte, per cui Alessandro IV ricordò che gli inquisitori dovevano occuparsi esclusivamente della peste, dell’eresia e lasciare alle corti vescovili (i giudici ordinari) divinazioni e sortilegi. Ma il papa poneva un inciso molto importante: la competenza degli inquisitori si sarebbe accesa laddove quelle pratiche “avessero chiaramente traboccato nell’eresia”. La decretale veniva accolta nel Liber Sextus, la successiva raccolta di testi papali insegnati nelle Università del 1298, e nella Glossa di Giovanni d’Andrea, ove si precisava che, in dubbio, gli inquisitori non dovevano avere alcuna giurisdizione sui casi di stregoneria. A Pistoia, nel 1250, nella curia del podestà, quando si condannò una donna di servizio perché malleficiavit il suo padrone per renderlo impotente ai rapporti con la moglie, la condanna era stata di 200 lire, senza precisazioni in caso d’insolvenza e niente pena al rogo, dunque. Nel primo 300 furono emanate costituzioni episcopali integrative al diritto canonico per le diocesi di Firenze e Fiesole e si stabilì ancora solo la scomunica per gli autori di sortilegi, maleficia, incantamenta et brevia. Preziose informazioni, anni dopo, ci vengono da un consilium di Oldrado da Ponte, celebre professore universitario, sotto la protezione del papa operante in curia ad Avignone, dove sarebbe divenuto anche giudice di Rota. Ebbene un certo Johannes de Partimano era stato preso d’amore per una donna, e preparò bevande e immagini, naturalmente a fini di libidine. Il suo caso fu affidato dal papa, a due uditori, e dal consilium si capisce che la questione verteva sul fatto se si fosse o meno in presenza di un caso di stregoneria tendente all’eresia tale da far scattare la competenza dell’Inquisizione. In presenza di dubbio non fu la stessa Inquisizione a decidere e gli argomenti addotti da Oldrado convinsero che si trattava piuttosto di superstizione e follia amorosa, per cui il nostro Giovanni poté andare libero. I gruppi dirigenti erano increduli, perché a livello popolare era diffusa la credenza nella magia e le voci che invitavano alla prudenza si facevano sempre più rare. 1.2 La Germania fu il Paese che restò più indietro nel processo di recezione del diritto romano insegnato nelle università. I motivi del ritardo sono da attribuire al processo di scritturazione del diritto consuetudinario, sino ad allora diffuse oralmente. Tutto ciò consolidò il patrimonio normativo tradizionale ed aumentò la resistenza alla penetrazione di un diritto straniero. Le raccolte di diritto consuetudinario, che riuscirono ad avere una diffusione anche al di fuori dell’area regionale da cui nacquero, furono lo Specchio degli Svevi, nella Germania del sud, e lo Specchio dei Sassoni, nella Germania nord-orientale. Discorso a parte va fatto per il diritto canonico grazie alle giurisdizioni ecclesiastiche. Nella situazione tedesca vi erano analogie con quanto avveniva in Inghilterra, dove il Common Law aveva fatto da barriera al diritto romano, anche se la cultura tedesca finì presto per trovarsi ben più vicina a quella italiana poiché molti studenti tedeschi si formavano nelle università italiane. A fare da resistenza vi era anche l’enorme frammentazione politica che creava l’esigenza di un diritto superiore capace di offrire idonee soluzioni ai vari problemi che si presentavano e rispetto ai quali il diritto locale non dava soluzioni. Solo il diritto romano era all’altezza di tale compito e molti studenti delle università finirono per fare i consulenti legali di principi, vescovi o città autonome tedesche, che attraverso sentenze e consilia diffusero le argomentazioni giuridiche tipiche del diritto romano mettendo in evidenza l’idoneità a risolvere tale problema. Fu, dunque , una ricezione di fatto, non dichiarata che si protrasse per tutto il 1400 fino alla ricezione ufficiale del diritto comune tramite l’istituzione del Tribunale Camerale dell’Impero del 1495. Molte delle città libere tedesche, dato il complicarsi della struttura sociale e l’intensificarsi dei commerci, cominciarono a legiferare e nel farlo si ispirarono al modello statutario italiano. 1.3 La Francia Nella Francia del sud, grazie alle compilazioni romano-barbariche dei Visigoti e dei Burgundi (Lex Romana Wisigothorum e Lex Romana Burgundionum) il dir. romano sopravvisse anche dopo la caduta dell’Impero Romano, invece nel nord con la fondazione dello Stato Franco il dir. romano fu messo al bando e al suo posto si diffuse il dir. consuetudinario franco di origine germanica. Si creò così una dicotomia tra pays de droit ecrit a sud e de droit coutumier a nord, cioè tra paesi di diritto scritto romano e paesi di diritto consuetudinario basato sulla tradizione orale. La penetrazione del diritto romano dotto fu facile nel sud della Francia dove si svilupparono università come quella di Montpellier, territori sempre stati di diritto romano. A nord incontrò la resistenza delle consuetudini locali consolidate dal processo di scritturazione ordinato dal re a metà 400 con l’Ordinanza di Montils-les-Tours del 1454. Tuttavia anche in Francia la ricezione del dir. romano cominciò già dal sec XIII e si sviluppò in modo più energico che in Germania perché era stato sostenuto da università famose e dalla monarchia che appoggiava il ceto dei legisti. 1.4 Inghilterra : tra diritto canonico e origini del common law Al sistema dell’Europa continentale detto di civili law, perché derivante dal ius civile romano, si contrappone il sistema di common law che ha radici nel XII secolo in Inghilterra. A seguito della battaglia di Hastings del 1066 vinta da Guglielmo I di Normandia, il potere regio nell’isola poté perdurare solo a prezzo di essere forte e capace di arrivare capillarmente nelle varie parti del Paese. Perciò furono istituite, nel corso del XII secolo, delle Corti regie che prima affiancarono e poi sostituirono il sistema feudale di giustizia locale, instaurando un sistema di diritto uguale a tutto il territorio e fortemente centralizzato. Esso si basava sui writs, ossia ordini che il re dava al giudice di accertare se determinati fatti erano accaduti o meno e, sulla scorta degli accertamenti fatti, di giudicare in un senso o nell’altro. Costituivano ipotesi specifiche e venivano emanati per conto del re, su richiesta dell’attore e dietro pagamento di una tassa. Durante il regno di Enrico II, metà XII secolo, si svilupparono 2 giurisdizioni regie, il King’s Bench (Banco del re) e la Court of Common Pleas (Corte dei processi ordinari). Il fatto che l’amministrazione del re e le corti finissero per avere la loro sede fissa a Londra, fece sì, che si formasse una cerchia di giuristi pratici della materia, istruiti e politicamente influenti che si organizzarono in corporazioni professionali con il nome di Inns of Court e ai quali fu affidata l’educazione del giurista, formato attraverso la pratica. Solo chi si era formato qui, si pretese, che potesse esercitare come avvocato o giudice. Anche nelle università inglesi veniva insegnato il diritto romano, ma con finalità solo culturali o per preparare i giuristi delle corti ecclesiastiche. Il diritto romano non si affermò in Inghilterra perché, nel momento in cui i dottori delle università di Bologna elaborarono il processo romano canonico, in Inghilterra si era già affermato il sistema della corti regie e dei writs. Il processo creativo dei writs applicati dalle corti andò scemando a partire dal 1300 perché era troppo rigido e lacunoso e molte cause venivano perse o per errori tecnici o per la mancanza di writs adeguati al caso. Così intorno al 1300 fu possibile, per la parte che avesse perso o non avesse iniziato la causa per mancanza di writs, presentare una petizione al re, pregandolo di ingiungere all’altra parte della causa un determinato comportamento, non basato sul common law ma per riguardo ai principi della morale e dell’equità cristiana; in concreto si passava la domanda al Cancelliere che giudicava con quale rimedio e se concedere la grazia. Le richieste che furono progressivamente inoltrate direttamente al Cancelliere, divennero un corpo consolidato di rimedi processuali che prese il nome di equità; così pure l’ufficio che le applicava divenne una corte separata: la Court of Chancery. L’equity costituì un sistema di rimedi processuali integrativo, parallelo e non antitetico rispetto al common law: divenne parte del common law in senso lato, ma distinto dai rimedi di common law in senso stretto (writs). Nella tradizione inglese è dal processo che si guarda il diritto anziché da proclamazioni astratte di diritti soggettivi. Perciò la legge intervenne su molte questioni di diritto pubblico, ma nelle questioni private solo in via eccezionale, con una funzione integrativa correttiva del common law. Il diritto posto con la legge, statute, veniva considerato speciale, sottoposto ad un’interpretazione restrittiva, e non veniva applicato per via analogica. Nelle Università si formavano i Doctors, negli Inns invece sia i solicitors, che sollecitavano gli atti nelle corti, che i baristers, coloro che facevano le discussioni che venivano registrate nei libri annuali dei processi (Year books). Il 500 rappresentò un momento favorevole per il diritto romano per l’azione di Enrico VIII che istituì dei regi professori di diritto romano, ancora esistenti. Enrico VIII avrebbe voluto introdurre il diritto comune perché vi trovava la sottolineatura del potere del Principe secondo il principio “Ciò che piace al principe è legge”. Il diritto romano era fondato sul concetto di proprietà piena. Infatti importante per l’inizio del processo capitalistico fu il fenomeno delle enclosures (recinzioni), che si concluse entro il 600-700: le terre prima di uso comune o proprietà collettiva vennero divise e recintate, permettendo un’agricoltura di tipo intensivo e redditizio, incentivando l’accumulazione del capitale necessario per lo sviluppo industriale. L’atteggiamento favorevole verso il diritto comune di Enrico VIII cessò con lo scisma da Roma nel 1534. La soppressione della Chiesa romana ebbe importanti risvolti economici. Ciò voleva dire incamerare i beni dei monasteri che venivano rivenduti ai privati. Il che spiega le difficoltà a reintrodurre il cattolicesimo incontrate con la regina Maria a metà secolo: si sarebbero dovute riconsegnare le terre ai precedenti proprietari. 2. La scritturazione del diritto e il problema dell’interpretazione La scritturazione del diritto fu un fenomeno, che a partire dal XIII secolo, interessò un po’ tutti i Paesi europei, favorendo la diffusione dell’idea che la legge dovesse essere contenuta in testi scritti. Però, mentre le raccolte di Francia e Germania contenevano norme di diritto consuetudinario, quelle di Spagna, Italia e Inghilterra, si ispiravano al diritto romano e contenevano materiale legislativo nuovo. Queste raccolte avevano, in genere, la precedenza nella pratica rispetto al diritto comune ma costituivano un diritto particolare e perciò insuscettibile di applicazione analogica o di interpretazione. La legge era espressione della volontà giuridica, ma anche politica, del legislatore che era solo il principe. Al momento della sua emanazione, ogni atto normativo comincia a vivere una sua vita autonoma e, molto spesso, quella che è la volontà del legislatore viene stravolta o non rispettata al momento dell’applicazione del diritto. Per questo l’attività interpretativa è stata proibita dai legislatori. Lo stesso valore deve essere attribuito al divieto di interpretazione del testo che si rintraccia spesso negli statuti comunali, ove si precisa che il testo va applicato alla lettera , secondo il senso chiaro ed evidente delle parole. Lo statuto cittadino, infatti, era visto come una sorta di deroga al diritto comune e dunque insuscettibile di interpretazione analogica. Il divieto corrispondeva al timore dei legislatori di vedere modificata la volontà politica e giuridica. Comunque si tratta di un proposito ideologico perché anche i giudici comunali restringevano o allargavano la lettera dello statuto per dare un significato compiuto. Il divieto di interpretatio rappresenta un’aspirazione più che una realtà. Di fatto interpretavano soprattutto i giuristi medievali che grazie ad un’attività creatrice del diritto, sulla base del diritto romano, riuscirono ad adattarlo ad esigenze del tempo. Importanti regole le troviamo nel corpus iuris civilis giustinianeo dove il pensiero che solo il principe potesse interpretare le norme perché da lui stesso emanate è reso esplicito. Altre importanti regole sull’interpretazione le troviamo nel Digesto, dove si dispone che in primo luogo si guardi a come si è provveduto nei casi anteriori del genere e poi che in caso di dubbio si tenga presente la consuetudine, ovvero il prestigio delle decisioni già prese. 3. Il processo romano-canonico e l’inquisizione Il processo romano-canonico è, insieme al Corpus iuris Civilis e Canonici, l’eredità giuridica che il Medioevo ha lasciato all’Età moderna. Le caratteristiche del processo romano-canonico si differenziano nettamente da quelle del processo alto medievale, che era di solito un processo: 1. orale; 2. che si svolgeva davanti a giudici che non erano tecnici del diritto; 3. nel penale era basato su di un sistema accusatorio; 4. e tra i mezzi di prova erano previste le “ordalie”, prove di Dio: duello, acqua bollente, ferro caldo. Il processo romano-canonico era tutto al contrario, ossia: 1. scritto; 2. che si svolgeva davanti a tecnici 3. basato su prove razionali (in particolare le testimonianze e non le ordalie); 4. in cui ha valore solo ciò che veniva provato nel processo, infatti qui c’è la massima tecnicizzazione, perché la sentenza è emessa dal giudice secondo quanto risulta dagli atti e le prove, ed anche se consapevole dell’iniquità del verdetto, il giudice dovrà attenersi agli atti. Nel campo penale, il processo diviene essenzialmente inquisitorio. Questo tipo di processo risale al 200, quando le corti ecclesiastiche dovettero applicare alcune decretali pontificie. Il processo inquisitorio si basa sull’iniziativa del giudice che non è un terzo super partes, che assiste alla contesa tra accusatore e accusato, che assiste imparziale, ma è parte attiva in quanto c’erano una serie di reati contro i quali doveva procedere d’ufficio e da questo nasceva l’obbligo di cercare prove e responsabili del reato. La svolta è enorme, prima lo Stato non sentiva tra i propri oneri quello della repressione del crimine e comunque riteneva fondamentale la presenza di un’accusa formale; ora invece, dal 200, su impulso della vasta attività svolta dall’inquisizione della Chiesa contro gli eretici, si affermò, anche in sede laica, l’idea che un’autorità in prima persona potesse agire contro il reo anche se non vi era un’accusa formale della parte lesa, la quale non era più soggetta alle intimidazioni del reo che poteva farla desistere dal presentare accusa, rimanendo così il reato impunito. Questa Inquisizione decentrata fu sostituita in età moderna da un’Inquisizione centralizzata presso il Papato. Il carattere inquisitorio del processo penale romano-cattolico portò conseguenze positive e negative. Tra gli aspetti positivi c’è il fatto che i crimini non rimasero più impuniti come nell’alto medioevo. Aspetto negativo del sistema inquisitorio fu che la pubblica accusa era parte della stessa corte. Viene a mancare dunque una netta separazione tra giudice e accusa, poiché le parti sono solo due: l’inquisito e l’inquisitore, che fa parte della corte che dovrà poi emettere la sentenza; cosa che nel sistema accusatorio non accadeva poiché il giudice assumeva la posizione di terzo. Altro aspetto negativo è che fu recuperata dal diritto romano la pratica della tortura giudiziaria, applicabile ogni volta che non fossero sufficienti altri elementi di prova. Bisognava tener presente che nel processo di diritto comune la condanna era possibile ove esistesse una piena prova. Spesso divenne quindi indispensabile la piena confessione del reato da parte dell’inquisito. Differenza fra processo inquisitorio laico e quello ereticale è che, nel primo, era prevista l’assistenza legale dell’inquisito, nel secondo era lo stesso inquisito a difendersi senza conoscere neppure le contestazioni specifiche che gli vengono accollate, né i nomi dei testi a carico. Un’altra caratteristica del processo romano canonico è la scrittura, grande elemento di differenziazione rispetto al sistema di common law, che si basava su un dibattimento orale davanti ad un giudice e ad una giuria. Il procedimento penale inglese si divideva in 2 fasi: una prima in cui il Gran jury stabiliva davanti ad una commissione locale se procedere nei confronti dell’inquisito (come attuale gip) ed una seconda fase in cui un Petty jury giudicava in merito a quella fattispecie concreta; si era dunque giudicati dai propri simili, ciò da noi si ebbe solo nelle corti feudali. In Inghilterra il sistema della prima giuria, per accertare se aprire il processo vero e proprio, consentì di non instaurare il processo inquisitorio perché il collegio dei giurati locali evitava l’intimidazione che nel sistema accusatorio impediva la repressione del crimine. Nel processo romano-canonico, a differenza di common law, non c’era una giuria ma un giudice dotto e monocratico e in campo penale gli atti dovevano rimanere segreti. Il processo romano-canonico è scritto in tutte le sue fasi, anche in quella della tortura giudiziaria. Essa doveva essere fatta davanti ad un notaio che verbalizzava tutte le fasi della tortura, che andava praticata in modo che non recasse danni permanenti al torturato. Per l’Inquisizione e le sue pratiche, 2 trattati ebbero grande successo: quello di Bernardo Gui e quello dello spagnolo Nicolas Eymerich. 4. Uguaglianza delle parti nel processo di diritto comune Riguardo alla posizione delle parti, il processo di diritto comune presentava alcune caratteristiche formali di rilievo in senso garantista che s’ispirava al principio del contraddittorio, per cui era necessaria la garanzia del diritto di difesa del convenuto. In primo luogo l’attore doveva procede all’accusa in modo che l’accusato ne fosse a conoscenza. Si riteneva poi, in base alla massima di Ulpiano, contenuta nel digesto che recita: “non deve essere consentito all’attore ciò che non è consentito al convenuto”, che l’attore non potesse compiere atti preclusi al convenuto. Il principio di uguaglianza delle parti nel processo avrebbe dovuto prevalere su ogni altro, principio questo che trovava un’applicazione problematica in un sistema che riconosceva largamente privilegi e distinzioni in base alla categoria sociale delle persone. Anche per i giuristi Bartolo, Baldo e D’Afflitto si doveva dare la prevalenza a tale principio sui privilegi. 5. I Consilia - Pareri dei giuristi. Un altro aspetto interessante del processo romano-canonico che si sviluppa sopratutto nell'Italia comunale è il consilium, parere del giurista, detto anche "consiglio di savio" nelle fonti statutarie antiche. I Consilia si dividono in 2 categorie: - consilium pro parte; è il parere che il giurista dotto, dà alla parte che ne fa richiesta per sostenere le proprie ragioni davanti al giudice e, - consilium pro veritate (sapientis); è quello chiesto dal giudice al giurista quando, la causa aveva un minimo di complicazione sulla questione del diritto da decidere, e il parere del giurista aveva carattere vincolante sulla pronuncia della sentenza. Dunque il giurista si pronunciava su richiesta ufficiale del giudice che recepiva il consilium ed era obbligato a sentenziare seguendo quelle indicazioni. I consilia sapientis dati per una causa, non erano vincolanti per il futuro. Le motivazioni per cui il giudice era obbligato a recepire il consilium del dotto, sta nel fatto che non sempre i giudici erano dotti, poiché di solito venivano da fuori e quindi, non conoscendo il diritto locale anche se dotto il giudice aveva bisogno del parere. La spiegazione che appare più plausibile è che in realtà si voleva maggiormente valorizzare il ruolo del collegio dei dottori locali. In ogni comune c'era una corporazione che era molto rilevante a livello politico. Un'altra ipotesi di spiegazione è che, nel caso di ricorso al consilium sapientis, il giudice non era tenuto a rispondere di eventuali errori nella consueta sede di sindacato: Il consilium era insomma anche un mezzo di deresponsabilizzazione dei giudici. Questa pratica di origine medievale è proseguita fino in età moderna e ha portato 2 conseguenze molto importanti: l'aumento di prestigio dei giuristi, con la formazione di un loro mercato, e la corsa ad assicurarsi i più accreditati e la penetrazione del diritto dotto e della cultura accademica nella paratia. Dal 200, quando inizia questa prassi, si inizia anche la conservazione dei consilia. Tra le tante raccolte cominciarono a circolare nel 300, gruppi di consilia dati dal giurista più accreditato nel medioevo, Bartolo da Sassoferrato, la cui opinione finì per presumersi sempre corretta: è il cosiddetto bartolismo, ossia leggere il diritto comune alla luce delle dottrine di Bartolo o del suo allievo Baldo degli Ubaldi. Ulteriore divisione dei consilia va fatta tra, consilia richiesti nell’ambito di un processo vincolanti o meno, e quelli extragiudiziali formati fuori da un processo; quest'ultima categoria ebbe una particolare importanza sia tra rapporti tra privati sia nell'attività degli enti pubblici. Processuali o meno, i consilia furono uno degli strumenti fondamentali per il cui tramite il diritto comune entrò nella pratica. Una cosa era una dottrina insegnata nell’università e cosa diversa era la pratica. Da questo si capisce come il mondo del diritto comune fosse un mondo di opinioni: partendo dal corpus iuris, su questo tema quel giurista sostiene questo, quell’altro quest'altra soluzione. Non c'è un legislatore che sciolga i dubbi ma tutto è lasciato all'autogestione dei giuristi. Questa realtà si prestava ad alimentare la cosiddetta disputa delle arti, ossia la lotta tra le discipline. Sarà l'incertezza del sistema uno degli argomenti-principe che gli umanisti utilizzeranno contro i giuristi che, anziché cercare la verità, avrebbero lavorato per il potere e il denaro; facendo ciò, il loro prestigio andò lentamente declinando e nel contempo aumentò quello degli umanisti. Il giurista consulente conobbe l’apice del successo nel 400 e seguì una flessione a partire dal 500. 6. Perizie processuali, cosa giudicata e consilia Dal 200, ebbero grande importanza anche le testimonianze qualificate dei periti. Ebbene, in margine all'ipotesi delle matrone, Guglielmo Durante, aveva osservato che il detto d'esperti era quindi più valido di una testimonianza normale, e nel corso del 300 era divenuto pacifico che la perizia dei tecnici fosse superiore della testimonianza non qualificata. Perciò si cominciò a sostenere che se una causa era stata chiusa con una perizia e poi se ne fosse trovata una più qualificata, il processo doveva riaprirsi rivedendosi la prima sentenza. Infatti, si sostenne che, come la sentenza basata sulla perizia, così anche quella emessa su un consilium sapientis andrà rivista se si troverà un consilium migliore. Viene fuori così la massima: "quella sentenza, proprio perché basata su consilium, non passa in giudicato". La questione fu molto discussa, ma fu il tribunale laico a fissare come propria giurisprudenza a fine 500 che la sentenza basata su consilium sapientis passasse ugualmente in giudicato e chiudesse definitivamente i processi. Invece i giuristi operanti a Roma rimasero fermi a sostenere la ritrattabilità della sentenza fedele alle tradizioni del diritto canonico. 7. Lo sviluppo dottrinale dello ius comune: il diritto internazionale privato. Come si vede il diritto comune è un sistema la cui evoluzione si basò sull'interpretatio doctorum. Differente è il sistema di common law, che è invece a sviluppo giudiziario ma, per quanto il civil law ed il common law seguono delle linee di sviluppo tendenzialmente dottrinarie o giudiziali, non fu mai esclusa la rilevanza della legislazione. In questi sistemi giuridici ci fu pur sempre un legislatore creatore di leggi e statuti, le cui lacune vennero colmate via via attraverso l'attività dei giudici (nel common law) e dei doctores (nel civil law). I nostri giuristi elaborarono criteri ritenuti più opportuni per vari gruppi di problemi emergenti. In particolare seppero distinguere questi complessi problematici: -Capacità di agire e status delle persone. I giuristi sostenevano che si dovesse avere riguardo alla legge personale dello straniero, cioè del suo Comune di appartenenza. Se, cioè, non si era in grado di stipulare un contratto per minorità nella propria città, non si poteva invocare la diversa normativa vigente in un'altra città per poterlo fare. Si distingueva comunque nel senso che la legge personale "seguiva " la persona quando favorevole (per proteggerlo), mentre ciò non avveniva quando fosse "odiosa", limitandosi solo ad avere rigore entro lo stato d'origine. -Contratti in genere e in particolare quelli relativi ai beni mobili. Qui si presentavano vari problemi. Per la forma, valeva il principio "il luogo indica la legge applicabile". Per i diritti nati con riferimento alla conclusione dei contratti, valeva la legge del luogo di conclusione. Invece, se il contratto non era eseguito secondo quanto pattuito, si guardava al diritto del luogo in cui doveva essere adempiuto, se così avessero voluto le parti, altrimenti alla legge del giudice adito. -Beni immobili. In questo caso le regole generali subivano delle eccezioni, trattandosi di un settore cui anche gli statuti guardavano con particolari cautele, perché valeva in questo caso il principio della "legge del luogo in cui si trova l'immobile", che ne escludeva la commerciabilità o la limitava o la sottoponeva a tributi. -Successioni intestate. Questo tema richiama quello dell'eredità in caso di mancanza di testamento. La questione si sviluppò soprattutto con riferimento alla questione inglese, dato che in Inghilterra in luogo della regola italiana, della divisione tra tutti i figli, si applicava la primogenitura. Il grande Bartolo da Sassoferrato, sostenne la necessità di studiare il modo in cui era formulata la legge: se essa poneva l'accento sul problema del luogo, si doveva applicare la legge del luogo, fosse il defunto un cittadino o uno straniero; ponendo invece l'accento sulla persona, faceva riprendere l'efficacia alla legge personale. Cosicché se i figli erano inglesi il primogenito ereditava tutto in Inghilterra, ma i beni situati altrove si dividevano tra tutti; se non erano inglesi, la primogenitura non si applicava, ovunque fossero i beni. -Diritto penale. Regnarono minori incertezze in questo campo perché si ammetteva che si potesse applicare la legge del luogo del reato: gli stranieri quindi in forza del diritto sono da considerarsi cittadini, anche se con la limitazione che quando il reato tale non fosse in base al diritto comune essi dovevano scusarsi per la loro ignoranza. Inoltre potevano essere puniti anche per il reato commesso contro il civis fuori della civitas, quando non fosse stato punito dal suo giudice, così com'è punito il civis che delinque fuori dal suo territorio. -Norme processuali. Non vertevano controversie teoriche, sostenendosi un sicuro orientamento già dal 200 per l'applicazione delle norme del luogo in cui il processo si svolgeva. Si tratta di criteri empirici elaborati fondandosi più sul buon senso che non su norme di legge. Il merito di questi giuristi è aver effettuato valutazioni oggettive a favore dell’interesse pubblico e della certezza dei rapporti: perciò alcuni dei criteri indicati hanno avuto una fortuna che va bene al di là del diritto romano, essendo ancora oggi vigenti; perciò questi nostri giuristi vengono indicati come i fondatori del diritto internazionale privato. È chiaro che nonostante l’asserita personalità dello statuto, essi finirono per ammettere la territorialità per le norme penalistiche, processuali e relative agli immobili (materie di interesse pubblicistico), mentre si riconobbe il ruolo dell’autonomia privata per i rapporti obbligatori, dandosi certezza alle estrinsecazioni col principio del locus regit actum (il luogo indica la legge regolatrice del rapporto). 8. Le funzioni del diritto comune romano-canonico. Le funzioni che dobbiamo riconoscere al diritto comune. 1) Esso ebbe un valore sussidiario; nei casi non specificatamente previsti dalla legislazione propria locale, questa stessa di solito prevedeva che si applicasse lo ius commune. 2) Costituì un modello di riferimento indispensabile e un enorme deposito di concetti e soluzioni giuridiche da cui attingere per creare il diritto locale. 3) Il diritto comune svolge una funzione formativa, perché su di esso si formarono in modo uniforme tutti i giuristi d'Europa continentale. 4) Fornì le categorie per la lettura stessa dei diritti locali. 5) Per la sua complessità interna, il diritto comune ammonì permanentemente sulla pluralità delle fonti normative operanti in concreto e sui loro difficili rapporti dialettici. Insegnò quindi che ora prevale una fonte ora l'altra a secondo delle circostanze storiche. 6) Fornì problemi e soluzioni non solo sul piano giuridico ma anche sul piano politico. 7) Infine, consentì di dare omogeneità alle norme di varie origini vigenti e, in particolare, di inserire nel sistema giuridico un diritto d'origine consuetudinaria che si era sviluppato parallelamente al diritto comune come un diritto speciale di categoria: il diritto commerciale. 9. La nascita del diritto commerciale. Il diritto commerciale è un settore con poco spazio nel diritto romano. Ebbe origine dalla pratica mercantile come insieme di consuetudini tese a regolare i rapporti che si venivano instaurando tra commercianti in relazione allo sviluppo dei traffici via mare e via terra, nei porti e in particolare, in occasione delle grandi fiere. Era un diritto diverso da quello romano. Veniva applicato in speciali tribunali: quelli del diritto marittimo si chiamavano Consolati. Mercanti erano tutti coloro che avevano a che fare con le merci. Inoltre accadeva spesso che l'imprenditore comprasse la materia prima e che poi ne commissionasse la lavorazione a domicilio. Questo rappresentava uno dei modi, più diffusi, di produzione decentrata e a basso costo. I prodotti finiti venivano acquistati a prezzi minimi e poi venduti a costi maggiorati. Le relazioni che si venivano a creare nella pratica non erano regolate dal diritto ufficiale, statale, ma erano lasciate all’autonomia delle categorie di imprenditori, organizzati in corporazioni ("arti"). Lo ius mercatorum era, dunque, un diritto professionale su cui gli interventi statali erano ridotti al minimo. Le normative erano diversificate anche all'interno dello stesso territorio e non solo da luogo a luogo, cambiavano a seconda dei soggetti sui quali intervenivano e creavano dei tribunali speciali. L'autonomia di cui godevano le corporazioni non era però assoluta. Lo stato cercò di esercitare sempre più frequentemente delle forme di controllo, e cominciò, quindi, ad autorizzare e a disciplinare l'istituzione delle mercanzie, e in particolare dei tribunali mercantili che erano deputati alla risoluzione delle cause di diritto commerciale. La corte della mercanzia oltre che essere il tribunale della corporazione, fungeva in molte città da centro di raccordo fra le varie arti. A seguito del forte potere delle corporazioni, dove il potere toccò l’apice, come a Genova, i mercanti s’inserirono nelle organizzazioni statali, per cui non ci fu la necessità di creare un' istituzione a se che disciplinasse i rapporti commerciali o che intrattenesse relazioni con il potere politico. Tra i tanti istituti tipici del diritto commerciale si ricorda quello dell'assicurazione, nata come consuetudine del diritto marittimo per l'esigenza di assicurare i carichi e le navi. L'istituto della cambiale o, meglio, della lettera di cambio venne utilizzata, tra l'altro, per eludere il divieto canonistico delle usure. Di origine medioevale essa iniziò ad essere oggetto di scambio con la "girata", inaugurando quel fenomeno fondamentale indicato come "mobilizzazione del credito". Altro istituto diffuso era quello della rappresaglia, che aveva luogo quando un cittadino rimaneva all'estero vittima di azioni illecite e non riusciva ad ottenere giustizia localmente. Lo stato di sua appartenenza, allora, poteva promuovere rappresaglie di un certo importo contro gli appartenenti a Paesi in cui tali azioni si erano verificate, fino all'ammontare del danno ricevuto. Il tutto a tutela di tutti quei cittadini che erano costretti ad operare in terre straniere e di tutti coloro che spesso avevano contatti con l'estero. Poteva accadere che un mercante avesse un credito in una città straniera e il tribunale locale si rifiutasse di riconoscerglielo o che ad un commerciante fossero sottratte delle merci: in questi casi lo Stato autorizzava le rappresaglie contro i cittadini della città inadempiente. Tra tutti gli istituti tipici di derivazione mercantile, vi era la disciplina speciale del concorso di creditori in caso d'insolvenza: ossia la disciplina fallimentare, che alterava l'ordine naturale dei creditori su patrimonio del mercante "decotto". Infine si ricorda la commenda da cui derivano le moderne società in accomandita. In essa c'era un socio che conferiva il capitale e un socio che invece si occupava di far fruttare il capitale, per poi dividere gli utili al termine dell'impresa, che di solito andava di volta in volta rinegoziato. Vanno poi menzionate quelle società che oggi si chiamano società in nome collettivo, quelle in cui tutti i soci erano capitalisti ed erano responsabili illimitatamente e in solido anche per le azioni compiute dagli altri soci. Tali società, dette compagnie, garantivano quindi in modo particolare il creditore. Nel complesso lo ius mercatorum divergeva dallo ius comune perché rispondeva a esigenze e realtà diverse. Il mondo del commercio doveva essere dinamico, semplice e pratico. Spesso non occorreva l'atto notarile e presso le mercanzie c'erano degli addetti che registravano informalmente il contratto scritto in volgare. Il bisogno di far circolare le merci portò alla tutela dell’acquirente anche “a non domino”, di colui che acquistava da chi non era proprietario del bene venduto, e non dal vero proprietario, che secondo lo ius civile avrebbe potuto esercitare l’azione di rivendica; ciò portò al riconoscimento degli interessi di mora, perché il mercante era danneggiato da pagamenti tardivi. 10. Diritto dei dottori e incertezza del diritto. Il diritto comune essendo frutto di dottrine è una creazione normativa frammentaria e contraddittoria, col risultato ovvio di un incredibile incertezza del diritto. 4 sono stati gli espedienti principali tentati per dare una risoluzione a questo problema. 1) Criterio della communis opinio. Consiste nel seguire l'opinione comune tra i dottori. Esiste in merito tutta una trattativa elaborata nel 400-500 che spiega come trovare la communis opinio mettendo al sicuro l'opinione prescelta. Non veniva seguito in genere un criterio numerico, ma si seguiva l'opinione qualitativamente superiore che molto spesso coincideva con l'opinio Bartoli. 2) Criterio della legge delle citazioni. La legge romana del 426 d.C. dava valore legislativo e vincolante alle opere di determinati giuristi. Questa legge era stata concepita in un momento di confusione della tradizione manoscritta delle opere dottrinali. 3) Ricorso alla riserva per il legislatore (già utilizzata da Giustiniano). Il potere politico si può riservare la possibilità di interpretare la legge in caso di dubbi interpretativi. Questo criterio fu utilizzato tra l'altro nella Spagna di Ferdinando e Isabel, ma non ebbe successo perché portò a un'accumulazione di cause pendenti e sembrò poco rispettoso della dignità del giudice. Perciò si tornò di fatto alla situazione precedente. Questo criterio non ebbe successo neanche nella Francia della rivoluzione francese. Proprio per questo si dovette istituire la corte di cassazione, poi imitata in altri ordinamenti continentali. Si tratta di un giudice di legittimità, cioè di una corte che valuta solo se i giudici di merito hanno interpretato correttamente la legge. La corte di cassazione quindi garantisce il rispetto della legge da parte degli altri giudici senza entrare nella fattispecie concreta del caso. Quando una stessa questione viene risolta da diverse Sezioni in maniera diversa è necessaria una decisione “a Sezioni unite”. 4) Dare valore di precedente vincolante alla giurisprudenza. Questo è un rimedio possibile, ma in realtà da noi non si è mai affermato il principio dello stare decisis, ossia dell'obbligo di seguire i precedenti giudiziari. Si tratta della soluzione adottata nei paesi di common law, in particolare in Gran Bretagna con i judicature acts di epoca vittoriana nel secondo 800, e come si pratica ad esempio rigorosamente in Sud Africa. 11. Il problema della rappresentanza: assemblee parlamentari e assemblee cittadine. Le opinioni dei professori svilupparono a fondo le categorie giuridiche fondamentali e il diritto privato. L’imperatore romano era circondato dal “concistoro” e nei regni medioevali era normale per i sovrani riunirsi con i capi militari e religiosi più fedeli e vicini, prima di prendere decisioni importanti: era la Curia Regis; sono le cosiddette assemblee preparlamentari. Assemblee convocate eccezionalmente nel corso dell’anno per eleggere i consoli o per proclamare fatti importanti come la guerra, e fondate sulla partecipazione corale del popolo, ma per adesione, perché si trattava solo di approvare per acclamazione quello che veniva proposto dal governo senza poter esprimere voti e singoli dissensi. Il dissenso, si esprimeva non partecipando o organizzando tumulti di disturbo. Siamo nella fase cosiddetta iniziale delle istituzioni rappresentative, che operano ancora senza regole fisse. I comuni italiani cominciarono a darsi delle regole nei “brevi” dei consoli e poi negli statuti, momento di grande sviluppo della democrazia cittadina, da fine 1100 in avanti, anche se le regole maggioritarie del rispetto di quanto deciso dalla maggioranza, ebbero difficoltà ad essere accolte e spesso le minoranze furono escluse per motivi politici per evitare che organizzassero colpi di Stato. 11.1 Lo sviluppo parlamentare inglese. All’origine di queste assemblee in Inghilterra ci furono convocazioni di rappresentanze dei ceti sociali e del territorio, perché il re aveva bisogno di tasse. Era il tempo di Re Giovanni Senzaterra, il quale convocò dei parlamenti, che per distinguersi l’uno dall’altro e ricordare le decisioni che vi venivano assunte, prendevano il nome del luogo in cui si riunivano. Essi non erano organi stabili perché si costituivano e scioglievano per la singola occasione. Si ebbero così, nel 1213, 2 parlamenti, uno a St. Albans e l’altro a Oxford. A conclusione di varie diatribe si giunse alla firma della Magna Carta (15 giugno 1215), fondamento del costituzionalismo inglese; tale documento era solo un contratto politico-giuridico fra il sovrano e i suoi sudditi, solo che la sua permanenza nel tempo ne ha fatto un simbolo del Common Law. La carta fu presentata come una promessa fatta dal Re, cioè apparve come un atto unilaterale, strappato in un momento di debolezza del sovrano e promulgato su consiglio dei “pari”. Il Re si obbligò a una serie di concessioni. Gli articoli 12 e 14 del testo, riguardavano le regole fondamentali per le assemblee, soprattutto per la loro convocazione e i tributi da applicare. Importante fu la vincolatività per gli assenti di quanto deciso, perché venne superato il principio dell’unanimità secondo cui tutti dovevano essere d’accordo. Il nuovo principio si poneva come elemento di garanzia per i membri dell’assemblea. Il principio maggioritario era previsto per il collegio dei nobili che doveva garantire l’osservanza della Carta. Tutto ciò dette vita a quello che per noi è un vero rapporto giuridico tra sovrano e sudditi. Il contrasto tra il Re e i maggiori baroni ebbe poi un ulteriore rilievo, perché aprì spazi politici anche per i piccoli feudatari e uomini liberi che non erano né nobili né ecclesiastici (commoners). Questi dalla fine del '200 divennero infatti parte del Parlamento, costituito dai rappresentanti delle comunità, counties (contee) e boroughs (i borghi, le città). Nel corso del 300, i cittadini si riunirono a parte, mentre i grandi ecclesiastici si unirono ai nobili: si formarono così le 2 assemblee tradizionali tuttora esistenti dei Lords e dei Comuni. Con la guerra dei 100 anni, durata fino a metà 400, il sovrano ebbe bisogno di continue e nuove tasse rispetto a quelle fissate dalla tradizione, e il Parlamento consolidò la sua competenza essenziale in tema di fisco e di questioni giudiziarie maggiori. Allora la funzione legislativa si presentava come un aspetto della funzione giudiziaria. Intanto, a fine 300 si affermò il principio che le leggi d'iniziativa regia dovevano avere il consenso di entrambi i rami del Parlamento, e allo stesso modo avvenne per le petizioni approvate dalle camere; queste, sanzionate dal Re, diventavano leggi. Le due camere ottennero il diritto al controllo dell’amministrazione regia e addirittura quello di promuovere i processi penali contro i ministri del Re (impeachment). Sempre a fine 300 il Parlamento dichiarò di “rappresentare tutto il popolo del reame” e di avere pertanto anche il diritto di deporre il sovrano (Riccardo II che operava in modo tirannico fu costretto ad abdicare). Con la fine della dinastia dei Plantageneti prese il potere quella dei Lancaster, e poi nel 1485 Enrico Tudor imparentato con i Lancaster salì al trono vincendo il nemico. Egli convocò il Parlamento che lo riconobbe Re di Inghilterra: atto che suggellò la successione. 11.2 Il caso francese. L’unificazione politica francese è avvenuta attraverso un processo di annessioni successive ad un nucleo territoriale iniziale che nel 1100 aveva come centro l’area di Parigi. Dal 300 cominciarono a riunirsi gli Stati Generali, un organo parlamentare costituito dai rappresentanti dei ceti di tutto il territori francese. Questi portavano al re le istanze del ceto che rappresentavano. Operavano vincolati da un mandato di rappresentanza verso il loro ceto. Accadeva spesso che il Re acconsentisse alle loro richieste, ma solo in vista e in cambio di nuovi oneri fiscali. Si sviluppò così una concezione pattizzia del diritto e del potere impositivo fiscale, come risultato dell’accordo tra il popolo ed il Re, che si consolidò soprattutto durante la guerra dei 100 anni per la necessità di continui finanziamenti che consentissero il proseguimento del conflitto. 11.3 I parlamenti e consigli delle città italiane. Il principio su cui si basava la pratica parlamentare medievale si ritenne ispirato alla massima “ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti", perché si riteneva che con l’approvazione degli stati si avesse quella popolare. Pratica questa diffusa in tutta l’Europa monarchica. La pratica degli stati sociali divisi chiamati separatamente ad approvare le imposte restò estranea all’Italia comunale. Nel mondo comunale fu preponderante il modello del civis romano. Il singolo cioè partecipava alla vita politica, non come esponente di un ceto sociale, ma come cittadino. Essendo assente il sistema delle rappresentanze di ceto, nell’Italia comunale, si applicò il principio maggioritario, per cui il volere espresso dalla maggioranza nell’assemblea cittadina vincolava la minoranza non consenziente. Le assemblee cittadine comunali non votavano, ripartite in sezioni di ceto, ma unitariamente, ed elaborarono le prime pratiche parlamentari di tipo moderno. Semmai erano esclusi alcuni ceti sociali come gli ecclesiastici e non possidenti, ma non si assisteva ad una votazione separata. Il fatto è importante perché ha creato l’idea di un ente-Stato unitario impersonale con piena potestà sul territorio. Capitolo 2: IL PARTICOLARISMO GIURIDICO-POLITICO. DAL MEDIOEVO ALL’ETÀ MODERNA: IL PENSIERO DEGLI UMANISTI 1. Le forme del particolarismo giuridico Il particolarismo giuridico si può intendere in diversi modi: • C’è un particolarismo in ragione delle persone, che possiamo dire personale o soggettivo; • C’è in ragione dei territori, pertanto territoriale o oggettivo. 1) il primo è dato dalla diversificazione normativa, che si aveva durante l’Antico regime a seconda dello status delle persone, cioè era basata sulla categoria sociale di appartenenza (nobili, clero, contadini, ecc). 2) In ragione dei territori, consistente nella varietà di normative in relazione alle diverse realtà locali. Negli antichi Stati c’era una netta differenziazione dei Comuni: quelli rurali contavano poco o nulla politicamente, mentre i comuni urbani conservarono una loro posizione specifica all’interno dello Stato anche se non più indipendenti: come Bologna, Perugia, Siena, Firenze, etc. C’erano poi zone non soggette al governo diretto dello Stato, i feudi, i quali complicarono il sistema delle fonti del diritto, inserendo la normativa del signore feudale accanto e tra le altre, per cui si assisteva a una stratificazione così composta nell’età pre-codificatoria: normativa del principe, quando estensibile ai feudi (non sempre); normativa del signore feudale; normativa del comune locale (statuto e sue riforme); consuetudini (locali e territoriali); diritto comune. Questo perché la costituzione di un feudo non eliminava l’organizzazione comunale locale preesistente. Per noi è difficile capire il particolarismo giuridico, perché sia il nostro egualitarismo sia la nostra tradizione giuridica codicistica e amministrativa di epoca napoleonica, hanno introdotto una normativa generale uguale per tutti, tale da far ritenere irrazionale le diversità previgenti. Ma ci rendiamo conto che le differenze di normativa che stanno introducendo regionalismo e federalismo da un lato e quelle introdotte dall’Unione Europea dall’altro stanno creando una stratificazione normativa e di particolarismo non memo complicati. 2. Il particolarismo istituzionale nella penisola italiana. Quando in Francia già si parlava di Stato nazionale, nel 500, l’Italia si affacciava alla nuova epoca con una situazione politica molto frammentata, dominata da forze, o straniere o locali, fortemente centrifughe e radicate nel loro particolarismo. Numerosi organismi politici in difficile equilibrio tra loro, rendevano impensabile un’evoluzione verso un accentramento politico e istituzionale. Le varie repubbliche come quella di Venezia, Genova e Lucca insieme ai principati rendevano stazionaria la forte articolazione territoriale esistente, che insieme all’esistenza dello Stato pontificio impedì un movimento culturale e politico per la formazione di uno Stato nazionale e in tale situazione la penisola rimase per tutta l’età moderna, preda delle potenze straniere. Dopo il contrasto tra Spagnoli e Francesi si consolidò fino al primo 700 la presenza della Spagna su larga parte del territorio italiano. Grazie ad una concessione fatta a Cosimo I de’ Medici da parte di Filippo II, lo Stato di Siena divenne feudo in capo ai Duchi di Firenze. Questi mantennero i due ordinamenti (Siena e Firenze) separati; l’unificazione dei territori fu personale e non reale. Il dominio della dinastia medicea su entrambi fu pertanto a titolo diverso: - a Firenze Cosimo de’ Medici fu in origine Duca di una Repubblica che gli si era concessa, data; - a Siena, invece, era feudatario della corona spagnola. Il territorio dunque si trovava assoggettato alle diverse autorità gerarchicamente ordinate tra loro, legate da rapporti di potere più o meno vincolanti: - imperatore: che concede il vicariato imperiale al Re Filippo II; - Re di Spagna: che concede ai Medici in feudo Siena e il suo territorio per liberarsi di un debito, - il sopravvissuto comune di Siena, e - i vari comuni dello stato senese, amministrati pur sempre da “terrazzani” locali, per i quali si aprivano 2 possibilità diverse: o o vivere sotto il controllo del comune di Siena, oppure o sotto controllo d’un feudatario granducale. Il feudo mediceo di Siena si trovava quindi scisso al suo interno in varie realtà giuridiche. Solo il cittadino abitante dentro le mura godeva della piena capacità politica, mentre le comunità limitrofe avevano un proprio statuto risalente al medioevo. Più semplice era la struttura della dominazione medicea a Firenze in quanto mancava la concessione feudale, ma anche lì rimanevano come entità autonome le città già inglobate nella ex-Repubblica di Firenze e si ripetevano le situazioni esemplificate per Siena. Analoga era la struttura della gerarchia politico-istituzionale nel regno di Napoli: - Papa (autorità che istituisce il Regno di Sicilia attraverso un’apposita concessione feudale a Ruggero II il Normanno nel 1130); - Re (vassallo del Papa). A questo punto nel territorio si hanno 2 possibilità di governo: - o di feudatari, dipendenti da autorità diverse dal Re, o quelli dipendenti dal Re con i relativi comuni inglobati; - o città demaniali, ossia direttamente dipendenti dalla corona. Situazioni analoghe esistevano nello Stato Pontificio, anch’esso costituito da una miriade di entità territoriali più o meno estese e legate al sovrano pontefice da rapporti diversi. 3. Feudi e Comuni. Le concessioni feudali non sopprimevano le autonomie normative locali, perché: 1)Garantite espressamente negli atti con i quali il vassallo si obbligava a rispettare la situazione giuridica già esistente, oppure 2)Acquisite ab immemorabili, cioè molto anticamente. Così all’interno del feudo sopravvissero Comuni e proprietà comunali. Molti furono i Comuni non infeudati, non soggetti all’amministrazione del feudatario. Quando non infeudate le città si dicevano demaniali, perché dipendenti dal fisco. L’autonomia di queste città era superiore rispetto a quella dei Comuni feudali, in quanto avevano la possibilità di essere rappresentate nei Parlamenti. Le città assoggettate ai feudatari non avevano il diritto di inviare rappresentanti, in quanto l’unico delegato del territorio era il signore feudale. Nei Parlamenti, detti Assise dal 200-300 fino al 700, queste forze dominarono contrapponendosi: corona, feudatari, borghesia e nobiltà delle città demaniali; questi i 3 stati dotati di rappresentanza, furono detti bracci. Successivamente, la rappresentanza delle città non infeudate costituirà la base del potere regio contro le forze dissolvitrici e centrifughe rappresentate dai feudatari. Ciò perché in tempi e modi diversi da ordinamento a ordinamento, il feudo divenne oggetto di compravendita per la necessità regia di avere denaro dagli acquirenti. Si creò così un mercato delle terre in concessione che offriva ai risparmiatori la possibilità di investire capitali e al contempo di compiere un salto nella gerarchia sociale. La commercializzazione dei feudi si ripercosse negativamente sul loro assetto amministrativo. Questo perché i nuovi nobili (già mercanti arricchiti) erano disinteressati alle terre acquistate e le affidavano nelle mani di propri vicari che risultavano essere lucrosi poiché coltivavano rapporti clientelari con emergenti del territorio o trescavano con i funzionari pubblici, impedendo il buon funzionamento della cosa pubblica. I diritti di questa nuova classe nobiliare sopravvissero fino alla fine del 700. La loro definitiva scomparsa con la rivoluzione francese e la dominazione napoleonica determinò la fine dell’Ancien Régime, in Francia. L’autonomia statutaria dei comuni, durante l’Ancien régime, comprendeva la possibilità di regolamentare ogni materia d’interesse locale con norme proprie, perché essa incontrava un limite solo nel rispetto degli interessi della città dominante o del re o del signore feudale. Per il resto valeva la sussidiarietà: si lasciava fare a livello locale tutto quello che era possibile. Dal punto di vista fiscale si aveva un federalismo fiscale perché i tributi venivano riscossi dall’autorità locale ed i proventi rimanevano per la maggior parte all’interno dell’ordinamento locale. Molti Comuni specie rurali vennero pian piano decadendo, privati delle terre comuni ed abbandonati a se stessi. Maggior vivacità si ebbe solo laddove i proprietari delle terre risiedevano nelle terre stesse e, quindi, interessati al benessere e alla ricchezza dei propri possedimenti. Il particolarismo estremo faceva si che all’interno dello stesso ordinamento coesistessero realtà molto diverse tra loro. 4. Il particolarismo e la crisi del diritto comune: le novità umanistiche. La situazione delle fonti e delle istituzioni pubbliche durò per larga parte dell’Ancien régime in Italia. Gli sforzi che dagli inizi del 400 alcuni ambienti culturali italiani fecero per il rinnovamento della giurisprudenza tradizionale, non riuscirono. La giurisprudenza umanistica rappresentò in Italia un momento di reazione al monopolio del diritto da parte dei giuristi e non fu un caso che le critiche venissero soprattutto dai letterati estranei al mondo forense ed universitario. Altro aspetto e la riflessione sulla centralità dello Stato. Gli umanisti iniziarono ad affermare la necessità che il potere politico dovesse liberarsi dai gravami medievali. Questo perché il ceto degli umanisti era in ascesa e divenuto consigliere del potere politico, rivendica per sé un ruolo centrale in qualità di consulente del governo repubblicano o del principe. Alcune osservazioni di Poggio Bracciolini, ci riportano al problema del particolarismo giuridico, infatti esso invitava a prescindere dal diritto comune e a creare un diritto toscano, proprio della Repubblica di Firenze. Egli, sostiene che, la Repubblica potesse fare ciò che fecero i Romani: ordinare in un corpus le proprie, abrogando tutte le altre. Auspicando la codificazione territoriale l’umanista non rende merito ai “costruttori” e ai “gestori” del sistema dello ius commune. Egli è molto critico nei confronti dell’operato di questi ultimi perché il diritto comune risulta come un agglomerato di opinioni confuso e pasticciato; l’unica soluzione al caos della giurisprudenza è per lui la codificazione locale. 6. Diritto comune, diritto locale e il problema della cittadinanza Ritornando a Bracciolini possiamo chiederci perché l’auspicio dell’umanista non trovò realizzazione. Il motivo è da ricercare nell’esclusivismo del potere di Firenze rispetto ai territori dominati. Bracciolini presupponeva che gli abitanti della Repubblica fiorentina divenissero cives fiorentini. Il particolarismo territoriale era di ostacolo alla realizzazione di tutto ciò e portava a ritenere le terre fuori Firenze come una sorta di colonia della città stessa e nessun altro comune era parificato ad essa. La cittadinanza di un abitante della repubblica non fiorentino era concessa in via del tutto eccezionale. Ogni Comune continuò a regolarsi con i propri statuti e Firenze mantenne la propria supremazia senza creare una unità politicogiurdica-regionale. In questo contesto si capisce come gli statuti della città dominante svolgessero dal 400 una funzione sussidiaria nei confronti del diritto dei Comuni assoggettati. Il particolarismo giuridico trovava spiegazione nel particolarismo politico, essendo gli statuti simbolo di autonomia e di identità istituzionale. È soprattutto negli Stati di origine repubblicana che il fenomeno del particolarismo rimase accentuato, mentre negli Stati principeschi la situazione andò facendosi meno complessa. Il Principe ebbe interesse a disciplinare in modo uniforme il territorio. Le sorti delle città-Stato e degli Stati principeschi si separarono: la differenza in Italia è costituita da tale connotazione. Il dilemma della scelta tra conservazione ed innovazione fu una delle caratteristiche del periodo rinascimentale. Ci si rendeva conto che molte certezze stavano crollando e non era chiaro in quale direzione muoversi per far fronte alla crisi del mondo medievale. Ciò emerge in una disputa che vide coinvolto uno dei più noti giuristi del tempo, Giason del Maino. 7. Da Giason Del Maino al Diplovatazio: problemi della transizione. Egli fu autore di uno scritto in polemica contro il tentativo di rinnovamento dei libri Feudorum fatto a Pavia da Bartolomeo Barattieri, che nel primo 400 aveva inviato all’Imperatore un nuovo testo rivisto della importante compilazione del diritto feudale. Giason ne negava l’utilità, ritenendolo pericoloso, perché in caso d’introduzione del testo rinnovato, tre secoli di studi ed elaborazioni sarebbero caduti e l’opera sarebbe dovuto essere studiata nuovamente mettendosi in discussione i rapporti nati sulla sua base. Alla sua morte vi fu una corsa da parte di varie autorità per stampare le annotazioni lasciate scritte negli incunaboli dal grande umanista; non tanto per migliorare la pratica del diritto quanto per rendersi meritevoli di aver dichiarato alle Università le migliorie apportabili al corpus iuris. 8. Mos italicus e mos gallicus. Il nuovo metodo proposto dal Valla, portato a maturazione con il triumvirato formato da Budeo, Alciato e Zasio si basava sull’analisi filologica del corpus iuris e degli altri testi più antichi. La rigorosa indagine filologica porta loro a riconoscere errori del tutto umani in documenti che non hanno niente di divino e ad ammettere le contraddizioni interne finora sempre negate. Agli umanisti il corpus iuris appare stratificato nei suoi percorsi storici anziché un corpo di norme sempre applicabili. L’interesse scientifico che porta i nuovi giuristi allo studio del diritto pubblico romano è da ricondurre all’esigenza di dare nuove risposte al presente. Fino ad allora interessava la disciplina privatistica che raggiungeva la massima elaborazione teorica nei commentaria e pratica nei consilia. Questa esigenza caratterizza il nuovo metodo, il cosiddetto modo francese di insegnare il diritto, contrapposto al mos italicus (di insegnare il diritto), che guardava alla passata esperienza giuridica come ad un qualcosa di perfettibile se non perfetto e quindi immutabile. Il nuovo indirizzo fu denominato mos gallicus perché in Francia nel 500 trovò la massima applicazione culturale. In Francia il diritto romano era considerato ratio scripta da cui trarre un’autorevole guida per la nuova legislazione o per riformulare un diritto nazionale tradizionale basato sulle consuetudini gallicane. La Francia del 1200 giuridicamente ci teneva a rivendicare il predominio del proprio diritto locale rispetto al diritto comune. 9. Ancora Firenze: giustizia civile e giustizia penale in un testo del Guicciardini. La disputa sul modo di studiare e insegnare il diritto romano aveva importanti risvolti pratici. Cosa si temesse in un’epoca di disordini e crisi economico-sociale a cavallo tra il 400 ed il 500 ce lo fa capire Francesco Guicciardini. Le differenze che intercorrevano per i contemporanei fra la giustizia penale e quella civile e come quella par condicio, parità delle parti nel processo, fosse invano auspicata anche per il settore penale. In campo penale si riteneva che la risoluzione di un caso avesse regole meno tassative e rigorose che nel campo civile: era concessa al giudice ampia discrezionalità, cosa che non accadeva in un giudizio civile, regolato da principi più fermi. La ratio sta in motivi politico-sociali: nel maggior interesse dello Stato e della Chiesa a reprimere in tutti i modi il reato. La questione penale diverrà la grande questione del 700. PARTE SECONDA: DENTRO L’ETÀ MODERNA (O ANTICO REGIME) INTRODUZIONE: VERSO IL SUPERAMENTO DEL PRIMATO ECCLESIASTICO Abbiamo visto i caratteri dei 2 sistemi giuridici costituitisi nel tardo medioevo: quello di diritto comune dell’Europa continentale e quello di common law dell’Inghilterra. Un modello intermedio fu quello veneziano, vigente nella sola città-capoluogo della Repubblica di Venezia. Il diritto comune romano-canonico sia stato una filiazione sia dell’eredità romanistica sia del nuovo diritto prodotto dalla Chiesa romana, trionfante in Europa come istituzione religiosa centralizzata. L’elemento portante del tardo medioevo fu questo trionfo. I papi dominarono anche i poteri laici: re, città, università, vita culturale, artistica, letteraria, economia furono investiti da questa presenza fortissima. La Chiesa romana dettò i ritmi della vita quotidiana. C’erano voci non sempre allineate, pronti a sfidare l’apparato ecclesiastico ufficiale, ma erano minoranze, il che voleva dire primato del diritto canonico su ogni altro diritto. Il vero Signore-Padrone era Dio. Usura, spergiuro, fornicazione, violazione dei precetti religiosi, inosservanza dei sacramenti erano i problemi che riempivano le preoccupazioni di ogni cristiano. Tutto ciò richiedeva l’osservanza di una serie di regole di diritto canonico introiettate sin dall’infanzia e diffuse come nessuna altra regola del tempo. Le regole di diritto canonico tradizionali, raccolte nel Decretum di Graziano, e di origine papale e conciliare, le Decretali, erano applicate in tutta Europa, salvo le limitate consuetudini locali ammesse. Questo per il “foro esterno”. Nel “foro interno” interveniva il confessore, che dal secolo XIII ebbe a disposizione mezzi sempre più sofisticati per valutare le deviazioni del fedele: le Summae confessorum, che danno un’idea della delicatezza delle analisi e giudizi che si richiedevano al confessore. Unico il diritto e la morale, unica la lingua e la cultura. La Roma papale era andata a sostituire l’Impero romano e gli intellettuali potevano colloquiare e disputare, per il successivo affermarsi della dottrina scolastica, in modo meno elastico e sempre più controllato. Senonché il trionfo della Chiesa si accompagnò ad un disagio crescente. Quanto più i poteri degli ecclesiastici si facevano evidenti, tanto più si sentiva il disagio per il contrasto tra gli ideali cristiani e le ricchezze di cui abusavano i prelati. La “riforma della Chiesa” fu il primo problema europeo del 300-400. Gli scismi ripetuti dimostravano che erano necessarie riforme “costituzionali”. Nessuno pensava ad un superamento dell’unità cristiana. Ma il fallimento nella soluzione di questo problema ebbe effetti profondi anche per la storia del diritto. Non solo perché venne meno la sfera di efficacia del diritto canonico. La rivoluzione investirà tutta la vita culturale europea. Ma si deve partire dai problemi religiosi e rendersi conto che furono essi a dominare la vita anche giuridica. La disciplina del rapporto tra Stato e Chiesa romana e chiese locali diventò nuovamente come nel secolo XI un problema sentito ovunque. Capitolo 1: CHIESA E FEDELI NELLA BUFERA: DAL CONCILIARISMO ALLA RIFORMA 1. L’assolutismo pontificio e le premesse della riforma religiosa in Germania La Francia a fine 400 era uno stato unitario. Per l’aspetto religioso, il suo governo regio aveva già difeso l’autonomia della Chiesa francese dal Papato (gallicanesimo), che aveva dovuto accettare l’inevitabile per evitare un indebolimento maggiore. La Germania realizzò agli inizi dell’età moderna un senso di identità in seguito all’accendersi dei problemi religiosi perché nel 400 continuò la frantumazione politica, essendo l’Impero la cornice in cui convivevano differenti autonomie cittadine, feudali e principesche. Ma quel secolo era già stato molto irrequieto sotto questo profilo, e non a caso aveva visto circolare la riforma di Sigismondo, un documento che richiedeva profonde riforme in campo ecclesiastico, anche contro Roma. La Germania era rimasta delusa dai Concili di Costanza e di Basilea, che trattavano dei poteri papali e del loro rapporto con la chiesa universale in modo nuovo, ma i cui decreti furono bloccati dal papato a metà secolo. C’era dunque un forte desiderio di riforma della chiesa e, visto che la riforma non sembrava potesse ormai più venire da Roma, troppo corrotta, si chiedevano interventi al potere temporale. La tendenza dell’Imperatore ad interessarsi delle questioni della Chiesa aumentò quando ci si rese conto che i 2 concili non avevano potuto risolvere i problemi e che si affermava la pretesa papale ad una maggiore concentrazione di autorità a Roma. A cominciare da Pio II fu netta la divisione tra conciliaristi, che attribuivano al concilio un’autorità superiore a quella del Papa, ed assolutisti, che attribuivano al Papa il potere decisionale, la plenitudo potestatis affermata da taluni. I conciliaristi prevalsero sugli assolutisti nella prima metà del 400 e a metà secolo la situazione si rovesciò a favore del papato che riuscì a conquistarsi l’imperatore e i principi, stringendo con essi dei concordati. Insomma, i concordati rovesciarono l’impostazione dei due grandi concili che avrebbero invece voluto rafforzare la chiesa come corporazione ecclesiastica, anziché come monarchia assoluta. Famoso è il decreto di Haec sancta del 1415 che aveva proclamato che il concilio rappresentava la Chiesa e che ricevesse da Cristo il potere cui ciascuno deve obbedire in materia di fede e per tutto quanto riguarda l’estirpazione dello scisma e la riforma di detta Chiesa, pena essere sottoposti a giusta penitenza e debite punizioni. Ma il Papa nel 1448, con il concordato di Vienna, raggiunse l’accordo con l’Imperatore e pochi anni dopo, con la bolla Execrabilis del 1459, Pio II condannò chiunque osasse appellarsi ad un concilio per contrastare una decisione papale. Proprio ciò che fecero il Re di Francia nel 500 e Lutero per contestare la bolla papale che condannava i suoi insegnamenti. Questa situazione di nuova stabilità del potere papale preoccupò ulteriormente i riformatori, creando le premesse della riforma luterana. Grande peso ebbe anche il diritto canonico che, essendo a favore del Papa, era di ostacolo ai riformatori. Lutero nel 1517 passò al rogo delle Decretali, i testi legislativi che rappresentavano il potere pontificio. Una testimonianza del potere che i pontefici andarono attribuendosi, la si ha con la celebre bolla Inter coetera di Alessandro VI nella quale si ribadì il concetto che il Papa fosse Dominus mundi. Siccome era vicario di Cristo, egli poteva assegnare intere parti di terra a questo o a quell’imperatore ma, Francia, Inghilterra e Paesi Bassi, la considerarono lesiva dei propri interessi. Già nel 1454 papa Nicolò V concesse al re di Portogallo il monopolio delle coste africane, autorizzandolo a prendere possesso di ciò che aveva precedentemente conquistato. All’indomani della scoperta dell’America, papa Alessandro VI con l’Inter coetera, sanciva il dominio della corona spagnola sulle terre raggiunte. Questa bolla papale, ispirata alla tradizione giuridica medievale, sottolinea l’universalità del potere spirituale e temporale dei papi, i soli a poter legittimare le conquiste delle nuove monarchie nazionali. Ed è sulla base di questo fondamento giuridico che veniva “regalata” l’America agli spagnoli e l’Africa ai portoghesi. 2. La riforma luterana e le nuove confessioni religiose. Il dibattito sulle questioni religiose assunse nell’Età moderna un’importanza mai avuta in passato. Dal 500 alla rivoluzione francese si discussero tutte le questioni di fede e di coscienza, nonché i problemi relativi alla struttura ecclesiastica e all’organizzazione della Chiesa nei suoi rapporti con lo Stato. All’epoca non c’era l’idea della tolleranza religiosa e in alcuni paesi ancora non siamo arrivati alla libertà di culto, infatti fino al 700 si combatterono le altre religioni e soprattutto chi si dichiarava ateo. Una volta regolati i rapporti con lo Stato tramite i concordati, i Pontefici cercarono di godere di fatto della pienezza dei loro poteri sulla Chiesa, sulle sue gerarchie e sui fedeli tutti. Nulla poterono i concili nei confronti della loro grande e indiscussa autorità, tanto che il Concilio di Trento (1545-1563), il più importante dell’età moderna, si svolse sotto il controllo papale. In questa sede si discusse dei problemi di fede insorti nella Chiesa dopo la protesta di Lutero, che portò tutti i nodi al pettine. Già da tempo, infatti, si vivevano momenti di scontro fra una Chiesa incapace di auto-riformarsi e una classe intellettuale europea che chiedeva a gran voce una riforma; non giungendo ad alcuna soluzione la colpa la si addebitò agli ecclesiastici romani troppo preoccupati dei problemi temporali. Di fronte a gravi problemi come l’accumulo dei benefici concessi ai vescovi, che si arricchivano senza risiedere nelle diocesi e la generalizzata corruzione del clero, che drenava fondi a Roma da tutta Europa per essere investiti in attività non religiose, la riforma apparve indispensabile. Grandi nomi parteciparono alla disputa religiosa e al dibattito partecipò un grande umanista, Erasmo da Rotterdam che dimostrò che i problemi scatenanti la rivolta erano in larga misura culturali. Egli si rese conto che la Bibbia, nella traduzione vigente di san Gerolamo, non era corretta e sentì di ritornare alle fonti originarie. Molte altre interpretazioni tradizionali furono criticate da Erasmo, prima che Lutero fosse portato, dalla chiusura della Chiesa, a criticare sistematicamente tutte quelle opinioni che formarono la sua traditio. Come stava avvenendo per la contestazione del metodo tradizionale in campo giuridico, così si metteva in discussione, in capo religioso, non tanto la validità delle fonti, ma le costruzioni dottrinali dogmatiche, spesso fasulle e artificiose che col tempo le avevano offuscate. Qui si toccavano questioni di fede, quindi i contestatori dovettero scegliere tra l’obbedienza ai precetti della Chiesa e la libertà di pensiero. Erasmo scelse la prima, mentre Lutero scelse la seconda e fu condannato dal papato. Lutero si espose ai rischi di questa impresa e poté diffondere il suo credo perché attuò un’operazione di importanza per la formazione della coscienza nazionale tedesca, provvedendo alla traduzione in tedesco della Bibbia. Questo lavoro fu il simbolo della sua protesta, che muoveva contro la mediazione delle gerarchie ecclesiastiche tra Dio ed il comune fedele. Per i riformatori la comprensione della Bibbia ed il rapporto uomo-Dio andava vissuto individualmente. La storiografia cattolica ha attaccato questo individualismo, sostenendo l’importanza ed il valore dell’aiuto offerto al fedele dalla Chiesa. La storiografia moderna riconosce alla Riforma luterana l’inizio di un processo di rivalutazione dell’individuo, l’individualismo alla base della cultura attuale. Si sostiene che da allora fu più facile concettualizzare il problema dei diritti della persona e che tali teorie ebbero più spazio nel mondo riformato che non in quello cattolico. Il conflitto religioso mostrava che non c’era un’unica verità e che l’individuo era responsabile della scelta. Era una rivoluzione copernicana. Si doveva discutere di tutto, capire, conoscere. Era un aprirsi alla ricerca laica, non controllata dalle autorità della Chiesa. La sfida innestata dalla Riforma costrinse il pensiero cattolico a rinnovarsi. Nel 500 ci fu la Seconda Scolastica, scuola di giuristi e teologi dell’Università di Salamanca che si sviluppò nella Spagna del “siglo de oro”. I suoi teorici aggiornarono il Tomismo, sottolineando le problematiche della persona e dei suoi diritti. I maggiori esponenti della Seconda Scolastica furono i teorici della potestas indirecta del Papa sul mondo. Sostennero cioè che non potendo rivendicare il potere di dominus mundi, il Papa aveva il potere di dover guidare ed ammonire i sovrani. La protesta di Lutero e i movimenti religiosi che si svilupparono portarono ad un movimento di liberazione dalle oppressioni di ogni tipo di gerarchia, responsabilizzando l’individuo nel rapporto con Dio. Sulle ceneri della confessione cattolica, in molte aree d’Europa si formarono gruppi di credenti che si ritrovarono in comuni modi di interpretare la Bibbia. È interessante ad esempio la confessione dei Sociniani, fondata da Lelio e Fausto Socini, i quali più che a dar vita ad una vera e propria confessione, fondarono un movimento antitrinitario che predicò la tolleranza religiosa, libera interpretazione della Bibbia e la non-violenza. Furono condannati, sia dalla Chiesa che dai Paesi riformati, perché ritenuti sovvertitori di ogni autorità e alla fine dovettero fuggire in Polonia. I Sociniani fondarono la Chiesa unitariana che ha ancora seguaci negli USA. Maggior rilievo acquistarono i Calvinisti, che predicavano l’autonomia dell’attività economica dalla morale religiosa. Giovanni Calvino era un riformatore religioso francese che portò le proprie idee a Ginevra, fondando una Repubblica urbana borghese. Calvino convertì la classe dirigente alla dottrina della predestinazione, secondo la quale l’uomo, incerto della futura salvezza, non poteva che operare al meglio delle proprie possibilità, seguendo le proprie vocazioni e seguendo onestamente il proprio mestiere. Il Calvinismo fu una cultura incentivante delle attività imprenditrici e mercantili, non a caso di li a pochi decenni, fu lecito prestare il denaro ad interesse e nacque ad Amsterdam la prima borsa dei titoli. Il Calvinismo attecchì in Francia dove, la sua diffusione fu motivo di guerra civile fra i suoi sostenitori, Ugonotti e Cattolici, nella seconda metà del 500. Qui ebbe luogo la notte di San Bartolomeo del 1572, una strage di Ugonotti a Parigi. In Germania, Lutero non fu sconfitto come uno dei tanti eretici, perché fu protetto dal Duca di Sassonia. La sua dottrina, proprio perché demoliva le pretese di Roma, suscitò l’interesse di molti Principi temporali interessati al controllo delle chiese locali. Lutero condusse una polemica anche contro il monachesimo e gli ordini religiosi in generale, esaltando il matrimonio cristianamente vissuto. Questa rivolta contro la clausura portò alla soppressione degli Ordini religiosi negli Stati che accoglievano il Luteranesimo e alla nazionalizzazione dei beni dei monasteri. Gli Stati avocarono a se i beni ecclesiastici per costruire scuole pubbliche ed alimentare il mercato nazionale. Lo storico del 900, Max Weber, ha collegato lo sviluppo economico di quel tempo, detto capitalismo, nei Paesi riformati al Protestantesimo ed alle sue conseguenze. Il periodo che seguì la protesta luterana fu di grande smarrimento ma anche di possibilità di riforma. Negli anni 20 del XVI secolo circolò uno scritto intitolato i 12 articoli dei contadini tedeschi, che sintetizzava gli obiettivi di lotta di questi. In un momento di incertezza delle autorità, i ceti rurali optarono per la rivolta sociale, oltre che religiosa. Fra i punti salienti si indicavano l’elezione del parroco ad opera degli stessi fedeli, la limitazione delle decime al mantenimento del parroco, la soppressione della servitù, la libertà di uccellagione, caccia e pesca, il mantenimento dei boschi. La polemica investì il diritto romano, recepito in Germania nel 1495 per volontà dei ricchi: i contadini si prefiggevano il ritorno delle antiche consuetudini locali che la proprietà piena di diritto romano avrebbe annientato. Lutero, di fronte alla rivolta sociale, dovette scegliere se sostenerla o contrastarla in nome della pace ed optò per quest’ultima soluzione, non potendo evitare la repressione nel sangue. La protesta contro il diritto romano portò Lutero ad analizzare la questione del diritto comune da poco recepito in Germania. Dopo un suo orientamento verso un ritorno ad un diritto biblico, appoggiò le tesi che sostenevano la necessità di accogliere il diritto romano purificato, preferendo il mos gallicus su suggerimento dell’umanista Melantone. Successivamente ritornò sulle sue posizioni, appoggiando il mos italicus perché non conduceva la società all’anarchia. Altra confessione fu quella degli Anabattisti, che auspicavano un ritorno al Cristianesimo primitivo, senza Chiesa e senza gerarchie. L’esperienza anabattista animò una Repubblica comunistica di carattere religioso ispirata dalla comunione delle proprietà e delle donne. Le varie confessioni sentirono il bisogno di darsi un’organizzazione. Sia Calvino che Lutero incoraggiarono la formazione di chiese locali. La particolarità delle chiese protestanti fu, evitare la dipendenza da un potere centrale ecclesiastico. I pastori erano eletti dalla comunità solo per gestire la comunità stessa. Erano uomini come gli altri perché erano fedeli come gli altri; essi non erano un tramite necessario per la vita religiosa del fedele. Il celibato dei preti fu riconosciuto come nato in un certo momento della storia cristiana e non sempre esistito e quindi non necessario. Le chiese luterane si limitarono a gestire la materia spirituale, senza ingerirsi nelle scelte del potere temporale. Si capisce come i Principi avessero interesse nel successo di tale religione, perché li investiva di prerogative fino ad allora di esclusiva competenza ecclesiastica. Lo Stato moderno nasce da questo esautoramento della Chiesa, perché fu tratto ad interessarsi di tutte le questioni del Paese. La frattura nel 500 fra paesi che aderirono alla Protesta e quelli rimasti fedeli al Papa, significò molto nell’evoluzione dei singoli Stati. Lo studio della storia fu decisivo per il pensiero riformato, perché finì per favorire la ricerca scientifica delle testimonianze sulla religiosità del passato e sulla storia della Chiesa. Perciò si può dire che il 500 comportò uno sviluppo della storiografia moderna, tesa a rileggere scientificamente il passato ed i dogmi della Chiesa. 3. La fine dell’Universalismo medievale e l’avvento del nazionalismo: la nascita delle chiese gallicana e anglicana L’universalismo cristiano medievale aveva esaltato la figura del pontefice sopra a quella dei sovrani temporali, tant'è che a lui, spettava di incoronare il nuovo imperatore. Tale posizione di supremazia iniziò a incrinarsi con i concordati del 400 e 500, per disciplinare la presenza della chiesa entro l’ordinamento laico. L’indebolimento del papa, costretto alla trattativa con un potere laico, su questioni che sino allora erano state di prerogativa papale, mostrava chiaramente che un’epoca era terminata. Tale prassi pattizia fu particolarmente forte in Francia, dove i vescovi si unirono al proprio re e promossero sotto la sua tutela la formazione di una Chiesa francese (Gallicana), autonoma dalla Santa Sede. Si costruì cioè una specie di chiesa nazionale francese che consentì l’avvio di riforme indipendenti da Roma, e che può essere vista come un motivo probabile dell’insuccesso della riforma in Francia. Lo scisma fra la chiesa di Roma e Inghilterra, invece fu causato dal divorzio del re Enrico VIII. Prima del divorzio e del litigio tra re inglese e papa, Enrico VIII si era apertamente schierato con la chiesa contro Lutero, attraverso un atto ufficiale che egli aveva meritato il titolo di re cattolicissimo, “difensore della fede”. La pretesa di avere l’annullamento del matrimonio dal papa creò nel campo della dottrina un grande dibattito. Furono mobilitate le università per verificar la giuridicità di un matrimonio che Enrico VIII sosteneva essere invalido. La moglie Caterina d’Aragona era, infatti, la vedova del fratello di Enrico VIII, per cui i giuristi di parte facevano appello al passo del Deuteronomio nella Bibbia per sostenere che ci fosse il divieto di un tale matrimonio; gli altri si appellavano allo ius novum per affermare invece la sua validità. Il problema fu dunque da quale fonte attingere; ma c’era di più. Il pontefice in passato aveva chiuso un occhio in casi analoghi, mentre in questo frangente ci fu un chiaro irrigidimento del papa. Di fronte a tale irrigidimento, Enrico VIII emanò un solenne atto di supremazia, staccando da quella di Roma la Chiesa Inglese, di cui si proclamò unico capo assoluto. Egli, cattolico, non cambiò confessione e non si ritenne eretico, bensì, visto il comportamento ingiustificato del papa, pensò di essere il vero continuatore della vera tradizione cattolica. Si ebbe dunque, nel 1534, uno scisma. Dal punto di vista giuridico, l’atto di supremazia consisté in un atto legislativo adottato con il consenso del parlamento col quale Enrico VIII si dichiarò capo della chiesa d’Inghilterra. Gli eredi che succedettero al trono fecero altrettanto e nello stesso modo furono scomunicati dal papa, ma entro il 500 l’Anglicanesimo aveva un proprio nucleo di credenti autonomo rispetto al cattolicesimo e al luteranesimo, e serviva alla regina Elisabetta per evitare troppi conflitti interni. Ma la debole origine della chiesa anglicana lasciò spazio ad aspri conflitti religiosi nel corso del primo 600, dai quali emersero le figure dei puritani. Insomma da questi conflitti in un mondo diviso e senza nessuna credenza prevalente, poté cominciare a manifestarsi un barlume di buon senso: quello che avrebbe condotto alla tolleranza religiosa. La varietà delle credenze portò a dubitare che chicchessia avesse il diritto di reprimere i dissenzienti. Oggi l’Anglicanesimo è ormai tradizione consolidata, nonostante i tentativi di riavvicinamento tra Roma e Canterbury, facilitati dal fatto che la struttura ecclesiastica inglese è la più vicina a quella romana. Ma allora, in un primo tempo molti cattolici pensarono che prima o poi lo scisma sarebbe stato ricomposto, riconciliandosi con un’unica Chiesa. Intanto, al tempo di Enrico VIII, nonostante la situazione d’incertezza, furono sequestrati tutti i beni dei monasteri e chiusi tutti gli ordini religiosi. Ciò è stato posto alle origini del capitalismo inglese, perché avrebbe rivitalizzato i commerci e le attività produttive rurali – trattandosi di provvedimenti adottati assieme alle enclosures (le recinzioni di terre precedentemente di uso comune, ora utilizzate come proprietà private). Questi provvedimenti avrebbero perciò favorito le imprese agricole, formato un’estesa piccola nobiltà locale (gentry) e quindi favorito l’accumulazione capitalistica e da fine 700 in poi le origini della rivoluzione industriale. 4. Il Concilio di Trento e la reazione alla riforma protestante Il mondo cattolico reagì alle trasformazioni portate dalla ricerca scientifica e filologica e dalla riforma religiosa in primo luogo con la repressione, attraverso strumenti efficacissimi, come l’Inquisizione romana. Anche le gerarchie della Chiesa stessa erano costantemente tenute d’occhio. Si fece largo uso infatti anche della censura. Fu così fondata la congregazione dell’indice, un ministero di cardinali che si occupavano di aggiornare in continuazione l’elenco dei libri proibiti. Nel frattempo la congregazione del Concilio fu incaricata di dare l’interpretazione autentica dei decreti conciliari, in modo da non lasciare spazio a libere interpretazioni. Si ritennero tante pericolose le interpretazioni dei dottori che i decreti non vennero neppure insegnati nelle università. Uguale importanza venne data all’educazione. In questo periodo nacque ad opera di Ignazio di Loyola, a Parigi, l’Ordine dei Gesuiti, che esigeva castità e povertà dei propri membri, ma soprattutto obbedienza incondizionata al pontefice, e che ricevette, dagli anni del Concilio di Trento, un particolare impulso dalla chiesa di Roma, che fece di esso il proprio braccio operativo del mondo. L’importanza storica dell’Ordine dei Gesuiti sta principalmente nel fatto che esso si occupò di educare all’obbedienza di un complesso catechismo cristiano le élite europee. I dotti Gesuiti furono precettori della classe dirigente, compresi i parroci, inviati di prima fila nell’evangelizzazione delle popolazioni e periodicamente chiamati ad aggiornarsi nei seminari, istituiti di nuova fondazione. La strategia di resistenza nei confronti delle pericolose novità fu elaborata nel Concilio di Trento, che dette un nuovo volto alla Chiesa cattolica con i suoi decreti, che innovarono le strutture ecclesiastiche, tanto che la storiografia attuale suole parlare di “Riforma cattolica” e non più di Controriforma. Il tentativo di reagire alla Riforma protestante sarebbe in secondo piano rispetto a riorganizzare la struttura della Chiesa. Molto discussa è la questione se tale riforma sia stata esteriore, cioè abbia riguardato soltanto la struttura organizzativa o abbia inciso sulla sostanza, cioè sulla religiosità. In primo luogo il Concilio rinnovò la disciplina del clero, imponendo obblighi precisi ai Vescovi, Abati, Parroci; in particolare crebbe l’importanza della figura del Parroco, che divenne lo strumento per la diffusione capillare del Cattolicesimo. Si riorganizzò la disciplina della parrocchia, fu imposta la tenuta dei registi di battesimo e dei registri di matrimonio. In precedenza la celebrazione del matrimonio era sottoposta ad una disciplina normativa laica, rappresentata dalla legislazione suntuaria (consumo, lusso), quella che riguardava i consumi e cercava di contrastarne gli eccessi. Il potere laico con tale legislazione voleva limitare gli sprechi di capitali, mantenendo entro certi limiti donazioni nuziali e fastosità. Con il Concilio di Trento venne ribadita la sacramentalità e la consensualità del matrimonio, il che voleva dire contrastare la necessità dell’assenso dei genitori. Molti matrimoni, specie tra i rampolli di famiglie abbienti, erano il risultato di accordi a carattere patrimoniale tra le famiglie dei futuri sposi. In secondo luogo si credette che per contare sull’operato del clero, occorreva impartirgli un’istruzione adeguata. Nacquero così i seminari i cui corsi erano spesso tenuti dai Gesuiti. Si cercò di arginare anche il fenomeno del patronato laico delle chiese. Accadeva spesso, infatti, che famiglie nobili fondassero, proprie spese, chiese o cappelle per acquistare il diritto di indicare coloro che avrebbero poi officiato quei luoghi. Molto spesso perciò le persone preposte all’ufficio religioso erano sostanzialmente incompetenti in materia di fede. Chiesa e Concilio avevano cercato di arginare tale fenomeno senza grossi risultati. 5. L’Inquisizione romana. Lo strumento di repressione principale contro le eresie, dove non operava l’inquisizione spagnola, fu l’inquisizione Romana, essa nacque come congregazione di cardinali che si riuniva per studiare e organizzare la repressione dal centro, e in poco tempo diventò sede di un potere penetrante, tanto che quasi tutti i papi del 500, prima di esserlo, rivestirono le sue cariche. La congregazione fu, per lo Stato pontificio, un’istituzione che può essere paragonata ad un ministero attuale. Rispetto all’inquisizione medievale, quella romana era assai più organizzata e seguì procedure più scientifiche. Le caratteristiche del processo inquisitorio, validi in gran parte anche per le procedure laiche erano: - Segretezza assoluta degli atti del processo e loro scrittura; - Mancanza di difesa, per non permettere all’accusato di inquinare la ricerca della verità; - Presunzione di colpevolezza; - Grande rilievo dei pentiti; - Procedura premiale (premio a chi accusava o denunciava, in genere ¼ dei beni dell’imputato); - Tortura giudiziaria; - Ricompensa del denunciante con una parte dei beni confiscati. L’inquisizione romana si indirizzò ad alcune categorie di persone con particolare attenzione a) per coloro che possedevano e diffondevano libri pericolosi e/o all’Indice; b) coloro che abbracciavano idee protestanti. In Italia era meno sentito il problema che assillava l’Inquisizione spagnola, ossia a) dei Saraceni convertiti, che acquistavano lo status di cattolici per evitare l’espulsione dalla Spagna disposta dai re cattolici, e, b) degli ebrei che non fossero realmente convertiti e che potevano diffondere idee anti-cristiane. Diverso era essere ebreo ufficialmente e vivere in una comunità che avesse una specie di contratto con la città che la ospitava. Gli ebrei dei “ghetti” erano però solo tollerati; pagavano infatti una tassa per risiedere in città, ma non potevano acquistare proprietà definitive perché erano ospiti. Non avevano tutela giuridica e non faceva parte della comunità perché per il cattolico era un altro; pagava le tasse e, pagandone una apposta, poteva effettuare il prestito feneratizio (ad interessi) proibito ai cattolici. 6. L’Inquisizione Romana e gli Stati. L’Inquisizione Romana non ebbe sempre l’appoggio degli Stati cattolici, che iniziarono a rivendicare la propria competenza a punire ciò che avveniva nei loro territori. Così spesso i Sovrani negarono alla Santa Sede le operazioni dell’Inquisizione e la contrattarono in vista di corrispettivi riconoscimenti. Tradizionale fu la diffidenza delle autorità napoletane nei confronti dell’Inquisizione romana e di tutte le autorità ecclesiastiche, tanto che si parla di un precoce giurisdizionalismo. In Sicilia e in Sardegna l’Inquisizione Romana non arrivò perche vi era già presente quella spagnola. Per la Spagna avere una propria inquisizione fu un enorme privilegio perché poté usarla a fini non religiosi facendola divenire un tribunale che consentiva di sovrastare perfino le forti autonomie locali controllando di fatto tutte le Istituzioni. Anche in Sicilia essa fu molto attiva riuscendo a creare uno Stato dentro lo Stato. Gli agenti dell’Inquisizione godevano di numerosi privilegi come il porto d’armi, il privilegio del foro, etc., per cui non potevano essere toccati dagli ufficiali statali (un po’ com’è oggi per i diplomatici stranieri). Nel corso del tardo 500, primi del 600, cominciò il clima di generale sospetto controriformista: nelle città si diffusero denunce anonime e si considerarono attentamente già come indizi atteggiamenti ereticali minori come la sola bestemmia o concubinato etc.. 7. Il modello dello Stato cristiano: la Spagna. Nel 400 e nel 500 l’Inquisizione ereticale fu utilizzata anche a scopi politici, soprattutto in Spagna. La Monarchia spagnola era molto legata al Papa, il quale le concesse grandi privilegi: 1. la Bolla del 1478 riconobbe ai sovrani la direzione dell’inquisizione del regno; il sovrano stesso nominava gli inquisitori, affiancati dei cosiddetti famigli, collaboratori dotati di numerosi privilegi e di un forte potere intimidatorio sulla popolazione; 2. un concordato consentì ai sovrani di controllare le nomine papali e permise loro di acconsentire o meno in Spagna l’efficacia dei provvedimenti papali. Questi furono gli strumenti che lo Stato adottò per esercitare la sua influenza nella vita ecclesiastica. Il potere di intervento statale si sviluppò gradualmente e solo tra 400 e 500 iniziò il periodo dei concordati, che sancirono il potere dello Stato sulle questioni ecclesiastiche, quasi una contropartita, un bilanciamento, del potere assoluto dei pontefici. Lo Stato e il papato si riconobbero reciprocamente ed entrambi amplificarono il loro potere, condizionando ancor più pesantemente la società: è il periodo dell’alleanza del trono con l’altare. Particolare accanimento subirono gli ebrei e i mussulmani, costretti a rinnegare la propria fede, se volevano rimanere nei territori spagnoli (nicodemismo). L’inquisizione spagnola fu estesa anche in alcuni stati italiani (Sicilia e Sardegna) che dipendevano dalla corona spagnola e qui fu indirizzata soprattutto contro il pensiero riformato. 8. Gli ebrei tra emarginazione e repressione. Sintesi della mentalità inquisitoriale è fornita dal processo condotto nel 1475 contro gli ebrei di Trento, seguito da condanne a morte, dopo il ritrovamento durante la Settimana Santa del corpo di un ragazzino morto per opera degli ebrei che attuavano omicidi rituali. Il processo destò clamore e persino dal papato fu inviato un commissario a controllare, ma le cose erano andate cosi avanti localmente che neppure il papato riuscì a trattenere la repressione più cieca. In questo periodo siamo prossimi alla cacciata ufficiale degli ebrei dalla Spagna, sintomo di intolleranza nei confronti di questo popolo che la Chiesa insegnava essere stato responsabile della morte di Cristo. Era consentito loro di praticare il mutuo ad interesse, cosiddetto prestito ebraico, che i cristiani non potevano farlo, in base al dettato del Vangelo di Luca “date a mutuo senza sperare niente in cambio”. Per il diritto romano il mutuo era un prestito ad interessi, e quindi sempre usuraio per la Chiesa anche se l’interesse fosse stato minimo. Per essa l’usura era un reato di competenza delle corti ecclesiastiche. Pertanto il cristiano poteva prestare solo gratuitamente: fare comodati. Nella pratica le cose andavano diversamente, perché anche gli ecclesiastici avevano bisogno di prestiti. Per cui trovarono vari espedienti tra i quali la cambiale. In questo passaggio da una moneta all’altra aumentava l’importo dell’obbligazione, consistente nell’interesse. Altro modo era la vendita fittizia. Alla fine del 400 l’opposizione a queste pratiche portò alla nascita dei Monti di pietà, istituti per esercitare il piccolo prestito su pegno con un interesse minimo. I Comuni avevano avuto in passato grande interesse a tenere in città gli ebrei, per i loro capitali, ma sostituiti dal Monte ne poterono fare a meno. 9. La questione degli Indios. La scoperta dell’America accelerò il dibattito sulle questioni religiose e sui diritti dell’individuo, trovandosi i conquistatori davanti ad esseri umani così diversi da loro da far dubitare che avessero un’anima. Se ciò fosse risultato vero, gli indios avrebbero potuto essere ridotti in schiavitù e la Chiesa non si sarebbe neanche posta il problema della loro evangelizzazione. Intanto la schiavitù aveva già assunto caratteri concreti ed ampi. Nel 1493 infatti iniziò la pratica degli encomendados, cioè la conquista da parte di soldati concessionari di terre che con le terre assumevano anche il dominio degli indigeni che vi abitavano. Un personaggio da ricordare nella questione dell’America latina è Bartolomeo de Las Casas, il primo scrittore di storia delle Indie, famoso per la sua Apologetica Historia, dove ha cercato di sfatare molti luoghi comuni sugli indios. Egli prese le difese degli indigeni di fronte a Carlo V e divenne vescovo in Messico, inimicandosi i padroni bianchi del luogo che lo costrinsero a tornarsene via accusandolo di tradimento. A favore degli indios vi furono tre bolle papali del 1537, in cui si dichiarò eretica l’idea che fossero privi di ragione (e quindi incapaci di convertirsi al cristianesimo) e si condannò chiunque li rendesse propri schiavi. Inoltre si tentò di trasferire ai vescovi la giurisdizione sugli indios, che fino ad allora spettava all’Inquisizione spagnola. Essendo terre di conquista annesse alla Corona di Castiglia, si applicava il diritto castigliano, cioè anche il diritto comune (ancora oggi l’America latina, avendo codici di tipo europeo, ha una forte tradizione romanistica). L’intervento papale incentivò, nel corso del 500, una produzione legislativa a favore degli indios, come quando a Madrid si proibì la schiavitù delle popolazioni locali. Di fatto però non si riuscì ad impedire il lucrosissimo affare della schiavitù indigena con il suo ampio mercato, causando enormi trasferimenti delle popolazioni nere dall’Africa alle Americhe (mentre nel 700 si praticò verso le colonie degli USA). Tale fenomeno era organizzato in maniera scientifica tanto che il valore delle merci trasportate alimentava il proliferare di pirati e corsari che operavano con il consenso dei Governi. In Paraguay i Gesuiti delle locali missioni attuarono una interessante forma di Governo teocratico, istituendo comunità organizzate non solo dal punto di vista del lavoro, ma anche della vita spirituale. Gli indios che vivevano in queste comunità avevano la fortuna di non essere servi dei proprietari di queste terre, ma erano sudditi del Re di Spagna. I Gesuiti avevano assunto il ruolo di difensori ufficiali degli indios, i quali erano considerati dalle leggi coloniali spagnole come privi della piena capacità giuridica ed erano i padri gesuiti ad integrare la loro volontà nei confronti del mondo esterno. All’interno della comunità gli indigeni avevano comunque la facoltà di eleggersi dei propri ufficiali. I colonizzatori non videro mai di buon occhio queste realtà e, dietro forti pressioni, riuscirono a farle abolire, da Carlo III che fece espellere i gesuiti dalle colonie del Sud America nel 1767. 10.Conflitti religiosi e problemi gius-politici: da Augusta e Nantes alla dichiarazione di tolleranza Olandese. La confessione augustana del 1530 è un complesso di principi raccolti da Melantone e approvati dai sovrani luterani tedeschi in occasione della Dieta di Augusta indetta dall’imperatore Carlo V per dare un po’ di riposo all’Impero dilaniato dalle guerre religiose. Essa spezzò l’unità religiosa caratteristica dell’età medievale. Ogni Stato tedesco (Land), aveva libera scelta sulla confessione religiosa da adottare. Tale situazione dette luogo a contrasti che sfociarono spesso in scontri armati, capitava infatti che due Stati confinanti adottavano diverse confessioni. A tale pericolosa situazione cercò di ovviare la Dieta di Augusta del 1555, in cui si formulò il principio cuius regio, eius religio. In particolare ciascun suddito avrebbe dovuto seguire la religione imposta nel territorio dal Sovrano, altrimenti sarebbe stato costretto a trasferirsi. In questo modo si cercava di arginare i disordini e, con tale principio, si affermava anche l’indipendenza raggiunta dal potere politico nei confronti di quello religioso, potendo così ampliare i campi di intervento del potere temporale, come quello della scuola o della libertà di fede. La statuizione di tale principio ebbe altre conseguenza perché la pace di Augusta prendeva in considerazione solamente due confessioni: quella luterana e quella Cattolica. Tutti coloro che non si riconoscevano in nessuna delle due si trovarono costretti ad abbandonare la Germania, dando vita ad un fenomeno di emigrazione di massa verso l’Olanda, la Francia e la Svizzera. Una eccezione era prevista per le città imperiali, dal momento che non c’era un Principe, che indicasse inderogabilmente l’una o l’altra confessione. Altra importante conseguenza fu il notevole fervore culturale che si accese intorno a questioni vecchie e nuove, come quelle dei limiti del potere del Principe, cioè come si potesse qualificare tirannico un Governo. I conflitti religiosi, cioè, portarono a riflettere su principi politico-giuridici in modo più puntuale ed approfondito. In Francia si sviluppò addirittura un movimento di intellettuali (Monarcomachi) che teorizzò la necessità di uccidere i tiranni; lo stesso Enrico IV, che inaugurò la dinastia dei Borboni in Francia, era un capo Ugonotto convertitosi al cattolicesimo per poter ascendere al trono e fu ucciso da un cattolico che non approvava la sua politica tollerante nei confronti dei calvinisti. Enrico IV, infatti, aveva riconosciuto, con l’editto di Nantes, in determinate aree del paese la libertà di culto agli ugonotti; tali zone però divennero fortezze indipendenti entro lo Stato e solo negli anni a seguire furono da Luigi XIII recuperate. Tale situazione di instabilità politica può essere interpretata come la conseguenza del conflitto di due principi, da una parte veniva ribadita la necessità di ribellarsi ad un Governo tirannico; dall’altra si riteneva prerogativa del potere statuale il garantire la stabilità sociale e un minimo di ordine pubblico. La conciliazione era difficile e spesso improponibile ma ciò dette l’opportunità di affrontare e discutere sul problema della tolleranza religiosa, il quale era stato già affrontato nel 500 dal movimento religioso dei Sociniani e si avvertì presto anche nelle Provincie Unite olandesi, staccatesi dalla dominazione asburgica nel 1579. I Paesi Bassi del Nord erano un Paese calvinista, costituito in gran parte grazie agli sforzi di molti ex perseguitati cattolici del sud. Il Paese divenne dunque il rifugio di molte minoranze religiose e permise fruttuosi scambi culturali: Spinoza, filosofo olandese che, tra l’altro, scrisse sul problema della tolleranza, era di origine ebraica e apparteneva a quella minoranza religiosa che aveva trovato asilo in Olanda. Gli Stati generali olandesi arrivarono addirittura nel Gennaio del 1614, ad emanare una dichiarazione ufficiale di tolleranza, redatta da Ugo Grozio, giurista e filosofo. Con tale atto si intimava ai teologi di sospendere le lotte religiose e si sostiene che per garantire la pacifica coesistenza di confessioni diverse lo Stato deve poter intervenire condannando la repressione violenta del dissenso religioso. 11. Un aspetto del bartolismo e dell‟invadenza inquisitoria: la stregoneria in un falso consilium di Bartolo da Sassoferrato. Un’area importante per verificare il clima d’intolleranza e di sospetto, prevalenti in Europa, è offerta dal problema della stregoneria, che assunse nel secondo 500 un rilievo impensabile con roghi sia nel mondo cattolico che riformato. Nel medioevo non c’era stata affatto una generale sollecitazione alla repressione. Le cose cambiarono solo a fine 400, lo testimonia bene il successo del martello delle streghe, pubblicato nel 1486, di nome Institor e Sprenger, due domenicani incaricati da papa Innocenzo VIII di dirigere la ricerca delle streghe nelle aree montane della Germania. Ma le resistenze dei giuristi più illuminati non cessarono. Un bel esempio viene nel 1520 da un giurista piacentino, Giovanfrancesco Ponginibbi, subito attaccato dal domenicano Bartolomeo Pina (1521), un pisano attivo nell’Inquisizione di Modena, che ne denunciò il linguaggio come eretico. Ma il primo 500 vide anche la testimonianza del milanese Andrea Alciato, giurista umanista che sostenne come communis l’opinione canonistica tradizionale dell’incredulità e rivendicò la giurisdizione laica su quei pretesi reati. Bisogna stendere un velo su una tradizione dottrinale di ampia tolleranza e di scetticismo per far trionfare i nuovi teologi. Si trovò il modo per ridimensionare l’opposizione dell’Alciato. Si creò a tavolino un consilium fatto stampare sotto il nome di Bartolo che sembra fatto per contestare l’Alciato. In esso si fece sostenere a Bartolo l’opinione che contro la stregoneria fossero competenti i tribunali ecclesiastici e che fosse normale la pena di morte. 12. La Penitenza apostolica. Operò nello stesso tempo dell’Inquisizione. La penitenzieria, era un’importante ufficio papale che assolveva da censure ecclesiastiche gravi, che non potevano essere assolte dal confessore ordinario e neppure dal vescovo locale. Ad essa si rivolgevano laici ed ecclesiastici per mettersi la coscienza in pace. Si poteva perdonare tutto a Roma, ma solo a Roma, non presso qualsiasi Vescovo. Un laico della diocesi di Besançon, nel 1539, ricorda di essere caduto in scomunica perché una volta, malato, fu persuaso da un vicino a convenire in un luogo ove aveva negato il Creatore e si era accoppiato ad una donna. Un altro laico della stessa diocesi fu meno conciso, anche se vittima di un vicino valdese che gli fece balenare la possibilità di guadagnare molto in poco tempo. Qui la storia si complica: ci sono unguenti magici, c’è un presidente del sabba, c’è l’omaggio dopo aver negato Dio, la Vergine e il Battesimo, ci sono i molteplici rapporti carnali con l’altro sesso. Non c’è da continuare oltre, ma gli esempi basteranno per convincere a leggersi la densa casistica: fatti “reali”, perché narrati senza costrizioni particolari che attestano una cultura popolare diffusa e del tutto omogenea con quella. Le fonti giudiziarie di prima mano come queste, non ingannano: nella loro scarna semplicità, dicono assai più tante “ricostruzioni” storiografiche. La realtà, con le sue luci e ombre, è sempre più ricca di ogni ricostruzione storica. Ma fa pur sempre parte della realtà anche il falso, creato per rispondere talora ad un bisogno profondo del tempo. Capitolo 2: LE STRUTTURE PUBBLICHE LAICHE NEL 500-600 1. L’evoluzione dello Stato in età moderna: la repressione penale Nel passaggio dal medioevo all’età moderna, lo stato subisce trasformazioni, anche se non mancano elementi di continuità: ad esempio continua a reprimere o, consente che si reprimano, i comportamenti ritenuti devianti dalla chiesa. Da questo punto di vista l’età moderna può essere ritenuta per molti Stati (non tutti) un periodo anche più oppressivo del Medioevo. La convivenza delle coppie di fatto, non era vietata dal diritto comune; fu la rigida ortodossia instaurata con il Concilio di Trento (1545-1563) che finì per affermare che solo dopo il matrimonio si potesse coabitare legittimamente. In mancanza dell’attestato parrocchiale di matrimonio si rischiava la denuncia e la carcerazione e la donna era sempre esposta all’accusa di meretricio non autorizzato. Questo è lo Stato confessionale, che ha il compito dei difendere e di favorire la penetrazione di una confessione religiosa lasciando mano libera all’Inquisizione; fu questo il clima che favorì il conformismo e il perbenismo non solo nei paesi cattolici ma in quelli protestanti. Quindi, con l’età moderna andò delineandosi una politica di disciplinamento sociale attraverso momenti associativi, favorita da una infinità di confraternite, corporazioni, ospedali. Cooperando con la chiesa lo Stato tentava di reprimere ogni comportamento che non fosse conforme alla condotta del buon cristiano. Si perfezionò dunque una legislazione di polizia, molto forte in Francia e in Germania, con norme riguardanti la bestemmia, la prostituzione, il modo di vestire, la partecipazione alle cerimonie religiose, ma anche una sorta di diritto amministrativo, riguardante la organizzazione delle comunità locali. Un altro aspetto della giustizia di antico regime fu la convinzione che si dovesse prevedere l’estrema durezza delle pene, anche se spesso si era incapaci di applicarle, un po’ perché l’apparato pubblico di polizia era modesto e un po’ per la dilagante corruzione dell’apparato giudiziario; ma questa durezza repressiva aveva anche la funzione di sottolineare l’indispensabilità della grazia del principe. Questi accoglieva le frequenti richieste di grazia o per puro esercizio del potere “grazioso”, o perché richieste da famiglie vicine o da legare a sé. L’esercizio del potere grazioso gli faceva acquisire consenso tra i sudditi e il popolo diceva che il sovrano era protettore del popolo, mentre i (suoi) sbirri sono i veri cattivi e corrotti. Residuo minimo di questo potere di discrezionalità è oggi rinvenibile nel potere di grazia del Presidente della Repubblica. Altra caratteristica del sistema giudiziario di Ancien régime è che, qualunque processo, poteva essere chiamato dal Governo o dai suoi uffici non giudiziari, che potevano togliere la causa al giudice “naturale”. Il sovrano e i suoi ufficiali erano ritenuti giudici provvidi. Uno dei tanti motivi che generò leggi severissime fu la diffusione del banditismo ad opera di bande di ribelli popolari spesso capitanati da nobili, esistenti soprattutto in zone feudali, montane e boscose e/o di confine fra gli Stati. L’attività di queste bande era alimentata dal contrabbando, classico reato dell’età moderna, favorito dal fatto che lo Stato imponeva tasse sui beni di prima necessità (il sale), imponendo a volte l’acquisto coatto di determinate quantità ad ogni famiglia. Poche forze erano impegnate contro questi crimini, fino al 700 gli apparati di polizia furono modestissimi, solo alla fine del secolo si ebbero veri e propri apparati repressivi. Prima l’azione contro i crimini era in buona parte nelle mani degli stessi abitanti dei quartieri delle circoscrizioni cittadine o dei villaggi, che avevano l’obbligo di denunciare tutto quel che avveniva sul loro territorio per questo esistevano i sindaci (cariche gratuite e a rotazione tra gli abitanti) deputati a denunciare i crimini che avvenivano nell’area. Se omettevano di denunciare la responsabilità ricadeva anche sull’intera collettività che veniva punita con pene di vario genere: è la c.d. responsabilità oggettiva, cioè indipendente dalla materiale commissione del fatto. L’altro strumento che evitava di dover disporre di ingenti forze di polizia era la legislazione premiale quella che premiava chi aiutasse la giustizia a impadronirsi di delinquenti pericolosi. Il pentitismo dunque era incoraggiato. Un’altra caratteristica dello Stato dell’età moderna è che il più delle volte venivano attribuite agli uffici varie competenze: mancava una divisione vera e propria di esse in base al principio della separazione dei poteri, per cui un ufficio una volta istituito curava tutti gli aspetti, gestionali e giudiziari, in quel campo. La Corte della Sommarìa napoletana, accanto all’attività giurisdizionale ne svolgeva una normativa, consistente in provvedimenti –quadro chiamati “arresta”, oltreché amministrativa per gli appalti e le dogane. Nel Regno di Napoli il Presidente del Sacro Real Consiglio era anche membro di diritto del Consiglio collaterale del Viceré, organo centrale di governo del Regno, con funzioni vaste e variegate. Ovunque esistevano uffici dell’Abbondanza per predisporsi alle carestie, che presentavano elementi di pericolosità per l’ordine pubblico. Essi facevano ordini per i produttori o per consumatori e commercianti; ne vigilavano l’applicazione con i propri agenti e curavano l’applicazione di multe ed il contenzioso giudiziario. Si pensava che avere unificati presso un ufficio tutti i compiti relativi a una materia agevolasse il lavoro; per una questione di risparmio e per una esigenza di efficienza si giungeva all’accentramento dei poteri, il che alimentava la corruzione. C’erano anche eccezionali divisioni dei poteri. Pensiamo alle Rote: rispondono ad una esigenza di separazione del potere giudiziario da ogni altro potere. Cmq sia è certo che, la complessità dei meccanismi, amministrativi, giurisdizionali e politici esistenti, alimentava una litigiosità intensissima, che sosteneva un corpo di pratici del diritto enorme, a sua volta necessario per districarsi nel complessissimo sistema giuridico, fatto di fonti stratificate e intrecciate tra loro. Famosa fra tutte la situazione di Napoli, dove i “togati” (giudici delle innumerevoli corti o amministratori nei molti organi di governo del regno), rappresentarono un ceto molto importante, con una propria ideologia civile. Essi hanno dimostrato che i giuristi sono stati il ceto eminente a Napoli, tenuto conto che la nobiltà, vista con sospetto dagli spagnoli, fu ridotta in condizione di non nuocere politicamente mediante incombenze onorifiche e/o concessioni di feudi. Invece il ceto dei giuristi fu quello che consentì alla grande macchina amministrativa di funzionare, acquisendo anche una grande consapevolezza di categoria, perché: 1) alimentò l’idea dello Stato con suoi propri diritti anche nei confronti della chiesa, e 2) coltivò i rapporti con la cultura europea, in particolare spagnola, ma anche francese e olandese, importando idee e modelli che sarebbero stati molto influenti. 2. La legislazione statale e la consolidazione degli statuti cittadini Quanto all’opera legislativa degli Stati in Età moderna, non si può generalizzare, perché si hanno casi molto diversi. Soltanto a partire dal 400, i Re francesi, ad esempio, cominciarono ad emettere frequentemente le loro leggi (Ordonnances). Una importante del primo 500 fu l’ampia legge di diritto processuale che tentò di organizzare la procedura. Per l’Impero, a parte le leggi delle città, è da ricordare la Costituzione criminale Carolina del 1532, emanata dall’imperatore Carlo V. Essa è importante perché è una sorta di condensato della dottrina di diritto comune con cui l’Imperatore cercò di dare un diritto penale comune all’Impero. Si tratta di un provvedimento che riflette bene la situazione di debolezza politica dell’Impero persino in Germania. Infatti la Carolina non fu un diritto direttamente applicabile che si imponeva automaticamente, ma solo un diritto sussidiario, che l’Imperatore emanava per modernizzare il Paese. La Carolina fu dunque una sorta di “legge-quadro” che i singoli stati potevano recepire o meno, un po’ come fu per il diritto comune recepito dal Tribunale camerale. In Italia importanti furono le Nuove Costituzioni del Dominio di Milano. Esse furono emanate dallo stesso Carlo V nella sua nuova veste di Duca di Milano, dopo che gli Spagnoli si furono impadroniti della Lombardia, mettendo fine alla dominazione francese. Si trattò di un complesso ricco di norme estese all’intero Ducato di Milano, che si sovrapponevano agli Statuti, acquisendo efficacia diretta sul tutto il territorio e destinate a rimanere in vigore fino alle riforme austriache del 700. Ugualmente importanti, dopo le riforme del 1533, furono i Nuovi ordini di Emanuele Filiberto per il Principato piemontese emanati nel 1561. Per il resto abbiamo per lo più soltanto delle riedizioni a stampa di legislazioni precedenti. In particolare si ricordano le “Costituzioni di Santa Madre Chiesa”, fatte nel secondo 300. Ora (nel 500), sono pubblicate a stampa con le addizioni Carpensi, cioè le aggiunte del Cardinale da Carpi, arricchite anche dalla “glossa” (nata nella pratica) di Gaspare Cavallini. Si aveva quindi una situazione delle fonti molto complessa in questi territori, perché in primo luogo c’erano le Bolle papali promanate direttamente dal Papa Sovrano, poi gli Statuti locali che continuavano ad avere vigore anche in età moderna, e poi, prima di ricorrere al diritto comune, si doveva cercare la disposizione adatta per il caso nelle Costituzioni Egidiane, che erano un po’ il diritto comune regionale nelle Marche. Altra legislazione territoriale generale fu la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea del 1395, pubblicata a Madrid a metà 500. La Carta si connota per avere istituti diversi da quelli tradizionali del Continente, come il matrimonio “alla sardisca”, che prevede la comunione dei beni. La Sardegna era rimasta appartata dal mondo di diritto comune, salvo per gli statuti comunali di Sassari e Cagliari, molto legati a quelli pisani. Il tribunale centrale dell’isola istituito a Cagliari a metà 500 fu composto da giudici dotti e vi entrò nella prassi il normale patrimonio di diritto comune. Da questo punto di vista l’età moderna segnò un trionfo del diritto comune. Questo tipo di situazione è generale nell’età moderna. Lo Stato moderno è in realtà incapace di unificare dal punto di vista giuridico il territorio, e perciò si può parlare anche di “particolarismo territoriale”. Ci sono soltanto alcuni complessi normativi nuovi o vecchi che assumono un’efficacia più ampia. Ad esempio è una novità che lo Statuto della città dominante divenga diritto comune in tutto il territorio ad essa sottoposto, come lo Statuto della città di Firenze che viene a supplire gli statuti di Pisa, Arezzo, Pistoia, etc. Altro fatto interessante relativo agli statuti è che essi si consolidano, tentando a non avere più riformulazioni. Mentre nel Medioevo gli statuti venivano riformulati con frequenza. Fa eccezione alla stampa quello di Firenze del 1415, rimasto in parte in vigore per tutta l’età Moderna, e che continuò a circolare in manoscritto per poi essere pubblicato alla fine del 700. Un’altra eccezione è lo statuto di Siena. Una particolarità di questi statuti può essere considerata il fatto che fossero scritti in latino, a differenza di quelli trecenteschi che, quantomeno per quelli di Siena, erano anche in volgarizzati. Il fatto che gli ultimi statuti non fossero tradotti dimostra la chiusura sociale che era in corso, nel senso che si andava superando il clima popolare dei Comuni e si affermavano le oligarchie nobiliari, locali con un nuovo ethos culturale. Il fatto poi che queste norme statutarie non venissero riformate, è un altro indizio della crisi in cui era entrata l’Italia nel corso del XVI secolo, nel senso che si assiste un po’ ovunque alla generale stagnazione sociale ed economica che rimarrà fino al 1700 per certe aree, anche dopo per altre fino all’inizio dell’industrializzazione. L’Italia risente più degli altri della crisi perché non ha rapporti coloniali con le terre di nuova scoperta, non avendo così un fortissimo sviluppo economico. 3. La cameralistica e il diritto pubblico. Sul piano dell’impegno di ricerca va riconosciuto un certo spazio alla scienza detta “cameralistica”. Essa indicò la scienza dell’amministrazione del patrimonio pubblico, quasi una sorta di scienza dell’amministrazione: la “Camera” era l’amministrazione del patrimonio dello Stato. In questa materia primeggiarono i tedeschi dal 600, con università in ascesa, favorite dall’indipendenza dei Principi territoriali per effetto della pace di Westfalia del 1648 e per le divisioni religiose tra Land e l’altro, cosa che accentuava la concorrenza intellettuale. Ciò spiega perché la cultura illuminista, nel 700 coltivata in Italia nelle accademie, fu qui un fatto caratterizzante delle università. Questi studiosi esponevano i principi per una buona amministrazione dello Stato, consigliano sondaggi statistici, interventi di legislazione amministrativa. Tutto finalizzato a trarre profitto per le finanze dello Stato. Sempre in Germania si sviluppò la scienza del diritto pubblico, che ebbe fra i maggiori studiosi Hermann Conring. Questo sviluppo scientifico si giustifica tenendo conto della multiforme realtà politica della Germania di allora. Una moltitudine di Stati e città libere motivarono gli studi per una teorizzazione dei loro rapporti e delle loro istituzioni. Inoltre era sentito il dibattito culturale fra cattolici e protestanti, che dava uno stimolo concorrenziale per gli studi teologici e per le ricerche storiche, come avveniva in Francia da parte di grandi giuristi del mos gallicus. L’Italia rimase fuori dal dibattito, adagiata sul suo cattolicesimo e sulle tradizioni del mos italicus. Si parla di Usus modernus Pandectarum, per indicare come nelle Facoltà di Giurisprudenza tedesche proseguisse la tendenza italiana ad attualizzare il patrimonio giuridico di diritto comune ereditato con la recezione. 4. La “ragion di Stato”. È una espressione nata nel 500 per indicare l’interesse dello Stato come criterio di valutazione dell’azione politica (letteralmente la “ragione” è il “diritto” in volgare italiano antico). Giovanni Botero, un gesuita che si spogliò dell’abito per divenire Consigliere dei Savoia, nel 1589 scrisse un’opera intitolata La Ragion di Stato, inaugurando un nuovo filone letterario e trattatistico destinato ad avere grande fortuna in Europa. I temi trattati riguardavano il governo di un Paese e le virtù di un buon Principe cristiano, con un linguaggio accessibile al grande pubblico. Sono opere con cui si proseguono i medievali Specula Principum (specchi dei principi, manuali di formazione del buon governante). Questo indirizzo dottrinale si proclamava in netto contrasto con le posizioni del Machiavelli, finito all’Indice perché ritenuto eretico anticristo (avrebbe sostenuto che il fine giustificava i mezzi e condannava lo Stato pontificio), ma finì per dar prova di un sano realismo molto machiavelliano. Pensiamo a Botero quando assegna alla religione un ruolo preminente: “tra tutte le leggi non ve ne è di più favorevoli a’ Prencipi, che la cristiana; perché sottomette loro, non solamente i corpi, ma anche l’amina e la coscienza”. A parte il realismo, quello che queste opere vogliono combattere è il ricordo della politica di un tempo, del libero gioco politico che ancora si svolgeva nelle Repubbliche. La dottrina della ragion di Stato indica che piuttosto che discutere di politica bisogna affidarsi ad un Principe prudente, che abbia la virtù del buon Governante e che bisogna accreditarsi a Corte presso di lui. La funzione generale della letteratura sulla ragion di Stato può dunque riassumersi in quella di attuare un compromesso tra le ragioni della politica e le regioni della morale. Per questa via il termine Ragion di Stato passò a designare invece l’intervento eccezionale motivato dalle necessità di Stato: ad esempio, il segreto sulle trattative diplomatiche viene giustificato appunto con la Ragion di Stato, cioè con l’esigenza di salvaguardare la suprema Istituzione pubblica. 5. Esperienze repubblicane A questo tipo di letteratura in Italia, l’età moderna si caratterizza, dal punto di vista della struttura, della costituzione degli Stati, per una bipolarità: da un lato permangono esperienze di tipo repubblicano, per lo più in crisi o estinte, dall’altro molte esperienze monarchiche, in ascesa. Lo studio di questo bipolarismo, permette di capire come si è evoluto il diritto pubblico e in particolare il diritto costituzionale, e come si è arrivati al fenomeno della redazione di costituzioni scritte. All’origine di questi eventi ci sono esperienze molto diverse. Ne sono esempi le città-stato medievali italiane, le città mercantili delle Fiandre e le città libere tedesche. In esse si instaurò un tipo di governo collegiale, repubblicano, perché ad esse restò estranea la figura del Princeps, inteso come capo di governo monocratico, poi denominato: Re, Duca, Conte, etc. Esemplari sono gli statuti, una parte dei quali riguarda l’organizzazione degli uffici dei Comuni e le loro competenze, cioè i poteri. L’idea che fosse necessaria la redazione di regole scritte che dovessero reggere il gioco politico non è nata due secoli fa (può farsi risalire al mondo greco-romano, anche se trovò concretezza nel basso medioevo), ma è molto più antica. Lo statuto cittadino era la raccolta fondamentale della legislazione locale, non esaustiva perché le leggine ne rimanevano fuori. In esso però c’erano molte norme che riguardavano molti settori che noi oggi diremmo di diritto pubblico, amministrativo, di procedura civile e criminale e di diritto penale. Non erano raccolte omogenee, ne esaustive di diritto, dato che presupponevano sempre e comunque il diritto comune, ma c’erano norme che potrebbero definirsi di diritto costituzionale, specie quando si trattava di comuni che erano città-stato indipendenti. Coloro che poi controllavano e avevano la gestione della vita politica e ne avevano la direzione, erano i cives; la partecipazione poteva essere più o meno ampia, ma comunque il rapporto tra chi era ammesso al governo era paritario e regolato da norme di regola accolti negli statuti. Tra gli autori di opere politiche nate in clima repubblicano, il più influente fu senz’altro, a livello europeo, il fiorentino Niccolò Machiavelli con il suo Principe. Le sue riflessioni nacquero come conseguenza della crisi istituzionale repubblicana fiorentina. Egli conosceva bene sia le modalità di funzionamento delle Istituzioni, che i meccanismi della politica e li descrisse. Siamo alle origini di una scienza della politica come scienza del potere Tout Court, cioè senza condizionamenti ideologici (e perciò gli scrittori della Ragion di Stato gli si opponevano). Altro importante autore fiorentino fu Donato Giannotti, che scrisse, dopo il crollo della Repubblica, un opera intitolata La Repubblica Fiorentina, un’altra sulla Repubblica veneziana e un discorso per riordinare la Repubblica di Siena, in cui distingue le leggi in due specie: quelle universali ed essenziali, da cui dipende la stessa Repubblica (leggi costituzionali) e quelle particolari ed accidentali che servono al benessere dello Stato. Dove le prime sono bene ordinate, le altre saranno ottimamente regolate. Ma più che sul piano culturale, il pensiero repubblicano in età moderna fu difeso con alcune esperienze concrete. Pensiamo soprattutto a Venezia, Svizzera e Paesi Bassi. 6. Venezia, un caso particolare. Venezia, oltre ad essere un’importante Repubblica, costituì un’eccezione all’interno del sistema di diritto comune europeo. A partire dal 200 essa ebbe propri statuti e dal 300 iniziò anche a raccogliere le proprie consuetudini. Ma quel che le fu peculiare è che essa non riconobbe mai un’autorità e un posto ufficiale al diritto romano. Venezia si riteneva infatti autonoma e indipendente dall’Impero, perché era sorta su stili che erano da considerarsi res nullius: dall’affermazione di indipendenza, al trattato di Campoformio, con cui si decretò la fine della Repubblica veneziana, discendeva negli statuti veneziani una gerarchia delle fonti che prevedeva, in primo luogo, che dovessero essere applicati gli statuti, se ciò non bastava si doveva fare ricorso alle consuetudini e, in ultima istanza, l’Arbitrium iudicis, ovvero la discrezionalità del giudice che avrebbe dovuto decidere secondo equità. Il diritto romano non era dunque minimamente contemplato nella gerarchia delle fonti, anche se può essere stato alla base di tanti istituti del diritto veneziano. Le conseguenze di questa eccezione furono disparate. Ad esempio, i giudici a Venezia non era forestieri come imponeva la tradizione comunale, ma apparteneva al ceto nobile locale. Gli stessi avvocati non si erano formati sul diritto romano e non occorreva dunque che fossero addottorati. Venezia, infatti, già dal 200 aveva delineato la propria classe dirigente redigendo un Libro D’Oro con l’elenco delle famiglie da ritenersi nobili e che quindi avevano diritto alla partecipazione politica e quindi accesso alle cariche pubbliche (c.d. serrata del maggior Consiglio). Negli altri Comuni, la partecipazione politica fu motivo dei frequenti conflitti interni di natura politica. La classe dirigente comunale poi, poteva essere composta da ceti non nobiliari, anzi prevalsero i c.d. governi del Popolo, che escludevano ufficialmente la nobiltà dal governo. Poi i giudici veneziani non erano dotti e, in ragione di ciò, si formarono all’interno della Repubblica, organi giudicanti collegiali. Tali erano appunto le due Quarantie, Civil e Criminal, così dette perché erano formate da 40 membri, nobili veneziani di regola privi di specifica competenza in materia di diritto. Il processo era, proprio per questo, orale: non veniva redatto alcun verbale tecnico da sottoporre ai giudici, perché essi non erano dei tecnici da convincere sul piano tecnico. L’ampia nobiltà veneziana aveva la direzione di ogni settore della vita pubblica, dalla politica alla giustizia, all’economia; i nobili veneziani, oltre che ricoprire le principali cariche istituzionali, erano mercanti e avevano nelle loro mani le fila della politica del Paese. Nonostante tutto questo, il sistema veneziano risultò sostanzialmente stabile, probabilmente grazie ad un complesso sistema di bilanciamenti tra i poteri dei vari organi della Repubblica cui dette vita. Importante a tal riguardo era l’ufficio degli Inquisitori di Stato, incaricato di vigilare ed assicurare il buon funzionamento degli organi della Repubblica e che nessun ufficiale divulgasse segreti di Stato. Coloro che erano esclusi dalla direzione politica, ed erano tanti, solo perché nobili di nascita, avevano comunque accesso agli uffici come segretari o collaboratori, e poterono così sentirsi partecipi delle vicende dello Stato Venezia inoltre si guardò bene dall’estendere tale organizzazione ai territori caduti sotto il suo dominio (Padova, Vicenza, Treviso e Verona). Essi conservarono, pur dovendo rinunciare alla loro indipendenza, un ordinamento largamente autonomo grazie ai soliti Capitoli stipulati al momento della resa e inglobamento entro la Repubblica. Durante tutto il 500 Venezia, in ragione di questa indipendenza e dei continui scambi culturali, sviluppò una politica relativamente “tollerante”. Lo stesso Giordano Bruno vi trovò rifugio e, se non fosse stato per il tradimento del suo protettore veneziano, non sarebbe finito nelle mani dell’inquisizione a Roma, che lo spedì al rogo nel 1600 a Campo dei Fiori. Venezia sostenne i propri diritti statali con fermezza nei confronti dell’Impero della Chiesa. Agli inizi del 600, si arrivò persino all’incriminazione di due sacerdoti delinquenti da parte delle autorità veneziane, che costò alla città l’Interdetto papale e una grossa crisi del rapporto con il papato. L’interdetto dette luogo ad una vertenza, in cui i diritti della Repubblica di Venezia furono efficacemente difesi da Paolo Sarpi, un frate servita, teologo e giurista che operò in un periodo in cui vi era un forte dispiegarsi di pratiche inquisitorie e di pretese ecclesiastiche nei confronti dello Stato. Sarpi fece vari consulti nei quali contestava le posizioni papali, tanto che qualche tempo dopo fu scomunicato e alcuni frati attentarono alla sua vita. Professore di teologia e filosofia, scrittore anche di una importante e coraggiosa “Storia del Concilio tridentino” (1619), da fine 500 era a contatto con la curia romana. All'inizio del 1600 il Senato di Venezia lo aveva proposto al Papa per una nomina a Vescovo, ma il Papa rifiutò la nomina, motivando che egli era sospettato di eresia. 7. Esperienze monarchiche Il contrattualismo inizialmente fu collegato con il sistema monarchico nella sua fase feudale. In Inghilterra la monarchia si resse grazie alle concessioni feudali che il re fece alla nobiltà. Così accadde per i Normanni in Sicilia. Nelle esperienze monarchiche fu presente dal medioevo questa bilateralità, contrattualità che vede contrapposto il sovrano ai suoi feudatari, che gli rimanevano fedeli in cambio di protezione. Il rapporto non era paritario ma contrattuale: si dava per ricevere da entrambe le parti. Il re era primus inter pares quando era elettivo perché ad ogni decesso si ridiscuteva della successione. È quello che avveniva e avviene nel Papato: i cardinali sono pari finché non viene prescelto il papa, innalzato al di sopra di tutti. La Chiesa deve essere considerata un sistema istituzionale da includere tra le esperienze monarchiche. Il Conciliarismo avrebbe voluto trasformare il papato in una monarchia parlamentare, perché il papato si sarebbe dovuto avvalere dei Concili per stabilire le linee portanti della politica. In realtà dal 400 la Chiesa si organizzò in senso assolutistico, riconoscendo pieni poteri al Pontefice. Da tale periodo si può parlare della Chiesa come un’istituzione con una costituzione non scritta in senso moderno, perché c’era un testo unico con i poteri di papa, cardinali, concili, ma c’erano norme scritte e non scritte che disciplinavano l’organizzazione dei poteri all’interno dell’istituzione. Inghilterra e Francia erano più simili nel 500 che non a fine 600, quando divergevano come modelli giuspolitici. Nel 500 erano monarchie in cui il sovrano si serviva della collaborazione di organi che chiamiamo oggi “parlamenti”. In Francia si chiamavano Stati Generali, in Inghilterra il termine Parliament comprendeva la House of Lords che i Commons, la Camera dei Comuni. In entrambi i Paesi la monarchia passò periodi di crisi nel 600, (le “fronde” in Francia, decapitazione di Carlo I in Inghilterra). Fu un periodo incandescente anche altrove: a Napoli ci fu con Masaniello una rivolta antispagnola che evocò il modello repubblicano. Le 2 monarchie uscirono dalla crisi in modo ben diverso. L’Inghilterra si avviò verso la Gloriosa Rivoluzione dopo i tormenti del Commonwealth di Cromwell e divenne una monarchia costituzionale, la Francia si avviò sotto il regno di Luigi XIV, il Re Sole, a qualificarsi come un baluardo dell’assolutismo. 8. La Francia La Francia non ebbe uno sviluppo costituzionale in età moderna come l’Inghilterra. Nel secondo 500 il Paese fu bloccato da guerre di religione tra Cattolici e Calvinisti, Ugonotti, che condusse nel 1572 alla strage della notte di San Bartolomeo. I Cattolici erano appoggiati dal Papa e dalla Spagna. Enrico di Borbone si convertì al Cattolicesimo e divenne Re Enrico IV continuando la pratica della vendita delle cariche pubbliche che permetteva l’accesso alla “nobiltà di toga”. Nel 1598 fu siglata la pace con la Spagna e l’Editto di Nantes garantì la libertà di culto agli Ugonotti, salvo che a Parigi e intorno alla capitale. Enrico IV fu ucciso per mano di un fanatico cattolico nel 1610 e la nobiltà chiese la convocazione degli Stati Generali, riunitisi nel 1614 quando si chiese l’abolizione della compravendita e dell’ereditarietà delle cariche pubbliche. Dal 1614 gli Stati Generali non furono riuniti fino al 1789 perché prese avvio l’assolutismo di Luigi XIII, con Richelieu consigliere. Nel 1628 le truppe espugnarono il porto fortificato di La Rochelle, ultima roccaforte degli Ugonotti, ai quali il Re concederà la libertà di culto ma toglierà autonomie politiche e territoriali acquisite con l’editto di Nantes. Le “Fronde” (rivolte) dei Parlamenti e dei nobili, una volta sconfitte, segnarono l’avvio dell’assolutismo politico facendo divergere Francia ed Inghilterra. L’assolutismo raggiunse il suo apice sotto il regno di Luigi XIII detto il Re Sole, che governò all’insegna del motto “L’Etat c’est moi” e che ricordiamo per l’impulso dato alla legislazione. Tra gli aspetti del suo assolutismo sono da sottolineare: • Non aver convocato gli Stati Generali • Aver piegato i Parlamenti obbligandoli ad applicare editti regi senza il potere di remontrance, di rimostranza • Aver controllato tutto il territorio per mezzo di Commissari ed Intendenti, che si sovrapponevano alle autorità locali • Aver revocato l’Editto di Nantes che garantiva libertà di culto agli Ugonotti, che comportò il trionfo del Cattolicesimo ma che provocò la fuga di molti ugonotti verso Olanda e Germania • Aver ripreso la quattrocentesca Pragmatica sanctio di Bourges, dichiarando le libertà gallicane • Aver combattuto il Giansenismo per uniformare sotto il Cattolicesimo il proprio Paese • Aver proceduto ad unificare il diritto nazionale come si dirà a proposito del mercantilismo, il processo civile e il diritto e la procedura penale con 2 Ordonnances, la Ordonnance civile pour la réformation de la justice e l’Ordonnance criminelle, dette Code Louis. In quella civilistica è da notare una disposizione tipica di un regime assolutista, il référé legislatif, mentre in quella criminale c’è un concentrato della procedura inquisitoria • Aver introdotto l’insegnamento del diritto francese nelle università, ponendo fine al primato esclusivo del Corpus iuris civilis. Le possibilità acquisite da Luigi XIV fecero scuola negli ordinamenti monarchici, indicando i principi che la via del rafforzamento passava attraverso grandi riforme razionalizzatrici e centralizzanti e diminuendo i poteri di “stati”, Parlamenti o Cortes e così via. 9. L’Impero e la Germania. Già dalla metà del 300 fu chiaro che l’Impero non poteva certo svilupparsi verso una monarchia assoluta. L’Imperatore doveva essere eletto dai Principi elettori secondo le procedure fissate dalla Carta Costituzionale nota come “Bolla d’oro”. Tali Principi erano i Duchi di Sassonia, del Brandeburgo e del Palatinato, il Re di Boemia, i Vescovi di Magonza, Colonia e Treviri. Non si era cioè riusciti ad affermare l’ereditarietà della corona – come avrebbero voluto ad Asburgo – e l’imperatore dipendeva sempre da coloro che lo avevano eletto. Un altro tentativo di trasformare la caria di Asburgo lo fecero ai primi del 600, ma finì per divamparne la terribile guerra dei trent'anni. Allora un Asburgo fece temere in Boemia di andare verso un intollerante predominio cattolico, insopportabile in un paese che dal 1602 conosceva la libertà di culto; ne derivò una serie di eventi drammatici e la guerra che finì per coinvolgere tutta Europa. Con la “pace di Westfalia” (1648), gli Asburgo, che governarono il Sacro Romano Impero fino alla sua estinzione del 1806, si trovarono a dover riconoscere ufficialmente tutta un serie di competenze ai Lander, il Duca di Baviera in ascesa, acquisì allora il diritto elettorale per l’Impero. La Dieta poté deliberare da allora solo all’unanimità, e con ciò l’Imperatore fu imbalsamato. Anche per quanto riguarda l’Impero quindi non si può parlare di una carta Costituzionale come la intendiamo noi oggi. 10. La stagnazione nobiliare italiana: religione, politica e diritto L’Italia del 500 non solo subì l’impatto pesante della Chiesa rinnovata a Trento, ma dovette anche scontare un pesante ritardo politico, che determinò una forte preponderanza straniera, in particolare Spagnola. Dopo la fondamentale pace di Cateau Cambrésis del 1559, divennero domini diretti della Corona spagnola Napoli, Palermo e Milano, e un forte influsso spagnolo subirono pure i governi di Firenze e Genova. Preponderanza straniera che non impedì una relativa modernizzazione degli stati esistenti, che significò soprattutto semplificazione del quadro politico e avvento o consolidamento di governi principeschi o repubblicani oligarchici. Dal primo punto di vista si tratta di sottolineare la fine delle Repubbliche di Firenze e di Siena, che segnarono con l’avvento della nuova dinastia ducale (e Granducale dei Medici) la fine di due importanti esperienze comunali tardo medievali. Venezia, Genova e la debole Lucca rimasero sole a rappresentare il grande passato repubblicano italiano, si parla di loro come di “Repubbliche aristocratiche”. Nel secondo comparto va ricordato l’ampliamento dello Stato Pontificio, l’irrobustimento dei Savoia, dei Farnese e dei Gonzaga, che erano una società cortigiana, che tenta di cancellare il ricordo della grande esperienza comunale. Certo, a Venezia, c’era una dialettica politica ancora vivace, tuttavia ovunque si istituzionalizza un ceto tendenzialmente molto omogeneo di nobili che, con sovrano o meno, controlla il potere politico, economico ed ecclesiastico. Mentre nel medioevo il populus aveva acquisito l’accesso alla sfera di governo e alle cariche istituzionali, con l’età moderna rimangono i nobili gli unici abilitati a partecipare alle assemblee: è la cosiddetta chiusura aristocratica dei Comuni. Alcuni preferiscono parlare di evoluzione aristocratica, altri di evoluzione in senso oligarchico. Dove non riuscì la chiusura, le Repubbliche caddero nelle mani dell’uomo forte, come Cosimo de’ Medici. La faziosità dei partiti portò a questo esito autoritario e nel momento in cui le Repubbliche di Firenze e Siena passarono nelle mani dei Medici, si passò ad un governo dei Consigli a uno del Principe. Questo fu un iter generale in Europa; nelle grandi città dell’Impero prevalse l’ideologia nobiliare, costante nell’età moderna, distrutta con la Rivoluzione francese e nell’Ottocento borghese. L’essenza di questa ideologia nobiliare era che il governo di molti era un governo caotico: i governi che funzionavano erano governi di pochi e si tramandavano ereditariamente l’arte di governo. L’età moderna vide il trionfo della nobiltà in tutti i campi. Ovunque la nobiltà mantenne i posti chiave nella vita pubblica. La nobiltà moderna non è militare come quella del medioevo, perché si fonda sulle proprietà di terre o titolarità di feudi. Si tratta di un ceto che ha organi di rappresentanza, che viene chiamato a consigliare i principi a corte, che fornisce i quadri per l’esercito e per la Chiesa e gode di privilegi che la fanno configurare come strato sociale a se. Essa ha pene caratteristiche, privilegi fiscali e per l’accesso a cariche e professioni, istituti giuridici caratteristici come il maggiorascato ed il fedecommesso. Le “sostituzioni fidecommissarie” sono uno degli aspetti più complessi del diritto moderno. Il nobile disponeva dei propri beni con testamenti elaboratissimi, in cui faceva lasciti con sostituzioni successive: prima si nominava i figli da privilegiare, poi si stabiliva che, se avessero esaurito la linea maschile, sarebbe stata la Chiesa cattedrale ad ereditare, o un Ospedale e così via. C’era una serie di situazioni previste in caso di premorienza del primo istituito. Tali sostituzioni fidecommissarie davano luogo a cause infinite per la complicazione. La legislazione non si occupava di questi problemi ma li lasciava alle liti ed sublitates (sottigliezze) dei dottori. Si dava il caso che fosse lasciato erede il primogenito con l’obbligo di trasferire parte del patrimonio al primogenito, allo scopo di mantenere integro il patrimonio familiare. Il fedecommesso con maggiorascato comprendeva le terre più antiche della famiglia, il palazzo e le cappelle di patronato della famiglia. Questi beni venivano sottratti alla libera circolazione, non potevano essere venduti dall’erede né attaccati dal creditore. Si formavano delle masse di proprietà al di fuori della circolazione giuridica: l’erede poteva usare quei beni ma non fare altro. La nobiltà aveva propria cultura, con propri istituti come il duello, quanto più represso ufficialmente tanto più utilizzato di fatto. Era un corpo chiuso, che monopolizzava le cariche pubbliche e tentava di avere un rapporto esclusivo con il governo. La Chiesa e la magistratura rimasero veicoli di promozione sociale per non nobili. L’accordo tra Chiesa e Stato e l’onnipresenza della nobiltà configurano una società stabile che aveva un pluralismo istituzionale, enti laici e religiosi, cui non corrispondeva un pluralismo culturale, per cui si può parlare di società omogenea, compatta, oppressiva, quasi totalitaria. L’organizzazione giuridica dei ceti variava da ordinamento ad ordinamento, per cui era alle regole locali che bisognava far riferimento per ricostruire il profilo del nobile. In età moderna divenne importante requisito di non esercitare “arti vili”, indicate nel diritto locale. Si arrivò a ritenere vile l’attività di notaio, in quanto servizio pagato del cliente, come lo era quello di commerciante al minuto. Solo il mercante vero poteva conservare il titolo, che poteva essere perduto in taluni ordinamenti, mentre in altri si aveva il caso dei “nobili vergognosi”, assistiti per non renderne palese la decadenza. Nel panorama italiano si ebbero alcuni movimenti di vivacità. Tra essi spiccano il tentativo repubblicano di Masaniello a Napoli, che alimentò l’interesse dei dotti napoletani per la cultura olandese. 11. Lo Stato forte: mercantilismo e colonialismo. Nel 600 inizia in Europa un fenomeno di intervento attivo dello Stato nell’economia (mercantilismo), per favorire il commercio, l’esportazione di beni e di conseguenza l’importazione di valuta. Fino al 500 il diritto commerciale era stato gestito, in linea di massima, dagli stessi mercanti (ma in Italia ci fu spesso anche la legge delle città). Successivamente la forte espansione coloniale rese necessario l’intervento dello stato per accrescere le ricchezze del Paese. In Francia Luigi XIV emanò una Ordonnance du Commerce, che disciplinava minuziosamente l’attività del mercante ed i suoi rapporti con i privati. Il diritto commerciale diventa quindi da diritto corporativo, a diritto statale. Altra Ordonnance collegata a questa in Francia fu l’Ordonnance de la marine, una specie di codificazione del Diritto Marittimo. Lo strumento dell’intervento pubblico nell’economia era stato già utilizzato. Si pensi alle Compagnie Coloniali che ottennero il monopolio del commercio con certe aree, per favorire le importazione e le esportazioni con il Paese d’origine della Compagnia. Possiamo vedere un antecedente delle compagnie coloniali nel Banco di San Giorgio, sorto a Genova nel 300. Esso era un’associazione di creditori del Comune, che gestiva il credito pubblico. Alcune Compagnie ebbero dalla Corona inglese il privilegio di occupare le zone del Nord America. Erano colonie dirette di un Governatore del re o affidate ad una compagnia con una carta di concessione (come la Virginia). Queste carte di concessione, che fissavano le norme fondamentali per l’esercizio del potere in quel territorio, finivano per essere delle piccole costituzioni. Le funzioni delle colonie erano molte, oltre a quelle economiche, in alcune venivano condotte i carcerati per evitare che nuocessero nella madrepatria, in altre si rifugiavano i perseguitati religiosi, etc. È ciò che successe nel 1620 ai famosi “padri pellegrini”, perseguitati dalla chiesa Anglicana, dopo essere emigrati in Olanda, intrapresero un viaggio in nave e sbarcarono nella baia del Massachusetts dove fondarono Plymouth. Interventi molto importanti del governo inglese in economia si ebbero con l’Atto di navigazione del 1651, che stabilì tra l’altro che le merci europee con potevano essere trasportate in Gran Bretagna se non con vascelli inglesi o del Paese di origine delle merci europee. Per le merci provenienti dall’America, dall’Africa e dall’Asia si potevano usare solo vascelli inglesi, con capitano ed almeno un terzo dell’equipaggio inglesi. Capitolo 3: NOVITÀ DELLA GIUSTIZIA:I GRANDI TRIBUNALI D’ANTICO REGIME 1. Stagnazione con riforme. Abbiamo visto gli sviluppi giuspubblicistici europei d’Antico regime e abbiamo parlato di stagnazione in Italia. Ma questa fu tendenziale, non generale. Ci furono settori investiti da novità. Lo Stato Pontificio, ad esempio, avviò un’opera di modernizzazione nelle proprie strutture prima impensabile, con una esaltazione della centralità di Roma, con il contenimento della criminalità, anche nobiliare, l’omogeneizzazione dei variegati territori compresi entro i propri confini e così via. Perciò, facendo tesoro dell’opportunità indicata da Francesco Guicciardini nel “pensiero” ricordato a suo tempo, si prestò attenzione alla riforma della giustizia, e quella civile risultò fortemente privilegiata. 2. Verso la giustizia del 500: unità o separazione dei poteri Il sistema del diritto comune romano canonico e diritti locali continuò anche in età moderna. Ma continuò anche il lavoro dottrinale collettivo che permise un progressivo adeguamento degli istituti giuridici alle mutate condizioni socio politiche. Sui problemi di stile, non era facile per le autorità pubbliche intervenire, dato che le università avevano da secoli la loro “autonomia” didattica e, le modifiche isolate di un’università avrebbero avuto difficoltà ad essere gradite dal pubblico, spesso internazionale, degli studenti. Comunque proprio dal 500 i principi e i governi cominciarono a introdurre delle differenziazioni organizzative e didattiche “regionali”, prima assenti. Dove invece il potere politico sentì presto la necessità di provvedere fu in tema di amministrazione della giustizia, degli ordinamenti monarchici e di quelli cittadini “repubblicani”. Nei primi le assemblee rappresentative dei principi avevano tradizionalmente anche competenze giudiziarie superiori. Così le camere inglesi, che avevano la possibilità di interventi in cause di interesse pubblico, sovrapponendosi alle corti ordinarie di Common law. In Francia l’attenuato sviluppo degli Stati generali spiega come la giustizia superiore si concentrasse in un organo che dipese dal re: il Parlement de Paris, corte giudiziaria con giuristi, provenienti dalle università e tramite di diffusione del diritto comune, che può essere accostata alla Sacra Rota Romana. Il re doveva assicurare la giustizia. La cosa comportava sia provvedimenti generali (leggi, ordinanze), sia specifici, privilegi per il fedele, provvedimenti per il caso singolo. C’è unità di poteri, cioè quella concentrazione detta mancanza di separazione dei poteri. La iurisdictio del potere politico era unitaria. Nelle città italiane erano diffuse queste idee ma la presenza dei podestà nel 300 concentrarono i poteri giudiziari ordinari separando la giurisdizione dalla politica e dalla legislazione, compito dei governi e delle assemblee cittadine. Signorie e Principati del 400 si svilupparono ove le città-Stato entrarono in crisi, perché i principi cominciarono a istituire dei Consigli di Giustizia, specializzati nella trattazione delle cause più importanti, distinti dai consigli politici, che assistevano il principe nelle questioni politiche. Sono le premesse della nascita di grandi tribunali che caratterizzò la nuova età: nascita che modificò l’organizzazione dei tribunali medievali. 3. L’istituzione del Tribunale Camerale dell’Impero e la recezione del diritto comune in Germania. In Germania ebbe luogo un intervento importante, nel 1495, si formò il Reichskammergericht, ossia il tribunale Camerale dell’Impero, prevedendo tra i suoi membri che la metà almeno fossero dottori laureati e solo per il restante dei cavalieri o giudici nobili. Poi una riforma della metà del 500 prevederà che tutti i componenti fossero giudici professionali, di formazione dotta, per regolare la situazione caotica che si era creata tra i vari domini interni all’Impero e disciplinare i conflitti tra sudditi e Sovrano, e tra i principi. Il fatto più rilevante è che il diritto che si diceva dover essere applicato dai giudici era il diritto comune, perché le consuetudini locali si potevano allegare solo provandone l’esistenza, la qual cosa non fu sempre facile: di qui un processo che ne provocò la decadenza. Ciò comportò il fatto importantissimo per la storia giuridica tedesca della recezione ufficiale del diritto comun in Germania con le interpretazioni dottrinali fino ad allora dati dai dottori. Il Tribunale Camerale ebbe sede nella libera città di Francoforte. Esso infatti rappresentava una istituzione giudicante neutrale ed autonoma, al contrario di quelle precedenti, molto legate alla corte imperiale. Da tempo c’erano i tribunali ecclesiastici in Germania che applicavano il diritto canonico; nel 400 molti giuristi formatisi in Italia, avevano diffuso consilia e trattati in Germania o avevano rafforzato le categorie romanistiche nella legislazione locale, specie delle città libere. Ma nei tribunali dei Lander si applicavano diritti consuetudinari ed i giudici non erano dotti. Solo con l’istituzione del Tribunale Camerale si ebbe la recezione del diritto romano. Questo tribunale fu un modello che si impose per i tribunali dei singoli Lander. Per tale via crebbe l’importanza dei giuristi italiani in Germania dove fu recepito il mos italicus e dove i grandi centri stampavano soprattutto opere di giuristi italiani. Si precisò che, presso il tribunale, il diritto comune dovesse essere applicato secondo il testo commentato dalla Glossa accursiana, la littera Bononiensis, cioè la vulgata del Corpus iuris corrente nelle Università. Vennero trascurati i testi scoperti successivamente dagli umanisti e si affermò la massima “Ciò che non conosce la Glossa accursiana non lo conosce neppure la corte”. Oltre al diritto giustinianeo furono oggetto di recezione le opiniones; questo fatto permise la diffusione della dottrina italiana nei paesi germanici. In questo periodo si assisté ad un flusso di professori italiani verso la Germania. Nel 500 sorsero nuove Università in Germania, invece nel 600 la sede universitaria di elezione diverrà Leiden, grande università olandese. Per i tedeschi sensibili al richiamo della cultura umanistica si istituirono delle cattedre di Pandette, dalle quali si insegnava il puro testo normativo, nel senso che si spiegava il Corpus romanistico anziché insegnamenti ed interpretazioni dei dottori come Bartolo, Baldo ed il Tartagni. Altro fattore di recezione del diritto comune in Germania furono le pronuncie, i consigli ufficiali nelle cause, delle facoltà di giurisprudenza. Quando insorgevano dubbi gravi i giudici demandavano la soluzione ad una facoltà di giurisprudenza. Durante il 500 la risposta consisteva in un consiglio (Rat), ma nel 600 le facoltà decidevano direttamente le cause sottoposte loro. Esse si demandavano ad una facoltà di un’altra città. La Germania divenne un paese di diritto comune. I diritti locali che sopravvissero vennero applicati in un’ottica romanistica e influenzata dalla tradizione dottrinale italiana. Dal 600 si parla di usus modernus Pandectarum, utilizzazione attualizzata del Digesto, che tenesse conto della legislazione locale e delle nuove interpretazioni dottrinali. All’inizio le comunità contadine avvertirono il diritto comune come straniero, imposto a tutela della proprietà individuale, di stampo romanistico, ed intravidero un sopruso politico, strumento dei potenti teso a favorire lo sviluppo della proprietà privata. Nel 1525, a 30 anni dalla recezione ufficiale, scoppiò la rivolta dei contadini animati da sentimenti religiosi anticattolici e da rivendicazioni economiche in senso collettivista. Diverse si presentavano le situazioni tedesca e francese. In Germania il diritto comune divenne vigente in tutto il paese, rimanendo il diritto consuetudinario applicabile su richiesta delle parti solo se il testo della consuetudine poteva essere provato ed allegato: inoltre si avviò una decadenza di fronte alle elaborazioni delle dottrine universitarie. In Francia le consuetudini si consolidarono con la redazione scritta. Nel 500 le varie raccolte di costume furono redatte per iscritto e sottoposte a modernizzazione. La più importante raccolta fu quella dei Coutume de Paris, che ha un rilievo particolare perché rappresenta la base dell’unificazione del diritto consuetudinario francese. In questo processo fu agevolata dalla giurisprudenza del Parlamento di Parigi, il più autorevole tribunale francese. In Francia il diritto romano non ricevette mai recezione ufficiale sul modello tedesco. 4. Un altro modello giudiziario: la Rota fiorentina e l’edizione delle Pandette del 1553 Alla fine 400 e ai primi del 500, quando era ancora una Repubblica, Firenze si caratterizzava per una grande partecipazione popolare al governo. Un Altro retaggio della tradizione giuspubblicistica medievale erano i governi collegiali repubblicani, che duravano in carica di regola solo da due a sei mesi e la cui alternanza causava la mancanza di continuità dell’azione di governo. Per di più c’era il problema della giustizia civile che premeva molto all’élite fiorentina, perché il governo 400 aveva spesso effettuato interventi arbitrari nella sfera giudiziaria. Per sopperire a queste carenze e problemi, a Firenze furono presi due provvedimenti che interessano direttamente la storia del diritto: • L’istituzione del Gonfaloniere a vita, emulazione della figura del Doge veneziano. A Venezia per risolvere i problemi di stabilità era stata creata dal medioevo la carica di Doge, a durata vitalizia. Le altre cariche erano sottoposte a rotazione e limitavano i poteri del Doge dando spazio ad un’élite stabile, sul tipo del Senato romano. • L’istituzione della Rota fiorentina nel 1502. Fino a tale durata la diarchia del Podestà-Capitano del Popolo si rifletteva nelle 2 corti, ricoperte da dirigenti forestieri, abituati al comando militare, con una condotta annuale, che giungevano a Firenze con giudici e notai che conducevano gli affari giudiziari. Erano i loro giudici a latere. L’istituzione della Rota, detta Consiglio di Giustizia pose fine a questa organizzazione. Essa fu un tribunale centrale formato da giudici dotti in carica per 3 anni. I giudici ebbero l’obbligo di motivare le proprie decisioni. Il fatto è importante perché introduce un istituto sperimentato pur senza essere previsto dal diritto comune; per la sua importanza fa il paio con il principio della par condicio processuale. La motivazione della sentenza infatti, è stata ritenuta per tanto tempo una creazione esclusiva del mondo contemporaneo, perché la sua introduzione veniva fatta risalire solo alla rivoluzione francese. Le motivazioni dovevano quindi essere rese esplicite per ragioni di trasparenza del processo nei confronti delle parti e del pubblico che poteva consultarle. Il bisogno di trasparenza era particolarmente avvertito allora, perché si erano moltiplicate le critiche di parzialità, inquinata dall’intervento dei politici. La Rota inizialmente assunse il nome di Consiglio di Giustizia a conferma dell’esigenza di rendere imparziale il giudizio, in quanto la necessità di motivare era un dato nuovo, che derogava al diritto comune che non prevedeva l’obbligo di motivare la sentenza. Fu un’istituzione di ius proprium fiorentino anche se alcuni decenni prima nel secondo 400 si motivò anche a Bologna, ma l’esperimento era stato abbandonato. Molti giuristi ritenevano inopportuno dare le motivazioni, perché avrebbe fornito possibilità alle parti di chiedere l’annullamento della sentenza dimostrata l’erroneità delle motivazioni. I giudici medievali evitavano di motivare 1) in primo luogo perché erano giudici monocratici, singoli, che non avevano da discutere con dei colleghi; 2) la loro condotta era troppo breve perché venisse lo scrupolo di registrare l’attività giurisprudenziale. Dei tribunali inglesi abbiamo solo registri medievali con verbalizzazioni delle contestazioni tra le parti e della Rota romana tre raccolte di reports. Di notevole interesse appaiono le raccolte di arresta (deliberazioni) del Parlamento di Parigi. Nel 300 il Parlamento di Parigi era un tribunale dotto, con dottori laureati in diritto comune; arresta è il nome tecnico delle decisioni emesse da quest’organo. Il rilevo della giurisprudenza dei tribunali è un fatto dell’età moderna. La conservazione delle decisioni rotali fa pensare che si volesse costruire un arsenale permanente di motivazioni, capace di mettere un punto fermo sui conflitti dottrinali. Scrivere la motivazione equivaleva a mostrare quale opinio si preferiva su quella questione giuridica. Che la Rota le registrasse e conservasse poteva essere un modo per contribuire al formarsi di un patrimonio giurisprudenziale per il futuro che contribuisse a eliminare l’incertezza del diritto. Una maggiore durata della condotta e la conservazione delle motivazioni creava una continuità nell’amministrazione della giustizia. La ragione politica dell’obbligo di motivazione consisteva non solo dell’intento di conservare una magistratura autonoma. L’altra novità della Rota risiedeva nelle raccolte ufficiali delle motivazioni delle sentenze per il pubblico. La ricerca di imparzialità e certezza del diritto investe in quegli anni anche la giustizia penale: la Rota ebbe in un primo tempo competenze penalistiche tolte successivamente, quando l’obiettività del giudizio penale non interessò più tanto, o quando la repressione divenne un problema da non potersi trattare in modo garantistico. Il vincolo del precedente, fu un punto di riferimento per i giudici, soprattutto per gli autori stessi della sentenza. La possibilità di consultazione da parte del pubblico forense comportò la diffusione della decisio, che poteva essere ricordata in successive cause. L’istituzione della Rota ebbe come conseguenza un declino dell’uso dei consilia sapientis. Si afferma, presso questo e gli altri tribunali centrali, un principio della giustizia moderna: quello che al giudice non si può né si deve chiedere di far accertare le questioni di diritto da un dotto esterno, perché si presume che lui stesso in via assoluta ne sia a conoscenza. Dopo la presa del potere nel 1530, i Medici non eliminarono la motivazione. Cosimo de’ Medici fu a favore di questa istituzione giudiziaria. Dalla tipografia medicea uscì l’edizione della littera Florentina del Digesto nel 1553, destinata ad alimentare discussioni sulla validità della littera Bononiensis, fonte primaria del diritto comune. La pubblicazione della littera Florentina dette modo di riscontrare gli errori presenti nella vulgata del Digesto, corrente nelle università, e consentì studi impensabili, che concludevano, come con Andrea Alciato, che benché più fedele rispetto alla littera Bononiensis, la Florentina non potesse essere considerata manoscritto autentico, originario del Digesto. La Florentina divenne un punto di riferimento indispensabile da allora in poi. Gli studi filologici del mos gallicus portarono all’individuazione degli emblemata Triboniani, contrassegni di Triboniano, le modificazioni apportate ai testi originari ad opera dei commissari diretti da lui, rispetto al testo originale. Con questa operazione editoriale Cosimo acquistò prestigio internazionale dato che si trattava della pubblicazione del più grande monumento giuridico di tutti i tempi. Gli interventi muovevano contro il diritto comune: l’uno contro la littera Bononiensis, l’altro contro le opiniones, i consilia sapientium e quindi contro il diritto romano come diritto vigente. Cosimo era intenzionato a porre in essere notevoli riforme in Toscana, a mantenere saldo il suo potere e per entrambi gli scopi aveva bisogno di legiferare, esautorando il Corpus iuris. 5. Le altre Rote nell’Italia centro-settentrionale La tendenza a superare l’impasse del sistema del diritto comune non portò all’abbandono della giurisprudenza tradizionale. Non è un caso che molte istituzioni analoghe alla Rota fiorentina si formarono in varie parti d’Italia: a Siena nel 1504, negli anni trenta a Genova, Lucca, Perugia e Bologna, nel 1545 a Parma, nel 1557 a Mantova, etc. Molte, con forme di motivazioni della sentenza sul tipo rotale fiorentino. Questa è la prova che i tempi erano ormai pronti per una riforma giudiziaria e che i tribunali podestarili tradizionali non soddisfacevano le esigenze di imparzialità della giustizia. La Rota nacque infatti dove si attraversava un periodo politico difficile o di transizione, in cui i cittadini vigili e attenti alle sorti della loro comunità, si preoccupavano di dare una certezza all’amministrazione della giustizia. La Rota sorgeva dunque per curare i sintomi di un malessere, ma anche come contrassegno della capacità del governo di dare risposte ai problemi esistenti. Il nuovo tribunale rappresentava per queste città una garanzia di una giustizia sganciata dalle vicende del potere politico. Comunque va notato che solo con un certo ritardo vennero pubblicate le raccolte di queste decisioni. In toscana solo da fine 500, con il risultato paradossale che la Rota di Siena motivava a volte con rinvii alla giurisprudenza napoletana, facilmente accessibile perché a stampa, anziché alla propria, da ritrovare nei registri d’archivio. A Genova, invece, si ebbe l’importante raccolta intitolata Decisiones de mercatura (1582). La Rota genovese aveva infatti eccezionalmente competenze in materia commerciale, oltre che civile, e quest’opera, per l’interesse dei contenuti che raccoglieva, ebbe un’enorme diffusione in tutta Europa, così come contemporaneamente per altre materie circolavano con successo le decisiones della Rota romana. 6. La Sacra Rota Romana e le funzioni della motivazione. La Sacra Rota Romana è il più antico tribunale del mondo cattolico, esistente da 700 anni; infatti, la Rota risale al medioevo come i tribunali di common law inglesi. Istituita durante la permanenza del papato ad Avignone, la Rota doveva occuparsi degli affari giudiziari in ultima istanza per conto, su commissio, del papa. Era costituita da Auditores Domini Papae (Uditori del Signor Papa), che iniziarono a scrivere ricordi delle discussioni cui dettero luogo le cause. Questi scritti vennero chiamati decisiones perché non erano le sentenze, dispositivi, ma le ragioni giuridiche delle stesse e si distinsero a seconda del periodo in Decisiones Antiquiores, Antiquae e Novae, cioè più antiche, antiche e nuove. Ebbero in Europa grande diffusione e circolando manoscritte tra 300 e 400: poi alla fine del 400 furono stampate. Sono tra le poche decisioni medievali oltre a quelle francesi. La motivazione della sentenza poteva e può a tutt’oggi assumere significati diversi a seconda del contesto; infatti: • Un significato di tipo politico: si chiariscono i motivi di una sentenza per soddisfare gli utenti della giustizia, permettendo di conoscere su quali basi si fonda la condanna o l’assoluzione. • Un rilievo burocratico: la motivazione può essere strumento di controllo da parte del Principe o dell’autorità politica, nei confronti dei giudici. Si ricorda un caso senese tipico della giustizia feudale. Il giudice penale ordinario senese in età medicea era il Capitano di giustizia, il quale prima di pronunciare una sentenza, doveva presentare le sue argomentazioni al Sovrano o a chi per lui per essere autorizzato a proseguire e per poi giungere alla sentenza. Si tratta di consentire un controllo assai penetrante sull’attività del giudice, finalizzato a consentire al potere politico di poter eventualmente influire sull’amministrazione della giustizia: si prendeva atto che le condanne, potessero suscitare scandalo o colpire categorie o persone che si desiderava proteggere, per cui si teneva sotto controllo rigido l’attività del giudice . • Un rilievo endoprocessuale attinente allo svolgimento del processo stesso. Questo si ha o quando la motivazione interviene nel corso di un processo per addivenire ad una pronuncia più corretta, oppure perché serve per impugnare una sentenza di prima istanza. La motivazione in quest’ultimo caso nasce per spiegare la sentenza e rimane all’interno della singola causa. È il caso della Rota Romana, le cui motivazioni non avrebbero dovuto costituire deposito giurisprudenziale. In origine la decisio doveva servire ad argomentare la decisione della causa in modo da far giudicare con correttezza ed equità. La decisio faceva parte dell’iter processuale ed era emessa prima della sentenza. Le parti ponevano i propri dubia al giudice relatore di fronte al quale la causa era coram (di fronte a), dopo di che esprimevano i propri orientamenti sui punti della questione. Il ponens (giudice relatore) raccoglieva pareri, istruiva la questione, portava il problema di fronte al collegio e redigeva la decisio. Questa era la motivazione di una sentenza, detta “consiglio dei signori giudici auditori”. La decisio, motivazione di una sentenza, veniva presentata alle parti e la parte perdente era posta di fronte alla possibilità di replicare o di abbandonare la causa. In quest’ultimo caso la questione si sarebbe conclusa e la motivazione sarebbe divenuta definitiva ed avrebbe fatto parte della sentenza. In caso di replica venivano dati nuovi spunti al ponens, il quale procedeva con una nuova decisio. La decisio non era parte della sentenza, ma si poneva in sede extra-giudiziaria come aiuto delle parti per lo svolgimento del processo, indicando l’orientamento della Rota. È facile richiamare l’attenzione sulla differenza fra le decisiones della Rota fiorentina e delle Rote istituite sul modello fiorentino, che seguivano il dispositivo, e quelle romane che lo precedevano. Le raccolte medievali della Rota romana non erano autentiche perché erano reports, ricordi del giudice, mentre erano originali le motivazioni che il ponens consegnava alle parti. Le più antiche decisioni a stampa della Rota romana sono simili a quelle che vengono chiamate reports, ricordi di cause raccolte dagli stessi giudici. Non c’era l’obbligo di motivare ed ogni resoconto processuale era basato suoi promemoria dei membri del tribunale o sui ricordi delle discussioni entro il collegio. Per questo motivo abbiamo parlato della Rota romana dopo quella fiorentina. Essa subì una riforma fondamentale dopo l’istituzione delle altre Rote, per trovare un rimedio all’incertezza delle opiniones del diritto comune. Una Bolla papale del 1563 dispose: • Che avevano riconoscimento ufficiale le 3 raccolte medievali di decisiones, dato che si impose alla Rota di non distaccarsi dalle argomentazioni se non con una maggioranza del collegio dei 2/3 • Che era obbligatorio rendere pubblica la decisio da parte del ponens qualora ci fosse stata richiesta delle parti. Successivamente al 1563 dobbiamo presumere autentiche le decisioni rotali a stampa, tanto più che da allora su ogni testo troviamo apposti data e nome del giudice relatore e la diocesi di provenienza. La decisio per molto tempo non venne raccolta e diffusa dalla Rota, trattandosi di un atto extra-giudiziario. Per il loro rilievo c’era grande richiesta da parte del pubblico forense di queste decisioni, per cui dal 500 iniziarono a circolare raccolte di decisiones autentiche coram (cioè davanti) questo o quel giudice. Nel 600 le singole decisioni cominciarono ad essere stampate dalla Tipografia vaticana e vennero pubblicate di causa in causa. Ci furono editori che trovarono conveniente raccogliere in ordine cronologico le decisioni della Rota romana in modo da offrire al pubblico un quadro organico dello sviluppo giurisprudenziale del tribunale. La prima raccolta reca le prime decisiones autentiche, perché successive all’entrata in vigore dell’obbligo di motivare. Viene detta delle Decisiones Novissimae, perché le decisiones pubblicate venivano dopo le novae medievali. Dal 1618 si proseguì la pubblicazione in ordine cronologico in una grande raccolta rimasta alla base della giurisprudenza rotale romana: Decisiones Recentiores. Solo con una Bolla del 1688 si giunse a disporre un controllo ufficiale di tutte le decisioni della Rota presso la cancelleria del tribunale, in modo da non potersi più dubitare dell’autenticità delle pubblicazioni. Si dette vita così alla diffusione ufficiale delle decisioni della Rota romana. Uno dei motivi per cui la giurisprudenza rotale romana ebbe diffusione in Europa fu rappresentato dal fatto che i suoi Uditori, tutti ecclesiastici, avevano un ottimo livello di formazione giuridica ed erano rappresentativi dei Paesi cattolici; ma come membri della Rota il Papa doveva nominare un austriaco, un francese, uno spagnolo … La competenza della Rota Romana andò restringendosi per effetto della tendenza degli Stati ad allargare le competenze dei loro tribunali. L’Inghilterra si staccò da Roma nel 1534 e la Spagna ebbe la possibilità di istituire una Rota propria a Madrid che operava sul modello romano. La corte di giustizia romana era una grande corte internazionale. Basti dire che il Sacro Real Consiglio napoletano, trovandosi in dubbio, volle sentire il parere della Rota romana. 7. La Segnatura di giustizia Era un tribunale centrale pontificio che aveva le funzioni che ha oggi la nostra Corte di Cassazione quando regola la giurisdizione e le competenze. Uno degli stili posto in atto presso la segnatura Apostolica di giustizia era la “rimessa in pristino” della restitutio in integrum. Si trattava di un provvedimento che poneva nel nulla un atto avente carattere sia procedurale che sostanziale; i presupposti per procedervi erano due: la sussistenza di una iusta causa, una lesione determinata dall’atto. Una forma particolare di restitutio era ad esempio la restitutio in integrum propter aetatem, che veniva applicata ad esempio nel caso in cui non si fosse fatto appello per un minorenne: il favor che veniva concesso era giustificato appunto dalla giovane età; in questo caso la iusta causa era presunta. Ma nel caso in cui l’atto posto in essere dal minorenne non avesse provocato alcuna lesione, la restitutio in integrum non veniva applicata. Altre forme di restitutio erano: la restitutio in integrum gratiosa, che veniva concessa dal papa; la restitutio in integrum de iustitia la cui pronuncia spettava a qualunque tribunale di alto grado sottoposto al papa, come le Rote provinciali dello Stato pontificio; la restitutio in integrum de iniustitia si poteva ottenere solo dopo una sentenza definitiva, nella forma di grazia concessa dal papa, e solamente nel caso in cui il Pontefice avesse ritenuto iniqua la pronuncia del tribunale. 8. La Sacra Rota di Macerata Con una Bolla del 1589 di Sisto V, il papa riformatore dello Stato Pontificio, la Rota di Macerata divenne il tribunale centrale delle Marche. La sua istituzione permise di eliminare la maggior parte dei tribunali esistenti, compresi quelli ecclesiastici. La giurisdizione laica ed ecclesiastica della Rota maceratese era totale ed assoluta. Essendo sempre previsto l’appello alla Rota romana, si ponevano gravi problemi circa la concorrenza dei due appelli diversi; essi venivano risolti tramite l’applicazione del principio cosiddetto della prevenzione: chi per primo adiva ad uno dei tribunali competenti, aveva diritto di proseguire il processo di fronte al giudice scelto, previo consenso della controparte. La Rota di Macerata è l’unico caso di Rota dello Stato Pontificio che si fregia del titolo di Sacra, titolo che le viene concesso per due ordini di motivi: perché aveva competenza in materia ecclesiastica e perché il suo stylus era improntato a quello romano. Le regole inerenti al funzionamento di questa Rota non erano applicabili ovunque, proprio per la diversità degli stili e delle pratiche utilizzate. 9. I Tribunali del Regno di Sicilia e Matteo d’Afflitto Nel Regno di Sicilia continuò in età moderna la grande tradizione dei tribunali centrali regi istituiti a Palermo e a Napoli fin dal Medioevo. In Sicilia si ricordano il Concistoro della Sacra Real Coscienza, la Regia Curia e il Tribunale Camerale del Patrimonio. A Napoli erano attivi tre tribunali centrali: il Sacro Real Consiglio, con giurisdizione prevalentemente civile, la Magna Curia della Vicarìa, con giurisdizione penale in generale e in più anche civile per la città di Napoli, la Real Corte della Sommaria, una sorte di Corte dei Conti, che svolgeva il contenzioso fiscale e un controllo sulla contabilità pubblica. Le varie riforme che investirono questi tribunali nel 300 e nel 400 non compromisero il loro funzionamento. In queste corti non vigeva la prassi della motivazione, perché la loro “vicinanza” al sovrano rendeva superfluo la motivazione delle sentenze. La novità dell’età moderna consiste nel fatto che la giurisprudenza di questi tribunali comincia a circolare e diventa presto copiosissima, specie quella di Napoli. In Italia la prima opera, anche se riferita ad un tribunale laico, si deve proprio a Matteo d’Afflitto (Decisiones Sacri Regii Consilii). La sua è la più antica raccolta di decisioni giudiziarie italiane passata a stampa, pubblicata per la prima volta nel 1509. Le decisioni di questa raccolta differiscono notevolmente da quelle che venivano depositate presso la Rota fiorentina: 1) come quella della Sacra Rota Romana, non erano fatte per essere depositate in tribunale, e quindi non erano autentiche; 2) erano decisioni-reports, riferiscono, infatti, in modo narrativo quanto detto dai giudici in camera di consiglio nelle varie cause. Anche questa silloge non è autentica, per questo alimentò a Napoli vivaci dibattici sull’effettiva rappresentatività degli indirizzi giurisprudenziali del grande tribunale napoletano. È certo, comunque, che essa dette avvio alla tendenza vivacissima a Napoli alla pubblicazione e alla diffusione delle raccolte di decisioni del S.R.C. L’opera di Matteo d’Afflitto ebbe grande successo non solo nel Regno di Napoli, ma anche a livello europeo. La cosa non deve stupire perché nel sistema di diritto comune i giudici potevano argomentare le proprie sentenze anche basandosi sulle decisioni di tribunali stranieri qualora non avessero una motivazione valida presente nel proprio ordinamento. Il diritto comune, infatti, era inteso come un sistema “aperto” e sempre perfettibile: chiunque, giudice o professore, poteva proporre nuove soluzioni che, se ben argomentate e plausibili, potevano essere raccolte al di fuori dell’ordinamento in cui erano nate: è il c.d. internazionalismo del diritto comune. La raccolta ebbe decine di edizioni e fu ristampata ancora un secolo dopo la sua editio princeps con le note di aggiornamento di molti giuristi napoletani che richiamavano la nuova giurisprudenza e legislazione sui vari argomenti toccati. 10. I Senati Altri “grandi tribunali” in Italia, oltre alle Rote e ai tribunali del Regnum, furono i Senati. Primo fra tutti quello di Milano istituito nel 1499, con l’invasione francese, durante la quale fu soppresso il precedente Consiglio di Giustizia ducale, organo degli Sforza. Il Senatus era un consiglio di saggi al lato del principe e i cui membri formavano un élite nominata a vita (a differenza dei tribunali e delle assemblee comunali medievali, che erano organi a veloce rotazione e a differenza delle Rote i cui giudici restavano in carica per tre o cinque anni). Vi sono numerosi esempi europei di collegi i cui membri mantengono la carica a vita: 1) la Camera dei Lords in Inghilterra, 2) il Concistoro dei cardinali, divenuto l’organo collaterale del papa a partire dal basso medioevo, per giungere al senato del regno d’Italia che mantenne questa prerogativa fino alla costituzione dell’attuale repubblica. 3) La Corte suprema americana, una carica vitalizia negli USA. 4) A Venezia già dal medioevo si era costituita una nobiltà cittadina che aveva una sua rappresentanza esclusiva e che rappresentava un’eccezione vistosissima rispetto agli altri comuni. 5) A Siena il Consiglio del Popolo, vigente fino alla caduta della repubblica, nel 1555, era l’assemblea cui erano ammessi a vita coloro che avevano fatto parte del governo cittadino. 6) A Milano, che prima di divenire sede ducale dei Visconti, nel 1395, era stata una città stato, il Senato costituito dai francesi fu ereditato dagli spagnoli ed in esso trovò posto l’élite lombarda costituita da famiglie che in Lombardia già erano potenti storicamente. Il Senato milanese costituì perciò il contraltare locale rispetto alla dominazione spagnola, essendo il rappresentante della Lombardia in opposizione al potere del Governatore, l’inviato e fiduciario del Re di Spagna. 7) Ritroviamo analoghi istituti in Savoia, a Nizza e a Torino, dove il senato fu istituito a metà 500 proprio quando non vennero più convocate da Emanuele Filiberto le assemblee di “stati”. 8) A Parma e a Piacenza, quando a metà 500 si costituì il principato dei Farnese si adottò una soluzione intermedia fra Rota e Senato: il Gran Consiglio di Giustizia. 9) A Mantova, dove la Rota, istituita nel 500 sotto i Gonzaga, fu trasformata in Senato dopo venti anni, con giudici tratti dalla nobiltà favorita dal principe. I Senati furono comunque di regola tipici organi degli stati di tipo monarchico, i cui membri rimanevano in carica a vita, come accadeva nei tribunali di Napoli e Palermo. Non erano forestieri ma fiduciari del principe. Di regola, questi tribunali non motivavano le loro sentenze: essendo Corti “sovrane”, r tenevano di non dover rendere conto a nessuno. Per questo motivo la decisio del Senato di Torino sullo stuprum è un report e non una motivazione autentica. La motivazione esterna, divenne il simbolo della tradizione rotale; quando ci fu, essa presso i Senati ebbe piuttosto un’altra funzione, di solito endoprocessuale, e corrispose a un duplice fine: 1) di far conoscere al principe l’operato dei giudici, 2) facilitare il ricorso in appello o la revisione per grazia. Ma anche questa distinzione non è così netta: mentre il Senato torinese nel 600 fu obbligato a rendere noti i motivi della sentenza, il Senato di Chambéry, pur sottoposto allo stesso principe, riuscì a resistere all’obbligo di motivazione, perché organo più forte di quello piemontese, in quanto radicato in un territorio lontano ormai dal principe. Altro elemento che distinse i Senati dalle Rote fu che la Rota era un organo soltanto di giustizia senza altre competenze, i Senati finirono per rappresentare il territorio e per assumere funzioni extra-giudiziarie di rilievo politico. Si pensi all’attività di registrare i provvedimenti del governo, che conferì ai Senati il ruolo di organi di controllo sulla legittimità degli atti governativi. Questa delicatissima competenza spettava tradizionalmente al Parlamento di Parigi. Solo a Milano, per l’Italia, ci fu una seria contrapposizione Senato-Governo: il tribunale qui aveva di fronte un semplice Governatore e non un re spagnolo, ed aveva un forte potere di rappresentanza del territorio. 11. Il Parlamento di Parigi Fu uno dei tribunali più potenti in Europa per tutta l’età moderna, anche perché non ebbe solo competenze giudiziarie. Ebbe una posizione particolarissima, data la sua capacità di assecondare o di ostacolare i disegni del governo, attraverso l’interinazione, cioè la registrazione ufficiale dei suoi atti. Se i membri del Parlamento avessero ritenuto un atto del governo contrario alle leggi fondamentali del Regno, avevano la possibilità di rispedirli indietro senza registrarlo e solo dopo che esso aveva fatto la “navetta” più volte, interveniva l’obbligo di registrazione ove il sovrano lo avesse ordinato sul “lit de justice” (letto di giustizia). Questa capacità di resistenza si spiega con la notevole indipendenza dal governo dei giudici francesi dovuta ad una particolarità notevolissima: essi si erano comperata la carica. In Francia, dalla metà del 400, valse infatti la regola della venalità degli uffici. Era possibile, possedendo certi requisiti, acquistare un ufficio pubblico, conservarlo a vita o trasferirlo ad altri. In questo modo da una parte lo Stato si assicurava grossi introiti, dall’altra, essendo l’ufficio diventato una specie di bene privato, i giudici godevano di una grande autonomia poiché il loro incarico non dipendeva più dal sovrano o da altri ed essi erano liberi di muoversi come meglio credevano. Questa autonomia permetterà ai giudici a metà del 600 di ribellarsi ad un progetto governativo di riforma fiscale e di dar vita a quell’opposizione che fu chiamata fronda parlamentare. La venalità degli uffici tuttavia non fu una peculiarità esclusivamente francese, ma una caratteristica diffusa nel cosiddetto “Stato moderno” che troviamo anche nello Stato pontificio e nel Regno di Napoli. 12. Altre raccolte di giurisprudenza e l’arbitrium I grandi tribunali dell’età moderna ebbero vita fino alle riforme di fine 700, e si è fatto cenno all’importanza della giurisprudenza prodotta sia sul piano internazionale che su quello interno vista la vincolatività di fatto della produzione giurisprudenziale dei tribunali superiodi presso quelli inferiori dello stesso ordinamento. L’apporto di questi grandi collegi all’evoluzione del sistema di diritto comune fu notevole, anche perché, quelle che venivano ritenute “corti supreme”, Senati e tribunali centrali del Regno di Sicilia, si sentivano legittimate a giudicare secondo criteri equitativi molto larghi, facendo uso di un’ampia libertà interpretativa. L’accusa di arbitrarietà mossa dagli illuministi era rivolta proprio a questa loro prerogativa, che era uno dei capisaldi del sistema di diritto comune. Il termine arbitrium non stava a significare ciò che oggi designiamo, dandogli la connotazione di abuso, ma esprimeva la semplice discrezionalità, che andava esercitata nel rispetto di regole dettate dalle dottrine di diritto comune. I Senati si riservavano di interpretare in modo fortemente equitativo il diritto, perché ritenevano di godere dell’arbitrium, di poter decidere non tanto sulla base del diritto, quanto anche della propria discrezionalità. In questo senso essi ruppero con la tradizione di diritto comune, che imponeva invece di giudicare secundum probata et allegata, cioè secondo ciò che risultava dagli atti, e si arrogarono in sede giudiziaria una grande libertà discrezionale. In speciali condizioni ritennero di poter condannare senza processo; stabilirono che non fosse opponibile la prescrizione; reputarono insomma di avere il potere e l’autorità, in quanto rappresentanti del sovrano, di andare contro le regole del diritto comune, contro la communis opinio, operando importanti innovazioni nel diritto. Fra le raccolte di decisioni più importanti si ricordano quella del Sacro Real Consiglio a cura di Mattia D’Afflitto. Riguardo alla Rota fiorentina per quasi un secolo non fu pubblicato alcun resoconto dell’operato del tribunale. La prima raccolta apparve nel 1588 ad opera di Gerolamo Magoni e negli stessi anni venne emanata a Firenze una legge vietante la diffusione delle decisioni fuori dai tribunali. Questo divieto, possiamo ipotizzare, era espressione di una forma di autoritarismo principesco, finalizzato a restringere il campo di azione dei giudici. Nel 1628 fu stampata una raccolta di decisioni della Rota senese. Intorno al 700 le decisioni della Rota fiorentina furono pubblicate in raccolte molto autorevoli; si segnala il Tesoro di decisioni selezionate della Rota fiorentina. Il tribunale fiorentino non fu oggetto delle critiche con cui gli illuministi investirono altre corti supreme perché non divenne un simbolo dell’assolutismo principesco o dell’arbitrio nobiliare. A Roma era, invece, prevista la piena libertà di stampa per le raccolte di decisioni della Rota. Fiorirono poi le raccolte plurime, quelle con decisioni emesse da più corti, in modo da rafforzare le conclusioni giuridiche attraverso la forza e l’autorevolezza dei vari tribunali. Da molte parti, vista l’enorme autorità delle raccolte, si giunse ad auspicare che l’Imperatore confermasse le più importanti decisioni dei tribunali per mettere fine alle controversie dottrinali ed attenuare l’incertezza del diritto. Furono molti i curatori di antologie di decisioni che provvidero a compilare summae, sintesi delle raccolte, che finirono per essere una sorta di massimari di giurisprudenza. Camillo Borrello sistematizzò le massime giurisprudenziali selezionate da varie corti secondo l’ordine del Digesto, in modo da facilitare il lavoro di raccordo della recente giurisprudenza con la precedente. Il quantitativo di decisiones spingeva ad una ulteriore elaborazione e semplificazione dei materiali: solo nelle Novissimae della Rota romana le decisioni raccolte erano 3762 e nelle Recentiores erano 11000. Si era giunti al paradosso che le decisioni nate per risolvere il problema della certezza del diritto finivano per alimentarne l’incertezza. Le Corti rinnovavano la loro giurisprudenza in continuazione aggiungendo nuovo materiale. Solo per i tribunali inferiori si può parlare di efficacia vincolante della giurisprudenza prevalente. 14. Giovanni Battista De Luca (1614 – 1683) È il più grande giurista italiano dell’età moderna, cercò di contribuire fattivamente alla risoluzione di un problema sempre più pressante: l’ingestibilità del sistema del diritto comune. Nacque a Venosa (Potenza) nel 1614 e si laureò a Napoli nel 1635. L’istituzione universitaria al pari del prestigio della cattedra, già tanto grande in passato, in questo secolo era molto decaduta. L’iter della carriera di questo giurista è significativo. Mentre in passato l’insegnamento universitario era la grande meta del giurista, adesso esso non rappresentava altro che la prima tappa verso i grandi tribunali. Solo da qui si poteva eventualmente essere scelti dal principe per diventare o ministro o giudice. Egli ricoprì per qualche anno la carica di vicario del vescovo di Venosa, prese in seguito gli ordini minori e si trasferì a Roma, dove divenne avvocato del Re di Spagna. Nel suo studio legale si formarono insigni avvocati e giudici del tempo, fra cui Iacopo Conti e Ansaldo Ansaldi, noti giudici e raccoglitori di decisioni. Le opere del De Luca ci permettono di conoscere il diritto comunale del 600. Fra le principali si ricorda il Teatro della verità e della giustizia, divisa in discursus, discorsi giuridici, raccolti in volumi in cui egli cerca di ridurre al minimo le citazioni di auctoritates (opinioni di tribunali e giuristi) e parla di questioni pratiche. Emergono i problemi degli appalti, monopoli, feudi, amministrazione pubblica, usi civici, materie poco note al diritto romano ma fondamentali per il tempo. Del Theatrum redasse un compendio, il Dottor Volgare, in lingua italiana: è la prima opera in volgare destinata ad un pubblico composto non solo da giuristi. Altra opera significativa è il Dello stile legale, trattatello sulla prassi dei tribunali. De Luca diventò cardinale e consigliere del Papa, per il quale lavorò ad un progetto di riforma dello Stato Pontificio. Molti suoi scritti sono indirizzati all’analisi di cariche istituzionali ecclesiastiche e non. Riguardo al problema delle fonti, egli sottolineò come il diritto fosse costituito da una pluralità di fonti diverse: fonte feudale, civile, canonica, statutaria, legislativa e consuetudinaria, e come il solo diritto romano non fosse in grado di fornire soluzioni adeguate. Egli riconosceva un ruolo preminente alla giurisprudenza del tribunale presso il quale si svolgeva la causa o di quello ad esso superiore gerarchicamente. Ma occorreva distinguere tra stylus iudicandi e semplici decisioni. Le decisioni erano solo dei reports, ricordi scritti dei giudici e potevano essere poco attendibili. Era allo stylus complessivo del tribunale che occorreva riferirsi e questo doveva essere rintracciato nelle sentenze reiterate su uno stesso tema. Il De Luca riprendeva una massima di diritto comune, riguardante la res iudicata: “Una sentenza diventava definitiva quando ve ne erano almeno 2 conformi sullo stesso caso”. L’opinio dell’autore rifletteva una realtà del tempo: i grandi tribunali aspiravano a rappresentare il sovrano e si consideravano la principale fonte di diritto. Questo indirizzo traspare anche da una decisio ( la numero 120 della raccolta del D’Afflitto) in cui si parla dei “nudi patti”, che producono soltanto obbligazioni naturali non coercibili. Secondo il De Luca questo limite della non coercibilità delle obbligazioni naturali scaturenti dai nudi patti, non valeva per il Sacro Real Consiglio. Questo tribunale infatti rappresentando il Re, fonte primaria di giustizia, poteva condannare anche sulla base del nudo patto. Questa decisione inserita nella raccolta curata da Matteo D’Afflitto fece stato poiché molto seguita dai tribunali centrali e dai senati. Capitolo 4: LA STAMPA E LA LETTERATURA GIURIDICA 1. Problemi dell’editoria del diritto comune Abbiamo visto anche i nuovi soggetti dell’antico regime: i grandi tribunali e la loro produzione di decisioni, impensabili in età medievale. Cominciando dalla vicenda del falso consilium di Bartolo in tema di stregoneria di cui si è già parlato in sede storico-giuridica, i problemi filologici, di approccio ai testi, devono avere un rilievo centrale, condizionato preliminarmente e pesantemente lo studio del pensiero giuridico. Amplificando e facilitando la diffusione dei testi, la stampa ha di fatto accresciuto le fonti di quel sistema, e in modo non programmato, non “governato”, cosicché la domanda di mercato, molto sostenuta, suggerì agli editori di non andare troppo per il sottile. Si pubblicò subito moltissimo, opere di autori noti e meno noti, antichi e moderni. Bisognava orientarsi in questo mare che già nel primo 500 diveniva sempre più magnum e bisognava andare alla ricerca di qualche approdo sicuro. Perciò alcuni autori divengono ora, anche più di prima, un punto di riferimento preciso nell’insegnamento e nella legislazione. La loro auctoritas si potrà discutere, ma la loro opinione andava in ogni caso tenuta presente. In questa storia, di un relativo irrigidimento delle strutture portanti del sistema di diritto comune, Bartolo ha un posto segnalato come nessun altro: la storia del “bartolismo‟ è un po’ la storia del tardo diritto comune. Di questa storia sono un capitolo importante gli interventi del Diplovazio, tesi in modo sistematico a metter ordine nella tradizione dei testi bartoliani. Di questi interventi fanno parte anche quelli di tipo censorio, attuati da chi selezionò e mutilò – come si è anticipato – le sue additiones a Bartolo che indicavano dubbi sulla paternità delle sue opere. Tali additiones furono probabilmente ritenute superflue, prolisse e in parte anche pericolose pensandosi che esse potessero sconvolgere le opiniones receptae del mondo del diritto, perdurando la relativa latitanza del legislatore e la gestione sempre prevalentemente “dottorale‟ del sistema. 2. La stampa della letteratura giuridica La diffusione della stampa fu rapidissima, partì intorno al 1500, dopo la pioneristica produzione di “incunaboli‟ (libri, rarissimi stampati entro il 1500), ampliò enormemente l’utenza dei prodotti intellettuali e nel mondo giuridico dette avvio ad una serie di effetti e conseguenze. In primo luogo consentì di far conoscere meglio le fonti normative che fino ad allora venivano riprodotte, con frequenti errori, solo in copie manoscritte; permise di modificare anche in tempi ristretti la legislazione di promanazione statuale: le grida, i bandi, etc., infatti, poterono essere diffusi rapidamente stampando fogli scempi a pochi giorni di distanza. Agevolò, inoltre, a circolazione di opere poco note o che sarebbero altrimenti rimaste sconosciute. La stampa, da un lato formò una categoria di operatori nuovi, che propriamente non erano dei giuristi, ma che aiutavano gli editori e ne sollecitavano l’attività, ad esempio promuovendo la stampa di opere antiche risalenti ai tempi formativi della dottrina di diritto comune. Venivano stampati autori rimasti un po’ ai margini rispetto alla grande diffusione che era toccata alle opere dei giuristi maggiori come Bartolo da Sassoferrato, Giovanni d’Andrea, Cino da Pistoia e Dino del Mugello. Si che si trattasse di opere già molto diffuse o poco conosciute, i collaboratori le corredavano di note di aggiornamento, che avevano la precisa funzione di rendere attuali e fruibili le opere di diritto comune anche se prodotte due o più secoli prima. Queste note sono ora preziose per noi, che possiamo grazie ad esse rilevare rapidamente oggi lo status questiones su un singolo problema dottrinale di allora. Questo tipo di intervento provocò il verificarsi di due principali conseguenze: 1) il testo a stampa che ora possediamo non sempre risulta fededegno, 2) il nome dell’autore stesso indicato nella stampa antica non è l’effettivo compilatore del testo. La tipografia giuridica cinquecentesca quindi è molto ricca quantitativamente, ma da accogliere con molte cautele, soprattutto quando si tratti di opere medievali. Bisogna sempre chiedersi, aprendo un libro antico, se il testo riprodotto non sia corrotto e se l’autore sia effettivamente quello indicato dai curatori della pubblicazione. Le conseguenze in sede di ricostruzione dottrinale che si producono se si ha un approccio superficiale alle fonti a stampa posso essere molto gravi: di rischia di attribuire ad una certa epoca idee giuridiche risalenti invece a periodi ben diversi. Dall’altro lato, la stampa facilitò la diffusione degli scritti contemporanei, incoraggiando a produrre opere che forse non sarebbero mai state scritte. A questo proposito non c’è soltanto da richiamare la letteratura prodotta dall’umanesimo giuridico, ma bisogna ricordare anche in primo luogo l’ampia produzione di tractatus giuridici. Cresciute a dismisura le opiniones dei giuristi, si moltiplicarono i tractatus, che consentivano ai pratici, in maniera più agevole, di individuare le dottrine sui vari problemi giuridici e la relativa graduazione delle opinioni più o meno comune. La trattatistica però non va ricordata solo per l’utilità che ebbe nella pratica giuridica, perché assolse anche ad una funzione più alta. Gli autori, infatti, furono indotti nel corso del proprio lavoro a mettere ordine nel materiale dottrinale. La conseguenza più evidente fu quella di porre l’accento su problemi giuridici, anziché sulle fonti tradizionalmente oggetto di insegnamento universitario. In questo modo la dottrina giuridica si allontanava dagli schemi romanistici originari e accentuava la propria libertà creativa, individuando complessi tematici con problemi specifici propri che si sarebbero successivamente autonomizzati come discipline a se stanti. In generale, la trattatistica ebbe anche la funzione di isolare una serie di opinioni relativamente certe sulle varie problematiche, dando una guida ai pratici nell’applicazione delle dottrine di diritto comune. Il trattato su un singolo istituto, circolava attestando, fino a prova contraria, il punto cui era pervenuta la discussione dottrinale. Scrittori importanti di tractatus furono, Roberto Maranta, che all’inizio del 500 elaborò uno Speculum aureum processuale che ebbe molto successo. Nel corso del 500 si continuarono a stampare anche le opere dottrinali dei più grandi dottori del passato come Bartolo e il Panormitano o più recenti come Giason del Maino e Filippo Decio, ma in genere la produzione di nuovi commentari fu scarsa e cessò del tutto ai primi del 600, con la crisi definitiva delle università italiane. Ciò nonostante il sistema non cambiò, per cui le raccolte di consilia rimasero molto importanti almeno fino al definitivo affermarsi delle decisioni dei tribunali. Altre fonti di letteratura giuridica possono considerarsi i Singularia doctorum, pubblicati a partire dal 1500, “Detti singolari”, eccezionali dei singoli dottori: erano cioè eccezioni alle regole su questioni particolari stabilite da autorevoli dottori. Corrispettive dei trattati possono considerarsi le raccolte di Communes opiniones. Entrambi i tipi di raccolte svolsero una funzione eminentemente pratica, facilitando e velocizzando l’impostazione e la risoluzione delle controversie, fornendo ai giuristi regole generali ed eccezioni. L’esigenza di una maggiore certezza del diritto in un mondo di opinioni spiega anche la rapida diffusione delle raccolte di decisioni dei tribunali. La stampa non favorì soltanto la pubblicazione delle decisioni autentiche, ma senza dubbio stimolò anche la redazione dei reports e l’annotazione dei dibattiti giudiziari in vista di una loro pubblicazione. Gli effetti che si ebbero furono contraddittori, perché le decisioni da un lato aumentarono il mondo delle opinioni e quindi anche la confusione, ma dall’altro offrirono un quadro di riferimento agli operatori. Parallelamente cominciarono a declinare le raccolte di consigli. Un sospetto di parzialità cominciò a investire questi pareri, perché ci si rese ben conto che i consigli meglio argomentati contenevano per lo più opinioni date per sostenere delle posizioni di parte. A nulla valsero le appassionate difese della professione consulente di un Tiberio Deciani in polemica con l’Alciato e Pacio Scala, un giurista tradizionale di Padova, che coglieva giustamente che i pareri rappresentavano, comunque, un momento di congiunzione tra insegnamento dotto e pratica professionale. L’opinione ormai consolidata che il consulente dovesse per lo più forzare la dottrina per conchiudere a favore del cliente fu decisiva nel declino di questo tipo di letteratura, molto prospero fin verso il 1550. Un altro aspetto nuovo del sistema del diritto comune derivato dalla propagazione della stampa è l’internazionalizzazione della dottrina giuridica. La stampa permise la circolazione e la rapida conoscenza delle opere della scienza giuridica e provocò imprestati reciproci dai giuristi dei più vari ordinamenti. Si pensi che l’apertura del sistema era tale che non solo i giuristi di vari Stati si conoscevano e si citavano a vicenda, ma addirittura i giudici di Stati diversi potevano utilizzare la giurisprudenza di altre corti grazie alla stampa delle decisioni. Al di là dei punti decisi dalla legislazione nazionale o dalla normativa locale, rimaneva infatti un campo vastissimo di questioni aperte, che i giudici risolvevano con grande discrezionalità in base alle dottrine richiamate dalle parti e individuate nei testi circolanti. Quanto il sistema fosse elastico e incerto attesta bene una questione proposta da Giovanni Nevizzano, un giurista di Buttigliera d’Asti, autore di un curioso trattato, di impronta fortemente maschilista, sulla selva dei problemi giuridici legati al matrimonio: la Sylva nuptialis (la Foresta matrimoniale) del 1521 che pose anche il problema di come fosse possibile evitare la massa dei libri giuridici allora già circolanti. Nella sua risposta propose una nuova compilazione di leggi ordinata dal sovrano che evitasse il ricorso alle fonti di diritto comune, dando l’idea del forte disappunto che si avvertiva già nei primi anni del secolo. Purtroppo l’auspicata codificazione dovrà attendere ancora molto tempo. Si cercò comunque di ovviare alle difficoltà di orientarsi tra tante pubblicazioni stampando degli Indices delle maggiori opere di diritto comune divise per generi o addirittura predisponendo delle biografie di giuristi che rendessero conto della loro operatività. A questo proposito abbiamo ricordato il tentativo di Tommaso Diplovatazio, il De claris iuris consultis. Il lavoro non fu però pubblicato e giacque inedito fino al nostro secolo, un po’, probabilmente, per la sua incompiutezza e vastità, e un po’ perché nel corso del secolo il rapporto tra le varie fonti del diritto si squilibrò a favore della giurisprudenza e della legislazione a discapito della dottrina che si trovò nettamente sfavorita e privata di interesse. Andò invece alle stampe già nel 500 la successiva e più snella opera sui giuristi suoi predecessori di Guido Panciroli. Non a caso le ristampe dei grandi commentari – da Bartolo a Giovanni d’Andrea, da Giason del Maino ad Alessandro Tartagni – vengono meno definitivamente con i primi anni del 600, tipici materiali d’insegnamento tardo medievale che furono le repetitiones, quei commenti lunghi, su singoli passi dei Corpora iuris che venivano esposti in giorni particolari di lezione all’università. Le raccolte di ripetizioni canonisti che e, a parte, di quelle civilistiche, costituirono comunque ancora un’impresa editoriale di grande impegno, la quale mise assieme testi diversissimi e ancora oggi molto utili per la ricerca. Con le ultime stampe di repetitiones e di commentaria, si possono ricordare anche Singularia doctorum, di Communes opiniones, di Contrarietates e di Quaestiones che rappresentavano il versante universitario dei consilia, essendo disquisizioni puramente teoriche attorno ad un caso ipotetico di opere che consentivano di reperire rapidamente l’opinione di un dottore su un singolo punto. 3. La produzione giuridica rappresentata sinotticamente Se volessimo riprodurre l’evoluzione dei consigli, delle decisioni dei tribunali e delle opere dottrinali potremmo rappresentarlo così: la dottrina conobbe il massimo splendore nel 1300 per declinare nel 1800, i consilia raggiunsero l’apice nel 1400 e declinarono nel 1800, secolo che registrò la diminuzione momentanea della diffusione delle raccolte di giurisprudenza in conseguenza dell’emanazione dei codici e della fiducia accordata alla loro capacità di dare soluzione di ogni caso concreto. Il giudice doveva operare illogicamente, sussumendo il caso concreto entro il caso preventivamente disciplinato dal legislatore. Con l’invecchiamento dei codici l’importanza delle raccolte tornò ad aumentare. Se dovessimo rappresentare la situazione inglese il grafico metterebbe in luce le divergenze: non vi sarebbero previsti i consigli e la curva delle decisioni non subirebbe flessione, dal momento che il diritto inglese è giudiziario e non si sono avuti codici. Qui si procedette dal 300 a raccolte di discussioni processuali dette Year books, annuari in cui venivano annotati ricordi dei processi delle corti di Westminster. Le decisiones raggiunsero l’apice nel 1700 per declinare il secolo successivo e riacquistare importanza nel 1900. 4. Gli sviluppi del diritto commerciale La stampa ebbe effetti sul diritto commerciale. Era tempo di gettarlo sul mercato come un comparto del diritto comune. Era tempo di regolarizzarlo. Quanto si deve a Benvenuto Stracca da Ancona, che nel 1553 scrisse un Tractatus de mercatura. In questo tentò una sistemazione del diritto commerciale attraverso l’uso delle categorie romanistiche. Cerò di compenetrare di ius commune gli istituti di diritto commerciale, dando alla sua opera diffusione internazionale. Tipiche dell’età moderna furono le compagnie coloniali che si svilupparono in Francia, Inghilterra ed Olanda. Erano società che si costituivano per atto del Governo, attraverso concessioni ufficiali governative, attuate per mezzo di un privilegio, il quale dava l’esclusiva di commerciare con determinati territori. Occorrevano enormi capitali per armare le navi ed assumere i dipendenti: per facilitare la raccolta del denaro il Governo accordava la prerogativa della responsabilità limitata, per cui le compagnie rispondevano dei debiti solo entro il limite del capitale sociale. Queste furono le antenate delle società per azioni, nelle quali la proprietà, frazionata tra tanti azionisti, è dissociata dalla gestione dell’azienda. Le quote di partecipazione cominciarono ad essere commerciate, ad essere oggetto di contrattazione come avveniva per i titoli del debito pubblico. Nel 600 a Bruges nacque la prima borsa ma la principale fu quella di Amsterdam, maggior porto europeo. L’Olanda, paese calvinista, eliminò il divieto imposto dalla Chiesa sui contratti speculativi; gli interessi non erano oggetti di riprovazione morale ma costituivano parte integrante del sistema economico. In Italia la situazione era diversa. Lo testimonia Il negoziante di Giovanni Domenico Peri, scritto nel 1638. Questa opera può essere considerata un manuale del commerciante perché vi vengono illustrate le prassi commerciali scritte in volgare, come il metodo della partita doppia, dell’emissione e forma delle cambiali, vari tipi di contratto ed analizza le problematiche relative ai cambi. La questione cambiaria discussa nel mondo cattolico, in ragione del divieto all’usura e alla speculazione sui cambi. Il Peri ha una trattazione particolareggiata sui cambi illeciti. Questo libro dovette superare il controllo di una apposita commissione di Riformatori, inquisitori dell’Università di Padova. Quest’opera, essendo un manuale per i commercianti, fu scritta in lingua volgare; quando le questioni arrivavano nei tribunali normali, le decisioni venivano redatte in latino. PARTE TERZA: L’AREA DELL’INNOVAZIONE: TEORIE E PRASSI RIFORMATRICI IN ETÀ MODERNA Capitolo 1: LE NOVITÀ COSTITUZIONALI 1. Guardare fuori dall’Italia Abbiamo fin qui esaminato l’Antico regime del 5-600 e dedicato maggior attenzione all’Italia, piombata nella stagnazione politico-culturale e giuridico-istituzionale per molti complessi motivi come: le dominazioni straniere, le chiusure nobiliari e il prevalere alla Controriforma cattolica, e l’aver raggiunto prima degli altri Paesi, nel tardo medioevo, situazioni di assoluta eccellenza in ogni settore della vita sociale e culturale. Non era facile tenere un livello qualitativo quale quello raggiunto. Nel 500 quel primato non fu perduto, ma gli elementi che lo componevano cominciarono a passare altrove; come l’eccellenza nella filologia e la storia che aveva dato in campo giuridico le prime grandi prove di quello che divenne paradossalmente il mos gallicus. I successi artistici e architettonici poterono continuare grandiosi fino al 700, ma i freni politico-economici divennero prevalenti per il diritto. Il paese perse in quella che si chiama oggi competitività. Ai primi del 600 anche la Glossa, Bartolo e così via non furono più stampati. Avevano dato tanto, troppo ormai e le università italiane avevano cominciato il loro declino dal quale non si sono più ripresi veramente, salvo qualche guizzo nell’800. Intanto fu all’estero che tra 500 e 700 si giocarono le carte delle riforme, nell’innovazione gius-pubblicistica e gius-privatistica alla luce di nuovi metodi rispetto al mos italicus. 2. La Svizzera Un modello costituzionale che si afferma definitivamente in età moderna è quello svizzero. All’origine di questo sviluppo c’è il patto di confederazione tra i cantoni di Uri, Schwyz e Unterwalden del 1291. I Cantoni già godevano di autonomie entro le compagini dell’Impero, grazie a Carte concesse da Federico II, in base alle quali gli svizzeri furono esenti dal governo diretto dagli Asburgo. Nel 1499 sconfissero l’Imperatore e lo forzarono a stipulare il trattato di Basilea, che sancì la loro indipendenza di fatto. Da allora la Svizzera ebbe un’autonomia, che divenne vera e propria indipendenza come per l’Olanda alla pace di Westfalia nel 1648. In pochi anni si aggiunsero altri cantoni, che divennero 13, e tali rimasero per quasi due secoli. Lo Stato era governato da una Dieta Federale, con due rappresentanti per cantone. Era comunque necessaria, per le decisioni importanti, l’unanimità e la ratifica da parte di ogni cantone. La riforma religiosa capitanata da Zwingli nel 1522 a Zurigo condusse alla guerra civile tra cantoni cattolici e protestanti, in seguito alla quale fu stabilito che ogni cantone rimanesse della propria religione, come deciso ad Augusta. Alla fine del 700 in seguito all’invasione delle truppe francesi (1798), la Svizzera divenne Repubblica vassalla della Francia. Tuttavia Napoleone convocò i cantoni a Parigi e stipulò, nel 1803, l’Atto di Mediazione, che riconobbe il Governo federale e disegnò i confini dei Cantoni attuali. Dal Congresso di Vienna (1815) al Svizzera è una Repubblica neutrale, che non può fare alleanza neppure difensiva. Un nuovo patto, forzato dalle potenze vincitrici di Napoleone, intervenne a ridefinire i poteri locali, rafforzando le vecchie oligarchie e le antiche forme di governo. Da qui la guerra civile del 1830/34, chiusa poi con la Costituzione del 1848 che è ancora vigente. Essa prevede 23 cantoni ma 26 unità distrettuali. Oggi la Svizzera si dice ufficialmente “Confederazione”, ma tecnicamente è una Federazione. C’è una Assemblea federale costituita da due Camere, una delle quali con rappresentanti dei cantoni. Il Governo federale che si chiama Consiglio Federale, è di sette membri che devono essere di Cantoni diversi e sono nominati dall’Assemblea federale. Caratteristica importante è che il governo non può essere messo in crisi (Governo Direttoriale). Le leggi sulle quali le due Camere non raggiungono l’accordo sono sottoposti a referendum, che è anche richiesto per ogni modifica costituzionale. Sei Cantoni hanno ancora oggi grandi assemblee annuali che comportano l’esercizio della democrazia diretta: si chiamano Comuni del territorio. La Svizzera è riuscita dove hanno fallito le città italiane. Là è riuscita il Federalismo, che da noi, ha lasciato spazio agli “ Stati cittadini a proiezione regionale”, cioè alle grandi città-Stato. Il federalismo presuppone un movimento d’unione dal basso; tra uguali che vogliono crescere mettendosi insieme, creando un centro di potere superiore alle varie unità che si associano e che rafforza il tutto. 3. L’Unione delle Province Olandesi Altro caso importante è quello che investì parte dei Paesi Bassi. Nel 1579 le 7 provincie settentrionali dei Paesi Basi, protagoniste della rivolta contro la monarchia spagnola che non voleva riconoscere i loro privilegi tradizionali, si unirono in una confederazione, sotto la guida dello Statholder (reggitore dello stato) Guglielmo d’Orange, che aveva già avuto e ricoperto quella carica dagli stessi spagnoli per la sola provincia dell’Olanda. A lui fu affidata la guida nella guerra di liberazione contro gli spagnoli, che riuscirono però a conservare i territori del sud (l’attuale Belgio). Il Patto di Utrecht dettava delle norme generali, ma la Costituzione olandese rimase comunque in larga misura consuetudinaria. I suoi principi di base possono essere riassunti nei punti seguenti: 1) Ogni provincia rimaneva sovrana; 2) Era assicurata, per il mantenimento della pace sociale, la libertà di coscienza; 3) Era garantito il rispetto dei privilegi preesistenti di città, regioni, corporazioni e delle loro carte di privilegi medievali. Il quadro del diritto pubblico olandese si presenta confuso, a cominciare dal ruolo degli Orange, quasi monarchico. Gli Stati Generali, erano detti Generalità, e consistevano in un’assemblea di deputati provenienti dagli stati provinciali delle 7 province. Ogni provincia disponeva di un voto. Il Patto di Utrecht richiedeva la decisione all’unanimità solo per le questioni di guerra e di pace e per l’istituzione di nuove tasse. A differenza dei membri del parlamento inglese, quelli degli stati generali olandesi erano legati dal cosiddetto vincolo di mandato. A lato della generalità stava un Consiglio di stato, che si interessava degli affari interni e che avrebbe voluto anche legiferare, se la generalità non glielo avesse impedito. Comunque il suo Segretario, il Tesoriere e il Gran Pensionario (capo di fatto degli stati olandesi) portarono il titolo di ministri e furono stabili. Per quanto riguarda le finanze, le provincie contribuivano alla Generalità in proporzione della loro ricchezza. Il bilancio lo preparava annualmente il Consiglio di Stato ed era una petizione inviata per l’approvazione alla Generalità. Non c’era una corte suprema per tutte le province, ma solo Corti d’Appello in ognuna di esse. Non vi erano università nazionali. Lo Stato confederale delle Provincie unite si presentava come un Paese borghese, dominato dalla forte Olanda. Qui il potere era formalmente degli stati perché in essi sedeva solo un membro della nobiltà, a loro volta dominate dai Reggenti, ossia un’aristocrazia mercantile che assolse al ruolo altrove svolto dalla nobiltà e dei magistrati delle monarchie. Anche i contemporanei rilevarono che l’unione presentava un miscuglio di istituzioni come per Venezia, la costituzione “mista” per antonomasia: l’unione era monarchia, aristocrazia, democrazia. L’unione quindi aveva molto di medievale, per il suo particolarismo istituzionale; ma aveva anche molto di moderno, per l’assenza di un potere centrale opprimente, per la libertà e la tolleranza di pensiero, per la scomparsa del clero come ceto privilegiato, per il federalismo. Nel panorama del tempo quella olandese era una situazione nettamente contro corrente. Gli altri stati andavano verso regimi assoluti, o verso monarchie deboli, o verso grandi apparati pubblici centralizzati, o verso deboli repubbliche ormai sclerotiche. Così a molti quella dell’Unione sembrò un’avventura assurda. Elisabetta d’Inghilterra, osservandola, diceva che la gente “normale” non era adatta al governo. La fortuna olandese, che trovò nel 600 il suo “secolo d’oro”, quando il Paese divenne il più ricco d’Europa, declinò nel 700, con l’affermarsi della supremazia Inglese e Francese. La rivoluzione francese causò poi il crollo della libera unione a fine700, con la fondazione della repubblica Batava, vassalla della Francia. Divenne quindi regno d’Olanda sotto un fratello di Napoleone, poi annesso alla Francia. Con il Congresso di Vienna ridivenne una monarchia indipendente, fino alla rivolta di Bruxelles, del 1830, che proclamò l’indipendenza dell’area meridionale del paese e quindi la nascita dell’attuale Belgio. 4. L’apologia di Guglielmo d’Orange e la dichiarazione d’indipendenza Nederlandese Nel dicembre del 1580, un anno dopo la nascita dell’unione di Utrecht, quando Filippo II Re di Spagna mise pubblicamente al bando Guglielmo d’Orange, fu presentata alla riunione degli stati generali l’apologia in sua difesa. Con questo testo Guglielmo s’impegnava al rispetto dei diritti dei cittadini e della “Gioiosa Entrata”, ovvero di quel testo del 1356 davanti al quale ogni nuovo Principe nominato nella regione del Brabante (una delle provincie) era obbligato a giurare. Il testo ha un carattere costituzionale evidente e indica con chiarezza il contrattualismo non fosse un tema teorico, ma una vera e propria pratica istituzionale. Il contenuto di questo testo venne riecheggiato l’anno successivo (1581), nella Dichiarazione d’Indipendenza della Repubblica delle Provincie Unite. Questi passi, si possono direttamente considerare anticipazione culturale del costituzionalismo inglese e della dichiarazione d’Indipendenza americana. 5. Contrattualismo politico Un’opera la dobbiamo ricordare per essere stata interpretata anche a sostegno del repubblicanesimo olandese ed è: rivendicazione contro i tiranni del 1579. Tradotta in inglese e francese nel 1648, sosteneva l’esistenza di due patti, uno tra Dio da una parte ed il Re e il popolo dall’altra, per fondare una comunità che sia tale anche sotto il profilo religioso, ed uno tra il Re e il popolo, per il quale il popolo è tenuto a obbedire solo finché il Re governi con giustizia. Tutti i Re secondo l’autore dovrebbero essere in verità elettivi, perché i diritti del popolo non si prescrivono. Qui l’autore è soprattutto interessato alla punizione del Re eretico: i doveri dei sudditi di fronte a Dio sono superiori rispetto a quelli verso il Re. L’idea di un governo rispettoso dei sudditi comunque non si trova solo in ambienti repubblicani protestanti. Anche alcuni teorici cattolici di ambiente monarchico lo sostennero, parlando anche del diritto d’opposizione contro le autorità e della uccisione del tiranno. Ad esempio, nel suo libro dedicato a Filippo III di Spagna (del re e del suo fondamento), il gesuita spagnolo Juan Mariana sostenne la liceità dell’uccisione del tiranno. Nel 1610 dopo, l’assassinio di Enrico IV, il Parlamento di Parigi condannò il libro ad essere bruciato e fu severamente proibito ai Gesuiti, di sostenere le opinioni del Mariana. 6. Lo sviluppo costituzionale inglese in età moderna L’unico Stato esistente in Occidente che ha una costituzione non scritta con radici medievali. Siamo rimasti nelle premesse medievali al 1485, quando Enrico Tudor salì sul trono riconosciuto come Re di Inghilterra dal Parlamento; con questo atto venne suggellata la successione e nacque la moderna Inghilterra parlamentare. Altro momento decisivo fu l’Act of supremacy del 1534. Il Parlamento legiferava così anche in materia spirituale, cancellando i limiti posti dal diritto divino e naturale. Naturalmente si proibì anche l’insegnamento del diritto canonico. La Corona nel 500 si appoggiò sul Parlamento; il suo appoggio fu tanto importante che per godere della maggioranza la regina nominava nuovi baroni per la House of Lords, o modificava la composizione della Camera dando il diritto elettorale a nuove città. Un relativo clima di libertà portò allora in Inghilterra molti stranieri, a partire da Alberico Gentili. Si sarà notata la forte sottolineatura dell’onnipotenza del Parlamento: esso in questo passo compare come organo legislativo, amministrativo e giudiziario. È il Princeps, il sovrano della nostra tradizione romanistica. Per rendere giustizia esercita ogni potere. Come si vede qui c’è se mai un problema di limite ai poteri del Parlamento nei confronti dei sudditi. 6.1 La teorizzazione del common law e la sua costituzionalizzazione Tutto cambiò dopo la morte di Elisabetta (senza eredi) e con l‟ascesa al trono nel 1603 di Giacomo I di Scozia (1603-1625), della famiglia Stuart, che ebbe accanto come consigliere Francis Bacon, un filosofo notevole, avversario di Edward Coke. Giacomo cingendo la corona inglese aveva così realizzato un’unione personale tra Inghilterra e Scozia, mentre il Regno Unito attuale esiste solo dal 1707 come unione reale di Inghilterra e Scozia. Ebbene, Giacomo si fece interprete della tendenza del tempo verso l’assolutismo politico. Solo un potere monarchico forte evita le guerre civili e fa grande la Nazione. Si ebbero comunque attriti con il Parlamento, intenzionato a difendere la sua libertà e quella del Paese, mentre il Re tentava di sopprimere la componente elettiva e governava senza convocarlo per lunghi periodi. Per varie circostanze Edward Coke (morto nel1634) Presidente di Corte del King’s Bench, divenne il più noto suo oppositore interno. Egli ha un rilievo di prim’ordine nella costruzione del common law. Grazie a una memoria leggendaria, consultando i registri antichi dei tribunali di common law, redasse una specie di sintesi del suo sviluppo dalle origini fino al suo tempo: Istituzioni di diritto inglese. Tale opera fu individuata come importante già allora, tanto che la pubblicazione di essa fu proseguita dopo la sua morte per disposizione del Parlamento. Dal punto di vista politico fu molto importante che di fronte ad un tentativo di ingerenza in una causa del re egli sostenesse orgogliosamente che persino il Re non poteva pronunciarsi sul common law, in quanto era un patrimonio giurisprudenziale intangibile, che solo i giudici sapevano penetrare e conoscere adeguatamente. A Giacomo dovevano quindi essere impediti interventi sul diritto tradizionale, che faceva parte della storia del Paese. Nello stesso senso è molto famosa una pronuncia di Coke nel c.d. Bohnam’s Case (1610), ove fu dichiarato che “il common law controlla gli atti del Parlamento e talvolta li giudica del tutto non validi”. Come si vede, in questo caso siamo addirittura al conferimento di un ruolo “costituzionale” al common law, come si trattasse di una legge superiore cui le singole leggi del Parlamento - gli statutes - devono adeguarsi. In questo modo si assegna in un certo senso al common law il ruolo politico di una costituzione rigida. 6.2. Sviluppo dei diritti civili e politici Coke fu anche il redattore della bozza del testo che divenne poi la Petition of Rights del 1628, una delle prime dichiarazioni dei diritti soggettivi (rights) del cittadino. Importanti in particolare erano: -L’art. 1, che stabiliva che nessuna tassa poteva essere imposta agli uomini liberi senza il loro consenso; -L’art. 3, che stabiliva che nessun uomo poteva essere punito senza un processo “opportuno”, cioè rispettoso dei diritti della difesa: è questo il due process of law, a cui si appellano il V e il XIV emendamento attuali della Costituzione federale degli Stati Uniti d’America; -L’art. 5, che vietava ogni imprigionamento per comando speciale del re. Si tratta dell’atto più importante adottato durante il regno del figlio di Giacomo, Carlo I (1625-1649), che aveva tentato di proseguire sulla linea del padre, esautorando il Parlamento e cercando di creare un sistema fiscale autonomo, in modo da evitare la sua approvazione. Carlo I inasprì anche la persecuzione contro Cattolici e Puritani e attuò una politica di favoritismi che indignò la piccola nobiltà e la borghesia commerciale. In seguito ad un aumento del carico fiscale, si scatenò allora una agguerrita opposizione parlamentare, che condizionò la concessione dei tributi appunto alla sottoscrizione da parte del Re della Petition of Rights del 1628 di cui si è parlato. Carlo I firmò la Petizione, ma quando il Parlamento tentò di allargarne la portata, lo sciolse e governò senza di esso per ben 11 anni. Introdusse nuove tasse, tra le quali la “moneta della nave”, destinata dapprima a coprire le spese della flotta, ma ora allargata anche alle città non portuali. Ai Puritani, li costrinse ad emigrare in massa, fatto che fece la fortuna delle colonie americane per il tipo di emigrazione che favorì. In seguito le necessità finanziarie lo costrinsero a convocare nel 1640 un Parlamento, che rivendicò in pieno i suoi diritti. Esso fu chiamato Short Parliament, cioè “breve parlamento”, in quanto fu sciolto dopo appena 1 mese. In seguito alle difficoltà della guerra contro gli Scozzesi e gli Svedesi, il Parlamento fu riconvocato e questa volta durò a lungo, ben 13 anni, dal 1640 al 1653. È il Parlamento che impose al Re l’impeachment del suo braccio destro, il Conte di Strafford, e la sua condanna a morte, l’abolizione della Star Chamber e delle c.d. “corti di prerogativa”, rimesse alla discrezione del sovrano, ma non la giurisdizione di Equity. Essa tuttavia da ora fu bloccata nel suo ulteriore sviluppo. Fu anche fissato il principio della convocazione del Parlamento almeno ogni 3 anni, ed il divieto di scioglimento senza il suo assenso. Come si vede, si era a un regime parlamentare puro. 6.3. Il Commonwealth Per questo il Re tentò allora il colpo di Stato, dando inizio ad una guerra civile, durante la quale spiccò la figura di Oliver Cromwell, con i suoi Indipendents, che condusse fino alla vittoria finale nel 1649, sbarazzandosi della destra moderata e della sinistra dei Levellers. Questi ultimi, sostennero un testo noto come Agreement of the people “Patto del popolo”, una specie di progetto di costituzione in cui ponevano l’accento sui diritti naturali inviolabili degli uomini, tra i quali includevano il suffragio universale maschile, perché tutti uguali. Si capisce allora come si sia potuti giungere nel 1649, per voto all’incriminazione del Re, giustificata da Cromwell in termini religiosi. Inutile dire che il processo fu memorabile, perché era la prima volta che un re veniva processato da un popolo che si diceva sovrano; ma lo fu anche perché il Re si difese con grande dignità. Il processo a re Carlo si concluse con la sua condanna a morte come “tiranno, traditore, omicida e nemico della Nazione”. Conseguentemente si ebbe la proclamazione del Free Commonwealt (libera Repubblica). Essa durò 11 anni (1649-60), durante i quali divenne sempre più dittatoriale la figura di Cromwell, che come Lord Protettore non convocò più il Parlamento, sostituito da un’assemblea di puritani di scarso prestigio. È però importante questo periodo, innanzitutto perché si ebbe allora una costituzione scritta. Si tratta del c.d. Instrument of Government del 1653, che inizia con un solenne art.1 in base al quale “la suprema potestà legislativa del Commonwealt d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, nonché dei Dominions, sarà concentrata in una Persona e nel Popolo riunito in Parlamento; il titolo di questa Persona sarà quello di Lord Protettore di Inghilterra, Scozia e Irlanda”. All’art.6 si precisava che “Le leggi non potranno essere alterate, sospese, abrogate o revocate né fatte ex novo, né alcuna tassa o imposta posta a carico del popolo se non per “comune consenso” nel Parlamento, e salvo quanto esposto all’art. 30 (sulla necessità urgente di provvedere)”. Dopo molti articoli sulla formazione e le convocazioni del Parlamento, la costituzione proseguiva all’art. 24 che “Tutti i progetti di legge saranno presentati al Lord Protettore per il suo consenso”. Come si vede, si prevedeva il conflitto tra i due poteri e la prevalenza del Parlamento, ma rimaneva la questione dell’eventuale incostituzionalità della legge. All’art.32 si prevedeva come elettivo a vita l’ufficio di Lord Protettore e al 35 che “La religione cristiana, sarà ritenuta come la pubblica professione di queste Nazioni”, e all’art.36, che non si sarebbe stati costretti con penalità a seguire quella confessione, ma che si sarebbe prevista un’adeguata educazione per esservi introdotti. All’art.37, poi, si garantiva libertà di culto a tutti, salvo per coloro che turbassero la pace con l’esercizio della loro libertà religiosa, e in ogni caso salvo per i seguaci della “popery” (papato) e ai “prelacy” (preti), ritenuti evidentemente di turbamento presunto in assoluto. Il periodo fu di intense riforme, nessuna delle quali però sopravvisse, salvo l’abolizione dei feudi militari. -Fu eliminata la figura dei Vescovi; -fu eliminato il Law French (ossia “il francese del diritto”, l’antico linguaggio giuridico del common law) dalle corti di giustizia, in cui si sarebbe dovuto parlare solo inglese; -si sarebbe voluto codificare il diritto e inaugurare un nuovo sistema di datazione, che partisse con l’anno I dalla fondazione della Repubblica. Sono evidenti, quindi, somiglianze con la Rivoluzione francese, perché le idee di libertà, uguaglianza e tolleranza, anche se strumentalmente affermate, furono poi riprese in contesti anche diversissimi. 6.4. La restaurazione monarchica Nel 1660, dopo 11 anni di convulsi turbamenti, le parti in lotta furono costrette a richiamare un sovrano, Carlo II della dinastia degli Stuart, che promise rispetto al Parlamento, la libertà di coscienza. Quindi si assistette ad una restaurazione della monarchia basata su di un atto del Parlamento. Tale illegalità fu colmata dal consenso dell’opinione pubblica e del nuovo monarca. Ma intanto furono eliminati i monopoli, gli usi civici, le corporazioni, modernizzando il Paese e consolidando una tendenza verso il liberalismo politico ed il liberalismo economico, alle origini d’un incredibile sviluppo economico e industriale. I Comuni vollero imporre il loro governo al Re attraverso il Consiglio privato della Corona, mentre il Re contrastò questa imposizione costituendo un Governo segreto: il Cabinet. Il sovrano, insospettì l’ala liberale del Parlamento, per cui fu imposto il famoso Habeas corpus Act del 1679, che era una legge formale in cui si disponeva che la polizia dovesse mettere a disposizione del giudice gli arrestati entro 20 giorni. Nel 1685 Giacomo successe a Carlo, ma si ebbe una rivolta dei Protestanti contro di lui che portò alla sua fuga presso Luigi XIV. Nel 1688-89 si ebbe così la Glorius Revolution contro la Great Rebellion. Il Parlamento preparò alcuni importanti provvedimenti, come il Tolaration Act del 1689, col quale si ammise la libertà religiosa per i Protestanti non anglicani. Ancor maggiore importanza rivestì il Bill of Rights (Carta dei Diritti), del 1689, vera e propria anticipazione delle successive Dichiarazioni dei diritti dei cittadini e dell’uomo, che fu giurata dal nuovo sovrano Guglielmo III d’Orange, chiamato dal Parlamento a governare. Esso affermò nel common law la regola del rule of law (governo o primato del diritto) che, tra l’altro, prevedeva: 1- Il divieto di sospendere le leggi e di dispensare dall’osservanza di esse senza autorizzazione del Parlamento (il Re non è sopra la legge); 2- La tassazione per l’esercito solo con il consenso del Parlamento; 3- La libera elezione dei deputati e la libertà di parola entro le mura del Parlamento; 4- L’immunità parlamentare di fronte alla giustizia; 5- Il divieto di introdurre pene crudeli e inusuali; 6- Il diritto di portare armi. Si trattava in pratica di un nuovo contratto tra sovrano e governati. Durante la rivoluzione “gloriosa” quindi il Parlamento giudicò da solo sulle legittimità del comportamento del sovrano. Per la seconda volta dunque si assistette ad un governo esclusivo del Parlamento, il quale però si rese conto che era meglio avere anche una autorità distinta e separata per il governo quotidiano. Fu da allora che i due partiti riflettevano una diversa strategia su come governare il Paese. Si affermò la necessità di un minimo consenso parlamentare per l’azione di Governo e la maggioranza liberale riuscì ad avere suoi membri nel Cabinet. Dalla fine del 600 quindi il re poté governare con il proprio Cabinet, a cui i membri del Parlamento erano sempre più interessati, perché volevano che vi partecipassero dei personaggi di cui potersi fidare. 7. Nelle colonie d’America: prima degli Stati Uniti Questi sviluppi erano ben conosciuti nelle colonie inglesi in America, anche se nel 600 ad esse l’Europa dedicava ancora ben poca attenzione. Ebbene, esse derivavano o a) Da insediamenti di compagnie commerciali titolari di concessioni di sfruttamento tramite concessioni da parte del Re con le Charts, o b) Da insediamenti in territori ottenuti per motivi vari da privati con lettere patenti del sovrano. In entrambi i casi i territori furono popolati da comunità emigrate spesso per dissenso politico e religioso con quanto avveniva in Inghilterra, quando furono perseguitati i non conformisti. Anche un primo insediamento molto famoso fu di carattere religioso, di un gruppo che si era prima fermato in Olanda, a Leiden , e che poi riprese le sue peregrinazioni perché l’ambiente era troppo pericoloso, giungendo anziché in Virginia, ove era stato previsto l’approdo nella Nuova Inghilterra, dove fu fondato il porto di Plymouth, poi incluso nel Massachusetts. Siamo nel 1620 e i “pellegrini” naviganti, i c.d. “Padri fondatori” prima di sbarcare fecero un solenne giuramento su un documento di evidente carattere contrattuale, noto come “Mayflower Compact”, interessante anche per il richiamo alle leggi nuove da darsi anziché al common law. Si vede bene come fosse comune a molti gruppi trasferitisi in America l’idea di costituire qualcosa di nuovo radicalmente, in opposizione alla vecchia società europea. Ma le prime comunità ebbero vita durissima (clima, indigeni, banditi etc). Alla metà del 600 comunque, tutte le 13 colonie inglesi dell’Est si erano ormai stabilizzate ed ebbero soluzioni organizzative analoghe. Questo perché la loro origine era stata ben diversa per lo più, e inoltre perché la Madrepatria non si occupò per molto tempo del destino delle colonie, affidate agli investitori delle varie “compagnie”. Nonostante il disinteresse del potere centrale che finì per favorire l’immigrazione di chi voleva fondare un “ordine nuovo”, religioso e sociale, qualche istituzione dovette necessariamente prevedersi nelle varie colonie: in particolare un Governatore con un Consiglio di nomina regia ed un’Assemblea eletta dai residenti riproducendo così il dualismo inglese. Il Governatore era nominato dal Re e rappresentava il potere esecutivo, essendo capo militare ed amministratore delle colonie. Le Assemblee dei rappresentanti collaboravano con il Governatore. Essa si riservava di bloccare l’applicazione di queste leggi, qualora le avesse ritenute contrarie agli interessi della nazione e dei cittadini britannici. Si noterà che è un po’ quel che da noi avveniva per il controllo esercitato dalle città dominanti sugli statuti dei centri dominati e ora dal governo nazionale su quelli regionali. 7.1. Il governo secondo le “carte” Questo sistema era costituito con atti normativi specifici, documenti scritti che abituarono gli Americani all’idea di una costituzione scritta con tutte le norme organizzative fondamentali, non diffusa in Inghilterra. L’applicazione delle leggi coloniali, le sentenze dei tribunali, erano appellabili al Privy Council , ossia al Consiglio privato della Corona, che rifiutava l’applicazione delle leggi in contrasto con quelle inglesi, cui dovevano essere subordinate. A Londra naturalmente non si applicavano le leggi coloniali che violavano gli interessi della legislazione inglese. Si affacciò così l’idea di una gerarchia delle fonti ed i giudici di Londra potevano controllare la conformità dei due livelli. Le colonie erano di lingua inglese, ma ereditarono liberamente il sistema di common law dalla Madrepatria. Anche perciò seppero alimentare lo spirito contrattuale tipico del Mayflower Compact. Capitolo 2: NUOVE IDEE: GIUSNATURALISMO E GIUSRAZIONALISMO DEL 5-600 1. Il mutamento di “paradigma” del 500 Si è parlato per il 500 di un mutamento di “paradigma” utilizzando una categoria di Thomas Kuhn. Questa teoria parte dal presupposto che ogni epoca ha un “paradigma”, ossia complesso di idee attraverso il quale si legge la realtà. Si ritiene che con il 500 si ebbe un mutamento del paradigma, che trovava le proprie origini nella cultura medievale. Quanto questo mutamento sia stato indotto dalla Riforma protestante è una questione che suscita discussioni, perché è difficile valutare quanto abbia inciso ed in che termini. La Riforma fu concomitante ad altri eventi di portata grandiosa e non si allude solo alla scoperta dell’America, di terre nuove e di uomini nuovi, non partecipi alla cultura europea. Pensiamo all’opera Delle rivoluzioni dei corpi celesti di Niccolò Copernico, dotto polacco che studiò in Italia nei primi anni del 500, quando le Università erano di livello. Il testo metteva in discussione il sistema della conoscenza e fu condannato dall’Inquisizione e messo all’Indice. In esso si negava, insieme alla concezione tolemaica, la centralità della Terra e tutta l’elaborazione dottrinale sulla localizzazione dei cieli, della tradizione della Chiesa. Il mondo e l’universo obbedivano ora a leggi che potevano essere conosciute attraverso lo studio dei fenomeni naturali e non tramite il dettato delle Sacre Scritture. Il mondo delle certezze era minacciato. Si invitava a pensare ed a rapportarsi al mondo fisico in modo nuovo, con fiducia nelle capacità intellettuali dell’individuo. 2. Dal ramismo al mos gallicus: storia e filosofia, giusrazionalismo e sistematica In altro campo si inserisce il pensiero di Pierre de la Ramée (Pietro Ramo), fondatore del metodo ramista. Anti-aristotelico, sosteneva la necessità di rintracciare le regole del discorso attraverso lo studio degli autori classici. Ribadiva la necessità di un nuovo metodo di studio che badasse a riordinare sistematicamente il sapere del tempo. Ne usciva rafforzata quella corrente di studiosi che nel diritto sosteneva la necessità di abbandonare il metodo casistico utilizzato dai Glossatori e dai Commentatori per applicare il criterio sistematico, facendo ricorso ad una nova methodus, che riorganizzasse il diritto in un sistema armonioso ed organico. Siamo nell’ambito del rinnovamento che va sotto il nome di mos gallicus. I propugnatori di questa metodologia spostano l’accento dal Testo ai testi, nel senso che per questi studiosi non esiste più soltanto il Corpus iuris, ma una serie di testi che i giuristi medievali non erano stati in grado di leggere. È il caso della parafrasi alle Istituzioni di Teofilo, delle Novelle in greco di Giustiniano, dei Basilici e così via. A tale revisione è sottoposto anche il diritto canonico, i cui orizzonti si dilatano con la lettura dei testi canonistici bizantini o dei manoscritti antichi dei Canoni conciliari raccolti nel Decretum di Graziano. I testi delle deliberazioni conciliari furono sottoposti ad un’opera di restituzione filologica. Appare evidente il contributo dato al razionalismo giuridico moderno dall’opera degli umanisti italiani del 400. L’orientamento ramista ebbe eco anche al di fuori dell’ambito giuridico. L’orientamento sistematico sostenuto dal ramismo fu recepito anche in Germania ed ebbe larga diffusione nelle università, quando venne adottato come metodo didattico per privilegiare la formulazione di principi generali del diritto. Si giunse così a formulare la teoria generale del contratto, prima considerato solo per singole categorie. La conseguenza di questa nova methodus fu che il diritto romano cominciò a perdere efficacia come diritto positivo vigente ma acquistò valore come diritto razionale. L’opinione che il diritto romano non potesse fornire soluzioni alle singole controversie concrete fu rafforzata da queste spinte ideologiche. Va ricordata l’opera sistematica di giuristi come il Connano ed il Duareno, autori di commentari al Corpus iuris condotti con fortissima libertà sistematica. 2.1. Crisi del diritto romano in Francia: consuetudini e ordonnances Nella seconda metà del 500, nella Francia sconvolta dalle guerre di religione, si era completata la redazione scritta delle consuetudini, ed era fiorita una letteratura di commentari su tali raccolte che ne rafforzavano la modernità, e che contestavano l’utilità pratica del diritto romano come diritto vigente. Era cresciuta la legislazione regia attraverso la promulgazione di ordonnances, in conseguenza delle riunioni sempre più frequenti degli Stati Generali fino al 1614. Si procedette, alla redazione di compilazioni di legislazione francese, che presero il nome di Codes con cui si emulavano le antiche raccolte; dal latino codex, raccolta di leggi come quelle di Teodosio e di Giustiniano. Entro la metà del 600 furono pubblicati il Code Henry III, il Code Henry IV ed il Code Marillac. I tentativi di riorganizzazione normativa comportarono una diminuzione della pratica validità del diritto romano considerato sempre meno come diritto positivo, e, sempre più stimato come un arsenale, un deposito, dal quale attingere schemi e strutture razionali sulle cui basi ricostruire il diritto vigente e trarre regole necessarie per arrivare alla formulazione di un diritto razionale e sistematico che servisse per la didattica o per la Nazione. In questo tempo fioriscono opere come le Istituzioni di diritto francese, fondate sul costume, o les Pandectes de droit français. 2.2. François Hotman (1524-1570) Non stupisce la diffusione delle opere di François Hotman, giurista sostenitore del mos gallicus. A lui si deve infatti un’opera, pubblicata postuma ai primi del 600, intitolata Antitribonianus, con cui attaccò la compilazione giustinianea ed il ministro Triboniano che ne fu l’artefice per aver alterato il patrimonio giuridico romano dell’età classica. Era un modo di screditare tutta la dottrina dei giuristi medievali. Hotman auspicava che si costituisse una commissione che compendiasse quanto di buono si poteva trovare nel diritto romano e che redigesse un’opera legislativa che potesse essere contenuta in 1 o 2 volumi. La realizzazione del suo pensiero presupponeva l’accentramento legislativo nelle mani del Principe e una conclusione in senso nazionalistico dell’evoluzione statale. Dall’opera Francogallia emerge l’orientamento per cui egli intendeva “affermare i pregi di uno Stato con il popolo rappresentato dall’assemblea, e con il re puro e semplice delegato di funzioni pubbliche e sovrane, tenuto a svolgerle secondo i dettami delle norme in vigore”. 2.3. Jean Bodin (1530-1596) In questo stesso periodo vede la luce un’opera-capolavoro sul diritto pubblico, Lex six ilvre de la République, (I 6 libri sullo Stato) di Jean Bodin, trattato sulla sovranità statuale che si esprime attraverso la legislazione, pubblicato nel 1576, tradotto in latino per dargli circolazione tra i dotti d’Europa. L’opera è stata oggetto di interpretazioni da parte degli storici. Jean Bodin è stato messo in rapporto con a crisi del diritto comune piuttosto che con la sua sopravvivenza, mentre è difficile non vederlo come prosecutore della tradizione del mos italicus. Il suo nome è legato all’emersione del nazionalismo giuridico, cioè al fenomeno della prima organizzazione in Francia di ciò che si potrebbe definire un ordinamento nazionale. L’opera vorrebbe essere il manifesto di un nuovo metodo giuridico, fondato sulla storia e sulla comparazione. Il Bodin era dell’avviso che il diritto romano andasse comparato, perché era uno dei diritti storici ed andava considerato tale. Per svincolare il giurista dai metodi scolastici, era necessario costituire una scienza del diritto basata sulla comparazione storica. La tradizione romanistica era un deposito di ragione che andava inserita in una prospettiva storica. Nasce il conflitto con il Cuiacio, il quale attaccò Bodin per l’uso del volgare, una lingua indegna di una trattazione di diritto pubblico. Nell’opera si esaminavano nozioni quali quelle di imperium, officium, potestas, la definizione di magistrato, il problema del potere d’imperio nella sua accezione più alta, prendendo come base il meglio dell’elaborazione di diritto comune. Bodin è passato alla storia come il teorico del concetto di sovranità, perché fu il primo ad esporlo in forma chiara e strutturata. Viene ricordato come uno dei fondatori della moderna dottrina dello Stato. I teorici tedeschi del diritto pubblico dell’8-900 considerarono Bodin il fondatore della teoria della sovranità come potere costituente e del “decisionismo”, il potere costituente che fa a meno dell’ordinamento esistente e ne crea uno nuovo. Il suo Stato aspira all’euritmia istituzionale, armonizzazione dei corpi sociali, politici, religiosi, rimanendo all’interno della tradizione della monarchia francese “temperata”, limitata dagli stati, dai parlamenti, dalla nobiltà e così via. Lo Stato è il supremo arbitro tra le parti che compongono la società. Nei suoi scritti si ritrova il senso della continuità della tradizione del diritto romano, impossibile da ignorare, anche se non si deve ritenere Bodin uno dei bartolisti. I concetti di diritto comune sono ripresi e sviluppati in modo nuovo. Alla comprensione di Bodin è propedeutica la conoscenza degli scritti minori di stampo giuridico. Tra questi, ricordiamo l’opera giuridica Iuris universi distributio, tentativo di predisporre un “sistema universale del diritto”. Bodin usa la stessa parola nella sua accezione di sistema armonio con una metafora: giustizia armonica, che significa armonizzare le parti che sono equità, legge, processo, decisione. La concezione che sta alla base delle istanze in senso costituzionale della prima età moderna fu quella contrattualistica. Jean Bodin, analizzando le varie tipologie di sovrani, scrisse che molti di essi “affermano di essere padroni delle leggi e di tutte le cose” e non si riconoscono soggetti a regole. In tal caso assomigliano ai re che Aristotele definiva “despoti”. Per Bodin c’era tra questi il Pontefice, ma non attribuiva loro una concezione negativa, a condizione che governassero con giustizia. L’altra tipologia di sovrano analizzata era quella di chi si riteneva sottoposto alle leggi. Era chiara l’idea dell’esistenza di leggi fondamentali costituzionali, a cui il sovrano ed il governo in genere dovevano sottostare. 3. Il diritto naturale: problema seicentesco, problema attuale Queste novità presupponevano una considerazione nuova dei materiali dati, una sottoposizione alla “ragione” con nuovi criteri dei problemi. C’è razionalismo, tentativo di arrivare con la ragione ad affrontare la realtà. Con il gius-razionalismo che prende l’avvio nel 500 s’intreccia anche il gius-naturalismo moderno, per distinguerlo da quello medievale. Il pensiero giusnaturalistico è caratterizzato da un complesso di dottrine eterogenee. Si potrebbe definire come indirizzo che sostiene l’esistenza di norme superiori a quelle positive. Di diritto di natura si parlava già nell’antichità. La nozione di diritto naturale, sviluppata dallo stoicismo, è penetrata nella cultura romano-cristiana, che ha distinto le norme di diritto divino dalle norme di diritto naturale. Quindi sono dottrine con origini antiche, classiche, ma che vennero rielaborate in età moderna. Esse costituiscono un tema non sorpassato, tenuto conto della crisi del positivismo giuridico. Basterà dire che il diritto naturale moderno individua un complesso di diritti ritenuti propri di ogni essere umano in quanto tale, e quindi patrimonio intangibile dell’umanità. Chi riconosce il diritto naturale opera per porre un limite invalicabile al potere legislativo ordinario e costituzionale, nel senso che ritiene certi valori irrinunciabili. Essi sono divenuti ora più discussi di fronte alle possibilità manipolatorie aperte dalle biotecnologie. Quello che per taluni è un diritto innato nell’individuo o nei popoli, non lo è stato per altri. Tipico caso è la proprietà. C’è chi ha considerato la proprietà individuale un diritto naturale dell’uomo e chi l’ha ritenuta una violazione al diritto naturale del comune godimento dei beni. Si pensi alla schiavitù, che viola la libertà naturale dell’essere umano, ma che si è ritenuta derivante dalla santità della proprietà; o le questioni relative al suffragio universale, oggi scontate ma in passato discusse. Basti pensare alle discussioni cui ha dato adito la proposta di estensione del voto alle donne ed all’arco temporale in cui nella cultura occidentale si è ritenuta la donna un soggetto debole, facilmente impressionabile e condizionabile tanto da non ritenersi naturale per lei quello che era naturale per i maschi. Quanto intorno a questi problemi si possa discutere all’infinito lo si può capire richiamando 2 esempi recenti. Si focalizzi l’attenzione sullo sviluppo dell’indirizzo che propugna il perseguimento dei “crimini contro l’umanità”, per il quale è stata richiesta la costituzione di un organo di giustizia internazionale presso l’ONU. È un orientamento che riprende una posizione resasi evidente dopo l’ultima guerra mondiale, con la costituzione del tribunale di Norimberga quando le forze vincitrici perseguirono i criminali di guerra nazisti non sulla base di un diritto positivo, ma sul presupposto della violazione di un diritto involabile anche in presenza di ordini superiori, qualificabili come illegittimi in vista di questo superiore ordine naturale. L’episodio di Saddam Hussein è segnale di un’inversione di tendenza, posta la contrarietà che in molti ambienti si è levata contro la condanna a morte. Il diritto naturale, come limite imposto al legislatore, viene invocato dalle confessioni religiose che ritengono che alcune legislazioni attuali in nome dei “diritti civili”, ledano diritti naturali, come quello del concepito alla nascita, vittima delle interruzioni volontarie di gravidanza considerate lecite. Siamo di fronte ad un caso di conflitto tra diritto positivo e norme di ordine superiore, naturale appunto. La questione si è ripresentata nell’età moderna, per la crisi dell’universalismo cristiano cattolico e dei sistemi giuridici tradizionali e l’importanza assunta dalla legislazione positiva dello Stato. Di fronte alla divisione religiosa dei popoli, si potevano individuare diritti fondamentali o innati nei confronti dei quali la legislazione poteva optare per 2 soluzioni o avvertirli come un limite al proprio operare o riconoscerli e renderli positivi. Il problema si complicava passando ai rapporti tra gli Stati: i governi fino a che punto dovevano riconoscere i diritti della collettività o dei propri interlocutori? Si sono sviluppate discussioni che hanno coinvolto intellettuali di tutta Europa, a volte impressionando l’opinione pubblica da contribuire al maturare di svolte politiche. Queste discussioni hanno avuto influenza nel configurare la moderna comunità degli Stati indipendenti nonché nel delineare la figura dei cittadini come titolari di diritti pubblici nei confronti degli Stati di appartenenza e talora anche nei confronti degli Stati ospiti o non di origine, quando si sono innescate entro contesti che vedevano movimenti politici creativi, sensibili a problemi reali, che hanno attivato sensibilità nuove e cambiamenti profondi. Il problema della schiavitù e delle libertà individuali, dell’uguaglianza di fronte alla legge, della tolleranza dell’altro, avrebbero potuto essere risolti senza queste premesse, senza i valori indicati da discussioni giusnaturalistiche? 4. Verso il razionalismo Certe discussioni libere, non ossessionate dal rilievo pratico e immediato, hanno avuto rilievo storico enorme. Da esse è nato l’aspetto migliore del mondo contemporaneo. Da esse è nato un contesto naturale che può essere perduto o dimenticato, come dimostrano esperienze drammatiche e sanguinarie del nostro secolo. Per questo motivo le “questioni di principio” non sono mai oziose. Perciò è necessario imparare a guardare oltre la superficie di quel che accade e penetrare nei significati degli eventi: che è quello cui la riflessione storica dovrebbe servire. Infatti, il passaggio dalle acquisizioni cinquecentesche al maturo 600 ed al giusrazionalismo di Hobbes, Pufendorf e Locke, richiede un richiamo a 3 personaggi che hanno caratterizzato il primo 600: Bacon, Cartesio e Galilei. Francis Bacon, oltre ad essere stato consigliere di Giacomo I d’Inghilterra e fautore del suo assolutismo, fu autore di opere di metodologia scientifica, dirette a combattere i pregiudizi del passato, gli idola, e quindi anche a sostegno di leggi nuove e più razionali. Galileo Galilei, difensore di Copernico e costretto dal Sant’Uffizio all’abiura: il suo tentativo di separare la ricerca scientifica dalle questioni di fede cozzò contro la cultura cattolica del tempo. Altro italiano, Tommaso Campanella, fu autore dell’utopica Città del Sole, in cui delinea uno Stato perfetto governato dai sapienti secondo il diritto di natura. Tra gli scritti di Campanella, più volte incarcerato per eresia, ricordiamo anche gli Aforismi politici. Non può dimenticarsi il peso di René Descartes, detto Cartesio, autore del Discorso sul metodo, fondatore del razionalismo moderno. 5. Ugo Grozio (1583-1645) Il punto di congiunzione tra gius-razionalismo e gius-naturalismo moderni ,si trova in Huig van Groot, Grotius, come si firmava in latino il giurista, umanista e filosofo iniziatore del giusnaturalismo moderno, della Scuola del Diritto naturale. Tra le sue opere ricordiamo il De antiquitate Reipublicae Batavicae (Dell’antichità della Repubblica Batavica=Olanda), testo con cui cercò di legittimare la scelta della forma repubblicana, e l’Introduzione alla giurisprudenza olandese, in cui sistematizzò consuetudini locali entro schemi e categorie romanistiche, offrendo un resoconto del diritto olandese. La sua opera fondamentale è il De iure belli ac pacis (Il diritto di guerra e di pace) del 1625. In essa fece uso delle considerazioni elaborate da Alberico Gentili. Grozio intendeva non tanto studiare l’origine e la formazione del diritto internazionale quanto analizzare quali di queste regole fossero vive nel suo tempo e, si propose di prescindere da ogni considerazione di carattere morale e teologico, appellandosi esclusivamente alla ragione. Il diritto doveva essere frutto di un’operazione razionale e valido per etiamsi Deus non esset (anche qualora Dio non ci fosse). Se il criterio cui conformarsi non poteva essere ravvisato nella religione, una simile funzione poteva essere svolta dalla ragione. I termini Dio e natura sono separabili ed il fondamento del diritto naturale non risiede nella divinità, ma nella razionalità. I principi di base che devono regolare il diritto sono 3: 1) non rubare e restituire il maltolto o il profitto indebitamente tratto, 2) tener fede ai patti, 3) riparare i danni causati per propria colta. Da queste norme si possono ricavare precetti giuridici. Lo stato di natura anteriore alla società civile è inteso come condizione di pacifica convivenza e di libertà, regolata dall’appetitus societatis dell’uomo. Lo stato di natura diviene precario per il nascere di istinti egoistici che traggono origine dalla diminuzione delle ricchezze disponibili e dall’aumento dei bisogni. Si attua il trasferimento del potere al sovrano il quale avrà il compito di far rispettare gli interessi di ciascuno (patto sociale). Altra opera è il Mare liberum, in cui espose la teoria della libertà di navigazione in polemica con coloro i quali avevano teorizzato la privatizzazione dei mari ed avrebbero escluso l’Olanda da ogni rotta oceanica. Grozio si inserisce all’interno del filone intellettuale che tendeva a configurare la realtà cercando di separare gli insegnamenti della religione da quelli che si potevano dedurre attraverso la ragione. Si cercarono di distinguere i problemi di fede da quelli scientifici, ritenendo l’uomo capace perché dotato di ragione e non perché seguace di una confessione religiosa. In questo contesto fiorì la Scuola del diritto naturale, di cui Grozio fu il primo teorico, dopo il lavoro svolto dalla Seconda Scolastica spagnola. Essa proponeva lo studio del diritto universale, insito nella natura e conoscibile per mezzo della ragione, ai principi del quale avrebbe dovuto conformarsi il diritto positivo. 6. Thomas Hobbes (1588-1679) Hobbes visse negli anni del conflitto tra la monarchia Stuart ed il Parlamento di metà 600. La sua opera è interpretata ora a favore della monarchia, ora a favore dell’esperimento puritano. Egli teorizzò la necessità di un potere esecutivo forte, senza il quale la società sarebbe finita nel caos. Teorico dell’assolutismo dello Stato inteso come soggetto operante a sé, Hobbes sostiene che il potere sovrano deve essere l’unica fonte di produzione legislativa. Nel Leviathan del 1651, esamina lo Stato moderno che con poteri assoluti si intromette nei rapporti sociali e separa la teologia dal diritto e dalla politica. Per lui lo stato di natura è caratterizzato da una condizione di caos e violenza (homo homini lupus, l’uomo è lupo per l’uomo). Contro questo stato di cose, la soluzione appare il pactum societatis, contratto sociale in cui gli uomini trasferiscono i propri diritti allo Stato irrevocabilmente. L’alternativa sarebbe lo stato di caos cui portano i monarcomachi (uccisori dei re-tiranni) e tutti i sostenitori di un diritto di resistenza nei confronti del governo. L’unico diritto vigente è posto dallo Stato. Prosegue sostenendo che nessun vincolo lega il sovrano ai suoi sudditi. Essi hanno stipulato un patto per conferire il potere al sovrano, ma questo non è vincolato e non può essere deposto ed ha il diritto di essere ubbidito. Nella sua opera Dialogo fra un filosofo ed uno studioso di common law, Hobbes fa dire al filosofo “Non è la sapienza, ma l’autorità che crea la legge”, “Diritto è ciò che colui o coloro i quali detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi, proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose essi possono e quali non possono fare”. In questa definizione troviamo formalismo ed imperativismo. Formalismo nel senso che non si fa riferimento al contenuto ne al fine del diritto. Si definisce il diritto con riferimento solo alla forma. Imperativismo nel senso che è un complesso di norme con cui il sovrano ordina o vieta dati comportamenti. Il diritto è un comando. L’affermazione del primato della legge lo colloca nella corrente filosofica del positivismo. La visione della legislazione come momento centrale dell’organizzazione statuale porta in Hobbes ad un risvolto liberale; se solo la legge crea il diritto, allora deve valere il principio nullum crimen, nulla poena sine lege (nessun reato ée pena se non in presenza di una norma di legge). È il principio di legalità ribadito dalle codificazioni moderne, con il suo corollario di irretroattività della norma incriminatrice. Si afferma nel Leviathan “nessuna legge può far divenire criminoso un fatto dopo che è stato commesso”. Altro aspetto è l’utilitarismo. Il contratto con cui alieniamo la sovranità naturale è stipulato per pura utilità, per evitare la belluinità dello stato di natura. 7. James Harrington (1611-1677) Filosofo della corrente utopistica cui appartiene Tommaso Campanella, la sua opera fu influente nel mondo anglo-americano. Scrisse a metà 600 il Commonwealth of Oceana (La Repubblica di Oceana), in cui descrive una repubblica utopistica, fondata sulla proprietà, modello per Cromwell e altri repubblicani dopo l’esecuzione del re nel 1649. Campeggia l’idea che il cittadino è libero solo se è anche proprietario. Il diritto di proprietà assume un ruolo centrale, precorrendo tendenze che troveranno espressione in seno alle teorizzazioni illuministiche e nella società degli Stati Uniti e nelle riforme di stampo liberale e borghese tardosettecentesche ed ottocentesche. 8. John Locke (1632-1704) Nel pensiero di Locke, maestro del liberalismo inglese, si ha una teorizzazione dei diritti dell’uomo e del garantismo costituzionale in opposizione all’assolutismo di Hobbes. Le teorie giusnaturalistiche servono a Locke per potenziare i diritti dell’individuo. Per Locke vi sono 2 diritti innati nell’uomo: libertà e proprietà. Il patto sociale non è irrevocabile, i diritti innati non si perdono con il contratto, che anzi deve costituire uno Stato garante. Il potere legislativo è separato e superiore al potere esecutivo, ma la legge non è espressione di una volontà onnipotente: essa ha la funzione di positivizzare i diritti naturali (libertà, uguaglianza, proprietà). I cittadini hanno il diritto di resistenza nei confronti dell’autorità pubblica che oltrepassi arbitrariamente i poteri delegatile con il contratto e che non rispetti i diritti naturali dell’individuo. La legge deve avere rispetto dei diritti individuali. Con Locke prende corpo la concezione liberale dello Stato, cioè quella tradizione politica anti-assolutista, anti-interventista e garantista che assegna allo Stato la pura funzione negativa di non impedimento dell’autonomia privata. La libertà dello Stato hobbesiana si rovescia nella formula garantista della libertà dallo Stato e le premesse legalitarie di Hobbes vengono sviluppate in quel concetto liberal-illuministico dell’ordinamento giuridico che si indicherà con l’espressione di “Stato di diritto” e che in Inghilterra è designato come rule of law. 9. Il giusrazionalismo Gli sviluppi giusrazionalistici hanno visto il diritto naturale come un sistema ordinato in modo logico e scientifico. È compito dei teorici e del legislatore ricondurre il diritto positivo a tale sistema. Il giusrazionalismo si inserisce in quell’operazione filosofica della prima età moderna che fu di esaltazione della ragione e del metodo scientifico. Si possono distinguere 3 filoni: 1) Il primo, di matrice germanica, si ispira al pensiero di Von Pufendorf e si sviluppa nel 700 attraverso l’opera di Christian Thomasius e altri. Cardini di questa corrente sono una concezione volontaristica del diritto (identificazione del diritto con le norme poste dal sovrano) e la separazione tra diritto e morale. Questo filone esercitò un influsso sul tentativo di codificazione prussiana e sulla codificazione austriaca. In Italia ebbe poca risonanza. 2) Il secondo, anche germanico, ha il fondatore in Leibniz e fu sviluppato nel 700 da Wolff e dalla sua scuola. Tali pensatori hanno influenzato la codificazione prussiana. Deve loro un tributo la cultura giuridica tedesca dell’800 (Scuola filosofica e scuola storica del diritto) per l’elaborazione di una parte generale del diritto volta a definire concetti e principi giuridici fondamentali. In Italia l’influsso fu ridotto. 3) Il terzo filone è francese ed ha i rappresentanti in Domat e Pothier. Essi miravano ad elaborare un sistema giuridico ordinato e razionale prendendo concetti ed istituti dalla tradizione romanistica, bisognosa di un riordinamento alla luce del diritto naturale. Fu enorme l’influenza di questi giuristi sulla codificazione francese. Nell’800 si ebbero in Italia molte traduzioni che conobbero diffusione nel nostro Paese. 10. Samuel Von Pufendorf (1632-1694) Con Pufendorf si insegna dal 1660 il Diritto naturale e delle genti. Pufendorf fu giusnaturalista e giusrazionalista, che rifletté razionalmente sul diritto, sullo Stato e suoi poteri che prescindette dal diritto romano. Attuò una sintesi sul pensiero generale del diritto naturale del suo periodo. Come Hobbes teorizzò una completa laicizzazione del diritto, nel senso che per lui le questioni religiose e morali dovevano rimanere separate dalla sfera del diritto positivo. Nell’opera De iure naturae et gentium, proseguendo le teorie di Grozio, sostiene la necessità di uno studio e sistemazione scientifica del diritto naturale. È la ragione che ci dimostra la necessità delle leggi naturali. Concepisce il diritto positivo quale razionale sistema di comandi, come la sfera degli obblighi imposti dal sovrano. Libertà è fare ciò che non è vietato dalla legge e si ha una separazione tra diritto e morale. Le idee del Pufendorf sono solidali con la politica assolutistica: il sovrano detiene il potere, che gli deriva dal contratto sociale, di tutelare autoritariamente i diritti naturali dell’uomo. Ha fiducia nella bontà delle leggi del sovrano e manca l’aspetto delle garanzie di Locke contro gli arbitrii del potere. 11. Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) Leibniz, filosofo e matematico tedesco, elaborò della giurisprudenza la concezione di una scienza esatta, capace di svolgersi secondo procedimenti di rigore matematico (Nova methodus discendae docendaeque jurisprudentiae, Il nuovo metodo di imparare ed insegnare il diritto). Il sistema unitario, razionale e completo del diritto va costruito partendo da principi incontrovertibili, capaci di svilupparsi tramite deduzioni logiche, via via a coprire ogni questione particolare (more geometrico, in modo geometrico). La giurisprudenza deve estendere la competenza a tutti i comportamenti umani, interni, religiosi e sociali: se un’azione è giusta deve essere giusta in assoluto, sotto il profilo morale, religioso e giuridico. Si rifiuta di distinguere diritto e morale ed intende lo Stato in senso interventista. La legislazione statale non deve lasciare spazi all’autonomia del singolo. In polemica con Pufendorf, Leibniz afferma che la giustizia non è virtù negativa, cioè non consiste nel non fare il male: essa è una virtù positiva e consiste nel fare il bene. Ma se in questo senso Leibniz è molto conservatore, è invece di grande modernità riguardo il metodo di chiarificazione e di riordinamento del diritto. Ogni norma deve essere l’enunciazione (proposizione) di una verità e deve essere articolata in un predicato (diritto o dovere) e in un soggetto, uniti da una copula. Questa struttura grammaticale rende possibile la costruzione di un sistema logicamente ordinato. In tale sistema basta fissare le proposizioni di partenza e le eccezioni: da queste si ricavano tutte le norme intermedie. Leibniz proponeva la redazione di un codice brevissimo e chiaro. Inoltre il diritto romano poteva offrire regole per la costruzione del sistema di diritto naturale. Esso poteva costituirne la ratio scripta. Tale idea l’espresse nell’opera di teoria del diritto più famosa, Ratio corporis iuris reconcinnandi, Del modo di riparare il Corpo del diritto. Per quanto riguarda il diritto naturale Leibniz lo colloca al di sotto del diritto positivo, come lo stato di natura si situa ad un livello inferiore rispetto alla società civile. 12. Jean Domat (1625-1696) L’opera di Domat e Pothier ha un carattere meno astratto di quella dei giuristi tedeschi. Rispondeva alle esigenze di unificazione giuridica nazionale dello Stato assoluto francese ed ebbe influenza sul codice civile napoleonico. Il programma dottrinale del Domat è riassunto nel titolo dell’opera Les lois civiles dans leur ordre naturel, L’esposizione delle leggi civili nel loro ordine naturale. Per “ordine naturale” intende l’ordine unico reso possibile dal legame dei principi naturali. Le interdipendenze e concordanze si evidenziano nella ricerca della ratio, dell’esprit (spirito) di ciascuna norma. Domat distingue 2 tipi di leggi: quelle immutabili, che sono naturali, imposte dalla natura e sempre giuste, che nessuna autorità può cambiare o abolire; esse coincidono con quelle fondamentali del diritto privato che regolano proprietà ed obbligazioni; e quelle arbitrarie, discrezionali, fatte da un’autorità legittima in base a necessità transeunti. Le leggi immutabili nascono da 2 principi connaturati all’uomo: la ricerca dell’amore di Dio e l’amore tra gli uomini. Il processo di derivazione della legge da questi principi è opera della ragione umana. Tale derivazione è lenta ed attraversa i secoli e la storia, perché la ragione si evolve. Col tempo si è formato un deposito di leggi naturali sperimentate, inerenti al diritto privato, e questo deposito è costituito dal diritto romano, bisognoso di un’opera di chiarificazione ed ordinamento. 13. Conclusione sul 600 Si può concludere che il 600 vide una fioritura di novità sia dal punto di vista politico-giuspubblicistico (dai Paesi Bassi all’Inghilterra) che culturale e gius-filosofico (da Grozio a Locke). Sullo sfondo vanno ricordati autori dei quali si deve ricordare l’opera culturale che ha lasciato un’impronta negli scritti dei giuristi o dell’opinione pubblica che ha consentito e agevolato la diffusione di nuove idee in quel mondo percorso dalla stampa come fenomeno di massa. Basterà pensare a Pierre Bayle. Il Bayle può essere indicato come capofila del libero pensiero e della tolleranza in quanto propugnatore di una morale laica. Il suo Dictionnaire historique et critique ebbe diffusione enorme ed abituò a porre a critica serrata ogni personaggio della storia sacra ed antica. Va ricordata anche l’opera di Baruch Spinoza, soprattutto il Tractatus theologicus-politicus, che può considerarsi un classico del razionalismo. Il suo razionalismo gli consente di teorizzare un Dio immanente garante dell’ordine razionale e della libertà di coscienza diverso da quelli delle religioni. Conseguenze delle sue idee erano la difesa della libertà di espressione e della laicità dello Stato e le sue teorie furono condannate sia dai protestanti che dai cattolici. Capitolo 3: Il lungo 700: Un’età tra riforme e rivoluzioni 1. Il 700 a volo d’uccello Il 700 è un secolo che ha forgiato l’Età contemporanea poiché le idee ancora oggi correnti n gran parte derivano da quella età. Gli aspetti fondamentali che da un punto di vista storico-giuridico hanno influito sugli eventi del secolo e hanno inciso profondamente sulle nostre concezioni ideologico-culturali attuali sono:. Il diffondersi di una cultura attenta ai diritti individuali e legata ad una nuova nozione di “natura” ha consentito, parallelamente al liberismo economico (laissez faire, laissez passer), di affermare in modo nuovo la sempre proclamata naturale libertà ed uguaglianza degli uomini ed ha segnato correlativamente l’inizio della crisi della radicatissima cultura nobiliare d’Ancien règime. Lo abbiamo visto per gli sviluppi politico-costituzionali in Inghilterra e per il diffondersi di giusnaturalismo e giusrazionalismo. Il moderno costituzionalismo trae fortissimo, decisivo, alimento da quel contesto e dalla sua affermazione nelle colonie americane. Ugualmente, il razionalismo e giusnaturalismo sono il fondamento della “questione penale”, che fu centrale nel Settecento pressoché ovunque, come problema del crimine, del processo penale e del trattamento del reo. Nei Paesi protestanti il problema dei privilegi ecclesiastici era già stato risolto. Non così nei Paesi cattolici. Qui la Chiesa apparve sempre schierata a tutela della conservazione dello status quo, a favore delle istituzioni tradizionali per cui la cultura nuova finì per atteggiarsi in senso anti-clericale, quando non atea del tutto o quanto meno volta a difendere e ad ampliare i diritti e le competenze dello Stato laico. Questo apparve l’unico apparato in grado di riformare un passato negativo. Prende avvio da qui un aumento delle competenze legislative e di giurisdizionalismo, come si chiamò il tentativo statale di contenimento dei poteri della Chiesa. Nel complesso il 700 segnò perciò nel mondo cattolico un crollo dell’egemonia ecclesiastica e una decisa affermazione di autonomia dello Stato. Nel complesso, la cultura settecentesca costituisce fondamentalmente il corpo centrale della cultura laica odierna, che cerca di risolvere i problemi prescindendo da credenze religiose, e che crede - nell’utilità della separazione tra Chiesa e Stato e - che sia possibile una soluzione generale dei problemi, perché gli uomini hanno sostanzialmente gli stessi diritti naturali e gli stessi bisogni, per il solo fatto di esser nati. Perciò si poté anche discutere con una ampiezza e una libertà prima inesistente di riforme giuridiche e istituzionali, che si realizzarono in Europa. Questo fu il grande dilemma degli intellettuali e dei governanti alle prese con quella che è stata chiamata la “crisi della coscienza europea”. E le soluzioni furono infatti tutt’altro che omogenee. Sul piano dei modelli gius-politici infatti si assisté in alcuni Paesi al diffondersi e al rafforzarsi dell’assolutismo politico, talora “illuminato”, ispirato a criteri riformatori per limitare privilegi di nobiltà e clero: è la strada seguita dai Paesi di lingua tedesca. D’altro canto si affermano anche pienamente nell’area anglo-americana, ordinamenti parlamentari di ispirazione liberale decisamente contrari ai primi. In mezzo tra questi due poli, i Paesi dove le riforme non riuscirono, si giunse quindi al pieno dispiegarsi dell’esperienza rivoluzionaria. Come fenomeno originario, la rivoluzione ebbe luogo in Francia, ma dalle armate napoleoniche essa fu esportata con tutto il suo corredo ideologico e ideale in (quasi) tutta Europa, provocando reazioni, recezioni, adattamenti: a quella furia non si poteva essere indifferenti, volenti o nolenti. Sul piano giuridico, collegato a questi drammatici eventi politici, si realizzarono le condizioni per: a) il trionfo del costituzionalismo sul pian gius-pubblicistico; da allora, la presenza di una costituzione cominciò ad essere ritenuta condizione essenziale per la civile convivenza da ampi strati della popolazione; b) il trionfo del passaggio da ordinamenti di diritto comune a ordinamenti a diritto codificato sul piano del diritto privato soprattutto; anche se non dappertutto e nello stesso modo, si può ben dire che “normalmente” si ebbe un profondo radicamento del progetto codificatorio, ritenuto complementare o addirittura più importante e condiviso di quello costituzionale. c) il pieno dispiegarsi in definitiva, tenuto conto dell’uno e dell’altro aspetto, del cosiddetto gius-positivismo, che comportò l’aumento del fenomeno legislativo ovunque. Si può perciò qui introdurre il concetto di consolidazione con cui gli storici odierni hanno etichettato le raccolte normative del 6700 che riordinavano materiali precedenti, novità, ma sempre restando all’interno del sistema del diritto comune. Queste raccolte, già viste per il 5-600, sono ora presenti ovunque. 2. L’avvio del 700 2.1 Sul piano culturale importanti sviluppi si stavano realizzando, sulla base delle solide premesse giusnaturalistiche e giusrazionalistiche seicentesche nei Paesi di Lingua tedesca. Dove bisogna porre attenzione a quanto avveniva in molti Stati dell’Impero avviati all’assolutismo illuminato grazie alla poderosa opera svolta sul piano culturale dalle università. Alcuni scrittori sono emblematici di questa stagione. Uno in particolare sembra riassumere il meglio della grande stagione seicentesca. 2.2 Christian Thomasius (1655-1728) Filosofo, giurista e docente di diritto nelle Università di Lipsia e di Halle, Thomasius sviluppò le idee iniziate dal Pufendorf: laicizzazione del diritto, difesa della libertà di coscienza, tolleranza religiosa. Si batté per l’esclusione dalla lista dei crimini punibili dallo Stato dei reati di eresia (1697), di magia (1701) e per l’abolizione della tortura giudiziaria (1705). La tortura giudiziaria, secondo Thomasius, va abolita perché: 1) è già una pena, e può ricadere su un innocente; 2) perché spesso viene usata da chi detiene il potere come mezzo di vendetta, e ciò non si confà ad uno Stato civile; 3) perché viola il diritto di auto-difesa; 4) perché può causare una falsa confessione; 5) perché è immorale ed inumana. Per Thomasius ciascun uomo è chiamato a vivere secondo i 3 criteri dell’Honestum, del decorum edel iustum. La prima sfera riguarda le regole di saggezza e di virtù, la seconda riguarda i rapporti di benevolenza e correttezza verso gli altri. Queste 2 sfere non possono però essere fatte oggetto di obbligo giuridico, al contrario della terza, che assicura il bene minimo della non conflittualità e della non violenza tra i soggetti. Quelle di Thomasius sono idee già illuministiche e liberali. 2.3 Christian Wolff (1670-1754) Si tratta di un matematico, filoso e giurista, che sviluppò e divulgò le idee seicentesche di Leibniz. Egli ritenne che le regole non dovessero essere differenziate sulla base dello status soggettivo. Riteneva necessaria l’esistenza di regole generali a cui si poteva derogare solo tramite le eccezioni. La sua idea di una parte generale del diritto, valida per tutti i cittadini, venne in seguito ripresa nella codicistica tedesca. La sua opera principale è Il diritto naturale trattato in modo scientifico del 1748. 2.4 Regno di Prussia Nata come Stato autonomo solo nel 500, quando un Hohenzollern, elettore del Brandeburgo, secolarizzò i beni dei cavalieri dell’Ordine Teutonico. In forte sviluppo proprio da fine 600 per aver accolto i protestanti in fuga dalla Francia, divenne Regno nel 1701, quando il suo Duca assunse il titolo di re senza le proteste dell’impero, dato che la Prussia era fuori dell’Impero, ma suscitando le proteste vivissime del Papa, secondo il quale un titolo del genere non poteva essere assunto da un protestante. Da allora soltanto la Prussia, con capitale a Berlino, grazie ad un poderoso esercito e una attenta politica mercantilistica, acquisì una posizione centrale in Germania. In Prussia, prima ancora del re Federico il Grande (1740-86), si attuò una gerarchia amministrativa unificata con burocrati professionali assunti in base a regole generali, a tempo pieno e regolarmente retribuiti: la Prussia passò così all’avanguardia per l’efficienza amministrativa diventando modello per potenti vicini in via di riorganizzazione. Il nuovo insegnamento rispondeva ad esigenze eminentemente pratiche, tese a formare quadri professionali competenti da impegnare nell’amministrazione pubblica o nelle forze armate. Il patrocinio statuale postulava la tutela del benessere e della felicità dei sudditi e la salvaguardia della sicurezza: la libertà sia in senso economico che politico procedeva unicamente dallo Stato. 2.5. Impero di Russia Non si può fare a meno di pensare alle riforme avviate in un paese arretratissimo da Pietro il Grande, zar dal 1696. Egli sostituì la Duma tradizionale con un Senato di nomina propria di 9 membri, controllò la Chiesa ortodossa, centralizzò l’amministrazione e suddivise l’Impero in province, creò una nobiltà di ufficio deprimendo quella di sangue, i boiardi, e fece divenire elettiva la corona per legge attribuendosene il diritto. 2.6. Regno Unito d’Inghilterra: consolidamento costituzionale Divenne oggetto di ammirazione in Europa. Nel 1701 il Bill of Rights venne integrato per il regolamento della successione al trono con l’Act of Settlement. Questo portò nel 1714 all’ascesa degli Hannover estintisi con la regina Vittoria nel 1901. L’atto del 1701 aveva stabilito che i sovrani dovessero essere protestanti e poiché la regina Anna era morta senza eredi protestanti, la successione passò a Giorgio I, figlio di un principe tedesco della casa Hannover, che arrivò in Inghilterra senza conoscere il paese e la lingua inglese. Da questo momento il Cabinet cominciò a riunirsi anche senza di lui. La fiducia del re divenne meno necessaria ed il governo si appoggiò sul Parlamento, divenendone espressione. Si poteva parlare di monarchia parlamentare anche se ciò non significa che la base sociale del Parlamento fosse ampia. Poteva votare solo il 2% della popolazione. Entro il 700 si ebbe uno sviluppo costituzionale compiuto. Dai primi del 700 si formò un sistema costituzionale parlamentare modello da studiare ed imitare. L’Inghilterra divenne un faro di civiltà anche perché favorita dal generale clima di libertà. Furono incoraggiati dibattiti culturali sull’organizzazione politico-sociale e sullo sviluppo socio-economico, accademie ed università entravano in una fase di vivacità e si sviluppava l’editoria scientifica e popolare destinata ad avere rilievo nella formazione di un costume democratico. Le opere di John Locke ebbero rapida diffusione ed il modello inglese diventò un mito mentre si diffondeva il pensiero scientifico di Isaac Newton e quello filosofico ed empirista, incoraggiante della ricerca scientifica dei fenomeni naturali, del filosofo David Hume. Egli ci interessa come difensore dell’utilitarismo, favorevole ad ogni analisi dei fenomeni sociali di tipo realistico e contrario alle teorizzazioni astratte. Perciò anche alla teoria del contratto sociale. Non è un caso che in Inghilterra si siano costituite le prime “logge” e nel secondo decennio del 700 si siano scritte le prime “costituzioni” massoniche, che prescrivevano fede in Dio di tipo deistico e solidarietà universale per il progresso dell’umanità. Il segreto delle procedure della Massoneria doveva servire a mettere al riparo da ritorsioni e permettere un’azione penetrante in ambienti dirigenti che non potevano rendere pubblica la loro affiliazione. La Massoneria assunse carattere radicale ed anticlericale nei paesi cattolici ove si scontrò con le istituzioni repressive d’Antico regime ancora pienamente operanti. 2.7. Altro motivo di ammirazione: le colonie Altri sviluppi di singolare interesse si potevano rintracciare nelle colonie d’Oltreoceano. Il caso della Pennsylvania, terra che aveva come capoluogo Philadelphia, ossia la città dell’amore fraterno, balzò presto all’attenzione degli osservatori più attenti in Europa. Questo territorio era stato donato dal re inglese a William Penn con una lettera patente che lo obbligava a consultare gli abitanti per le nuove leggi. Ebbene, nel 1701 i residenti costrinsero il concessionario a concedere a sua volta una carta. Libertà religiosa, felicità dei cittadini, rappresentanza, processo, proprietà: i cardini del vivere civile divenuti cardini di battaglia dell’Illuminismo europeo sono qui concentrati. Si capisce come si sia potuti giungere a pretendere dalla Madrepatria che venisse riconosciuto un potere autonomo alle Assemblee e che le assemblee americane dovessero acconsentire alla tassazione che riguardava le colonie. No taxation without representation. Facile capire perché la Pennsylvania sarà esaltata da Voltaire e da Filangieri. Era un passo avanti notevolissimo rispetto ad ogni assolutismo. 2.8. Un aspetto meno edificante: il commercio degli schiavi Il primato inglese nell’Atlantico fu rafforzato nel 700 quando si ebbe la crisi dell’Impero spagnolo. Non fu solo inglese un aspetto poco commendevole del colonialismo, la libertà di commercio degli schiavi, che ebbe alti e bassi per ogni paese in relazione alla posizione egemonica occupata in un certo contesto. Aspetto della crisi spagnola fu l’essere costretta nel 1713 a firmare il trattato sul asiento, che dette all’Inghilterra un monopolio commerciale internazionale sugli schiavi dall’Africa verso le Americhe. Fu in questo secolo che la tratta degli schiavi si avviò a divenire imponente in direzione delle colonie americane del sud, bisognose di mano d’opera. L’importazione degli schiavi fu imponente per l’America centrale e del sud, ove ebbe esiti meno traumatici per la convivenza. Essi vi rimasero meno numerosi; ciò avvenne per la mortalità provocata dalle condizioni disumane e per le fughe dei marrons (schiavi fuggitivi). 3. La rivoluzione culturale del primo settecento in francia Mentre c’erano sviluppi importanti in alcuni Paesi, altri erano invece ancora avvolti dalle pratiche istituzionali del passato. A partire dalla Francia, che diverrà il Paese sempre più al centro dell’attenzione e, alla fine anche, quello più lacerato dalle contraddizioni insanabili maturate. Qui infatti si ebbero sviluppi culturali rilevantissimi cui non corrisposero però le riforme istituzionali, sociali e del diritto che i governi poterono assicurare in Inghilterra e nei Paesi di lingua tedesca. I personaggi da ricordare da questo punto di vista sarebbero molti, ma 2 spiccano su tutti. Il primo perché strettamente attinente ai problemi giuridico-istituzionali, il secondo per la sua versatilità e genialità. 3.1 Montesquieu (1689-1755) Scrittore di enorme influsso in tutta Europa e America, fu Charles-Louis de Secondat, barone di La Brede e di Montesquieu (1689-1755), nome col quale è conosciuto. Egli per alcuni anni, grazie all’ereditarietà delle cariche, fu presidente del Parlamento di Bordeaux e come tale poté venire a contatto con le strutture dello Stato e della società francese del tempo, mentre si informava con attenzione di quanto avveniva altrove, specie in Inghilterra dopo la “gloriosa rivoluzione”, conclusa proprio quando lui nasceva. La sua opera (del 1721) Le lettere persiane, attraverso l’artificio di un romanzo, dipingeva i difetti della società francese del suo tempo. La sua opera maggiore è Lo spirito delle leggi, una specie di grande trattato sulla legislazione e sulle forme di governo, non dedicata alla Francia, né alla teoria della separazione dei poteri per la quale soprattutto divenne famoso. La sua analisi esaminò modelli istituzionali diversi, per cui viene ritenuto uno dei fondatori dello studio istituzionale comparato. In questo contesto teorizzò come esempio di “monarchia temperata” l’Inghilterra, vedendo nel suo sistema costituzionale quell’equilibrio di poteri capace di evitare la tirannide. Montesquieu non è un pensatore astratto come i giusnaturalisti, ma un analista delle istituzioni storiche concrete e giunto alla conclusione che l’equilibrio dei poteri garantiva tolleranza e libertà. Proprio per questo si deve a lui una critica serrata delle Repubbliche italiane del tempo (in particolare a Venezia), in cui governava una specie di “tiranno collettivo” che controllava ogni potere, ed in contrapposizione viene valorizzata la monarchia “temperata”. Per lui c’era da creare un sistema di poteri plurimi, bilanciati, che consentissero di evitare ogni arbitrio della nobiltà e monarchia. Da questo punto di vista può essere annoverato tra i padri del liberalismo, ma non va neppure dimenticata la sua rivendicazione di un forte potere legislativo, che limitasse i poteri dei giudici. Essi, infatti, dovrebbero solo applicare le leggi e non godere di alcun potere equitativo: devono essere bouches de la loi, bocche della legge. Interessante anche l’analisi critica da lui condotta sul sistema penale e processuale nell’Esprit, il cui assetto è di matrice laica e di impronta garantista: solo le azioni esterne sono passibili di persecuzione, le intenzioni e le parole non dovevano essere considerate rilevanti ai fini processuali e penali. Un suo seguace italiano può essere considerato il milanese Cesare Beccaria. 3.2. Voltaire (1694-1778) Educato dai gesuiti, con qualche studio giuridico, ma poi subito passato alle buone letture filosofiche, storiche e letterarie, dopo l’esilio cui fu costretto in Inghilterra (1726-28) e dove poté conoscere da vicino il liberalismo e l’empirismo, egli pubblicò le Lettere sugli Inglesi (sull’esempio delle Lettere di Montesquieu) sostenitrici della tolleranza inglese e del suo governo parlamentare e molto polemiche con il sistema politico-giuridico francese e per questo condannate al rogo. Un’altra delle realtà nuove pubblicizzate efficacemente da Voltaire fu la Pennsylvania, la colonia inglese americana che egli additò come modello di società giusta e razionalmente organizzata. Sul piano giuridico molto importante ed efficace fu la sua battaglia (vinta) per far rivedere il caso Calas, ossia la condanna che era stata inferta ad un calvinista di Tolosa, accusato di aver ucciso il figlio per evitare la sua conversione al cattolicesimo; la vicenda è raccontata nel suo Trattato sulla tolleranza, del 1763. 3.3. La Fisiocrazia Dal punto di vista culturale, importante è anche la Fisiocrazia (letteralmente, dominio della natura). Tale corrente di pensiero si sviluppò soprattutto in Francia, ma in Toscana con il senese Sallustio Bandini, autore d’un Discorso sulla Maremma, del 1737, in cui propugnava la libera esportazione dei grani per risolvere i problemi di quel territorio allora in piena decadenza e preda della malaria. La Fisiocrazia sosteneva l’esistenza di un “ordine naturale”; contro il mercantilismo, i fisiocrati sostenevano posizioni liberiste negando la necessità dei regolamenti economici, e sostenevano che non bisognava privilegiare l’industria ed il commercio con l’estero, ma incentivare la produzione agraria. Perciò era necessario favorire i produttori agricoli dando loro libertà di commercio e garantendo loro la proprietà della terra. Che veniva intesa espressione suprema dell’individuo. Il pensiero fisiocratico influì anche su quello giuridico e più in generale sulla politica del diritto dei legislatori, nel senso di liberare la proprietà fondiaria da ogni vincolo, quelli feudali in particolare. L’idea era che solo gli imprenditori non gravati da corvées (gravami) feudali potessero essere produttori sani economicamente. Veniva quindi esaltato il diritto di proprietà. Però questa impostazione, contemporanea a crisi economiche e carestie favorì una ripresa delle tradizionali ideologie comunistiche del passato, ora rinnovate nel linguaggio e spesso anticlericali a differenza del passato, quando aveva una chiara impronta religiosa. In Francia questi orientamenti furono soprattutto difesi dagli illuministi, come philosophes Mably e Morelly. In questo contesto si può anche ricordare il “mito del buon selvaggio”. Ciò era appunto l’indigeno di aree ancora non “civilizzate” del globo, che non era stato contaminato dalla civiltà corrotta e decadente d’Ancien régime. Da lui si poteva imparare moltissimo, perché non conosceva i condizionamenti di cui da secoli erano responsabili la Chiesa e la nobiltà. Tutto ciò alimentava una cultura di apertura universale favorita anche dalla diffusione della Massoneria, che ebbe molti adepti tra i philosophes. Essa fa parte integrante di questo mondo innovatore, che ha preso il nome di Illuminismo, che in Francia preparò il detto “libertà, fratellanza, uguaglianza”. 3.4. Diritto scritto e diritto consuetudinario L’egualitarismo e universalismo di questa cultura illuministica strideva con la situazione francese del tempo, caratterizzata dai privilegi del clero e della nobiltà feudale, difese dalle istituzioni tradizionali come i Parlamenti. Se da un lato, l’ordinamento politico francese si presentava come un organismo statuale accentrato, dall’altra registrava ancora l’antica frattura di un sistema legislativo che si fondava su diritti parzialmente confliggenti in molti istituti giuridici tra i più rilevanti: il “diritto scritto” di derivazione romana in vigore nel sud, e quello consuetudinario di origine germanica vigente nel nord. Nel Midi, dal diritto romano si traeva una concezione più autoritaria della famiglia; con il paterfamilias cui veniva accordata un’autorità pressoché indiscussa rispetto agli altri. La proprietà veniva concepita come un principio pieno ed assoluto teso all’esclusione di profili di dominio collettivo. Inoltre le disposizioni testamentarie accordavano al de cuius la completa e totale volontà di determinare il destino dei propri beni. Nei “paesi” del settentrione, le consuetudini prevedevano una concezione della famiglia con un’attenuazione del potere accentratore del capofamiglia. La condizione giuridica della donna non contemplava l’amministrazione esclusiva ed incontrollata del patrimonio affidata al capo e l’istituto della dote. La concezione della proprietà era meno individualistica rispetto ai principi romanistici, con forme di disponibilità collettive dei beni. Il diritto successorio era contrassegnato da una minore libertà del testatore. Inoltre le diffusissime giurisdizioni signorili-feudali e quelle ecclesiastiche agivano da fattori disgreganti dell’unità del Paese. Il diritto feudale per i privilegi e diritti sia personali che reali da esso previsti e il diritto canonico su scala anche più ampia intervenivano sul regime giuridico cui erano assoggettate persone e beni. Ad esempio, sottraeva al diritto comune la regolamentazione del diritto matrimoniale. In questa situazione di estremo particolarismo, ci furono varie sollecitazioni tese all’unificazione legislativa nel corso del XVIII secolo, ma incorsero nella resistenza dei ceti privilegiati. Questi, ritardavano la registrazione delle Ordonnances regie finalizzate alla costituzione di un unitario corpus legislativo, oppure le disapplicavano di fatto. Paradossalmente, nonostante i vari impulsi di riforma del diritto civile poste in essere ad opera di privati o di incaricati ufficiali, prima del Code Napoléon, la Francia riporta il fallimento quasi integrale di ogni impegno sistematico salvo le riforme dovute all’iniziativa del potente cancelliere del Regno D’Aguesseau (m. 1751). Questi fu un giurista operante come scrittore negli anni 20 e 30 del secolo sul problema della sistematizzazione dei contenuti normativi. Il suo approccio era pragmatico e di un moderato riformismo, per cui pensò fosse necessario procedere alle riforme affrontando singoli settori. Perciò preferì cominciare con le donazioni laddove si poteva contare su un istituto caratterizzato dalla semplicità ed il ridotto contrasto tra i principi del diritto romano e quelli del diritto francese. La sua opera proseguì in 3 grandi Ordonnances che investirono rami importanti del diritto privato, il regime delle donazioni, dei testamenti e dei fedecommessi, rispettivamente nel 1731, 1735 e 1747. Importanti leggi, perché esse unificavano il diritto francese in questioni privatistiche essenziali, superando così la frammentazione delle coutumes e lo scontro tra esse e il diritto romano del Sud; inoltre perché la loro disciplina mostrò che anche il diritto privato poteva essere investito dalle riforme; molti aspetti di queste normative furono poi recepite entro il Code Napoléon. Ma rimanevano fuori i contratti, successioni e famiglia; di qui il successo che continuava a riportare l’opera razionalizzatrice di Domat, tutta tesa a ridisegnare il sistema giuridico. Essa fu sviluppata da un giurista che divenne famoso non solo in Francia, ma in ogni Paese a diritto codificato, e realizzata in alcuni settori privatistici dal cancelliere Daguessau. 3.5. Robert Joseph Pothier (1699-1772) Pothier è il grande continuatore settecentesco dell’opera di Domat, considerato il pére du code civil francese del 1804. I redattori del Code civil si ispirarono a lui, attingendo dalle sue opere, come: 1) Pandectae in novum ordinem digestae (1748-1752, cioè Le pandette risistemate), ispirata dal Daguesseau, una rielaborazione in chiave razionalistica del Digesto, come quella programmata dal Leibniz, ma con tratti caratteristici: chiarezza espositiva, richiami in capo a ogni titolo alle sedi parallele e ai sommari ad essi preposti; 2) l’edizione commentata della Coutume d’Orleans (1740), in cui tratta il diritto consuetudinario francese in generale; 3) una lunga serie di trattati su materie di diritto privato, obbligazioni e proprietà in particolare. Fu il teorico di una metodologia nuova consistente nell’unificazione descrittiva dei diritti distinti. Egli sottopose il diritto scritto e consuetudinario ad un trattamento che rendeva più sfumate e meno notevoli le differenze tra i due mondi giuridici. Pothier dette una diversa interpretazione di determinati istituti privatistici tradizionali. Valorizzò come proprietario il possessore che utilizzava il bene, e quindi l’imprenditore. È una inversione del modello tradizionale di proprietà, che preparò culturalmente l’eliminazione dei diritti feudali durante la Rivoluzione francese, cioè durante il droit intermédiaire. A differenza di quanto teorizzava il mercantilismo, per Pothier la vera ricchezza di un Paese era nella produzione agricola, perché portava ad una valorizzazione dell’impresa, realizzabile solo con la piena proprietà dei mezzi di produzione. 4. L’Italia nel primo 700: pre-illuminismo Il nostro Paese pagava allora lo scotto della stagnazione seicentesca. Che fu tale, ma non significò sempre anche una crisi completa da un punto di vista culturale se solo pensiamo alla ricerca storica svolta in più sede significative, ma anche all’arte e all’architettura del barocco, e ai suoi fasti a cominciare da Roma e senza trascurare tante altre città. Per il diritto, il contesto politico-istituzionale pesava però in senso negativo, tendendo a consolidare gli equilibri esistenti. Nei limiti in cui ci fu, il rinnovamento degli studi giuridici in Italia nell’ultimo scorcio del 600 e soprattutto nei primi decenni del secolo successivo trasse alimento dai nuovi fermenti culturali e scientifici. Vennero recuperate e ripensate le metodologiche umanistiche strutturate su canoni dell’esegesi delle norme del corpus giustinianeo, dell’interpretazione storica e degli accertamenti filologici. Questo indirizzo innovatore, si delineò per la sua coscienza critica che faceva proprie e valorizzava le suggestioni speculative derivanti dal giusnaturalismo e dal cartesianesimo. Gli indirizzi ‟antiquari” si congiunsero con le indagini basate su fondamenti scientifici e di carattere filosofico di nuova generazione, inserendosi così all’interno del più vasto contesto culturale europeo. In questo contesto intellettuale il giurista riformatore vestì i panni del letterato e dell’uomo di scienza. Le nuove inclinazioni non andavano disgiunte anche dalla condivisione di interessi di natura giuspolitica: emergevano i lineamenti di una riflessione che proponeva una ridefinizione del diritto, dei rapporti fra governanti e governati, della funzione dello Stato. Si assiste ad un impegno di esegesi e di studio dalla pura teoria si cala più decisamente nella realtà del tessuto sociale. Ma questi furono sviluppi limitati, eccezionali. La regola ce la dà ad esempio Venezia, che pure non aveva università e non si considerava terra di diritto comune: non per questa assenza della cultura tradizionale di diritto comune poté brillare per spirito innovativo. Si consideri che a fine 600 vi si era pensato di raccogliere in oltre 200 volumi (!) le leggi veneziane, e poi si finì, nel 1729, per rieditare gli statuti civili e criminali antichi con rinvii alle loro correzioni nel corso dei secoli. Nel complesso nella Penisola la coltre di conformismo imposta dal clima politico e controriformistico si sentiva o se ne sentivano gli effetti. Le eccezioni furono sostanzialmente solo due in quel primo 700: i domini sabaudi e la Toscana. 4.1. Terre di riforme a) Domini sabaudi In Italia, l’intervento più fortunato del tempo si deve ai Savoia, ormai in ascesa sul piano internazionale e decisi a interessarsi prevalentemente delle loro fortune in Italia, ma attenti a quanto avveniva nei Paesi europei vicini. Già negli anni 10 del 700, il Sovrano con un Editto del 1717 provvide ad un generale riassetto istituzionale ispirato ad una visione centralistica dell’apparato statale. Venne riordinato il Consiglio di Stato e le 3 Segreterie degli Interni, degli Esteri e della Guerra. Un’altra disposizione regia diede una nuova struttura alle Aziende finanziarie e a quelle della Real casa: delle fortificazioni e delle Artiglierie. Costituì un organo collegiale, il Consiglio delle finanze, con funzioni di controllo e sovrintendenza anche della politica economica. Attraverso il costante impegno degli amministratori governativi, si delineò un nuovo modello culturale orientato verso la formazione di un personale competente ed esperto nelle scienze del governo, che si concretizzò, nel corso del terzo decennio del XVIII secolo, in riforme modernizzanti la scuola e l’università guardando ai migliori modelli stranieri. Ma l’intervento per noi più significativo fu del 1723, quando il nuovo re di Sardegna Vittorio Amedeo II di Savoia pubblicò la prima versione delle Leggi e costituzioni di sua maestà il re di Sardegna. La struttura delle Leggi e costituzioni fu ispirata dal ministro della guerra Andrea Platzaert e fu l’esito della solerzia riformistica di più giuristi che elaborarono un impianto giuridico di ordine sistematico seguendo la prescrizione sovrana di esprimersi in termini concisi e chiari, generali e astratti: il programma di Wolff. L’opera comprese incisive riforme che dettero un nuovo volto al dominio dei Savoia in materia di diritto privato, feudale e fiscale, che erosero il primato del diritto comune. Il testo non venne esteso ai territori sardi in virtù del trattato che al momento dell’acquisto aveva vincolato il Sovrano al rispetto della legislazione e delle consuetudini vigenti nella regione. Si prevedevano disposizioni nuove in tema di fonti. Nella prima revisione dell’opera il sovrano sancì il divieto per avvocati e giudici di citare negli atti le autorità dottrinali (opiniones); era possibile solo il richiamo delle disposizioni normative. La strada della certezza del diritto passava attraverso una giustizia certa. Il sovrano dispose che in mancanza di norme espresse i giudici fossero tenuti a ricorrere alle decisioni già pronunciate. Siamo allo stare decisis esplicito. Dalle norme sabaude derivò la tradizione vigente di non poter citare i dottori. b) Granducato di Toscana Dove i tentativi di riforma legislativa globale non ebbero successo, come a Napoli, fu nel Granducato di Toscana, che passò dalla dinastia dei Medici, estintasi, a quella dei Lorena con Francesco, marito di Maria Teresa imperatrice d’Austria, nel 1737. Nel contesto italiano a Pompeo Neri spetta il riconoscimento di aver compiuto una delle più accurate, storicamente e filologicamente corrette riflessioni sulla codificazione. Incaricato dal Granduca Francesco Stefano di Lorena, l’abate fiorentino nella bozza del giugno del 1745, segnava la via di una formulazione legislativa contrassegnata da un cauto riformismo e chiariva, nelle sue linee essenziali, il retroterra teorico che avrebbe ispirato il suo impegno legislativo. L’insuccesso non destò polemiche. Probabilmente, la situazione della giustizia non era così drammatica come altrove, grazie in particolare alla giurisprudenza delle Rote, di Firenze e di Siena. Qui tuttavia i nuovi funzionari granducali attuarono molte riforme sui feudi, sui fedecommessi, sulla manomorta ecclesiastica e sugli enti pii, lottando contro la selva di istituti da “repubbliche” che ancora si trovarono vigenti nelle varie città toscane. 4.2. La cultura delle riforme Qualche personaggio di spicco legato ai dibattiti internazionali non mancò, per cui echi di giurisprudenza colta francese, elegante olandese e usus modernus tedesco poterono farsi strada. Va segnalato, il primato culturale napoletano e quindi Gian Vincenzo Gravina, giurista di formazione cartesiana, autore delle Origines juris civili pubblicate nel 1701-1708, storia del diritto che analizza fonti, giurisprudenza ed istituzioni nel loro divenire storico. Pietro Giannone va ricordato, perché può riguardarsi come caposaldo del giurisdizionalismo napoletano. Il suo anticurialismo giunse nel Triregno ad auspicare la soppressione del papato. Nel 700 Napoli vide l’arrivo di Carlo di Borbone che avviò una serie di riforme destinate a lasciare un ricordo tenace tra gli illuministi napoletani, educati dall’insegnamento di Antonio Genovesi, sacerdote illuminato, filosofo e teorico del commercio, sensibile all’empirismo di Locke, mentre un posto a sé spetta Giovan Battista Vico, famoso per la teoria dei corsi e ricorsi storici. Sul piano delle riforme tentate va ricordato un Codice Carolino, riorganizzazione dei tradizionali materiali normativi civili, criminali, processuali e amministrativi risistemati nel quadro dei 12 libri del Codice giustinianeo, predisposta da un giurista conservatore. L’impegno della commissione incaricata della stesura del codice del Regno procedette con difficoltà e lentezza fino a fine 700. Venuta meno la prospettiva di una riforma radicale si andavano diffondendo le premesse per un esito compromissorio. Nel progetto pubblicato nel 1789 le previsioni normative erano in latino e lo stile si presenta ancora discorsivo: oscillava fra un censimento delle prammatiche regie e una codificazione di riforma. Era una tipica “consolidazione”. 4.3. Pisa: Giuseppe Averani (1662-1738) Giuseppe Averani, si può accostare per le sue speculazioni giuridico-istituzionali al Gravina: Professore a Pisa e figura dal profilo intellettuale assai eclettico, Averani appartiene a pieno titolo alla dinastia dei novatores. Formatosi alla scuola umanistica, nella sua opera principale, le Interpretationes iuris (1716-46), proclama l’opportunità di attingere alle fonti originali la ratio del patrimonio legislativo romano; le sue interpretazioni rispondono all’esigenza di rendere evidente l’eredità spirituale di ragione ed equità racchiuse nell’ordinamento. 4.4. Modena: Ludovico Antonio Muratori (1672-1750) Ludovico Antonio Muratori è il principale storico italiano del secolo, autore della grande raccolta delle cronache italiane del Medioevo, di trattazioni storiche di una erudizione e acutezza che facevano recuperare all’Italia il tempo perduto nei confronti della grande storiografia straniera del 6-700. Muratori, bibliotecario del duca di Modena ma anche giurista, aveva dovuto fare ricerche per una celebre contesa riguardante la sovranità sulla laguna di Comacchio e aveva studiato a fondo l’opera di De Luca. Inviò anche una famosa lettera all’imperatore Carlo VI nel 1726, sollecitando il suo intervento contro il caos normativo del diritto comune e suggerendogli di compilare un nuovo codice di leggi: va sotto il nome di De Codice Carolino. Ma il risultato più maturo delle sue riflessioni si ebbe con Dei difetti della giurisprudenza, un trattato del 1742, che sollevò subito le proteste tradizionali. L’opera non voleva sovvertire il mondo del diritto comune. Muratori vi proponeva solo una serie di provvedimenti all’Imperatore che mettessero fine all’incertezza delle opinioni dottrinali e giurisprudenziali su questioni di diritto privato da lui elencate in 100 punti, sulle quali non era più sopportabile l’arbitrio dei giudici. Egli infatti sosteneva che “i giudici sono divenuti padroni ed arbitri della giustizia…Il peggio è l’esser giunto il credito di questi novelli legislatori così in alto che più alla loro sapienza si presta fede che alla legge stessa”. Sosteneva anche che i giudici si permettevano persino di privilegiare il diritto romano contro la stessa legislazione dei loro sovrani. Il fine che si proponeva Muratori nei Dei difetti della giurisprudenza corrispondeva appunto ad una sostanziale contestazione di un sistema giudiziario reso incerto dalla proliferazione senza controllo delle opiniones degli esegeti, dall’indeterminata normativa, dalla prolissità dei processi e dalla arbitrarietà con cui questo stesso diritto veniva amministrato. Muratori aveva piena coscienza dell’inevitabilità dei commenti esplicativi per ogni sistema normativo, sia per l’insanabile ambiguità della legge, sia per l’emergere di sempre nuove fattispecie. La critica era rivolta alle ambiguità dell’impianto giudiziario provocate sia dalla discordanza e dal volume delle interpretazioni, sia dalla condotta dei giudici, accusati di render giustizia sulla base dello status degli aventi causa. I Difetti constano di una preliminare illustrazione del modello gius-politico vigente che “per l’astrusa verità delle cose” mostrava difetti intrinseci e difetti estrinseci. I primi erano considerati dall’autore oggettivamente insanabili a causa delle difformi interpretazioni fornite dai giuristi, l’oscurità di molte leggi, la carenza delle fattispecie astratte, la complessità nell’individuare la volontà del legislatore. I difetti estrinseci erano causati dalla proliferazione delle subtilitates degli esegeti. Tuttavia queste ultime mende potevano essere ovviate vagliando le più accreditate opiniones. È evidente che i motivi ispiratori dell’abate di Vignola richiamano la politica del giusto mezzo. L’esigenza di chiarificazione di semplificazione legislativa, infatti, non escludeva le leggi giustinianee e le norme di diritto patrio; mirava piuttosto ad una rielaborazione dell’ordinamento vigente che obbedisse ai canoni della precisione e della certezza. Muratori appartiene al pre-illuminismo, o all’assolutismo illuminato, quello che fa dipendere le riforme dalla volontà dei sovrani, e non affronta comprensibilmente il nodo del superamento del sistema del diritto comune. Ma ci sono i tipici spunti riformatori del tempo, l’ansia ad esempio di assicurare con le sue richieste la “pubblica felicità”, perché ora si è “straziati dalle liti, alle quali non si vede mai fine”. Facile pensare agli argomenti che gli furono opposti da Giuseppe Aurelio De Gennaro, nobile di toga, giudice della Vicaria napoletana, è il giurista che coglie la legge immanente nell’uomo. Per De Gennaro bisogna approfondire il diritto romano, che è conforme al diritto di natura, più che far tanti interventi legislativi. Bisogna studiare, non solo osservare l’esteriorità delle leggi. Sulla stessa linea Francesco Rapolla che ne 1744 pubblicò una sua Difesa della giurisprudenza, in cui rimprovera i letterati di pretendere di fare i giuristi. Nonostante il dissenso che traspare con evidenza rispetto ai giudizi del Muratori, non va però accentuato il conflitto fra i 2 Autori. Il saggio di Rapolla tendeva a dimostrare che i “difetti” non erano da imputare alla “giurisprudenza” generalmente intesa, ma agli “uomini”, agli operatori che, impreparati ed incompetenti e per di più privi di ogni scrupolo morale, disattendevano la ratio degli ordinamenti giuridici. A parere del Rapolla occorreva più “educare gli interpreti” che ricorrere ad una riforma legislativa. 5. Tra riforme e rivoluzione: la seconda metà del 700 Le istanze riformatrici furono vivaci nei Paesi che giunsero all’assolutismo politico, si ebbe un’accelerazione dei processi istituzionali e sociali, favoriti dalla serie di guerre di successione che comportarono impegni militari e capacità di organizzazione amministrativa e di prelievo fiscale. La Chiesa perdette la sua egemonia. 5.1 Il ridimensionamento della Chiesa: giurisdizionalismo Fu in crescita esponenziale il giurisdizionalismo, con cui si indica la particolare politica e legislazione dello Stato nei confronti della Chiesa, con la formazione di un diritto ecclesiastico, cioè un diritto dello Stato disciplinatore della Chiesa e dei suoi enti in opposizione al diritto canonico. Si voleva impedire che il clero s’ingerisse nelle faccende temporali, ma essendo Stati confessionali con una religione ufficiale, bisognava restringere l’area della giurisdizione ecclesiastica, allargando quella statale. Fu entro questo contesto che si giunse anche all’eliminazione di alcuni ordini religiosi “contemplativi”, ritenuti parassitari, incamerandone i beni (la c.d. manomorta ecclesiastica) o trasferendoli a Roma, oppure si legarono i vescovi ai sovrani incoraggiando la formazione di Chiese nazionali, come era stato il caso di Giuseppe II. Quest’ultimo dette vita al c.d. giuseppinismo, che fu un orientamento volto al controllo rigoroso e burocratico sull’operato del clero in modo da assicurarne correttezza, efficienza e moralità al servizio dei fedeli. Perciò, bersagliati dalle innumerevoli critiche degli illuministi, i Gesuiti finirono per essere espulsi da vari Paesi nel corso del secondo 700, ritenuti troppo legati a Roma e troppo condizionanti la politica e la cultura. Funsero in realtà anche un po’ da capri espiatori delle crisi del tempo, e il loro Ordine fu infine persino soppresso dal Papa nel 1773 (poi fu ricostituito nel 1814). Si riuscì più facilmente a far chiudere l’Inquisizione (non ovunque), a restringere il privilegio del foro per il clero, a sopprimere il diritto d’asilo nelle chiese per i delinquenti, ad affermare il rigido controllo della politica di acquisti da parte delle chiese. Per realizzare questi fini un passaggio inevitabile era la riduzione dei privilegi nobiliari ed ecclesiastici di fronte al rafforzamento dello Stato. E qui cominciavano, naturalmente, le difficoltà politiche. Che ci conducono ad operare una distinzione fondamentale, pur rimanendo la tendenza generale dei governi a operare attivamente nella modernizzazione delle strutture statali e nel cercare di superare il clima di disordine, privilegio e fanatismo fino ad allora imperante (ad es. vengono meno solo ora i processi di stregoneria). 5.2 Due tendenze nell’Illuminismo Ci furono 2 filoni dell’Illuminismo. Quello di area tedesca fu razionalistico ma rispettoso dei ceti sociali diversificati ed operante a favore dello Stato e delle burocrazie. Esso poté rivendicare i propri diritti nei confronti della Chiesa e venne ordinato sul piano amministrativo e burocratico. Questo riordinamento è alle origini dell’efficienza asburgica e tedesca. C’è un Illuminismo di tipo francese, più attento ai contenuti, alle riforme sociali, anche se congiurante con l’Illuminismo tedesco nel rafforzare i diritti dello Stato di fronte alla Chiesa e nell’affermare il primato della legislazione. Troviamo solo in area tedesca riordinamenti legislativi finalizzati più ad una maggiore certezza del diritto che ad una riforma dei contenuti. Si raggiunsero alti livelli col cameralismo grazie a Joseph Sonnenfels, autore dei Principi fondamentali della scienza di polizia, del commercio e delle finanze. Questi sviluppi furono favoriti dalla generalizzazione dell’insegnamento dei diritti nazionali nelle università, che introducono nuove discipline. Si pensi al diritto naturale e delle genti, strumento di critica del diritto vigente. Nel 600 fu presente solo in Germania nella facoltà di lettere e successivamente si diffuse a macchia d’olio. In Italia ebbe sviluppo tardivo, nel secondo 700, ostacolato dalla Chiesa che temeva che diminuisse il ruolo del diritto canonico. A ragione, perché è quanto avvenne nell’800. Si pensi al diritto penale, processuale, feudale e pubblico. Da noi si radicò l’insegnamento secondo criteri umanistici del diritto romano. La scienza e cultura razionalistica e laica ebbero sviluppo fuori dalle università, nelle accademie letterarie e scientifiche, nelle aggregazioni di ricercatori e scrittori svincolate dal controllo delle autorità religiose e politiche. In Italia ed altrove contribuì al movimento illuminista la Massoneria. Di ogni istituzione bisogna definire gli ideai e poi esaminare come vennero attuati, tenendo presente metodologicamente 1) che è normale la eterogenesi dei fini, per cui un’istituzione può finire per realizzare fini diversi da quelli programmati, 2) che lo storico deve fare come il giudice istruttore: non fidarsi, cercare e ricercare, senza farsi ingannare dalle testimonianze compiacenti. I nuovi universalismi razionalistici favorirono polemiche degli illuministi e la diffusione delle associazioni filantropiche contro il commercio schiavistico; esso cominciò ad essere ostacolato e ridursi quantitativamente. 5.3. Regno Unito d’Inghilterra Il Paese ammirato da Montesquieu finiva per costituire un’eccezione con il nuovo universalismo razionalistico illuminista. Egli non era un innovatore ma un riformatore in politica, cosa che non guastava presso l’élite inglese del tempo. Influì molto sul più grande giurista del secolo, Sir William Blackstone, autore dei Commentaries of the laws of England, i Commentari del diritto d’Inghilterra, nei quali illustrò gli istituti del diritto inglese con rinvii alle decisioni giudiziarie precedenti utili ancora oggi per i giuristi di common law. Ebbe modo di mostrare l’aderenza del diritto inglese alla ragione ed al diritto naturale, quasi a difenderlo dalle accuse dei “razionalisti” continentali. Blackstone fu il primo docente di diritto inglese all’Università di Oxford. Oltre a lui il secondo 700 inglese è noto per un giudice cui si deve una novità, l’unificazione del diritto delle obbligazioni, ossia dei contratti. Durante l’Antico regime era normale la duplicazione delle corti, di diritto comune e commerciale, corrispondenti alle relazioni (obbligazioni) istituite tra privati o tra o con commercianti. L’Inghilterra deve ad un giudice deputato ai Commons e poi Lord, Lord Mansfield, una serie di decisioni prese come Chief Justice del King’s Bench, che inglobarono i criteri commercialistici entro il common law, gli usi mercantili che dovevano essere provati come meri “fatti” cominciarono ad essere considerati vere norme ed armonizzati con i principi di common law. Ciò fu possibile perché i tempi erano maturi per far trionfare nella società inglese i principi dei commercianti: tutela del credito, le assicurazioni, l’interesse all’esecuzione specifica, la tutela dell’acquirente. Il paese non ebbe bisogno di cambiare il sistema giuridico. Il common law medievale poté adattarsi al nuovo sistema socioeconomico senza rivoluzioni con corredo di codificazioni e costituzioni scritte. Il cambiamento innestò altre contraddizioni. Il 700 inglese fu rigido quanto al diritto penale, perché fu assicurata dallo Stato una repressione della criminalità, cresciuta nelle città al centro della rivoluzione industriale e di un inurbamento selvaggio delle campagne. La repressione trovò un teorico, Henry Fielding, autore di un’Inchiesta sulle cause dell’’incremento delle rapine. Dal mondo inglese emerse il più fortunato critico della Rivoluzione francese, Edmund Burke, autore delle Riflessioni sulla rivoluzione francese, in cui condannò l’astrattezza illuminista e difese il common law, visto come unico baluardo allo strapotere dei nuovi parlamenti rivoluzionari. 5.4. Regno di Prussia All’opposto del conservatorismo inglese possiamo porre il riformismo razionalistico del nuovo Stato prussiano. Qui si proseguì con le riforme iniziate nel primo 700. Il re Federico il Grande, ereditò dal precedente sovrano il cancelliere Samuel Coccejus, cui affidò la stesura di un codice redatto in base al diritto naturale e ripudiante la tradizione romanistica. Incarnando il buon sovrano voluto da Voltaire, in un Discorso del 1750, sostenne di volere una legislazione chiara e precisa, che evitasse ogni arbitrio applicativo, molto puntuale quando si trattasse di norme penali e con pene proporzionate: il re voleva la “pubblica felicità” dei sudditi. Perciò attuò riforme giudiziarie importanti (3 senati), che professionalizzarono l’amministrazione della giustizia e garantirono l’uguaglianza di fronte ad essa dei sudditi, che godettero dell’indipendenza garantita dall’impero della legge, con sentenza motivata, l’assistenza d’ufficio per i poveri e i soldati, la conciliazione obbligatoria prima del processo, etc. Da queste riforme prende origine il Regolamento giudiziario generale del 1781-93, che delinea il processo moderno, il superamento del processo romano-canonico scritto, il fondamento degli sviluppi processuali ottocenteschi in Germania. Invece la riforma del diritto privato sostanziale su basi naturalistiche non fu approvato. Non entrò in vigore perché di esso si criticava l’eccessivo egualitarismo, che non teneva conto dei privilegi di ceti e città, e la mancanza di chiarezza precettiva, come sostenne polemicamente la scuola di Wolff. Il risultato migliore delle riforme prussiane fu più tardo, del 1794, ossia fu l’ALR (sigla che indica il Diritto territoriale generale per gli Stati prussiani. Si tratta di un codice (in tedesco) importante, perché eliminò il diritto comune e si pose esso stesso come diritto comune per i vari territori componenti il Regno; inoltre perché presenta una parte generale iniziale molto tecnica e raffinata con un’introduzione generale sulla legge, sulle fonti del diritto e sull’interpretazione. La prima delle altre 2 sezioni disciplinava i diritti delle persone, delle cose, i negozi giuridici e le disposizioni mortis causa, il diritto penale e quello feudale. La seconda regolava il diritto di famiglia, le successioni ab intestato, le corporazioni e gli enti politici. Inoltre sono comprese norme di tipo amministrativo, commerciale ed ecclesiastico. Il diritto penale veniva incluso nella raccolta civilistica in virtù del pregiudizio causato da un’azione illecita. Le norme penali erano stabilite dallo Stato, a tutela del corpo sociale. Oltre al sistema delle fonti, l’ALR prevedeva: - Che il giudice dovesse attenersi alla lettera della legge e valutarla in rapporto alla connessione dei termini; - Che lo status giuridico dei sudditi derivava dalle condizioni della nascita, salvo ad essere modificato da atti o eventi capaci di produrre conseguenze giuridiche. Di qui l’arcaicità di questo codice, che fotografò la situazione sociale i istituzionale esistente (ha, infatti, norme specifiche per i nobili, contadini, cittadini) e di città, dovendo così divenire estremamente dettagliato e articolato avendo persino norme che entrano nella vita privata della coppia. Tuttavia, fu eliminato in Prussia solo nel 1900, quando entrò in vigore l’attuale codice civile tedesco, il BGB, ossia il “Libro delle leggi civili”. 5.5. Regno di Baviera Nello stesso tempo in Baviera – Stato di grande tradizione, in piena ascesa nel 700 - si assisteva alla redazione di notevoli testi riformatori sotto la direzione del vicecancelliere von Kreittmayr. Nel 1751 fu la volta del Codex iuris bavarici criminalis e nel 1753 del Codex iuris bavarici judicialis. Quest’ultimo, dedicato al diritto processuale civile, era solo una risistemazione del diritto vigente, mentre il primo, penalistico, sostituiva in toto la legislazione precedente. Avanzato da un punto di vista tecnico, non lo fu rispetto ai contenuti, infatti prevedeva ancora i reati di magia ed eresia, nonché la tortura! Nel 56 fu pubblicato il Codex bavaricus civilis, con norme in lingua tedesca, chiare e precise, ma anche questo non eliminava il diritto comune che per le materie regolate. La Baviera tornerà alla ribalta legislativa nel 1813 con un codice penale molto moderno. 5.6. Impero d’Austria Riforme importanti si ebbero contemporaneamente anche in Austria con Maria Teresa d’Asburgo, attraverso la razionalizzazione dell’amministrazione finanziaria, giudiziaria e burocratica, e l’imparzialità della legge assicurata per tutti i ceti. Uno dei suoi primi provvedimenti stabilì la separazione della giurisdizione dall’amministrazione (1749). La disposizione era strumentale al consolidamento della burocrazia, perché mirava a svincolare l’amministrazione pubblica dagli impedimenti dovuti al diritto vigente e alla sua applicazione in seno ai vari organi giurisdizionali. Vennero anche abolite le due cancellerie tradizionali, boema e austriaca, e istituito un organo centrale, una Direzione sugli affari pubblici ed economici, cui erano sott’ordinate le strutture periferiche. Fu inoltre creato un supremo Dicastero di giustizia che ricopriva il ruolo di ministero e di tribunale superiore. Il Consiglio di Stato divenne un organismo di supporto monarchico ai fini del compimento delle riforme. Si delineò, su queste basi, la suddivisione fra pubblico e privato e la pratica del governo si avviava a divenire un monopolio statale. La riforma della legislazione andava verso una definizione dei rapporti fra Stato e società, tramite la precisazione di uno jus certum e l‟affermazione dell’autonomia civile dalla politica. Perciò si tentò di raggiungere la certezza e l’unificazione del diritto. Si cominciò con il Codex Theresianus del 1766, tripartito sul modello gaiano-giustinianeo delle Istituzioni (persone, cose, azioni). Esso è importante perché adottò la lingua tedesca e fu limitato al solo diritto privato, con esclusione del diritto feudale. Il suo difetto è che fu di oltre 8 mila articoli. Si tratta però di un codice di impianto moderno, perché la consuetudine vi ha spazio solo se richiamata, e nelle materie disciplinate si abrogava tutto il diritto previgente. Il cancelliere von Kaunitz si oppose però alla sua entrata in vigore: si voleva un codice più snello e più tecnico. Nel 68 si ebbe un successo con una riformulazione del diritto penale previgente; si previdero figure uguali per tutti i reati, mentre le pene rimanevano sempre distinte per ceto. Ci fu solo una tendenza al soggetto unico di diritto penale. 5.6.1. Giuseppe II Le tiepide istanze di razionalizzazione legislativa che emersero all’interno del progetto di riforma condotto da Maria Teresa, con Giuseppe II si fecero più pressanti ed incisive. I lineamenti generali della riforma delle strutture statali cui mirava Giuseppe II si basavano su elementi di fatto acquisiti tramite una conoscenza diretta della realtà sostanziale. Convinto che il benessere sociale dipendesse dal dirigismo dello Stato, i suoi precetti gli apparivano come gli unici e validi per eliminare un passato troppo conservatore. L’impegno riformista del Sovrano si muoveva entro le linee dell'assolutismo illuminato. Ma il punto più alto di questo impegno si ebbe con promulgazione del Codice penale del 1787, che rispecchia fedelmente le convinzioni del Sovrano. Infatti, vi si consolidano i profili utilitaristici della pena e, di converso, si affievoliscono quelli umanitari. In materia civilistica Giuseppe II riuscì a compiere un codice civile, ma i suoi interventi furono assai incisivi. In particolare: - l’editto sul matrimonio (1783 che sancì il carattere civile dell’unione, ora passibile di scioglimento; - gli editti sulla libertà personale, per cui in varie regioni fu abolita la servitù della gleba; - gli editti relativi alla mobilità dei beni (con l’abolizione dei fedecommessi); - gli editti del 1784 e 86 che sancirono la cessazione del monopolio delle corporazioni. Molti di questi provvedimenti adottati in Francia apparvero del tutto rivoluzionari, contrari a ogni tradizione. 5.7. Regno di Francia Siamo nel cuore dell’Illuminismo. Fondamentale fu l’efficacia sul piano culturale dell’Encyclopédie, ovvero del Dizionario ragionato di scienze, arti e mestieri, diretto da Diderot e D’Alembert, a cui collaborano lo stesso Voltaire, D’Holbach e Rousseau. Essa comportò la riscrittura del sapere del tempo, perché tutte le credenze vennero sottoposte a una critica razionalistica. Gli enciclopedisti non risparmiarono i loro attacchi ai Gesuiti, ma anche la tortura e la tratta dei negri, che essi ritennero incivile, finì nel loro mirino, come del resto il diritto romano, considerato un diritto del tutto inadeguato alla modernità. Ma tanta “modernità” non sfondò sul piano delle istituzioni, come mostrò la censura dei Parlamenti e l’incapacità riformatrice del governo regio. Perciò fiorivano le dottrine sul come risolvere il problema dell’arretratezza istituzionale della Francia. Tra gli infiniti scrittori del tempo uno ha avuto largo influsso negli anni a venire. 5.8. Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) Il ginevrino con il suo Del contratto sociale del 1762 fu un filosofo influentissimo in più direzioni. Alla base di ogni società, egli sostenne, c’era il famoso “contratto sociale”. Ma col contratto gli uomini avevano alienato tutti i loro diritti naturali, universali, in modo definitivo così come asserito da Hobbes. Al contrario di quest’ultimo, per Rousseau gli uomini dovrebbero ricevere poi tali diritti dalla società e dallo Stato come diritti individuali e garantiti (proprietà, libertà, uguaglianza). È possibile quindi un uso “liberale” del pensiero di Rousseau. Ma c’è anche nella sua dottrina l’idea che tutto dipenda dalla volontà generale, espressiva dei voleri popolari, di fronte alla quale ovviamente l’individuo scompare. Da qui deriva l’uso “giacobino”, rivoluzionario di Rousseau, contro la legge che non sia espressiva della “volontà generale”, ma anche il pericolo di asservimento dell’individuo al volere delle istituzioni. Insomma, Rousseau poté essere “usato” per le dittature giacobine, così come dal comunismo totalitario. Ma prima di allora le sue teorie poterono essere saggiate nel laboratorio effervescente della prima grande rivoluzione del 700: quella delle colonie inglesi in America. 6. Il conflitto delle colonie americane con la madrepatria Il conflitto di interessi tra le colonie divenne esplicito a metà 700. Ad esempio la Francia dovette cedere alcune colonie a Londra e le colonie della costa americana pensarono subito di espandersi nei loro territori. Londra decise di riservare quei territori alle compagnie commerciali. Dal 1763 il Parlamento di Londra approvò vari provvedimenti che incidevano sulla libertà di commercio e sul trattamento fiscale delle colonie: con il Prohibition Act, il Quartering Act e lo Stamp Act. Quest’ultimo, la legge sul bollo, imponeva una tassa senza il consenso delle Assemblee delle colonie ed avrebbe finanziato i Governatori che si sarebbero resi indipendenti dalle Assemblee locali. Conflitto che si protrasse fino al 1773 per il Tea Act, quando una nuova legge inglese riservò ad una compagnia il commercio del te. Ciò portò a Boston alla distruzione di un carico inglese. Il Governo inglese rispose con reazioni forti, creando 4 leggi intollerabili, che toglievano garanzie procedurali e diritti di libertà. Nel 1774 si ebbe il I Congresso di Filadelfia, assemblea dei rappresentanti delle 13 colonie, un atto rivoluzionario, perché l’assemblea intercoloniale non era prevista dal diritto. Questo Congresso, con un atto inconcepibile revocò le 4 leggi terribili in nome del diritto naturale ed in nome della stessa Costituzione. Il Congresso chiese a Londra di istituire un organo rappresentativo per tutto l’Impero Britannico, altrimenti i Parlamenti delle colonie si sarebbero autoconvocati. Di fronte al rifiuto nel 1775 scoppiò la guerra e si ebbe l II Congresso di Filadelfia, che tentò un accordo con una Petition of Rights in cui si chiedeva alla Madrepatria di rinunciare alle imposizioni fiscali o di fare un Parlamento comune o un’Assemblea per le colonie a Londra. Di fronte alla chiusura del governo inglese si giunse ad una rottura e le colonie aprirono i porti a tutti i Paesi, rompendo il privilegio inglese del commercio: gli Atti di navigazione, le leggi regolanti il commercio marittimo. Queste vicende destarono impressione in Europa, stimolando riforme o dibattiti in materia. 7. Teorie e realizzazioni dell’Illuminismo italiano Da noi proseguirono gli equilibri istituzionali e sociali maturai nei secoli fino al 1796. L’Italia dava prova di una stabilità eccezionale. Ma la necessità delle riforme, si avvertiva largamente e i governi degli Stati preunitari erano comunque partecipi del generale riformismo del tempo, sul piano della legislazione, delle competenze statali, sul piano amministrativo e fiscale. 7.1 Regno di Napoli Abbiamo visto una discrasia tra sviluppi culturali e riforme giuridico-istituzionali per il primo 700 e analoga situazione si ebbe nel secondo 700. Ad esempio, non andò in porto il Codice marittimo predisposto nel 1781 da Michele Jorio. Nonostante tutto l‟impegno del ministro Bernardo Tanucci, ispiratore dei tentativi di riforma nel Regno, il Regno di Napoli rimase irriformabile e non a caso ci sarebbe stata la svolta drammatica della Repubblica partenopea del 1799. Tanucci era stato chiamato dall’Università di Pisa presso cui insegnava e si impegnò fermamente nell’impresa, pensando che la priorità assoluta era la riorganizzazione delle magistrature. L’esito non fu esaltante, ma riuscì comunque in alcune imprese. Dall’espulsione dei Gesuiti dal Regno alla legge sulle manomorte, nonché di un provvedimento sulla motivazione delle sentenze disposto con i famosi dispacci regi del 1774. Essi stabilivano che i giudici dei tribunali superiori dovessero 1) motivare e, 2), in tale sede fondarsi su “le leggi espresse del Regno e comuni”, anziché sulle “nude autorità de’ dottori”; 3), in caso di lacuna, rivolgersi al sovrano, con la consueta idea del réfééè législatif. L’originalità dei provvedimenti tanucciani si individua nella “generalità dell’obbligo di motivazione”, nel “vincolo espresso del giudice alla legge positiva”, e nella “pubblicità intensamente sanzionata della sentenza e dei motivi”. Inutile dire che corti (a partire dal Sacro Real Consiglio), opposero una strenua resistenza al provvedimento. Tanto forte che nel giro di pochi anni dovette essere revocato. Ma l’idea che la riforma comprendesse anche la discrezionalità di giudici e dottori era ormai ben diffusa. 7.2. Gaetano Filangieri (1752-1788) In questi anni queste idee erano largamente diffuse entro il ceto intellettuale napoletano. Gaetano Filangieri, teorico del diritto e autore d’una Scienza della legislazione, incompiuta, ma importante per sottolineare come organizzare una legislazione egualitaria per tutti i cittadini e il ruolo dello Stato nell’eliminazione delle disuguaglianze. Nel titolo del trattato sono sintetizzati i principi ideali che caratterizzano la speculazione giuridico-filosofica dell’autore, Filangieri intendeva quel complesso normativo che la ragione e l’esperienza proponevano per il consorzio sociale. Secondo l’autore scienza e governo costituivano un binomio inscindibile: l’analisi normativa non poteva esser più condotta tramite la sola tecnica del giurista o del filologo, ma necessitava della prospettiva politica: “unendo i mezzi alle regole e la teoria alla pratica” si poteva realizzare un “sistema compiuto e ragionato della legislazione”. Qualsivoglia piano di riordinamento del diritto non poteva astrarre dall’effettivo contesto socio-economico. In questo senso la riorganizzazione normativa sollecitava il ricorso all’empiria per giungere ad un punto di equilibrio fra “coloro che niente vogliono mutare” e “coloro che vorrebbero tutto distruggere”. Quanto alla questione penale, Filangieri prospettava un duplice intervento di riforme: “trovare un metodo di procedura il più semplice che sia possibile e quindi venire all’esame delle pene proporzionandole alla qualità ed al grado” dei delitti. Perciò recepisce in pieno le sollecitazioni illuministiche. In materia processualistica, l’autore rende evidente le carenze speculative della disciplina, ponendo in relazione il modello romano con quello cosiddetto moderno (procedura di diritto comune), non trascurando, tuttavia, gli istituti di origine germanica e la legislazione settecentesca. 7.3. Mario Pagano (1748-1799) e la Repubblica partenopea Fu amico strettissimo di Filangieri e autore dei Saggi politici dei principi , progressi e decadenza della società (1783-85), incentrati sui problemi della libertà ma anche dell’uguaglianza, e delle Considerazioni sul processo criminale e dei Principi del codice penale pubblicati postumi. Fu giustiziato nel 1799 con altri 120 “patrioti” imprigionati, caduta la Repubblica giacobina, dai Borbone rientrati a Napoli grazie all’ammiraglio inglese Horatio Nelson. Ma prima di quella conclusione il geniale Pagano aveva contribuito a scrivere il Rapporto giustificativo della costituzione della Repubblica – in particolare per motivare adeguatamente le deviazioni dal modello francese allora vigente. Un pezzo di grande interesse, che esprime bene la passione di quei momenti ma che la più larga cultura costituzionale di quei decenni, in equilibrio tra l’eredità antica e le novità imposte dai Francesi. In fondo sono un esame analitico della tradizione delle “antiche repubbliche” e del modello allora imposto dai Francesi. 7.4. Ducato di Milano A quello di Napoli corrispose per vivacità e ricchezza di temi l’Illuminismo milanese. A Milano operarono in particolare, oltre al più fortunato Cesare Beccaria, i fratelli Verri, Pietro e Alessandro, fondatori di una battagliera rivista, Il caffè (1764-66), che in campo giuridico si segnalò per il duro anti-romanesimo, che voleva allora dire richiesta di leggi nuove, chiare, uguali per tutti, come in penale chiedeva il Beccaria. Nei primi anni 70 del 700 questi giovani studiosi si consacrarono all’analisi e all’aperta critica della vita civile del tempo. Gli interventi critici sul diritto elaborati dagli accademici non rispondono ad un modulo sistematico, ma si profilano piuttosto come sporadici e discontinui. Tuttavia all’interno dei spunti polemici si intravvede una linea ideologica coerente che tendeva ad inserire entro gli schemi riformistici di ordine politico la “questione giuridica”. Pietro Verri nel periodico Il caffè, oltre ad esprimere il proprio biasimo della mentalità fondata sui pregiudizi, procedeva ad operare una distinzione tra il ruolo della legge considerata come “ordine pubblico del Sovrano che obbliga le azioni de’ sudditi generalmente” e quello del giudice che doveva essere “servo della legge e mero esecutore di essa letteralmente”. Il criterio risolutivo era da rintracciare nel rendere i giudici “servili esecutori”. Entro questo circolo Cesare Beccaria con l’opera Dei delitti e delle pene (1764) dette un contributo fondamentale al movimento di riforma. Il libro ebbe un immediato successo, sia in Europa che in America. In poche, fitte, pagine riuscì a condensare le istanze illuministiche relative a riforme profonde del diritto e della procedura penale: la presunzione di innocenza, il principio nessun reato, nessuna pena, senza una specifica previsione legislativa, l’abolizione della tortura giudiziaria, delle pene inutilmente crudeli e della pena di morte. Lo scritto racchiude lo sdegno morale che suscitava il corso della giustizia criminale del tempo. L’originalità Dei delitti e delle pene quindi consta soprattutto nella struttura dell’opera che coordina singoli motivi censori (l’esortazione a mitigare le pene, il ruolo attribuito al giudice ecc.) in un insieme ordinato che coinvolge l’intero sistema penale, sostanziale e procedurale. Il trattato auspicava un assetto normativo in cui le leggi dovevano tutelare i diritti individuali: “non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”. Il suo motto era “la maggior felicità per il maggior numero di persone”. Gli echi delle impostazioni teorico-pragmatiche del Verri e del Beccaria che segnalavano un sistema penale in crisi e le complesse articolazioni della repressione criminale furono ben presto intesi dalla Corte viennese. Già nel 1766, infatti un dispaccio di Maria Teresa aveva affidato al Senato lombardo l’incarico di predisporre un piano di riforma del sistema giudiziario lombardo. Nel 1781, il Kaunitz reiterò le istanze riformistiche, ma ancora una volta non ebbero alcun esito. Solo nel 1786 le misure di revisione giudiziaria e legislativa divennero radicali con l’ascesa al trono asburgico di Giuseppe II. L’intervento riformatore del Sovrano si articolò in 2 momenti distinti che si sintetizzano nella revisione del sistema processuale e nella integrale sovrapposizione del Codice penale austriaco, alla normativa in materia criminale vigente in Lombardia. Nel 1786 fu emanata la Norma interinale del processo criminale. In origine considerata provvisoria in attesa del varo del codice penale giuseppino. Nella raccolta si individuano le linee concettuali illuministico-assolutistiche del Sovrano che prevedevano: - l’abrogazione della normativa previgente; - il principio di legalità; - la subordinazione del giudice alla legge; - l’unicità del foro per tutti i sudditi; - il mantenimento del sistema delle prove legali; - il mantenimento del sistema inquisitorio con attribuzione al magistrato della facoltà di ricorrere a pene arbitrarie in relazione agli status sociali. Il testo normativo rimase vigente sino alla promulgazione del Codice di procedura penale del Regno italico del 1807. Il Codice penale austriaco (la cosiddetta Giuseppina), all’opposto, non entrò mai in vigore nei territori lombardi. Il testo della Giuseppina prevedeva la soppressione della tortura ed una significativa restrizione dell’applicazione della pena capitale; istituiva il principio della legalità della pena; vincolava inflessibilmente il magistrato alla legge penale. Era contraddistinto da un rigido carattere intimidatorio per il rigore delle sanzioni detentive e corporali. Nonostante l’inflessibile determinazione del Sovrano, la promulgazione del codice fu differita reiteratamente a causa delle forti resistenze sia del Supremo tribunale di giustizia, che dei funzionari di governo, come il Beccaria, allora consigliere del governo, sia del certo dirigente che lo attorniava, orientato verso un cauto e soprattutto graduale riformismo. 7.5. Granducato di Toscana L’altro polo in cui l’opera del Beccaria trovò positivo riscontro nella pratica legislativa fu la Toscana in cui dal 1765 venne a trovarsi insediato un geniale figlio di Maria Teresa d’Austria: Pietro Leopoldo, che arrivò al punto di progettare una costituzione da concedere al suo Stato. L’esperienza istituzionale della Toscana di Pietro Leopoldo fu profondamente segnata dalle teorie fisiocratiche, ma anche dal flusso di stimoli provenienti dalle esperienze europee del tempo (a cominciare dalle pagine illuminate di Federico II di Prussia), e dai tentativi delle “assemblee provinciali” poste in essere in Francia dal ministro Necker che sperimentavano una sorta di costituzionalismo per evitare il (futuro e prossimo) disastro rivoluzionario. Ma alla vigilia della redazione del suo Progetto di costituzione, Pietro Leopoldo analizzò con cura quanto la scienza di governo allora offriva. Le formulazioni progettuali esaminate dal sovrano si ampliarono fino a vagliare un assetto statale che andava ben al di là delle rappresentanze d’Antico regime. L’idea centrale era basata sulla rappresentanza “nazionale”. L’architettura della rappresentanza si articolava in un triplice ordine di assemblee: le prime delle comunità riformate secondo criteri censitari (che mettevano in un angolo la nobiltà), le seconde delle province e la terza nazionale. Il sistema elettivo prevedeva che la prima assemblea eleggesse la seconda e la seconda la terza. Il potere accordato ai componenti dell’assemblea risultava relativamente limitato, perché i voti espressi ottenevano forza di legge solo se ratificati dall’accordo del Sovrano. Il quale si riservava anche alcune prerogative ritenute essenziali per lo Stato, a partire dal potere esecutivo, pur impegnando se stesso e i suoi successori all’osservanza con giuramento della Costituzione. Per lui la volontà della “nazione” era data dalla somma della volontà dei sudditi. Con l’approssimarsi della partenza per Vienna (1790), però il Sovrano sospese bruscamente questo complesso percorso istituzionale, già ostacolato dalla burocrazia conservatrice che temeva di esserne colpita nei suoi privilegi. Ma gli appunti redatti dal Gabinetto fiorentino in merito alla questione, seguirono l’Imperatore a Vienna, segno evidente di una persistente costanza dell’impegno sovrano in questo senso. In altro campo, invece, il suo successo fu completo. 7.5.1. La Leopoldina A Pietro Leopoldo si deve infatti la sempre lodata Riforma criminale del 1786, che realizzava richieste dell’élite politico-culturale europea. Essa per la prima volta abolì esplicitamente la pena di morte e la tortura giudiziaria. Perciò fu subito esaltata in tutta Europa per aver recepito le istanze della grande-piccola opera del Beccaria. Ora, è ben vero che essa non solo non eliminava il diritto comune, che interveniva quando tortura e pena di morte già da anni trovavano in Toscana un’applicazione ridottissima, e che le sue innovazioni furono messe tra parentesi, nel clima reso sospettoso in Europa dalla Rivoluzione francese, dopo la partenza dalla Toscana per Vienna di Pietro Leopoldo nel 90. Ma intanto aveva eliminato anche la confisca dei beni, l’indeterminatezza delle pene e la molteplicità dei delitti politici. Per quanto riguarda la procedura aboliva il giuramento da parte dell’imputato, limitava il mandato di cattura ai soli delitti puniti con pena afflittiva, riconosceva il diritto dell’imputato all’audizione di propri testimoni, vietava per il giudice di servirsi di prove privilegiate e obbligava il giusdicente ad attivarsi per una sollecita definizione del giudizio. Il processo rimase comunque ancora inquisitorio. Occorreva o una pubblica accusa o una querela, o un referto medico. Il notaio criminale svolgeva l’attività istruttoria in assoluta segretezza e solo una volta formulata l’accusa e raccolto il materiale probatorio venivano pubblicati gli atti, consentendo all’imputato di difendersi anche attraverso l’assistenza di un avvocato. Un’altra disposizione della Leopoldina avrebbe potuto risolvere molti problemi del diritto comune senza doverlo eliminare come sistema giuridico. Infatti il granduca dispose che il diritto comune si potesse applicare in caso di lacuna ma secondo lo spirito umanitario e innovatore della sua Leopoldina. In sostanza il rapporto tra diritto comune e diritto locale veniva in questo modo invertito: il primo diveniva l’eccezione. In questo modo la portata riformatrice di una legge non si sarebbe potuta sminuire in sede interpretativa. 7.5.2. Tentativo di codice civile Dove invece il granduca Pietro Leopoldo non riuscì fu nel portare a compimento le aspirazioni all’unificazione normativa, miranti a superare la frammentarietà normativa degli statuti locali. Infatti, nel 1787 incaricò Giuseppe Vernaccini di compilare un Codice della legislazione generale del Granducato di Toscana, ma il proposito legislativo non giunse a conclusione. Tuttavia, è interessante notare che questo funzionario, nel tracciare preliminarmente i criteri sistemativi entro cui si doveva disporre il materiale normativo, si discostò dalla tradizione romanistica sulla via tracciata dal pensiero giusnaturalistico. Segno che il riformismo asburgico aveva fatto ampia breccia. Il codice non vide mai la luce e continuò quindi la vigenza del diritto comune e degli statuti locali fino all’arrivo dei Francesi. 7.6. Ducato di Modena L’altro Stato in cui si ebbero sviluppi riformatori, anche se meno clamorosi, fu quello estense. Qui, lo scritto del Muratori del 1742 rafforzò i tentativi legislativi riformatori sul tipo piemontese. Una prima raccolta di Provvisioni e grida si era già avuta a metà 700, ma essa fu seguita poi, nel 1771, dal ben più notevole Codice di Leggi e costituzioni, denominato normalmente Codice estense. Esso razionalizza il materiale esistente, affermando rigorosamente il primato della fonte sovrana come fonte esclusiva di legislazione, ma accogliendo anche norme privatistiche penali, processuali, e senza porsi il problema del superamento del diritto comune. A differenza delle costituzioni piemontesi, viene però con esso eliminato il diritto locale configgente con la legislazione sovrana. Per i dubbi in sede applicativa si ricorrerà al Supremo Consiglio di Giustizia, ossia al tribunale più elevato dello Stato, che alla fine di ogni anno passerà alla stampa le sue interpretazioni vincolanti “come se fossero fatte da Noi medesimi”. L’istituto delle Dichiarazioni del Supremo Consiglio è uno dei primi esempi di tecniche processuali ispirate alle ideologie che sollecitavano la separazione del sistema legislativo da quello giudiziario. Eliminate in periodo francese, e sostituite dai codici napoleonici, le Costituzioni ritorneranno in vigore con la Restaurazione e solo nel 1851 verranno sostituite, alla vigilia dell’Unità d’Italia, dal Codice civile estense del 1851. PARTE QUARTA: L’800 TRA COSTITUZIONI, CODICI E DOTTRINA Capitolo 1: CODICI E SCIENZA GIURIDICA EUROPEA DELL’800 1. Verso l’800: 2 tradizioni di fronte ai giudici Il riformismo e costituzionalismo iniziati col 700 comportarono un accento sulla legislazione ed uno stacco dal passato, dalle tradizioni che legittimavano i privilegi della nobiltà e del clero. Bisognava andare al di la di quanto assicurato dalla tradizione, dalla consuetudine, sottolineando il potere assoluto del sovrano, fosse il Re o il Parlamento, e della legge. Iniziò un’ampia produzione legislativa sconosciuta nel passato quando il diritto privato era appannaggio dei giuristi ed il legislatore si affidava a loro, ma si affermò che la legge era la principale fonte del diritto. È questo quello che alcuni storici chiamano assolutismo giuridico, che trionfò e si diffuse con gli “Stai di diritto” dell’800. Si introdussero le garanzie di libertà del cittadino ed i vincoli costituzionali al potere. L’assolutismo legislativo non portò a trascurare il problema dei limiti del potere. L’esaltazione della legge e della “volontà” generale in Francia portò al Terrore rivoluzionario prima ed poi in Russia al bolscevismo. I fini buoni hanno giustificato i mezzi, le limitazioni dei diritti individuali proclamati nelle costituzioni: si rinviava a tempi migliori il rispetto di fatto dei diritti riconosciuti sulla carta. Il processo di costituzionalizzazione degli Stati europei seguì all’affermazione del primato della legge su ogni altra fonde del diritto (stabilità del diritto). Tale primato risolse anche i problemi di diritto privato: si ebbe la statizzazione del diritto privato, che riguardò anche il diritto commerciale, il quale nell’800 fu diritto fatto dallo Stato. Il primato della legge si affermò sia perché si volevano riformare le strutture del passato, sia perché si doveva reagire allo strapotere dei giudici di Ancien régime, aspetto connaturato alla formazione giudiziaria del diritto priva di controlli politicosociali. Prima delle codificazioni, il diritto si evolveva per lo più grazie alle decisioni dei tribunali. Quando a fine 700 in Francia ed altrove si vollero riformare le strutture di Ancien régime, i giudici furono visto come tutori del vecchio sistema e nemici delle riforme. Esiste una differenza tra la situazione anglo-americana e quella continentale, dato che i giudici nella prima erano visti come tutori del cittadino e delle libertà, mentre da noi, come nemici delle riforme disposte a favore del cittadino. Era così spianata la strada per la codificazione moderna napoleonica. 2. Il Code Napoléon La monarchia francese grazie all’assolutismo aveva mediato gli interessi di nobiltà e borghesia e aveva potuto 1) accentrare lo Stato dal punto di vista amministrativo, prima di Napoleone; 2) unificare, statizzandolo, il diritto commerciale con Luigi XIV e certe materie del diritto privato. Per il resto il diritto era gestito dai giuristi e dai tribunali e retto da consuetudini e dalla tradizione romanistica. Fu la Rivoluzione a porsi il problema della codificazione contro i privilegi di ceto, quindi avrebbe potuto mettere mano ad un’area del diritto privato intangibile, come matrimonio e famiglia, fino ad allora sotto l’influsso della Chiesa tridentina. Il risultato della Rivoluzione fu la laicizzazione del diritto e dello Stato, che poteva intervenire in questi settori prima preclusi. Perciò il matrimonio contrattuale statale entrò a far parte della vita quotidiana come vi entrò la possibilità del divorzio, introdotto col Code Napoléon per prima volta; divenne normale l’anagrafe civile, prima curata dai parroci tridentini. I rapporti patrimoniali tra coniugi trovarono regolamentazione nella legge, la quale individuò la famiglia come la prima cellula autoritaria della società, posta sotto l’autorità del padre e marito, che doveva sovrintendere all’attività giuridica della moglie, ritenuta non all’altezza delle sottigliezze giuridiche, con l’autorizzazione maritale ai suoi negozi giuridici. L’operazione di “statizzazione” del diritto privato riuscì grazie alla Rivoluzione col Code Civil approvato nel 1804 detto Napoléon per ossequio all’Imperatore dei Francesi che intervenne attivamente per la redazione. Il Codice doveva costituire una “Bibbia del cittadino”, che l’avrebbe accompagnato negli affari giuridici dalla nascita alla morte, che doveva essergli comprensibile e perciò fu scritto nella lingua nazionale. Napoleone volle assicurare il superamento degli estremisti di sinistra del passato e le inconcludenze del governo del Direttorio. Il Codice vuole dare l’idea di una società pacificata ed unificata basata sul consenso (e ne ricevette tantissimo, è il bonapartismo), sicura perché ordinata, popolata di proprietari e buoni mariti e padri con a disposizione strumenti giuridici per far valere il buon senso patriarcale. Il Codice è incentrato sulla proprietà, sui suoi modi di acquisto e di trasferimento da parte del cittadini, figura astratta ed unitaria creata dalla Rivoluzione e non rinnegata da Napoleone. L’unico soggetto di diritto era il cittadino. Napoleone creerà una nobiltà, clero, miliari e commercianti continueranno ad esistere ma lo status soggettivo non doveva comportare regole diverse ai fini privatistici. Sul piano pubblicistico le differenze continuarono, dato ad esempio che le leggi elettorali assicuravano l’elettorato a chi aveva un certo “censo”, una certa ricchezza. Il ricco, il nobile, il clochard avevano uguali strumenti a disposizione dal punti di vista privatistico, rinvenibili nel Code. Strumenti a disposizione di tutti in tutte le parti del Paese. Non ci sarebbero state differenze tra Bretoni e Provenzali ma un unico diritto privato uguale per tutti, che eliminava la divisione tra paesi di diritto scritto e di diritto consuetudinario. Ciò giovò al senso di Nazione dei francesi ed alla penetrazione della propaganda portata all’estero da Napoleone. Il Codice napoleonico è stato esaltato come un capolavoro giuridico e linguistico. Stendhal raccomandava la lettura a Balzac. Esso ha avuto un successo enorme e fu imitato in America latina e nei Paesi socialisti, oltreché in Europa continentale. Si presenta come “legge di ragione”, approvata dalla volontà generale del popolo più che dai giuristi. Il codice doveva fornire un argine ai poteri dei giudici, che dovevano divenire bouche de la loi (bocca della legge). In attesa di questo testo alcune leggi dovevano operare in questo senso. Il Code è frutto di un’opera di semplificazione di 4 progetti, alcuni troppo casistici, altri troppo astratti. Risulta un punto di equilibrio tra questi 2 estremi ed è rimasto modello di redazioni delle norme giuridiche ancora seguito nella tradizione giuridica continentale di civil law. La “regola” codicistica non deve essere troppo generale ma neppure troppo casistica, dovendo applicarsi ad una categoria intera di situazioni future ed imprevedibili. Il Code mirava ad una società nuova e dava concretezza alla libertà ed all’uguaglianza giuridica se non proprio alla fratellanza. I francesi riuscirono a costruirsi l’immagine di coloro che si sacrificano per portare ovunque il nuovo Verbo, per spezzare le catene che hanno vincolato le energie “naturali” degli uomini. La novità di questa ideologia è dimostrata dalla facilità con cui trovò accoglienza all’estero, sollecitando contro le dinastie di diritto divino regnanti il sorgere di nuclei di “patrioti” pronti a trasferire localmente il Verbo rivoluzionario per creare la Grande Nation affratellata contro il passato oscurantista. Era un Verbo moderato ma rivoluzionario di fronte ai regimi d’Ancien régime e perciò i loro sostenitori si dissero ugualmente giacobini. È questo il germe confuso da cui si svilupperanno i moti liberali e risorgimentali in Italia. Anche se i francesi furono localmente autoritari ed a favore del centralismo parigino al punto da provocare risentimenti estesi sfocianti in sanguinose rivolte non c’è dubbio che la loro propaganda a favore dei diritti dei cittadini e dei popoli in rivolta contro i governi dispotici, contro i signori feudali ed i nobili del passato e a favore di una fratellanza che andava al di là delle Nazioni storiche contribuirono alla diffusione del razionalismo moderno ed egualitario prima appannaggio di ristrette élites. Anche se di fatto tradirono gli ideali propagandati, con i fermenti introdotti in Europa, i Francesi finirono per contribuire a creare l’orizzonte ideale che sostanzia la civiltà contemporanea. Contro sottovalutazioni della Rivoluzione si può dire che la Rivoluzione e Napoleone sono collegabili agli eventi grandiosi dell’800 e 900, ai movimenti nazionali, liberali e democratici ovunque radicatisi. Fu stimolo di vicende diverse ed anche drammatiche, come il socialismo sovietico, ma con un minimo comune denominatore: 1) la dimensione di massa dei fenomeni sociali, 2) il loro temporalizzarsi, secolarizzarsi, l’essere ancorate ai problemi terreni. Il Code è ancora più importante delle Costituzioni francesi portate dalle truppe perché le costituzioni mutarono con frequenza, in relazione ai mutamenti politico-istituzionali decisi a Parigi (prima Repubbliche locali, poi monarchie collegate all’Impero napoleonico) mentre il Code espresse una normativa in accordo con bisogni sociali profondi. La politica modificava in continuazione gli equilibri giuspubblicistici, anche se diffuse l’idea che ogni Paese civile deve avere una sua costituzione, mentre il diritto privato può apparire immobile, naturale, una volta che è riuscito ad esprimere l’ordine della natura descritto da Domat e dai Fisiocratici. Operazione ideologica con la traduzione sul piano privatistico delle aspirazioni illuministe, che avevano presente un uomo astratto, naturale, al di la delle qualificazioni socio-economiche. Operazione bollata come conservatrice da chi si rende conto che il soggetto unico del codice è una forma mistificante, perché comporta di oscurare le diseguaglianze reali presenti nella società, dato che il clochard non avrà mai modo di utilizzare né i contratti né il testamento. Intanto si è creato un quadro legislativo favorevole alla libertà economica, perché si può comprare e vendere tutto, ora che si sono aboliti i feudi, le manomorte, le primogeniture ed i fedecommessi. La proprietà venne liberalizzata e messa sul mercato. Da qui vengono fuori i ceti di piccoli e medi proprietari rurali che ha avuto importanza enorme nella storia di Francia. Il Code è individualistico e borghese che non solo basta a trasferire la proprietà, ma guarda con sfavore alla comproprietà perché si riteneva che non consentisse una buona gestione dei patrimoni. È il codice del mercato come era pensato allora, agricolo, che lancia un segnale politico inequivocabile. Durante la Restaurazione, dopo il crollo dell’avventura napoleonica, il Codice fu riguardato come un baluardo di importanza “costituzionale”, perché garantiva un quadro civile, di libertà socio-economiche, anche se non accompagnate da quelle politiche come la libertà di stampa, di associazione, ecc. 3. Gli altri codici napoleonici: di commercio in particolare Il Codice civile non fu l’unico codice napoleonico. Seguirono quello penale a quelli di procedura civile e criminale, fino a quello di commercio. Con essi il principio codificatorio si impose nel diritto relativo ai privati interessati a superare l’incertezza ed arbitrarietà dell’Ancien régime e della giustizia. I codici davano garanzia di certezza, specie quello penale, ma non sempre erano innovativi come quello civile. Quelli di procedura derivarono da una razionalizzazione, riformazione e modernizzazione delle Ordonnances di Luigi XIV. La Rivoluzione portò la novità della giuria, momento di valorizzazione del “cittadino” che veniva giudicato dai suoi pari. Per quello di commercio si può parlare di influsso della legislazione tardo seicentesca. Bisogna richiamare il discorso fatto per l’Inghilterra, che unificò il diritto delle obbligazioni favorendo lo sviluppo del capitalismo. La dicotomia dei 2 codici è rimasta in Francia e Germania. In Francia il Codice di commercio napoleonico fu dipendente dall’Ordinanza del commercio e della marina di Luigi XIV. Il Codice civile rappresentava la normativa per il cittadino “normale”, che era un proprietario terriero che comprava per sé e non per speculare. Su quella proprietà era incentrato il codice. Rifletteva una società agricola. Quando a metà 800 comincerà a diffondersi la società industriale il Codice era per alcuni aspetti invecchiato: non prevedeva una disciplina per il rapporto di lavoro inteso come locazione e cominciò ad attirarsi le critiche dei giuristi e del socialismo giuridico. La società più dinamica dei traffici, la borghesia degli affari e del capitale mobiliare, era prevista dalla normativa come disciplina speciale rispetto a quella ordinaria del codice civile in Francia. Ciò significa che i valori civilistici erano prevalenti e quelli commerciali in minoranza. Il codice di commercio francese non poteva aspirare ad assumere l’importanza di quello civile perché disciplinava: • Solo gli atti di commercio, le compere per rivendere, i cambi, le operazioni di banca, le mediazioni, le costruzioni; • I commercianti che facessero quegli atti professionalmente e che venivano sottoposti a regole a tutela dei contraenti, come le regole sul fallimento e sui libri di commercio. Che fosse una disciplina secondaria lo si vede da come si svolgeva la concorrenza tra i 2 diritti. Se l’attore di una causa era un commerciante contro un altro, nulla quaestio: si andava al tribunale di commercio; se era contro un cittadino doveva convenirlo nel tribunale civile; se era un cittadino l’attore, poteva scegliere a quale corte rivolgersi e se andava in quella di commercio si applicava in prima istanza il codice civile e per quanto non disposto il codice di commercio. Le corti commerciali erano più accessibili perché rapide e meno costose, potendosi evitare il patrocinio del legale, ma ciò non toglie che il diritto commerciale fosse poco sviluppato, sussidiario e che ledeva l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. 4. Un altro capolavoro: il codice austriaco del 1811 (c.d. ABGB) L’altro codice di diritto privato importante è quello austriaco del 1811. Il proposito era come quello sabaudo , cioè 1) di unificare il regime giuridico di popolazioni governate da discipline differenti, 2) di semplificare la normativa, chiarirla, secondo i dettami dei giusrazionalisti, in modo da 3) avere strumenti semplici e sicuri per l’amministrazione della giustizia. Alle fasi di elaborazione prese parte Giuseppe II e, dopo la sua morte, l’Imperatore Leopoldo II dal 1790. Egli affidò l’incarico a Carl Anton Martini, un giurista formato alla scuola del giusnaturalismo austriaco, che li riavvicinò al diritto romano. Il risultato fu un codice moderno, chiaro e conciso, anche se con qualche concessione al discorsivo come era abituale nel 700 e nei contenuti a soggetto unico anche se la società austriaca era centrale, abrogando le fonti preesistenti ma lasciando la possibilità di integrazione mediante il ricorso ai “principi generali e naturali”. Il progetto di codice fu oggetto di critiche da parte dei conservatori, sottoposti alla pressione napoleonica ed alla soppressione del Sacro Romano Impero. Entrò in vigore nel 1812 con il titolo di Codice civile generale per i Territori ereditari tedeschi, noto con la sigla di ABGB. È diviso in 3 parti secondo lo schema delle Istituzioni gaiane (persone, res, actiones) fatto proprio dal giusnaturalismo ed è riservato al diritto privato, ritenendosi quello pubblico un diritto politico di spettanza del sovrano. Il Codice austriaco è immune all’autoritarismo presente nel Codice napoleonico. I rapporti patrimoniali tra coniugi ignorano l’autorizzazione maritale per cui la donna può disporre liberamente dei beni. L’ABGB risente dell’origine tradizionale dove non consente il divorzio e vieta il matrimonio tra cristiani e non, concedendo la possibilità di diseredare il figlio; in campo socio-economico non vieta i fedecommessi ed eredita la distinzione tra “dominio diretto” e “dominio utile”. La destinazione al dominio prevede il principio per cui “la diversità di religione non ha influenza sui diritti privati”. Le sue norme lasciano lacune e maggior spazio all’interprete; inoltre la terza parte con la disciplina sulla costituzione, modifica ed estinzione dei rapporti giuridici, anticipa gli sviluppi dottrinali dell’800 in tema di “negozio giuridico”. 5. Diversa fortuna dei 2 codici C’erano le premesse perché i 2 codici concorressero sul mercato nell’800. Ma non avvenne. Il codice francese era di lettura più agevole e più completo e dettagliato, oltreché innovativo in materia di diritti reali. Quello austriaco fu oggetto di diffidenza. Si apprezza la normativa per la donna, tuttavia ebbe meno circolazione di quello francese. La questione linguistica ebbe rilievo. Con ciò l’ABGB fu applicato anche fuori dai territori austriaci. In Italia nel Lombardo - Veneto, nel Trentino-Alto Adige e nella Venezia Giulia, fino alla fine della I guerra mondiale. Si ricorda l’estensione alla Croazia, Slovenia e Dalmazia, Ungheria e Transilvania. Entrambi i codici hanno segnato la vita giuridica dei rispettivi paesi, tanto che sono ancora in vigore, salvo le riforme del dritto di famiglia. 6. Il codice in Germania: la scuola storica Per capire la situazione tedesca bisogna precisare che quando le armate napoleoniche portarono libertà e codice in quelle terre non trovarono l’accoglienza delle popolazioni italiane o spagnole, le cui élites intellettuali e socio-economiche erano ansiose di liberarsi del feudalesimo e di un cattolicesimo conservatore ed oppressivo. Trovarono un ambiente che stava abbracciando l’orientamento culturale “romantico”. La necessità di riforme radicali si sentiva meno perché le terre protestanti avevano superato i problemi del predominio ecclesiastico, mentre le cattoliche erano state riformate nelle strutture dell’assolutismo illuminato e si sentivano culturalmente unite con quelle protestanti da un forte sentimento nazionale. Questo fu rafforzato dall’astrattismo giacobino francese, come dai lutti provocati dalle campagne militari napoleoniche, provocando una reazione per ciò che proponesse la Francia, il Paese dell’invasore. Perciò la codificazione fu applicata con cautela dai giudici durante l’occupazione ed alla luce delle tradizioni locali. La situazione universitaria cospirava in questo senso. Il giusnaturalismo in Francia era stato gestito da giuristi operanti a contatto con la giurisdizione nazionale. In Germania fu sviluppato da professori d’università e governanti. I giusnaturalisti tedeschi erano lontani dalla pratica, per cui l’insegnamento rimase lontano dall’Usus modernus del foro e collegato alla giurisprudenza elegante di tipo umanistico. Nello spazio lasciato da questa lacuna si inserì una corrente di studio: la “Scuola storica”, in quanto nata in contrapposizione al giusnaturalismo, la quale si accostò alla Scuola filosofica radicata nel razionalismo settecentesco. L’una e l’altra elaborarono una dogmatica fondata sulla sistematica giuridica e sul metodo induttivi (scuola storica) e deduttivo (filosofica). Il diritto soggettivo, oggettivo e negozio giuridico divennero elementi di studio comuni ad entrambe le scuole. Che divergevano nel valutare l’apriorismo del giusnaturalismo. La Scuola storica non lo condivideva perché combinava storia e diritto dato, positivo. 6.1. Federico Carlo von Savigny (1779-1861) Il suo principale esponente fu von Savigny, un positivista, perché partiva dal diritto dato. Il giurista doveva occuparsi del diritto positivo, bandendo il diritto naturale e le altre astrattezze. Le università dovevano occuparsi di diritto positivo per formare dei buoni giuristi. Avrebbero dovuto forgiare i concetti con cui affinare i problemi nuovi degli Stati di ispirazione liberale e della nuova economia capitalistica. Portando alle estreme conseguenze certe dottrine di Thomasius e Montesquieu il diritto non risulta dalla natura dell’uomo ma dalla storia di ogni popolo, dalle sue forze latenti indicate nell’espressione “spirito del popolo”. Espressione non da intendersi in senso democratico, perché la scuola fu aristocratica, elitaria, conservatrice ed attenta alla consuetudine più che alla legge. Per Savigny il popolo si esprime solo per tramite dei giuristi, unici abilitati a capire cosa il popolo ha prodotto. I giuristi studiano il diritto del proprio popolo per stabilire quale è il patrimonio che si deve amministrare. In sostanza spetta a loro definire come ringiovanirlo. Il giurista deve essere uno storico e ricostruire la letteratura giuridica della Nazione. Tale letteratura era di tipo romanistico. Savigny era un romanista per cui lavorò sulle fonti in modo dotto ripudiando il lavoro dei Commentatori italiani del mos italicus, che giudicava negativamente perché avevano corrotto il diritto romano. Egli passava dai Glossatori del XII secolo ai Culti del 500 nel tentativo di capire il diritto giustinianeo e la sua genesi: capire quel diritto per applicarlo, ammodernato e sistematizzato di fronte alle lacunose ed imperfette legislazioni correnti. Tra le opere del Savigny ricordiamo: La dottrina del metodo giuridico, Il diritto del possesso, Storia del diritto romano nel medioevo, Sistema del diritto romano attuale; Diritto delle obbligazioni. Tra gli scritti programmatici importante il Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza, che è un po’ la carta programmatica della scuola, che gli assicurò fortuna come scrittore anche per lo stile, facendolo considerare il fondatore della Scuola storica. 6.2. La polemica sulla codificazione Era il suo scritto contro la codificazione, polemico contro un altro anch’esso famoso, cioè Sulla necessità della codificazione per la Germania di Thibaut, scritto per perorare la conservazione della codificazione perché avrebbe favorito l’unificazione del Paese. In quegli anni la Germania si presentava politicamente disunita. Il Sacro Romano Impero era stato dichiarato estinto dall’imperatore asburgico nel 1806. Il Deutscher Bund (Lega tedesca) che uscì dal Congresso di Vienna fu composto di 40 Stati sovrani di cui 2 in contrasto, la Prussia e l’Austria, entrambi con un codice, l’ALR del 1794 e l’ABGB del 1811; solo il Land della Renania e il Baden avevano conservato il Code Civil. La coscienza nazionale si era rafforzata e Thibaut esprimeva l’idea dei progressisti liberali che lottavano per l’unificazione del Paese: il Codice l’avrebbe favorita. Savigny replicava nella Vocazione che per lui i codici sono un intervento inutile o dannoso perché i giuristi erano gli interpreti dello spirito popolare e non il legislatore; loro dovevano cercare nella storia le soluzioni migliori. Roma l’aveva mostrato: il diritto romano si evolvette in assenza di legislazione grazie ai suoi giuristi e fu il migliore mai esistito. I codici esistenti per lui erano di modesta fattura. I giuristi tedeschi erano per lui impreparati a predisporre un codice perché non l’avrebbero potuto fare tedesco. Si dovevano studiare il diritto vigente, la recezione ed il diritto romano, che era il diritto dell’Europa universale, che avrebbe salvato la Germania dal provincialismo e dal particolarismo. Il discorso del Savigny non era privo di contraddizioni: il diritto romano veniva proposto come fulcro delle tradizioni tedesche perché i giuristi tedeschi sarebbero stati i più universali. I suoi scritti e l’opposizione alla codificazione ebbero successo perché, per motivi politici, un codice unitario non era possibile. 6.3. La Pandettistica Dal suo insegnamento iniziò la giurisprudenza dei concetti, che dal nome dato ai libri, i manuali di Pandette, fondati sullo studio del Digesto giustinianeo, prese il nome di Pandettistica. Si amò designarlo come metodo giuridico o metodo scientifico di studio del diritto. Si era raggiunta la perfezione “scientifica”. Gli esponenti più celebri erano Puchta, Brinz e soprattutto Windscheid, il cui Manuale di Pandette compendiò il lavoro di tutta la scuola. Idea di questa scuola è che l’ordinamento giuridico costituisca un sistema completo, chiuso. Il che si adattava al nazionalismo dell’800 ed all’idea di uno Stato sovrano. Le lacune delle leggi non erano lacune del sistema che aveva sempre i mezzi per colmarle. Il giurista doveva trovare la soluzione presente nel sistema. Quest’ultimo avrebbe validità in quanto la sua logicità sarebbe garanzia di giustizia. In ciò si vede un influsso dell’idealismo di Hegel: per lui la vera realtà sono i concetti e le proposizioni dogmatiche. Che il dominio (proprietà) sia “elastico” è non una conseguenza di quanto dice la legge, ma un carattere reale della proprietà. La più grande creazione della scuola fu il negozio giuridico, elaborato da questa scuola partendo dai requisiti del contratto. La Scuola è diversa da quella esegetica francese. C’è anche qui una esigenza positivistica che consentì la saldatura della Pandettistica con le correnti liberali del tempo e fece sì che in Germania la codificazione si svolgesse alla sua insegna. La Pandettistica ha svolto la funzione storica di unificare culturalmente i giuristi tedeschi prima che la Germania fosse unificata politicamente grazie all’opera di Bismark che ebbe luogo con la proclamazione del Reich nel 1871. 6.4. Critiche alla Scuola storica Una critica a questi giuristi sottolineava che i pandettisti armonizzarono fonti diverse e costituirono un diritto romano che non ha mai avuto vigenza storica. Essi misero assieme un diritto romano “meta-storico”, fittizio. Ciò emerse nell’elaborare la parte generale del diritto, cioè i concetti base del diritto privato in cui andarono oltre l’elaborazione dei giusnaturalisti e dell’ABGB. Altra critica riguardò il formalismo, l’insensibilità per i bisogni della pratica e la pretesa di fissità del loro sistema, che portava al quietismo legislativo (si lascino fare i giuristi). Critiche furono mosse da Rudolf von Jhering e dalla Scuola del socialismo giuridico, e sboccarono nella giurisprudenza degli interessi, incentrata anziché sulla dogmatica, sulla valutazione equilibrata degli interessi delle parti in gioco. In Serio e faceto nella giurisprudenza, von Jhering immaginò che nell’aldilà ci fosse un paradiso dei concetti giuridici in cui venivano ammessi solo i giuristi dogmatici; gli eletti dovevano essere abili ad usare la macchina spacca - capello. Con l’ingresso di Puchta, nel 1846, esso cominciò ad essere popolato di giuristi tedeschi. Lo stesso Savigny aveva rischiato di non esservi ammesso. Aveva paventato la sistematica astratta e la separazione di teoria e prassi, difetti del giusnaturalismo, ma i suoi allievi si erano fatti prendere la mano dagli strumenti che il Savigny aveva loro consegnato ed avevano finito per ricadere in difetti del genere. Non erano questi i difetti della scuola alternativa che si disputò il Continente in concorrenza con la Pandettistica nell’800. 7. Il mito del codice e la Scuola dell’esegesi C’erano contraddizioni nella Scuola storica che erano gli entusiasti dei codici. Per loro il codice accoglieva un insieme di regole che nel complesso, viste in sistema, avrebbe consentito di trovare una soluzione esaltando il ruolo di demiurgo del giurista. Il codice doveva essere privo di lacune e contraddizioni. Fin qui la teoria. In realtà i migliori codici non potevano essere privi di ambiguità e lacune, come osservarono anche i pandettisti. Il diritto di proprietà è al centro del codice, che lo definisce “diritto assoluto”, ma si aggiunge che regolamenti ed atti amministrativi per necessità pubbliche possono consentirne l’esproprio o modificare l’uso del bene, lo possono in sostanza annullare. Per il contratto, che sia libero e autonomo, si prescrive una “causa lecita” che si precisa esserci quando il contratto non è contro i buoni costumi o l’ordine pubblico. La responsabilità civile viene basata sulla colpa. Il mito del codice come fonte del diritto privato autosufficiente e completa non regge alla critica odierna, eppure venne alimentato dai giuristi che lo applicarono per primi, quelli che furono detti giuristi dell’École de l’exégèse, della Scuola dell’esegesi. Essi temerono di essere tacciati di manipolare il diritto come avevano fatto i giudici dei Parlements ed i dottori sotto veste di equità, ma in realtà per fini clientelari e politici. Accettarono in toto la teoria positivistica delle fonti, ossia del primato assoluto della legge e della riduzione del diritto alla sola legge. Essi si presentarono come “esegeti”, burocrati del codice, facendo affermazioni di rispetto per la lettera della legge e per la volontà del legislatore. Non vollero assumersi responsabilità lato sensu politiche, come avevano fatto i giuristi di diritto comune con l’interpretatio, ma si presentarono come meri esecutori della legge. È un carattere della Scuola dell’esegesi, come si chiamò il mos (lo stile) francese ottocentesco di interpretare il codice, in opposizione alle idee della Scuola storica tedesca. Le cose andarono diversamente perché i giuristi usarono tutte le tecniche interpretative elaborate nei secoli. Gli esegeti non furono succubi della norma codicistica, per cui: • Nel codice c’è una continuità di contenuti con lo ius commune. Il Codice napoleonico fonde la tradizione romanistica, per la proprietà e le obbligazioni, con quella del diritto consuetudinario (famiglia e successioni) portando a livello legislativo quello che a livello dottrinale aveva combinato il Pothier, che aveva armonizzato le fonti del diritto francese tradizionale. • C’è qualcosa di più profondo che colgono gli studiosi stranieri anglo-americani, guardando al problema del rapporto diritto comune-diritto codificato: ossia che il sistema introdotto dal Code Napoléon voleva fare a meno del diritto comune ma continuò per certi aspetti quel sistema. Non c’era da riferirsi, nelle sentenze, alle leggi del Corpus iuris quanto agli articoli del Code, ma si continuò il sistema nel senso che vi continuò ad avere parte l’interpretazione dei giuristi. Questo è il contrassegno dei sistemi di civil law (di origine romanistica dell’Europa continentale): il ruolo che ha sempre svolto il giurista, ossia la dottrina, a differenza di quanto avviene nei sistemi di common law, a sviluppo giurisprudenziale in senso giudiziario, ossia guidato dai giudici, più che dal legislatore e dal dottore. La discontinuità tra ius commune e Code è da un lato nei modi di formulazione delle norme, raccolte in un testo unico e formulate in modo generale ed astratto, e dall’altro nel ruolo della legge, che appare come fonte assoluta di produzione normativa, non eterointegrabile. Ma il codice richiama e si fonda sul sistema costruito dai giuristi sulla base del Corpus iuris. Quanto alla responsabilità civile dichiara che “il danno obbliga chi lo ha commesso per sua colpa a ripararlo” in modo da favorire l’affermazione della regola opposta che di regola non si risarcisce il danno, ma ai fini del risarcimento si doveva avere un atto illecito. Bisognava rintracciare una norma proibitiva di un dato comportamento. Solo lentamente si ampliarono le ipotesi di responsabilità civile, sempre per via interpretativa. I giuristi francesi furono tecnocrati abili, la cui opera trasformò il codice, ma accreditarono il mito che il codice fosse organico e completo come richiesto dall’ideologia, dall’opportunità politica e dalla cultura del tempo. Operarono tra principi generali e regole di decisione, ad un livello diverso da quello del legislatore, tra dottrina e giurisprudenza. Il che fu possibile perché gli autori del codice erano conoscitori della giurisprudenza. Consigliere di Napoleone fu Philippe Antoine Merlin. Dal Merlin prende avvio un dialogo tra dottrina e giurisprudenza che operò in modo libero. Il che fu possibile perché i tribunali, in particolare la Cassazione, seguendo la prassi dei Parlements soppressi dalla Rivoluzione, motivò l’attendu que ( atteso che) che applica il sillogismo giuridico, ma che consente di operare liberamente. La motivazione rende difficile la formazione di una giurisprudenza consolidata perché tace sui fatti per cui non si può ricostruire il distinguishing, l’arte di distinguere, di come si sono differenziate le fattispecie. Essa dà solo la decisione del caso concreto. La dottrina provvede a sistematizzare gli indirizzi della giurisprudenza. Non per niente la migliore opera dell’École de l’Exégèse è quella di 2 giuristi dell’Università di Strasburgo, Aubry e Rau, nata dall’opera in tedesco di von Lingenthal. Questi aveva scritto un manuale di diritto francese; l’opera sistematica alla tedesca fu tradotta ed ampliata al punto di renderla un’opera nuova. Mentre la sistematica della Pandettistica tedesca fu rigorosa, quella della scuola francese dovette fronteggiare la giurisprudenza dei tribunali, per cui faceva regole ed ammetteva come eccezioni gli indirizzi giurisprudenziali dissenzienti. Aubry e Rau cessarono di sostenere una certa tesi in tema di azioni possessorie perché la giurisprudenza era in senso contrario. Altre volte criticarono aspramente la giurisprudenza. La dottrina fu vivace e polemica al proprio interno: ciò che importava era convincere i giudici a dare certe interpretazioni. Si ebbe una fioritura della letteratura giuridica. Il codice portò a interazioni tra dottrina, legge e giurisprudenza. Particolare importanza rivestì la Corte di Cassazione che si discostò raramente dai propri precedenti, pur non essendo obbligata a seguirli, come anche in Italia, e che in pochi decenni dominò le Corti d’Appello che si ostinavano ad interpretare in modo libero, sentendosi soggette solo alla legge. 8. La codificazione in Germania (BGB: 1896/1900) Nell’800 l’egemonia culturale della Pandettistica e i problemi politici non consentirono di parlare di codificazione fino all’unità politica del 1871. Ciò non vuol dire che il Paese non avesse momenti legislativi importanti. Questo avvenne con la legge cambiaria del 1848 ma soprattutto con il Codice generale di commercio del 1861, adottato da tutti gli stati pre-unitari. Esso favoriva i rapporti interstatali e commerciali ed ebbe taglio pratico: fu sostituito nel 1900. Il codice civile tedesco (BGB), entrato in vigore nel 1900, fu espressivo della Pandettistica e approvato nonostante molte critiche, che in parte riprendevano quelle alla Pandettistica. Il von Gierke lo accusava di non rispettare le tradizioni tedesche, di essere romanistico, mentre il Menger lo bollava come codice del capitalismo. Con i suoi 5 libri articolati in parte generale, diritto delle obbligazioni, diritti reali, di famiglia e successioni, finì l’epoca dell’applicazione delle norme romanistiche in Europa. La parte generale divenne stimolo per la dottrina giuridica di tutta l’Europa e non solo. Il BGB fu copiato dalla Grecia e dal Giappone perché si ritenne il codice tecnicamente migliore. È un codice di grande livello ma diversissimo da quello napoleonico. Questo era per i cittadini, quello si dirige ai tecnici, perché ha un linguaggio difficile, dato che è un tedesco derivato dal linguaggio scientifico romanistico; inoltre è poco maneggevole perché essendo un trattato dottrinale sistematico, per seguire la disciplina di un singolo contratto bisogna andare alle regole generali sulla capacità di agire, poi a quelle generali sui contratti, poi a quelle specifiche sul singolo contratto. Con tutto ciò è ancora in vigore con alcune modifiche come al diritto di famiglia. 9. La questione della completezza dei codici Il diritto comune cessò di aver vigore quando entrarono in funzione i codici (1804 Francia, 1811 Austria, 1900 Germania). I codici statualizzarono il diritto per cui non vi fu spazio per il diritto di formazione giurisprudenziale. Con il codice si entrava nel regno dello “Stato di diritto”, le attività delle amministrazioni erano regolate dalla legge, ci dovevano essere le costituzioni a fissare diritti dei cittadini, e delle leggi a disciplinare l’attività delle amministrazioni. Il cittadino è tutelato dall’attività del Governo, può ricorrere all’attività giudiziaria per far valere le sue pretese ed alla giustizia amministrativa per le violazioni nella sfera giuridica da parte di atti amministrativi, tutto nel rispetto della divisione dei poteri, perché dove non c’è questa, non ci sarebbe lo Stato di diritto, dato che un potere prevarrebbe sull’altro, come aveva insegnato Montesquieu. Il giudice era ritenuto “bouche de la loi”. Con i codici trionfò una visione positivistica dove il diritto era positivo, dato dal legislatore. Il principio di legalità dell’amministrazione sancisce la preminenza della legge. Questo il quadro delle fonti dell’800 che s chiama dell’assolutismo giuridico o legislativo, diverso da quello politico. Il Sovrano si riteneva al di sopra delle leggi. L’assolutismo giuridico è quello della legge, dove questa è vista come fonte da cui dipende l’esecutivo ed il giudice e la dottrina. Conformemente a questa idea c’era quella del sillogismo giudiziario: il giudice deve trovare la norma che include la fattispecie concreta e sussumerla nella fattispecie generale, applicandola meccanicamente. I codici hanno portato a 2 conseguenze: di essere ritenuti completi e non eterointegrabili. Eterointegrabile significa che non può essere colmato ricorrendo a principi esterni al codice. Questo ricorso diventa vietato perché si darebbe al giudice un grimaldello per modificare il codice. Un appiglio a questa tesi esisteva nel Codice civile napoleonico che, all’art. 4, disciplinava il diniego di giustizia, secondo cui il giudice non poteva rifiutarsi di amministrare la giustizia: “il giudice che rifiuterà di giudicare sotto pretesto di silenzio, di oscurità o di insufficienza del diritto potrà essere perseguito come colpevole di diniego di giustizia”. Quindi se il giudice non poteva “denegare”, era ovvio che ci fosse sempre una norma da applicare. L’idea era di contenere l’arbitrio dei giudici ma si cominciò a dire che qualora ci fosse stata una lacuna completa bisognava ricorrere all’equità. Questo è un criterio di eterointegrazione, perché si consente al giudice di seguire propri criteri equitativi, esterni al codice. Una cosa era quindi la teoria delle fonti che stava affermandosi col positivismo giuridico, secondo cui la dottrina e la giurisprudenza non dovevano fare nuovo diritto, ed altra cosa fu la prassi giudiziaria concreta, tanto che lacune e contraddizioni del codice vennero risolte dalla dottrina e dalla giurisprudenza, in particolare dalla corte di Cassazione, novità delle riforme giudiziarie francesi. Essa fu istituita per garantire l’esatta applicazione del codice, per cui non fu che una corte di legittimità e opera solo sulle interpretazioni che i giudici hanno dato. La sua funzione è “cassare” la sentenza quando i giudici hanno interpretato male la legge ed assicura l’uniforme interpretazione della legge (funzione nomofilattica). Le sue decisioni riuscirono ad integrare le lacune del codice napoleonico e a coordinarne le varie parti. Il Codice austriaco aveva un articolo sull’eterointegrazione che recitava: “Qualora un caso non si possa decidere né secondo le parole, né secondo il senso naturale della legge, si avrà riguardo ai casi consimili (analogia)... rimanendo nondimeno dubbioso il caso si dovrà decidere secondo i principi del diritto naturale…”. Quei principi fungevano da norme integrative del codice. Situazione del genere si ha oggi in Irlanda, che esplicitamente ammette l’integrazione giusnaturalistica. Il diritto comune con i codici muore ma nei commenti fatti ai codici nel corso dell’800 per capire meglio la norma si utilizzò anche il diritto romano, perché c’erano dei concetti non spiegati nel codice. Questa idea che il Codice richiedesse solo esegesi letterale anziché un lavoro di interpretazione è un’idea ingenua, ma tornava bene alla congiuntura politica e alle polemiche dei pandettisti, i quali sostenevano che, fatto il codice, fosse finito il lavoro del giurista. Questo fu valorizzato in Germania non essendo più vigente in nessun Land un codice di tipo francese. Il giurista rispondeva alle domande in caso di lacune o di conflitti tra norme locali sulla base della logica giuridica e dei principi che discendevano dalla sistematica dottrinale pandettistica. I giuristi vissero in questo clima di diritto comune fino all’entrata in vigore del codice, nel 1900. 10. Codici nell’Italia pre e post-unitaria L’Italia non ebbe un sussulto anti-francese. I codici napoleonici vi furono estesi ma non quello di procedura penale, che fu redatto da Gian Domenico Romagnosi secondo la tradizione italiana che non prevedeva la giuria. Con al Restaurazione nel Lombardo - veneto entrò in vigore il codice civile austriaco (ABGB) mentre i codici francesi ebbero diverso destino dalle costituzioni, perché i regimi restaurati non avevano nel loro confronto le diffidenze che nutrivano nei confronti delle costituzioni. Il Codice napoleonico fu mantenuto nel Regno delle due Sicilie. Il Regno di Sardegna si avviò a darsi codici sul tipo di quelli francesi che vennero ripresi dal Regno d’Italia con l’opera codificatoria del 1865. Salvo per il codice penale che non fu esteso alla Toscana, dove rimase in vigore il Codice penale granducale del 1853, sulla tradizione della Leopoldina del 1786. L’unità d’Italia dal punto di vista del diritto penale si realizzò nel 1889 con il codice Zanardelli. I codici ottocenteschi accolsero i principi della penalistica moderna: “nullum crimen, nulla poena sine lege”, irretroattività della legge, pene non corporali con apertura alla riabilitazione del reo, divieto della tortura giudiziaria, carceri tollerabili, non disumanizzanti. La Toscana della Restaurazione fece eccezione con lo Stato Pontificio e San Marino, per il mancato passaggio al codice civile. In questi Paesi con il 1815 venne ripristinato il diritto comune ma non gli statuti comunali, che comportò una fioritura di opere di diritto comune. Nello Stato Pontificio, rientrato il papa a Roma, riprese vigore il Corpus iuris canonici. Il diritto comune fece da sfondo al Codice estense richiamato in vigore a Modena, mentre a Parma si sentì l’influsso austriaco nella redazione del codice civile del 1820. 11. La dottrina giuridica in Italia I giuristi italiani di fine 700 inizio 800 sentirono l’influsso francese senza perdere tratti della cultura tradizionale. Vi erano il Romagnosi con le opere Genesi del diritto penale, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento. Altro pubblicista fu Giuseppe Compagnoni, roussoviano, fu autore degli Elementi di diritto costituzionale democratico. Salvo il Lombardo - veneto l’Italia fu recettiva verso la cultura giuridica francese e per la Scuola dell’esegesi. Tanto che circolarono opere come quella del Merlin riferite al Code Napoléon. Quando si pensava ad una costituzione per gli Stati pre-unitari il modello finiva per essere quello francese come avvenne con lo Statuto Albertino. Solo dopo l’Unità cominciò a cambiare l’orientamento della cultura giuridica che dopo la fondazione del Reich tedesco cominciò a guardare alla Germania ed alla Pandettistica, che attraeva in Italia per il suo interesse per il diritto romano e la sua “scientificità”. Fu il momento dell’egemonia metodologica della dottrina civilista grazie alle traduzioni di manuali tedeschi degli anni 70-80. Un capolavoro fu ritenuto il Diritto delle Pandette di Windscheid, il padre del BGB tedesco. Vittorio Scialoja favorì l’evoluzione diffondendo idee chiave che andavano contro l’identificazione positivistica di diritto e legge. La “dottrina” giuridica italiana poté acquisire un ruolo importante nel formare le classi dirigenti del paese, nel progettare e giustificare sul piano ideologico le istituzioni che andavano costruendosi: lo Stato italiano e lo “spirito nazionale”. I nostri giuristi poterono presentare il proprio sapere come “spoliticizzato”: diritto e Stato furono teorizzati come neutrali, apolitici e la dottrina giuridica presentata come una scienza a-valutativa, scevra da ogni giudizio politico. Il che fu possibile grazie alla svolta antilluministica del liberalismo ottocentesco. Il pensiero liberale illuminista aveva esercitato verso le istituzioni dell’Antico regime un ruolo critico, di opposizione e trasformazione, sostenendo l’artificialità del diritto e delle istituzioni, intese come frutto di volontà razionale, invece il liberalismo ottocentesco accettò l’idea che fossero il prodotto di una spontanea e naturale evoluzione storica al di sopra delle vicende politiche. Era l’idea del Savigny quando si era opposto all’identificazione giusposivistica del diritto e della legge, che in Francia aveva apparentemente declassato il ruolo dei giuristi a meri esegeti della volontà del legislatore. Il suo diritto pandettistico non era quello dei codici, ma del sistema degli istituti, ossia concetti risalenti fino al diritto romano, convalidati dal tempo e sistematizzati dal lavoro della scienza giuridica di cui i codici erano un prodotto. L’idea savigniana del diritto romano attuale, che poneva in continuità il diritto romano, il diritto comune ed il diritto civile italiano codificato. L’idea centrale era quella della centralità del diritto civile, vera costituzione materiale della società, per cui la sua scienza era la disciplina madre; la civilistica era l’ultima scuola di giuristi, dei costruttori di concetti e sistemi sul modello dei giuristi antichi. Si ebbero studi romanistici intensi, che promossero l’edificazione della cultura giuridica dello Stato nazionale, affermando il primato della scienza giuridica come interprete dello spirito del popolo. Tutto militava contro l’idea illuministica e giacobina dell’onnipotenza del legislatore. Scialoja e Fadda riuscirono a conciliare il metodo sistematico-pandettistico con il dogma giuspositivistico che derivava il primato della legge dalla codificazione e dalla divisione costituzionale dei poteri. “Ne risultò una doppia legittimazione della tradizione da parte della legge e della legge da parte della tradizione; dell’organizzazione privatistica e capitalistica della società da parte del diritto positivo statale e viceversa”. Il diritto civile si prestava ad essere rappresentato come diritto naturale della società civile e diritto comune dell’Europa capitalistica sanzionato dai codici statali ma sostanzialmente transnazionale. La dottrina civilistica divenne egemone nella cultura italiana affermando il valore dei propri principi e categorie. Non turbava che si trascurasse l’alternativa tra giusnaturalismo e giuspositivismo, tra primato della scienza giuridica e primato della legge. I giuristi difesero l’autonomia del fenomeno giuridico per cui diritto e Stato diventano dei fatti naturali, viventi di per sé al di là della storia. L’attività del giudice e degli operatori era una tecnica elaborata dalla cultura giuridica. 11.1. Socialismo giuridico La cultura giuridica accademica era influente nelle istituzioni e nella magistratura ma aveva avuto uno sviluppo separato dalla cultura generale del Paese e l’ordinamento delle facoltà di giurisprudenza lo rifletteva. Come la Pandettistica in Germania ,la nostra scienza giuridica, derivata da essa fu sottoposta a critiche da parte dei giuristi di Sinistra, che cominciarono ad operare a fino 800 con il costituirsi del Partito socialista e l’organizzazione del movimento operaio. Essi formarono il socialismo giuridico, attaccando il “mondo giuridico delle forme”, indifferente di fronte alla realtà e a problemi quali la disoccupazione, i furti per fame e gli sfratti per morosità. I giuristi criticarono il diritto civile borghese che non esaminava il contratto di lavoro, centrale nel mondo economico del tempo; inoltre il diritto commerciale si configurava come diritto a favore degli imprenditori; i postulati della Scuola classica del diritto penale, che ritenevano condizionata da scelte classiste nei principi di neutralità del diritto penale, mentre avevano simpatia per la Scuola positiva del diritto penale, attenta al sociale. Possiamo ascrivere a questo indirizzo Filippo Turati, fondatore del Partito socialista, Eugenio Florian ed Enrico Ferri. L’indirizzo del socialismo giuridico andò esaurendosi nel 900 prima dell’avvento di Mussolini. 11.2. Le 2 scuole del diritto penale La dottrina del diritto penale vantava una tradizione risalente a Cesare Beccaria, per cui fino al secondo 800 aveva mantenuto un’apertura e uno spessore filosofici. Era l’indirizzo della Scuola classica, che ebbe massimi esponenti in Francesco Carrara ed Enrico Pessina. La Scuola classica difendeva la libertà contro l’arbitrio punitivo, le garanzie di legalità e la certezza del diritto e lottava per l’abolizione della pena di morte, minimizzare i reati e migliorare le condizioni di vita dei detenuti. L’altro indirizzo fu la Scuola positiva e fu rappresentato da Cesare Lombroso, autore de L’uomo delinquente, da Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, che furono espressione del positivismo filosofico. Si batterono per la sicurezza e la difesa sociale rovesciando il garantismo illuministico: il delinquente era raffigurato come un essere antropologicamente diverso, inferiore perché il delitto diveniva sintomo di anormalità. Lombroso è famoso per aver collegato al crimine la misura dei crani … La “difesa sociale” imponeva una terapia correzionale indeterminata e l’amputazione del soggetto infetto ed irrecuperabile dall’organismo sociale: si riprendevano immagini di una sapienza antichissima che aveva ispirato l’Inquisizione. Si capisce come le 2 scuole si fronteggiarono intorno alla concezione degli scopi e dei limiti del diritto penale. All’uguaglianza e responsabilità della Scuola classica, la Scuola positiva contrapponeva la disuguaglianza naturale ed un determinismo illiberali, antigarantisti. La Scuola classica ebbe maggior peso, tanto che influenzò l’elaborazione del codice penale Zanardelli del 1889, codice di impianto liberale. La Scuola positiva aveva minato i fondamenti del codice: grazie all’approccio antropologico e medico, al fascino dell’antropologia e la sociologia criminale, la medicina legale e la psicologia forense; per la necessità di far fronte alle molte emergenze che condussero alla legislazione poliziesca e d’eccezione che caratterizzò la storia unitaria; infine per l’opzione statalistico - autoritaria della cultura giuridica. Si perdeva la preoccupazione della garanzia del cittadino contro il potere punitivo e si recepiva solo quella opposta della difesa sociale e della conservazione dell’ordine esistente. Capitolo 2: ALTERNATIVE AL POSITIVISMO E ALLA CIVILISTICA 1. L’alternativa radicale: il realismo giuridico del common law Abbiamo riservato spazio allo sviluppo del gius-positivismo e della scienza giuridica civilistica, perché è storia che riguarda il nostro Paese e perché la cultura continentale nell’800 ebbe larga esportazione, favorita dal colonialismo in America latina. Gli sviluppi di fine 700 non potevano che rafforzare la contrapposizione tra mondo anglo-americano, liberale e costituzionale e privo di codici, e dell’Europa continentale, dominato prima dall’autoritarismo napoleonico e poi da quello dei governi restaurati dotati di codici. L’avvento dello Stato costituzionale e dei codici segnò il trionfo del giuspositivismo, con la separazione dei poteri e la sottoposizione del giudice alla legge. Il mondo anglo-americano conservò la flessibilità che aveva consentito il riconoscimento del ruolo creativo di diritto del giudice, che negli USA introdusse il judicial review of legislation e in Inghilterra ebbe formale riconoscimento del potere vincolante delle proprie decisioni (stare decisis); non ebbe bisogno di codici per realizzare la certezza del diritto e l’unificazione nazionale. Si capisce come in questo contesto politico-culturale, privo di codici, da fine 800 nei Paesi anglo-americani e del Commonwealth britannico si diffuse la concezione realistica del diritto, corrente di pensiero che sostiene che non esista un contenuto positivo oggettivo della norma. In questa concezione è il giudice che dà un contenuto concreto e reale alla norma al momento in cui la interpreta ed applica o adatta al particolare contesto e momento storico. Al centro del diritto non stanno norme generali ed astratte ma vi si trova la somma delle singole decisioni giudiziarie. Si parla anche di decisionismo nel senso che la realtà giuridica è fatta dalle decisioni che i giudici devono seguire nell’adottare altre decisioni. Una formulazione delle tesi realiste si trova negli scritti del giudice americano Oliver Holmes che affermava, anticipando le conclusioni del realismo scandinavo del 900, che “diritto è ciò che i giudici dicono essere diritto”, ovvero che il diritto è rilevabile solo nelle decisioni giurisprudenziali. Nel 900 queste posizioni si sarebbero rafforzate. 2. Alternative minori: le isole residue di diritto comune Il diritto comune veniva ufficialmente superato ma non fu cancellato nella cultura giuridica, tanto che oggi lo si vorrebbe riesumare per costruire il diritto privato futuro comune per il Continente. Ci sono Paesi in cui è possibile far riferimento esplicito ai principi del diritto comune europeo pre-codificatorio, perché il codice civile non fu introdotto nell’800. Pensiamo alla Repubblica di San Marino e ad Andorra ma anche al Sud Africa, Quebec, Canada o alla Louisiana che è una mixed jurisdiction in cui convivono tradizione romanistica europea locale e common law in conseguenza delle giurisdizioni federali. A New Orleans esiste una Bartolus Society per coltivare il ricordo del giurista di Sassoferrato ormai ignoto in Italia; si pensi alla Scozia che recepì il diritto continentale dal 1500. In questi Paesi il diritto comune ha uno spazio residuale. Esso può essere invocato in casi rari con differenze da un posto all’altro, ma rimane rivendicato come contrassegno di significato culturale. Qui non c’è stato o non ha avuto grande importanza l’Illuminismo, il tentativo razionalistico ed anti-storicistico di far tabula rasa del passato. Non ci fu un problema politico di lotta contro i giudici, per cui non si sentì il bisogno di fare una lotta culturale anti-romanistica. È uno dei paradossi della storia. Il codice non era necessario come potrebbe sembrare a noi che cresciamo in sua compagnia. Non è che un prodotto della storia utile agli scopi per cui è stato introdotto. Capitolo 3: LE PRIME COSTITUZIONI: DAGLI STATI UNITI D’AMERICA 1. La Virginia La situazione politico-militare stimolò le colonie a darsi Costituzioni come fossero Stati indipendenti. Il Rhode Island fu il primo a proclamarsi tale; la Virginia invitò alla istituzione di un raccordo federale dandosi nel 1776 una dichiarazione dei dritti che anticipò quella d’indipendenza intercoloniale. La carta parlava di diritti innati ed irrinunciabili di ogni uomo dati dalla natura, compresa la proprietà, vista come manifestazione della libertà, continuando con i principi tradizionali del costituzionalismo liberale: sovranità popolare, principio maggioritario, separazione dei 3 poteri montesquiviani, negazione dell’ereditarietà di cariche e privilegi, esaltazione della libertà di stampa. 1.2. Il momento della indipendenza La dichiarazione d’indipendenza di Filadelfia fu approvata il 4 luglio del 1776. È un documento pubblico che afferma l’esistenza di diritti innati che lo Stato deve riconoscere e garantire. L’Inghilterra ha deviato dal diritto, costringendo all’insurrezione gli Americani, che mettono in atto il diritto di resistenza al tiranno teorizzato dall’inglese Locke. Gli americani sono tutori del “buon diritto antico”, mentre gli eversori sono gli inglesi. La Dichiarazione d’Indipendenza era un testo in cui si cristallizzava quello che i giusnaturalisti ed i polemisti sostenevano contro l’assolutismo, e in essa trovò coerente sviluppo i contrattualismo moderato illuminista di Locke. Ci sono delle “verità evidenti” che non avevano bisogno di dimostrazione (“Tutti gli uomini sono uguali ed hanno dei diritti inalienabili, diritto alla vita, diritto alla libertà”) ponendo la questione di assicurare la felicità alla gente, che non si era vista prima come dovere dello Stato. Gli individui hanno questi diritti, ed i governi sono legittimi nella misura in cui li assicurano. La Dichiarazione serviva a legittimare la ribellione che c’era stata contro il Re d’Inghilterra, perché aveva leso i loro diritti. Le colonie davanti al Giudice Supremo dell’Universo si dichiaravano Stati liberi ed indipendenti. Aveva inizio un’esperienza repubblicana che ha avuto importanza fondamentale per esaltare i meriti individuali contro il monopolio ed il privilegio. Ma indicava ai popoli la strada dell’autodeterminazione e della democrazia in opposizione alle istituzioni trionfanti in Europa. Le singole colonie indipendenti dovettero darsi un quadro costituzionale ed adottarono la via delle costituzioni scritte perché era nella loro tradizione di essere ordinati in base ad una carta di fondazione, scritta, definita e perché da un secolo la cultura giusrazionalista europea, da Leibniz a Wolff, sosteneva che le leggi dovessero essere formulate in termini chiari, inequivocabili. L’esperienza tirannica inglese faceva pensare che bisognava evitare pericoli anche dai poteri pubblici nuovi costituiti. Ne sono emersi testi di grandissimo interesse, perché alla confluenza della tradizione costituzionale inglese dei Bill of Rights e della cultura continentale europea giusrazionalistica e giusnaturalistica, imperniata sui diritti naturali e sulla loro garanzia in testi scritti, in norme chiare e precise, contro le arbitrarietà del diritto scritto antico e del diritto comune. Si diffidava dei poteri dei Governatori e dei membri degli esecutivi, che in Gran Bretagna corrompevano i membri del Parlamento. Qui si fissò la regola che i membri dell’esecutivo non potessero essere parlamentari. Completa separazione dei poteri. Per la gestione delle guerre e dei rapporti internazionali il Congresso operò e consentì la gestione collettiva del conflitto fino alla Pace di Parigi del 1783 (riconoscimento dell’indipendenza) e l’emergere di una identità collettiva repubblicana americana. Ma bisognava stabilizzare l’Unione. 1.3. Gli articoli di Confederazione (1777) Ciò riuscì nel 1777 quando si fissarono gli “Articoli di Confederazione”, che regolavano i rapporti tra Stati ex-colonie e che richiesero tempo fino al 1781 per l’approvazione da parte degli Stati. L’Unione non faceva che legittimare il Congresso, cui gli Stati inviavano annualmente i propri delegati che avevano 1 voto. Esso dovette presentarsi come rappresentante delle entità sovrane e dei loro popoli nelle relazioni diplomatiche e dispose l’eliminazione di ogni restrizione agli spostamenti entro l’Unione. I poteri fondamentali restavano ai vari Stati, che venivano proclamati “pienamente liberi, sovrani ed indipendenti” salvo quanto delegato in Congresso, alle cui spese si contribuiva in base al valore della terra di ogni Stato. All’interno di ogni Stato si moltiplicò la produzione legislativa in ossequio ad interessi localistici e particolari per cui si temette di perdere la virtù che, aveva scritto Montesquieu dopo Machiavelli, era il segreto per l’esistenza delle buone repubbliche. I poteri legislativi assorbivano troppo potere e non godevano della fiducia delle popolazioni. Alcuni giudici cominciarono a dire al legislatore, nella tradizione di common law, “potete spingervi nelle vostre leggi fino a questo limite e non oltre” (origini del sindacato di legittimità). Si diffuse l’idea di operare più incisivamente rivedendo gli Articoli della confederazione. Il Congresso che gestiva gli interessi pubblici attraverso commissioni divise per materie era disertato dai leaders, senza un numero legale e con scarsa capacità di avere risorse dagli Stati. 1.4. Dalla Convenzione allo Stato federale Nel 1787 si ebbe la Convention di Filadelfia, estranea all’iniziativa del Congresso, formata da rappresentanti dei vari Stati, tardivamente autorizzati dal Congresso a rivedere gli Articoli, anche se pochi avrebbero immaginato la preparazione ex novo della costituzione federale. Si trattò di “decidere una volta per sempre il destino del governo repubblicano” sotto la presidenza di Washington. A Filadelfia Madison propose la svolta federale, ostacolata da chi riteneva pericolosa la concentrazione di potere che essa comportava a favore del presidente e degli organi federali: dall’Unione che ha poteri limitatissimi, si passava alla Federazione al di sopra degli Stati, con territorio e popolo in comune e gli Stati separati ed autonomi. Madison seppe argomentare con degli scritti che vanno sotto il titolo di “Il Federalista”, definiti da Jefferson “il miglior commento sui principi di governo che sia mai stato scritto”. Le Convenzioni convocate nei vari Stati finirono per approvare il progetto grazie alla stampa che si dichiarò favorevole. Nel 17891790 decollò il governo, con primo Presidente federale George Washington. 1.5. La Costituzione federale La vicenda americana riuscì a dare come esito una Repubblica di tipo nuovo, costituzionale, basata sull’uguaglianza dei cittadini e sulla libertà economica e politica, garante di una società tollerante, aperta al progresso, diverso dalle esperienze repubblicane italiane del tempo. L’esperienza americana è importante perché si trova affidata ad una Costituzione federale (i singoli Stati ne hanno un’altra peculiare a ciascuna di loro) che dal 1787 è pervenuta fino ad oggi senza interinazioni e sottoposta a 27 riforme dette emendamenti, che non hanno alterato il suo profilo originario. Si tratta di una costituzione che come quella francese del 1791, la prima, accolse il dualismo dell’esperienza inglese (re da un lato, Parlamento dall’altro) con una separazione tra i poteri legislativo ed esecutivo con diversa durata nel tempo. La costituzione americana ha a monte una società meno complessa e stratificata di quella d’Ancien régime, e quindi non dovette confrontarsi con gli squilibri sociali e conflitti politici e sociali attivati dall’accelerazione che ebbe il gioco politico francese dopo la presa della Bastiglia; inoltre non ebbe da confrontarsi con un potere monarchico ereditario, perché la secessione dal Regno Unito comportò la forma repubblicana. Il grande problema fu se conservare la confederazione o andare verso il nesso federale, ma non si posero i problemi delle scelte politiche di fondo: verso quale tipo di società andare. La costituzione ebbe il pregio di instaurare un equilibrio tra il potere del Presidente e quello del Parlamento, perché sono separati, nel senso che si occupano di cose diverse (governo uno, legislazione l’altro) e hanno la stessa fonte di legittimazione, il popolo, nel senso che hanno come fonte di legittimazione l’elezione diretta popolare. L’un potere non deriva dall’altro ma entrambi dal popolo e sono indipendenti, il che crea problemi come il fatto che il Presidente può essere in minoranza nelle Camere ma non per questo deve dimettersi. Il sistema americano è riuscito a reggere al tempo grazie ai checks and balances, cioè ai “pesi e contrappesi”, il che fa parlare di equilibrio dei poteri, oltreché di separazione. In Francia con un tipo di costituzione non diversissima si fece poca strada, perché il ruolo del Re fu screditato, per cui l’ipotesi di una monarchia costituzionale di tipo inglese non poté reggere. Il popolo francese dovette organizzarsi in altro modo per regnare esso stesso, dovendo adottare modelli costituzionali nuovi. L’Inghilterra non adottò niente di nuovo nel 700 e gli Stati Uniti adottarono una costituzione ex novo per modo di dire, perché aveva l’esperienza del common law, di rilievo costituzionale, e le costituzioni che le 11 colonie si erano date a partire dalla dichiarazione di indipendenza del 1776. La Rivoluzione francese fu dottrinaria: dovette inventare qualcosa di nuovo e di innovatore; quella americana si sviluppò con continuità rispetto al passato. 1.6. Caratteri fondamentali Il Governo federale venne articolato in 3 rami, con checks and balances: il Presidente più i 2 rami dell’Assemblea legislativa (Congresso): Senato e Camera dei Deputati. Il Senato era rappresentativo degli Stati, ognuno dei quali eleggeva 2 senatori, che si rinnovavano ogni 2 anni. La Camera era eletta dal popolo con deputati di durata fissa, in base agli abitanti degli Stati. Senato e Camera avevano regole fisse e competenze precise che limitavano quelle legislative degli Stati. Il potere esecutivo (monocratico) era detenuto dal Presidente, legittimato dal popolo indirettamente, essendo eletto dai grandi elettori nominati negli Stati. Il Presidente non era responsabile di fronte al Congresso, che non poteva votare la sfiducia al Presidente. Da parte del Congresso si poteva avere solo l’impeachment promosso dalla Camera e giudicato dal Senato (che fungeva in questo caso da Alta Corte di Giustizia) per la rimozione della carica, seguito dal giudizio del giudice ordinario. Il Presidente non poteva sciogliere le Camere, ma poteva solo convocarle, proporre provvedimenti e porre il veto. Non aveva potere di iniziativa legislativa. Il meccanismo del veto consisteva nel fatto che potesse bloccare per 2 volte il procedimento di emanazione della legge, però il veto era superabile quando le Camere approvavano a maggioranza dei ⅔. Alcuni compiti spettavano ai 2 poteri congiunti: stipulare trattati, nominare ambasciatori, giudici della Corte Suprema, ministri ed altri funzionari. I giudici della Corte Suprema venivano nominati dal Presidente su controllo del Senato. La Costituzione del 1787 è di tipo rigido, in quanto prevedeva una procedura specifica per l’introduzione di emendamenti, i quali dovevano essere approvati da ¾ degli Stati. La Costituzione fu sottoposta agli Stati per l’adesione ed ha poi avuto in complesso fino ad oggi 27 Amendments. L’ultima modifica è del 1992 (contro gli aumenti ai parlamentari mentre sono in carica), ma risale come proposta al 1789: non era mai stata approvata dal numero necessario di Stati. I primi 10 emendamenti, detti anche Bill of Rights , sono relativi ai diritti di libertà. Furono proposti nel 1789 (anno della Rivoluzione francese) ed entrati in vigore nel 1791. La Costituzione è diversa da quella nostra del 1948: è organizzatoria ed attenta ai diritti dei cittadini, senza i proclami programmatici della nostra, che ha ereditato dalla costituzione giacobina francese. La prassi costituzionale con i primi Presidenti fece prevalere l’interpretazione in senso federalista della Costituzione. Il Senato avrebbe potuto co-gestire il potere esecutivo con il Presidente, ma i Federalisti imposero Ministeri monocratici, creando molti departments. Si ebbe un sistema bipolare, perché non vi era la questione della legittimazione dinastica del Re, né una centralità dei Comuni, ma vi fu equilibrio tra le 2 Camere. Il Judicial Review of Legislation (controllo di costituzionalità delle leggi) non fu previsto dalla Costituzione e si sviluppò dopo come sua conseguenza. Il Privy Council dell’epoca coloniale risolveva i conflitti tra leggi centrali e coloniali, le violazioni di carte coloniali, leggi e consuetudini. Si affermò ora l’assunto che esistano principi inderogabili operanti come limiti morali e giuridici fissati nella Costituzione, contro gli abusi del potere e delle maggioranze stesse. L’Unione era considerata libera associazione e la Costituzione un patto sociale di particolare complessità tra entità sovrane, cittadini e Stati ed essendo rigida introduceva vincoli di forma e di contenuto per il Congresso. L’Art.6, II Sezione, disponeva che Costituzione e leggi federali erano la “legge suprema” alla quale i giudici dovevano conformarsi, per cui si introduceva l’idea della gerarchia delle fonti. L’egemonia iniziale dei Federalisti avvantaggiò un’interpretazione centralista, che rafforzò le tendenze di equilibrio e garanzia dell’opinione pubblica, tanto che alcuni Stati dichiararono nulli taluni Acts autoritari del governo federale. Le resistenze di alcuni federalisti e di altri garantisti dettero origine sull’altro lato dello schieramento politico al Partito repubblicano, che nel 1800 conquistò la Presidenza con Jefferson. Con lui, restaurata la semplicità repubblicana si inaugurò la prassi di dare incarichi a uomini del partito vincitore ed i Federalisti sconfitti condivisero l’idea della piena garanzia delle parti politiche (limiti del potere della maggioranza). Nel 1803 ebbe luogo la sentenza di John Marshall, Presidente della Corte Suprema, sulla questione del giudizio di costituzionalità. 1.7. Judicial review of legislation (causa Marlbury vs. Madison, 1803) La sentenza che ha introdotto il sindacato di costituzionalità chiuse una causa contro il nuovo ministro della giustizia Madison, che non aveva applicato le nomine a giudice di pace di Marlbury ed altri per il District of Columbia disposte dalla precedente amministrazione. La legge federale sottraeva il caso alla sua giurisdizione, ma la Corte ritenne che i suoi poteri costituzionali comportassero la competenza. La corte sostenne come verità autoevidenti, le idee centrali della Dichiarazione d’Indipendenza e della Costituzione, che il popolo ha un diritto originario di darsi l’organizzazione necessaria per la propria felicità, e che è un momento permanente dei principi così stabiliti. Il fatto che la Costituzione disciplini il legislativo, non vuol dire che esso non possa modificare la Costituzione. Essa può avere principi fondamentali, ma non vuol dire anche che il legislatore non possa innovarli. La Corte sottolineò che il conflitto tra norme ordinarie e costituzionali era diverso da quello tra norme dello stesso livello, in cui la posteriore prevale. La norma che permetteva di risolvere il conflitto si ritrovava nei principi della codificazione costituzionale scritta. La Corte sostenne che siccome la Costituzione scritta ha carattere fondante, essa è a superior paramount law (diritto superiore). Dall’essere scritta non discende la rigidità. La Corte vide il contrasto non solo come antinomia tra norme sostanziali, ma come violazione delle regole sulla produzione di norme. L’atto poteva essere illegittimo o invalido ma la costituzione non lo diceva per le leggi, determinando quindi una lacuna. Si poteva pensare che non ci fossero conseguenze: ma era quello che la sentenza voleva evitare. Essa affermò che a legislative act contrary to the constitution is not law, che “la legge contraria alla costituzione non è diritto”, non appartiene all’ordinamento. O meglio la legge esiste ma le sue norme incostituzionali non esistono. Chi lo può dire? Per i giudici il conflitto è da decidere se obbedire all’una legge o all’altra, dicendo che un obbligo non esiste. Il nostro ordinamento obbliga il giudice a sospendere l’applicazione della legge ed attendere il verdetto della Corte costituzionale. Non essendoci una disciplina del genere in America, la Corte risolse per tutti: “È certamente compito della magistratura dichiarare quello che è il diritto”. Il giudice giura di agire “conformemente alla Costituzione” e questa contiene norme direttamente applicabili. Le norme costituzionali sono tali per tutte le autorità, per tutti i cittadini. Questa sentenza entrò nella giurisprudenza americana perché rispondeva alla concezione del diritto che era prevalsa nel corso del 700 in America. Già allora i giudici, sentiti come rappresentanti del popolo ed elettivi, avevano goduto di libertà interpretativa delle fonti normative ereditate, common law, carte coloniali, leggi locali e decisioni giudiziarie. Godevano di un potere discrezionale non più ampio di quello dei loro colleghi del Continente europeo. La differenza fu che negli USA la loro attività venne sentita al servizio del progresso e di istituzioni democratiche, mentre in Europa al servizio di governi da abbattere, o remora alle riforme dei governi illuminati. Capitolo 4: COSTITUZIONALISMO FRANCESE 1. La Rivoluzione del 1789 Gli Americani, dopo gli Inglesi, pervennero dalla pratica alla teoria. I Francesi si trovarono a percorrere un itinerario opposto, passando dopo la teoria, con Montesquieu e Rousseau, al concerto, cioè alla rivoluzione. Nel 1789 gli innovatori pensarono ad un regime costituzionale essenzialmente parlamentare, in cui il popolo avesse dei rappresentanti. Ciò si rendeva necessario perché le dimensioni dello Stato non consentivano il funzionamento di una democrazia diretta. La Francia a fine 700 era molto progredita culturalmente (filosofi illuminati) che economicamente, ma era arretrata per le strutture pubbliche e non seppe trovare uno sbocco pacifico per un’evoluzione parlamentare. Gli Stati Generali non erano più stati convocati dal 1614 dopo la lotta tra ceti e potere centrale. Il Re voleva evitare la sfida con questi, tanto che con il ministro Necker tentò la strada delle riforme ed adottò provvedimenti liberisti. Essi trovarono l’opposizione del Parlamento di Parigi che , oltre ad essere organo giudiziario era organo di controllo delle leggi fondamentali del regno. I giudici appartenenti al Parlamento respinsero le registrazioni di tali editti sostenendo che in base alle leggi fondamentali del Regno (costituzione non scritta d’Ancien régime) richiedevano il consenso degli Stati Generali. Nel 1787 il Re volle evitare la convocazione tentando una sovvenzione territoriale, che era un’imposta immobiliare da applicare al clero ed alla nobiltà. Il Parlamento rifiutò la registrazione anche se tale atto era comandato dal Lit de justice del Re, che imponeva la registrazione, perché ritenuto illegale, in quanto le imposizioni fiscali dovevano essere approvate dagli Stati Generali. Il Re dichiarò l’esilio dei parlamentari ma la nobiltà di spada fece causa comune con le toghe ed il Re capitolò. Fu richiamato Necker, che revocò la riforma giudiziaria e convocò gli Stati Generali per l’anno dopo. Nel frattempo la nobiltà voleva andare agli Stati Generali per confermare l’esistenza di ceto separato dagli altri e la posizione di privilegio. Il Terzo Stato (borghesia) voleva partecipare per avere un peso maggiore, visto che rappresentava il popolo. Il Parlamento sostenne che i 3 Stati dovevano essere numericamente uguali e che dovevano esprimere separatamente il proprio voto, per ordini. Il Terzo Stato chiese un’assemblea unica in cui fossero prevalenti i propri deputati, votando per teste, dato che rappresentavano 25 milioni di sudditi contro i 100mila ecclesiastici e i 400mila nobili. Necker accettò il raddoppio del numero dei rappresentanti del Terzo Stato. Si fecero le lettere di convocazione: localmente vennero fatte le assemblee per eleggere i rappresentanti; le elezioni del Terzo Stato vennero fatte per gradi a differenza degli altri Stati, in cui erano dirette. Si predisposero i Cahiers de doléances, quaderni di lagnanze, in cui si annotavano le lamentele che il ceto voleva portare a conoscenza. I cahiers divennero manifesti di propaganda politica e ad essi si collegavano i programmi dei candidati. In essi si insisteva sui problemi di libertà personale e sulla necessità di istituzioni rappresentative. I ceti privilegiati volevano una costituzione mista dualistica: il Re con poteri per l’esecutivo da un lato e l’assemblea per approvare le leggi e le tasse dall’altro. Il Terzo Stato, che doveva rappresentare il Paese, rappresentava solo la borghesia colta. I rappresentanti si riunirono a Versailles ed il Terzo Stato riuscì ad affermarsi come rappresentante del Paese. Il primo atto fu la verifica dei poteri: si doveva verificare che ogni delegato fosse veramente il legittimo rappresentante eletto. Il Terzo Stato sosteneva che andava fatto congiuntamente, gli altri la rifiutarono. Il Terzo Stato allora,il 12 giugno, stabilì che avrebbe iniziata la verifica dei poteri dei propri eletti ed invitò gli altri a presentarsi; cosa che fecero in pochi. Il 17 giugno Siéyès fece stilare una dichiarazione sulla costituzione dell’assemblea, in cui si diceva che i presenti rappresentavano il 96% del Paese e potevano procedere in assenza della minoranza. I delegati si dichiararono Assemblea Nazionale, la sola che interpretasse la volontà generale della Nazione (formula roussoviana), acquistando i poteri costituenti. Il 19 giugno il clero accettò la verifica dei poteri congiuntamente mentre i nobili resistettero. 2. La centralità della Costituzione e la Dichiarazione Il 20 giugno si passò al giuramento nella Sala della Pallacorda in cui i presenti si impegnarono a non separarsi fino a che non avessero dato una Costituzione alla Francia. Era eccedere il mandato previsto, per cui il Re ebbe un pretesto per tentare di disperdere i membri dell’Assemblea, ma alcuni nobili patrioti resistettero alle guardie (La Fayette). Il 9 luglio fu proclamata l’Assemblea Nazionale Costituente. La Francia doveva avere una Costituzione. Il Re fece convergere i reggimenti su Parigi, Necker venne esiliato ed il governo fu affidato ai reazionari. Il Terzo Stato si riunì all’Hotel de Ville (palazzo del Comune) istituendo la Guardia Nazionale il cui capo era La Fayette. Il 14 luglio si ebbe la presa della Bastiglia, il carcere-fortezza dove erano tenute le armi. I nobili fuggirono ed il Re riconobbe la Municipalità di Parigi. Il 4 agosto l’Assemblea Costituente dichiarò decaduti i diritti feudali, atto rivoluzionario che cancellò secoli di poteri feudali nelle campagne. Il 27 proclamò la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, con i principi cui la nuova Costituzione si sarebbe dovuta attenere. Si conferiva centralità alle legge ed al potere legislativo, si individuarono forma ed autorità con cui la disciplina sostanziale dei rapporti era riservata. La riserva di legge aveva la funzione di evitare che su quella materia altri potessero dettare norme (supremazia del legislatore). Il testo della Dichiarazione è stato sottoposto a discussioni, ma essa enuncia principi validi universalmente e confrontandola con la Dichiarazione americana c’è una concezione diversa del rapporto tra potere e legalità. Le colonie avevano lamentato abusi del buon vecchio diritto e volevano porre garanzie nei confronti dei nuovi poteri. I Francesi invece furono più generici e radicali nei confronti del passato. Si condannò senza nulla salvare del passato e si affidò al legislatore il compito di rendere positivi quei diritti, non di porre garanzie. Si disse cosa doveva fare il legislatore in termini di metodo. Nel preambolo: “i diritti sono enunciati affinché gli atti del potere legislativo ed esecutivo possano essere confrontati con i fini delle istituzioni politiche e vengano maggiormente rispettati”; o perché “i reclami dei cittadini siano sempre rivolti al mantenimento della Costituzione”. Le libertà erano riconosciute, ma si faceva rinvio alle leggi per disciplinarle: non si fissavano i comportamenti consentiti, ma si individuava la forma (legge) e l’autorità (corpo rappresentativo) cui la disciplina era riservata. La “riserva di legge” diverrà importante negli ordinamenti dualisti: lì la legge era il luogo di incontro delle volontà del Parlamento e del Re che doveva sanzionarla, definendo i diritti dei singoli ed i poteri dell’autorità. Sottoporre a riserva di legge voleva dire sottrarre ai poteri autoritativi finché il Parlamento non disciplini la materia. Qui siamo in clima monista perché la sovranità risiede nella Nazione, fonte di ogni autorità attraverso la legge, espressione della volontà generale. Le riserve di legge che prefigurano l’idea che i poteri pubblici si debbano muovere entro i imiti posti dalla legge: il principio-base dello “Stato di diritto” ottocentesco. La legge doveva stabilire la disciplina in quei settori, anche quando l’autorità non era interessata (“se non nei casi determinati dalla legge e secondo le forme che questa ha prescritto”). Pur affermando la separazione dei poteri, la Dichiarazione dà rilievo al potere legislativo. L’art.6 dice che la legge è espressione della volontà generale e che i cittadini possono concorre a formarla direttamente o tramite rappresentanti. Il potere legislativo si configurò nell’Assemblea Nazionale costituente e ciò condizionò gli eventi successivi, per cui darà modelli alla Convenzione, una specie di Costituzione permanente. Le fasi della rivoluzione spezzeranno il corpo legislativo. Intanto si impose l’idea della supremazia del legislatore e rimase preclusa l’idea dei limiti giuridico - formali per il legislatore e la “volontà generale”. Il Re rifiutò l’approvazione dei decreti del 4 agosto e si formò un partito, quello del Monarchistes, sostenitori di una monarchia costituzionale con 2 camere e col potere del Re di veto su quanto veniva approvato dalle assemblee (la costituzione inglese del 700). La marcia su Versailles delle donne ricondusse il Re a Parigi che rinunciò al potere di veto. Nell’ambito del Terzo Stato si fece forte la corrente di centro (liberal moderati) che cercò di emarginare la sinistra e la destra. Essa controllava l’Assemblea Costituente e guidò la formazione della Costituzione del 91. Nel frattempo si dette vita ad una Costituzione provvisoria. Il Re era Re dei Francesi e funzionario della Nazione, dotato di una “lista civile” e del potere esecutivo. I ministri erano del Re, non potevano essere membri dell’assemblea e partecipare alle sue deliberazioni. Le elezioni si svolgevano in modo diverso a seconda dei ceti e si introdusse il requisito del censo. La proprietà era sacra ed inviolabile. Più dura fu la riforma ecclesiastica che vide la nazionalizzazione dei beni del clero. Gli ecclesiastici diventarono funzionari statali, svolgendo un lavoro ed occupandosi dei fedeli. Si parla di costituzione civile del clero, non più autonomo ma disciplinato dallo Stato. Questa “costituzione” prevedeva come fosse strutturato il potere all’interno della Chiesa. Non tutto il clero si adattò a questa situazione, metà rifiutò e ritrattò (clero refrattario). I sans coulottse criticarono l’Assemblea Nazionale per il suo orientamento borghese. Nel 91 si giunse a reprimere l’associazionismo operaio. L’assemblea si doveva difendere da 2 parti. Il Re fuggì da Parigi ma venne fermato a Varennes e fu sospeso dalle sue funzioni. 3. Verso la Costituzione monarchica L’Assemblea dovette comportarsi da istituzione suprema, abolì ogni dualismo con il Re, rendendo la figura inutile. Il giorno dopo la fuga, convocò i ministri del re, i quali avrebbero preso ordini da questa e organizzò un Governo provvisorio mettendosi a suo capo. La direzione politica era di chi era a capo della maggioranza assembleare, i ministri non potevano partecipare all’Assemblea. Un gruppo di centro dirigeva tutto. Si emarginò la sinistra, furono chiuse molte società popolari e la dimostrazione di Campo di Marte fu dispersa con fucilate dalle guardie di La Fayette. Il centro proclamò la “riconciliazione nazionale”: il partito dei “foglianti” voleva una costituzione monarchica moderata all’inglese. Si arrivò alla Costituzione del 91, che si apre con la Dichiarazione dei diritti. Essa tratta l’uguaglianza nelle cariche, l’elezione del clero e la sovranità della Nazione, che delegava il potere legislativo all’Assemblea. L’esecutivo apparteneva al Re ed il giudiziario ai magistrati elettivi. L’Assemblea era biennale. Il Re doveva prestare giuramento di fedeltà; era “irresponsabile” perché i ministri che dipendevano da lui lo coprivano giuridicamente. Essi dovevano controfirmare gli atti assumendosi la responsabilità giuridica. Sul piano penale l’accusa spettava all’Assemblea che decideva l’impeachment o la difesa dei ministri. Il Re deteneva il potere esecutivo in via esclusiva; non aveva iniziativa legislativa anche se gli rimaneva il veto sospensivo delle leggi, superabile se l’Assemblea votava lo stesso testo nelle 2 legislature successive. La Costituzione non resse per i conflitti sociali ed alcune contraddizioni interne: non è dualista. C’era uno sbilanciamento a favore dell’Assemblea in vista del potere dell’apparato esecutivo. Siccome in Francia si ebbero apparati pubblici fortissimi il problema del rapporto tra tale apparato e volontà generale espressa nell’Assemblea rimase grave e la preminenza dell’Assemblea spesso sarà solo declamatoria. Il modello della Costituzione del 91 era quello inglese del 1688-1689 ripreso con riserve, col Re a capo dell’esecutivo e l’Assemblea con competenze di alta amministrazione. Il Re e la Corte avrebbero voluto recuperare i poteri governativi, per cui i foglianti avrebbero voluto assumere un ruolo di cerniera contrattando col Re in cambio del controllo della maggioranza. Un altro aspetto importante fu il sistema delle fonti con la gerarchia Costituzione - leggi di revisione costituzionale e poi leggi normali-proclami del Re. Atti legislativi erano quelli che ottenevano la sanzione del Re: leggi in senso stretto; i decreti erano dell’Assemblea, in materia di tributi; vi erano atti che avevano la forza di leggi, adottati dall’Assemblea in materia di polizia interna, responsabilità dei ministri, ecc. 4. Costituzione dell’anno I: trionfo giacobino La Costituzione successiva è detta dell’anno I perché fu approvata nel 1793 dall’Assemblea (detta Convenzione) a un anno della proclamazione della Repubblica . Un esecutivo di 24 membri aveva condannato a morte Luigi XVI. Questa Costituzione è il modello delle costituzioni “giacobine”, perché prevalse la sinistra montagnarda. Essa non prevede la separazione dei poteri, che appartengono tutti all’Assemblea. La sovranità diviene popolare e non nazionale: fu abolito il criterio censuario per le elezioni; oltre al diritto di proprietà venne sancito quello al lavoro ed all’assistenza da parte dello Stato. Questa Costituzione rimase sulla carta perché operò maggiormente il Comitato di salute pubblica di Robespierre. 5. Costituzione dell’anno III: ripresa moderata Nel 95 si ebbe un’altra Costituzione, dell’anno III, detta del “Direttorio”. Fu ripristinato l’elettorato per censo, la Dichiarazione dei diritti è accompagnata da una Dichiarazione dei doveri, massime di ordine morale (essere buon padre, buon marito, …). Il potere legislativo era affidato alle 2 Camere elette per 3 anni, delle quali l’una predisponeva testi legislativi da essere approvati dall’altra; l’esecutivo spettava al Direttorio composto di 5 membri nominati da una Camera tra i nomi proposti dall’altra. Il Direttorio fu dominato da Barras ed il Corpo legislativo fu bloccato dai conflitti interni. Il potere conferito ai militari condusse alla presa di potere di Napoleone, nel 1799. La Costituzione dell’anno III è importante perché in questi anni (1796) l’Italia fu invasa dalle truppe di Napoleone e le terre liberate dovendosi dare una costituzione presero ispirazione da questa. Sui tempi lunghi la Costituzione giacobina ebbe maggior influsso. Non solo era costituzione che garantisce le libertà individuali ma promuove (con il diritto al lavoro, …) le riforme sociali. Una costituzione che ha lasciato il segno nell’elaborazione della Costituzione italiana. Le altre costituzioni fino alla Restaurazione sono meno interessanti perché segnarono il rafforzarsi dell’immagine di Napoleone, divenuto arbitro assoluto della situazione politico-istituzionale francese fino alla sua ascesa all’Impero (1804). Si tornò ad una monarchia ereditaria, alla distinzione tra elettorato attivo e passivo in base al censo, ai poteri nobiliari, al maggiorascato, al giuramento di stampo feudale, ai grandi ufficiali della Corona. Si curò molto la forma, tanto da dar vita al concetto politico del bonapartismo. Capitolo 5: L’800 COSTITUZIONALE 1. Paesi anglo-americani La Gran Bretagna non ha tuttora una Costituzione scritta ma consuetudini costituzionali e atti scritti (dalla Magna Carta in poi) che ne hanno segnato la storia costituzionale. Quella inglese è una costituzione consuetudinaria in cui rimane centrale il potere del Parlamento. Rimane oggi a Costituzione flessibile, modificabile con i mezzo ordinari di legislazione. Raggiunta la maggioranza degli elettori del Paese, i parlamentari devono adempiere agli obiettivi prefissati nel programma entri i pochi anni di durata della legislatura, all’interno della quale potrebbe esserci la modifica di norme costituzionali. Sono gli elettori che decidono se si può attuare un cambiamento di Costituzione, perché è chiaro che il Parlamento si deve rivolgere all’elettorato, in quanto non si possono prendere decisioni che alterino il rapporto di fiducia tra i poteri pubblici ed il Paese. Per lo stesso motivo non c’è sindacato di costituzionalità sulle leggi. Nell’800 il sistema fu sottoposto a riforme incisive quanto al sistema elettorale, rimasto fondato su distretti elettorali obsoleti (questione dei borghi putridi). Il suffragio venne allargato ed andarono organizzandosi in modo moderno i partiti nazionali. Il tempo della regina Vittoria fu contrassegnato dal consolidamento dell’Impero coloniale e da riforme incisive in tema di giustizia, con l’eliminazione delle corti di origine medievale e l’istituzione di un sistema gerarchizzato di tipo continentale. Una modifica andò subendo la House of Lords, che perse il potere di veto nei confronti dei provvedimenti voluti dai Comuni. La nobiltà cominciava a perdere colpi. Il suffragio universale ha fatto il resto con un’estensione alle donne del diritto di voto grazie alla battaglia delle suffragette. 1.1. Negli USA dopo l’introduzione del sindacato di costituzionalità, il problema fu quello della schiavitù, sulla quale si reggeva l’economia di Stati del sud. Erano divenuti 3 milioni nel 1860. Nel primo 800 gli Stati del sud dovettero emanare dei Black Codes (codici neri) con norme di contenimento degli schiavi. Nel 1842 la Corte suprema americana sentenziò che gli ufficiali pubblici non avevano l’obbligo di restituire gli schiavi fuggiti (Prigg vs. Pennsylvania), ma una legge del Kansas e del Nebraska del 1854 proclamava che la schiavitù era un problema statale e non federale; la Corte suprema nel 1857 (Scott vs. Sandford) confermò questo orientamento e pose le premesse giuridiche della guerra civile. Solo il XIII Emendamento della Costituzione eliminò la schiavitù. In America latina gli Stati l’abolirono a metà 800 mentre in Europa solo molto più tardi. La Lega delle Nazioni nel 1926 fece firmare una convenzione internazionale e trovò solo 36 aderenti. La Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’ONU nel dopoguerra ha condannato la schiavitù ma pochi Stati hanno siglato questo documento. Nei 2 secoli di schiavismo il commerciò riguardò 27 milioni di persone. 2. Vicende politico-costituzionali in Italia 2.1. Periodo napoleonico (1796-1814) Ricordiamo le terre che rimasero libere dall’invasione francese. La Sardegna richiede poche parole, perché i Savoia trovarono rifugio a Cagliari e si chiusero in un immobilismo metodico, senza nessuna riforma. La Sicilia dovette ospitare la corte borbonica fuggita da Napoli e la debolezza della monarchia e la tradizione parlamentare consentì l’eliminazione del feudo e l’approvazione di una Costituzione del 1812, ricordata quale modello nel periodo della Restaurazione. La costituzione siciliana traduceva in norme scritte ed ordinate sistematicamente le soluzioni trovate col tempo nell’esperienza costituzionale francese ed inglese. Distingue e disciplina le funzioni del governo e del parlamento per controllarne le spese e si compone di 2 Camere, una riservata ai baroni (Pari) come in Inghilterra, e l’altra ai Comuni, con elezione censuaria e voto pubblico ed orale. Si sancì il diritto all’istruzione elementare e di resistenza contro le pretese illegittime dell’autorità. Fu messa da parte nel 1815 essendo ritornata la normalità assolutistica dei Borboni passato il pericolo francese. 2.2. Terre occupate I proclami liberali ed egualitari della Rivoluzione francese si smorzarono ma ci fu un’alterazione degli equilibri politici, sociali e culturali precedenti degli Stati preunitari e l’abbattimento di istituzioni repubblicane. Innovativo fu l’intervento amministrativo il quale diede vita ad un ordinamento burocratico molto accentrato con l’instaurazione di ordinamenti uniformi di tipo francese accentrati, autoritari, gerarchicamente ordinati. Caratteristico fu il posto centrale assicurato ai prefetti, che sovrintendevano a tutti i rami dell’amministrazione pubblica. Le suddivisioni provinciali furono sostituite dai dipartimenti. Gli enti locali funzionarono sotto tutela come sotto l’Ancien régime ma furono disciplinati in modo uniforme. Fu eliminato il feudo ovunque, con perdita degli usi civici, favorendo le premesse del brigantaggio. Si ebbe l’emersione di una nuova nobiltà cui furono conferiti titoli ed assegni dallo Stato in luogo dei poteri feudali. Novità si ebbero per quanto riguarda il clero. Si combatté la credulità nei miracoli, si adottarono leggi eversive della manomorta ecclesiastica e degli ordini religiosi contemplativi sul tipo dei benedettini, si avocò allo Stato la celebrazione dei matrimoni e la possibilità di concedere divorzi, oltreché introdurre la comunione legale dei beni tra coniugi secondo la tradizione francese. Gli interventi di nazionalizzazione dei beni degli enti religiosi misero a disposizione enormi patrimoni immobiliari. La legge statale non aveva mai avuto estensione tanto ampia né lo Stato era mai stato così laico. Fu di straordinaria importanza la rivendicazione da parte dello Stato dell’istruzione ad ogni livello, per cui all’Università si ebbe il controllo dei libri e delle lezioni da parte statale. Fu istituito il Diritto costituzionale o pubblico e per un certo tempo fu eliminato il Diritto romano, canonico, ed il notariato. Si abolirono le scuole ecclesiastiche e si tolsero i preti dai posti direttivi: la scuola doveva esaltare lo Stato. Vi fu intolleranza nei confronti dei preti e vescovi che non aderivano alle riforme. La Chiesa fu sottoposta al controllo statale con il disaccordo di Papa Pio VII il quale nel 1813 dovette piegarsi ad un concordato umiliante. L’opinione pubblica fu colpita dalle novità. I favorevoli furono bollati come giacobini. Chi non era d’accordo col nuovo regime doveva guardarsi dall’operare contro di esso perché era organizzata una repressione di polizia contro i non conformisti ed i sospetti di sedizione. Non meraviglia che venisse limitato il diritto di riunione e di associazione, ci fosse la censura sulla stampa, fossero istituiti tribunali speciali per l’ordine pubblico. 2.3. Un esempio di costituzione: della Repubblica romana del 1798-1799 Le costituzioni che furono date dai francesi furono imitazioni di quelle dell’anno III della Repubblica francese, dette “giacobine” anche se impropriamente. Non presentano caratteri di novità e furono poco rispettate nei fatti. Erano documenti di solito applicati al benestare dei rappresentanti del governo francese. Rappresentano un momento di elaborazione e di riflessione costituzionale per i ceti dirigenti ed abituarono alla cultura costituzionale, che si tradusse in un’aspirazione diffusa al tempo della Restaurazione. La costituzione che i francesi dettero allo Stato pontificio è modellata su quella dell’anno III francese e comportò il venir meno del particolarismo esistente nello Stato pontificio, che veniva riordinato razionalmente realizzandosi un’unificazione dei suoi variegati territori; si prevedeva di completare l’unificazione con un’unica normativa civile e penale. Gli istituti francesi vennero modificati ispirandosi a cariche del passato classico, Tribunato, Consolato, Senato. La Cassazione diviene l’Alta Pretura, si subordinava allo status matrimoniale o vedovile la possibilità di rivestire cariche col proposito di escluderne i preti. Si tutela il cittadino in sede istruttoria e si tendesse alla promozione della cultura in una cornice di virtù repubblicane d’ispirazione roussoviana che non favorisce l’associazionismo politico, ritenuto disgregatore dell’unità popolare. 3. La Restaurazione fino ai “moti” del 1848 Con la Restaurazione furono eliminate le Costituzioni ma non le innovazioni introdotte dai francesi, in particolare quelle amministrative che tornavano utili ai governi restaurati che avevano interesse a mantenere la gestione diretta di tutto il territorio. Non fu ripristinato il sistema feudale, la cui eliminazione era conveniente per l’autorità statale e l’uniformità amministrativa e fiscale. Prima del 1848 il problema delle costituzioni si era connesso con quello dell’unità auspicata nella Repubblica Cisalpina al tempo del concorso sul tema Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia vinto da Melchiorre Gioia. Decisivo fu il ruolo del Papato, dato che sembrava impossibile sopprimere lo Stato pontificio. Pio IX fu visto come l’uomo giusto per un progetto federale perché riconciliava libertà e religione. La Costituzione veniva ritenuta garanzia di libertà, un freno ai poteri monarchici assoluti. La Francia di Luigi Filippo aveva avuto una costituzione nel 1830 moderata, il juste milieu, il giusto mezzo, ed il Belgio, resosi indipendente dall’Olanda l’aveva seguita con una costituzione del 1831; entrambe si erano diffuse come modelli auspicabili per l’imitazione. Lo si vide durante la mobilitazione liberale del 1848. In Italia nel gennaio Palermo era in armi, con un Comitato di governo provvisorio e con il Pretore (sindaco), che dichiarò al rappresentante del Re che si sarebbero deposte le armi quando il Parlamento avesse adattato ai tempi la Costituzione; quella del 1813 non era mai stata revocata. Ferdinando II procedette molto rapidamente alla sua promulgazione ai primi di febbraio. In Piemonte la carta costituzionale fu promulgata a marzo, chiamata statuto fondamentale del Regno. A febbraio uscì a Firenze un manifesto in cui si chiedeva la promulgazione a Leopoldo II della Carta pubblicata sull’esempio francese del 1830, che aveva abolito la censura sulla stampa. A Roma Pio IX aveva costituito la Consulta di Stato, con cittadini laici scelti e diretti da 2 prelati ed aveva emanato una legge sulla stampa vincolandola a non mettere in cattiva luce gli atti del Governo. Al Senato di Roma, che chiese un governo rappresentativo, rispose che era difficile separare le 2 dignità che rivestiva. Quando il governo del cardinale Antonelli forzò la mano il Papa concesse la Costituzione. Modena e Parma seguirono l’esempio. Gli ostacoli ad applicare le costituzioni furono fortissimi fuorché in Piemonte, dove si prese a modello la Costituzione francese del 1830, che aveva affermato i principi liberali minimi dello Stato di diritto: un Parlamento con capacità di iniziativa legislativa e facoltà di accusare i ministri; inamovibilità dei magistrati, pubblicità delle sedute parlamentari; incapacità per il Re di sospendere le leggi. Lo Statuto Albertino fu l’unico a sopravvivere in quella stagione costituzionale perché sostenuto dal ceto dirigente sabaudo. 3.1. Lo Stato pontificio Lo Statuto pontificio affermava che il governo temporale era secondario rispetto alle necessità sovrane della Chiesa. A capo dello Stato c’era il Papa ed il Sacro Collegio dei cardinali. Delle funzioni parlamentari erano investiti un “Alto Consiglio” di nomina papale ed il Consiglio dei deputati eletti da 9 categorie di cittadini. Il governo non si sarebbe presentato a giustificare il suo operato alle assemblee. L’Alto Consiglio non fece nulla e nemmeno fece fare ad altri. Il ministro dell’interno Terenzio Mamiani enunciò un programma che otteneva la fiducia dei parlamentari ma il governo non poteva agire perché la curia bloccava tutto, volendo il Papa evitare la guerra con l’Austria. Il Papa chiamò Pellegrino Rossi, che cercò di risolvere i problemi, ma un esaltato lo uccise pensando che fosse contrario alla ripresa della guerra con l’Austria. Fuggito Pio IX si ebbe un’Assemblea Costituente a suffragio universale, che proclamò la Repubblica e fondò la costituzione sul potere popolare. Fu proclamata il 3 luglio 1849 ma il giorno dopo arrivarono le truppe straniere. 3.2. Aspirazioni federali A Napoli si ebbe una costituzione di tipo francese, ma il Parlamento fu convocato quando la sua causa era fallita. L’esercito si schierò con la corte, i ministri erano impauriti e i parlamentari furono espulsi perché si erano rifiutati di giurare al Re. Nel 1849 il Parlamento venne sciolto con un decreto regio che deplorava la “fremente ambizione” con cui si erano violati i diritti del Principe, che provvide alla repressione. In Sicilia si ebbe l’unica costituzione elaborata dai rappresentanti del paese. Le 2 Camere, dei Comuni e dei Pari, aggiornarono la Costituzione del 1812. Il “Re dei siciliani” era tale grazie alla Costituzione del Regno, i ministri erano non parlamentari e responsabili, era previsto il diritto di resistenza. La Corona fu offerta al duca di Genova, uno dei Savoia, che non riuscì a cingerla. Nel 1849 la repressione borbonica fu facile perché il Parlamento bloccava il governo. Era sembrata vicina la realizzazione del progetto mazziniano della Costituente nazionale che avrebbe dovuto risolvere il problema dell’Unità e della sua forma istituzionale. La Costituzione era auspicata da tutti. Inoltre si parlava di una Dieta permanente a Roma A Torino compariva la “Società per la federazione italiana” con presidente Vincenzo Gioberti contro i separatismi ed a favore dell’unità, indifferente al Regno d’Alta Italia cui ambivano i Savoia. Esisteva una divisione tra unitari e federalisti, tra parlamentaristi e quelli che volevano rappresentanti eletti a suffragio universale: Montanelli voleva una Costituente che fissasse le norme per la Dieta. A Genova ci furono manifestazioni a favore e Carlo Alberto dovette chiamare al governo Gioberti, avallando l’idea della Costituente fiorentina. Iniziarono le trattative per far passare l’idea che i Savoia dovessero essere i prescelti da mettere a capo della federazione italiana. Si voleva convocare una Costituente per l’Unità senza pregiudizio per l’autonomia dei vari Stati. A Firenze in assenza di Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni ,decretarono la convocazione dell’Assemblea legislativa toscana. Il disegno costituente risultò superato con la restaurazione dei governi legittimi. 3.3. Lo Statuto Albertino (1848) Lo Statuto Albertino fu promulgato il 4 marzo 1848. Si trattava di una carta ottorgata o ottriata. Il Re concesse la carta. L’espressione era tecnica, manifestazione di potere assoluto indipendentemente dalla legittimità dell’atto. Il Re aveva limitato l’esercizio dei suoi poteri divenuto sovrano costituzionale. Il Re, capo dello Stato monarchico rappresentativo, non parlamentare, ereditario secondo la legge salica, con esclusione della successione delle donne, era capo del potere esecutivo e della magistratura, nonché partecipe col Parlamento del potere legislativo. La persona del Re era sacra ed inviolabile, per i suo atti non era responsabile: era il ministro controfirmante che ne assumeva la responsabilità. Si prevedeva che il Re giurasse il rispetto dello Statuto che aveva dichiarato “legge fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia”. Già Cavour cominciò a dire che sarebbe assurdo ritenere intangibile la Costituzione; si doveva ritenere irrevocabile nei principi e non in tutte le sue proposizioni. Nei giudizi civili il re poteva essere convenuto tramite il ministro della Real Casa. Percepiva la lista civile, dotazione della corona decisa per legge all’inizio di ogni Regno. La successione avveniva in base al principio “le mort saisit le vif”, ossia “morto il Re, viva il Re”, nel senso che era automatica. La rinuncia alla corona non era prevista come il matrimonio morganatico, che non estendeva la propria condizione alla moglie. Non erano previsti luogotenenti regi né nazionali né regionali. Il Re era a capo del potere esecutivo con funzione preminente anche per le forze armate; dichiarazioni di guerra e trattati erano da comunicare alle Camere quando interesse e sicurezza dello Stato lo avessero permesso. Al sovrano spettava l’emanazione di decreti e regolamenti di attuazione delle leggi. Il Re riceveva i ricordi di giustizia amministrativa, poteva far grazie e commutare le pene. Nel concetto di grazia era compreso l’indulto (estinzione o riduzione della pena) e l’amnistia (estinzione del reato). Il Senato era vitalizio e di nomina regia; i suoi membri erano scelti (età minima 40 anni) tra categorie sociali, oltre a principi reali membri di diritto. Al Re spettava la nomina del Presidente e del Vicepresidente del Senato, segretari e questori erano elettivi. I membri scelti dovevano essere convalidati dal Senato, che a volte non approvò con considerazioni di merito. La Camera Alta, come si chiamava il Senato, conservava gli atti anagrafici dei membri della casa reale e fungeva da corte di giustizia per i delitti di tradimento ed attentato allo Stato, nonché per i ministri messi in stato di accusa dalla Camera. Giudicava i propri membri in sede penale. I sentori godevano dell’habeas corpus, privilegio di non poter essere arrestati se non per delitto flagrante. La Camera era elettiva (età minima 30 anni) in base alla legge elettorale; i membri rappresentavano la Nazione senza mandato imperativo. Il Presidente e gli organi interni venivano eletti dall’assemblea. Era necessaria per i suoi membri l’autorizzazione all’arresto fuorché per diritto flagrante. Erano insindacabili, come i senatori, per le opinioni espresse ed i voti dati nell’assemblea, ma non furono retribuiti fino al 1912. Il Re poteva prorogare e sciogliere la Camera ma doveva convocarne un’altra entro 4 mesi. L’iniziativa legislativa spettava al Re ed a ciascuna Camera. Era necessario approvare entro ogni sessione i disegni di legge da tutte e 2 le Camere altrimenti si aveva decadenza (come avviene oggi). Lo Statuto parla di ministri, non di Governo, ed essi venivano nominati e revocati dal Re e non votavano nelle Camere. Non si parla della figura di Presidente del Consiglio dei ministri, mentre la storia italiana fu nominata da questa figura, né della fiducia di cui dovessero godere i ministri da parte delle Camere. Otto articoli vertono sui diritti e doveri dei cittadini, con rinvii alle leggi ordinarie. Si trattava di dichiarazioni di principio come l’uguaglianza dei cittadini nei diritti civili e politici, anche se il censo li limitava, e nell’ammissione alle cariche, con eccezioni di legge; l’uguaglianza era garantita nei carichi fiscali, contro i privilegi di nobiltà e clero. Si dichiaravano protetti la libertà individuale, la proprietà ed il domicilio, la libertà di stampa ( per il libri religiosi si riconosce la censura preventiva del diocesano). Il Cattolicesimo viene configurato come religione di Stato e gli altri culti erano tollerati. Lo Statuto rimase in vigore fino all’entrata in vigore della Costituzione attuale. 3.4. Da monarchia costituzionale “pura” a monarchia “parlamentare” Varie leggi e consuetudini integrarono lo Statuto. Esso non disciplinava il rapporto di fiducia tra governo e Camere, anche se quella dei deputati ebbe il primato di designare i ministri. Per consuetudine o per assenso si convenne che la “monarchia rappresentativa” fosse una “monarchia parlamentare”. L’art. 67 diceva che erano responsabili i ministri, ma non precisava nei confronti di chi. Era l’esperienza inglese che si prendeva a modello. Infatti i ministri redattori dello Statuto si dimisero appena approvato, perché era “mutato il regime politico” ed il Re doveva operare con nuovi ministri: così il Governo fu affidato a Cesare Balbo. Le elezioni si tennero col sistema uninominale e l’8 maggio iniziò l’attività del Parlamento. Sulla questione dell’unione con la Lombardia il governo finì in minoranza davanti alla Camera, per cui un ministro andò dal Re per presentare le dimissioni. Nel 1848 si ebbero 2 crisi, una parlamentare ed una extraparlamentare. A fine anno la prassi del voto di fiducia divenne costante, con un’evoluzione della costituzione, ed il nuovo capo di Governo Gioberti chiese al Re le nuove elezioni. Gioberti venne sostituito ed il Governo ottenne la sospensione delle garanzie costituzionali per la durata delle ostilità. Con l’armistizio di Vignale si giunse all’abdicazione di Carlo Alberto. Vittorio Emanuele fu rifiutato dalla Camera, che non voleva l’esecuzione dell’armistizio. Il Re comparve alla Camera e giurò di adempiere ai suoi doveri con la cooperazione del Parlamento. Le nuove elezioni videro la vittoria “democratica”. La nuova Camera (la terza in un anno) rifiutò di approvare il trattato di pace con l’Austria. Ci fu un nuovo scioglimento della Camera per nuove elezioni: il Re nel proclama di Moncalieri sostenne che la Camera precedente aveva violato l’indipendenza dei poteri e condannò la tirannia dei partiti. Si ebbe un colpo di Stato perché il Re avrebbe usurpato i poteri che non gli competevano esclusivamente, per cui con la minaccia avrebbe compromesso i diritti dei parlamentari ed alterato le vicende successive (abuso della corona). Ma Vittorio Emanuele aveva dato la sua parola agli Austriaci ed il “Re galantuomo” aveva ottenuto patti onorevoli. Aveva violato l’ordinamento, ma poteva giovarsi dello stato di necessità. Le elezioni videro un intervento del governo ed un risultato scontato a suo favore, ma Cavour con il giornale “Risorgimento” vi ebbe un ruolo importante. La nuova Camera non ebbe vita tranquilla, con D’Azeglio che emanò provvedimenti discussi, come l’introduzione del matrimonio civile, sancì come invalido il matrimonio tridentino. Nel 1852 il Re reagì sostenendo che la coscienza non gli avrebbe permesso di sanzionare tale legge: nuova crisi extraparlamentare. Nel 1855 di nuovo crisi, quando un vescovo tentò un compromesso tra Savoia e Santa Sede: fu sconfessato dal Governo e dalla Camera. Il Re per merito di Cavour dovette sanzionare delle leggi che aborriva e si convinse che non poteva andare contro la Camera ed il Governo. Il regime divenne più parlamentare ed incentrato sul Governo: non più sui singoli ministri, ma sul collegio che delibera; nel marzo 1848 Cesare Balbo era stato indicato nella risoluzione sovrana come “Presidente del Consiglio dei ministri”. Solo un regolamento del 1850 parlò di materie che non potevano essere decise che dal Consiglio dei ministri. Si continuava a dire che i ministri erano tutti uguali e che solo per comodità quando non c’era il Re si aveva la presidenza di un ministro. Importante fu il potere del Governo di emanare norme giuridiche per decreto. Un decreto del 1850 dispose che il Governo potesse legiferare su ordine pubblico, alta amministrazione, trattati internazionali, conflitti di attribuzioni tra ministri, proposte di nomina di arcivescovi e vescovi, alti magistrati, senatori, conferimento nobiltà … Il potere del Governo abbracciava tutti gli atti del Re, ma taluno ritenne che ne fossero eccettuati gli atti del potere moderatore, detto potere di prerogativa (sovrana), come di convocazione, proroga e scioglimento delle Camere, grazia ed amnistia. Si sostenne che tali atti li dovessero controfirmare i suoi ministri. C’erano i regolamenti di esecuzione di leggi e di disciplina dell’attività amministrativa. Il Parlamento delegò al governo l’emanazione di norme nelle materie che lo Statuto riservava ad esso (Parlamento) in materia tributaria e penale. Nel 1848 durante la guerra il Governo fu destinatario di tutti i poteri per gli atti necessari per la difesa della patria e delle istituzioni, comprese l’emanazione di norme limitatrici della libertà di stampa e individuale. Nel 1859 il Re fu delegato ad esercitare poteri esecutivi e legislativi. Il Governo fece ampio uso di delega per le leggi sui Comuni e sulle Province, per la legge elettorale e sulla scuola. Sovrano e ministri, necessitate cogente (spinti dalla necessità), emisero decreti di stato d’assedio mutuato dall’esperienza francese. Con ciò intere aree del Paese furono sottoposte al diritto pubblico militare, sollevando proteste da parte dei deputati delle zone interessate (brigantaggio nel sud). Il Governo otteneva sempre una sanatoria per gli abusi commessi. Il capo del Governo era il capo della maggioranza parlamentare, senza che la legge lo richiedesse. Il sistema uninominale era adombrato dall’art.39, ove si parlava di Camera con deputati scelti dai collegi elettorali e per successione ai deputati morti. Lo Statuto rinviava alla legge elettorale, che stabilì censo e capacità per gli iscritti nelle liste elettorali. I requisiti prevedevano un certo censo; erano inclusi i direttori di fabbriche con più di 20 operai, capitani marittimi, membri di accademie, magistrati inamovibili, pensionati con certa pensione annua, laureati, notai e causidici. Non potevano essere eletti gli ecclesiastici, certi magistrati e funzionari nel loro distretto … Il censo era già requisito richiesto per eleggere gli inviati agli “stati” in passato. L’esclusione dei non abbienti era motivata col fatto che non dovevano pagare sussidi al governo. I deputati ammontavano a 204, scelti come in Inghilterra, 1 per collegio. La legge elettorale fu detta “sacra”, ritenendosi che modificarla significava violare la Costituzione. Nel 1859 fu modificata approfittando dei pieni poteri: si tolse agli analfabeti il potere di voto, ma svalutazione ed una maggiore pressione tributaria portò ad ampliare il numero degli aventi diritto al voto. I Deputati passarono da 204 a 260, ma fu limitato il numero di magistrati e docenti eleggibili. Fu criticato che il diritto di voto fosse ritenuto “franchigia” o concessione sovrana. I partiti organizzati non c’erano ma i gruppi di potere ed il Governo non si astennero dall’intervenire in vari modi (con circolari ai prefetti indicavano i candidati preferiti) nelle elezioni organizzate localmente. I primi anni furono assorbiti dal problema dell’unità che fece passare in secondo piano i problemi costituzionali, per lo stato di necessità e la modesta partecipazione popolare alla politica e lo scarso lavoro dei parlamentari. Alcuni problemi furono risolti con leggi che venivano estese ai territori che si annettevano con regi decreti, dopo suffragi universali locali favorevoli all’annessione. Da una costituzione dualistica configurante una monarchia “costituzionale pura” si era passati ad una monarchia di tipo “parlamentare” con il primato della rappresentanza: qualcuno sostiene che il sistema fu monista, basato su una rappresentanza di una sola classe, quella abbiente borghese-nobiliare. Capitolo 6: LA LEGISLAZIONE DAL REGNO DI SARDEGNA AL REGNO D’ITALIA 1. Interventi legislativi prima dell’Unità 1.1. La politica ecclesiastica La politica ecclesiastica continuò sulla falsariga dei sovrani settecenteschi, si configurò come giurisdizionalistica, fino al punto di sopprimere lo Stato pontificio. Cattolici e clero si irrigidirono nelle loro posizioni, provocando un irrigidimento di quelle dei laici. Un documento importante per esprimere il tipo di cultura prevalente tra gli ecclesiastici è il Sillabo, raccolta delle proposizioni ritenute erronee dalla Chiesa, condannate dal Papa con una bolla del 1864. È una condanna del mondo moderno. È vero che il cattolicesimo era l’unica religione di Stato nello Statuto, ma lo Stato la favoriva poco. I giuramenti erano adespoti (senza invocare la divinità) e fu favorita la propaganda anticlericale. Il clero visse sotto un regime di sospetto ed i suoi atti furono sottoposti a controlli; fu una specie di ritorno al cesaropapismo di Giuseppe II. Fu previsto l’exequatur ed il placet alle disposizioni ed alle nomine pontificie ed il ricorso per abuso contro i provvedimenti dell’autorità ecclesiastica. La politica si ispirò alla ragion di Stato, per cui la parola di Cavour della “libera Chiesa in libero Stato” non era seguita. Nel 1848 iniziò una politica di emancipazione dei valdesi e degli ebrei e di espulsione dei Gesuiti, ritenuti filo austriaci. Nel 18491850 (leggi Sicardi) si giunse all’abolizione del foro ecclesiastico e del diritto di asilo nelle chiese, senza l’accordo con la Curia. Si proposero leggi per sopprimere i patrimoni ecclesiastici al fine di rimettere in sesto le finanze statali. Si era disposto l’inventario dei beni ecclesiastici e dei redditi derivanti. Nel 1850 si propose che i beni ecclesiastici potessero aumentare previa autorizzazione del Re, sentito il Consiglio di Stato; un progetto depenalizzava l’inosservanza del riposo festivo. Quando si propose il matrimonio solo civile il Senato bloccò la legge per un solo voto. Il connubio Cavour-Rattazzi doveva aumentare il laicismo e nel 1852 si giunse ad una petizione per incamerare i beni ecclesiastici, ridurre i vescovi, abolire i conventi e l’esenzione militare per gli ecclesiastici. L’iniziativa fallì ma nel 1854 ci fu un’offensiva che riuscì a sopprimere enti ecclesiastici e ad attribuire i beni loro alla cassa ecclesiastica per le pensioni ai religiosi degli enti soppressi. Fu adottata una legge contro gli abusi dei ministri del culto, cioè quelli che censurassero le istituzioni e le leggi dello Stato; pene gravi erano previste nel caso in cui i fatti fossero avvenuti con documenti. Vennero inasprite, come nel codice penale del 1859, le pene per il reato di istigazione alla disobbedienza; altro reato fu quello di rifiuto dei propri uffici, di somministrare ai fedeli i sacramenti. 1.2. L’amministrazione della giustizia La libertà dei magistrati era formalmente riconosciuta; i giudici erano tutti di nomina regia e si volevano sottomessi al Governo. L’inamovibilità era prevista dopo 3 anni di servizio e dopo il medesimo tempo potevano essere eletti deputati. Doveva intendersi 3 anni dalla nomina avvenuta o dall’entrata in vigore dello Statuto, come voleva la Sinistra. Rattazzi voleva che i giudici fossero sottoposti allo scrutinio del Governo per conferma e rimozione. Per la convalida dei giudici si seguì ora l’una, ora l’altra interpretazione. Nel 1851 il ministro Siccardi si oppose all’idea di estromettere dalla magistratura i sospettati di non fedeltà allo Statuto, ma Cavour cedette sul punto, provocando le dimissioni di Siccardi e trasferimenti o collocamenti a riposo di giudici. Nel 1852 si sancì la dipendenza dei magistrati dal Governo, perché affidarli alla Cassazione voleva dire vincolare il ministro. I giudici furono sottoposti a controlli governativi e di superiori gerarchici. Nel 1852 il giudice Costa della Torre, che aveva scritto un libro per difendere la giurisdizione della Chiesa cattolica sul matrimonio, fu destituito senza diritto alla pensione e condannato al carcere. Nel 1853 Rattazzi avrebbe voluto una legge dettagliata e rigida di controllo: l’inamovibilità non doveva essere garanzia di non essere trasferiti: la nomina non doveva essere a vita ed il ministero doveva avere la facoltà di chiamarli a rendere conto del loro operato. Il varo avvenne nel 1859 con i pieni poteri di guerra di cui disponeva il Governo. 1.3. La riforma scolastica Con gli stessi poteri fu adottata la legge Casati del 1859. L’idea della legge era che le scuole dovessero avere “unità di indirizzo”, per cui si istituì il Consiglio della Pubblica Istruzione di 21 membri di nomina reale per proporre programmi, libri, fino ai titoli degli aspiranti alle cattedre universitarie. In ogni provincia fu istituito un Consiglio scolastico provinciale presieduto da un Provveditore con 2 rappresentanti della città capoluogo. Le scuole furono tipicizzate e per l’Università fu istituito un esame di ammissione, nonché un numero prefissato di esami. L’istruzione secondaria classica era ritenuta il fondamento dell’istruzione: 5 anni di ginnasio (a carico dei Comuni) e 3 di liceo classico a carico dello Stato. I Comuni dovevano curare l’istruzione elementare e gli istituti tecnici. L’istruzione elementare era gratuita e chi si fosse astenuto da mandare a scuola i figli senza giustificato motivo era punito per legge. Pochi articoli riguardavano le scuole private, assoggettate a sorveglianza del ministro per quanto riguardava la tutela della morale, igiene ed osservanza dello Statuto dello Stato e dell’ordine pubblico. Chi avesse aperto istituti secondari doveva assoggettarsi a ispezioni di autorità. Il libero insegnamento rimase solo nelle Università. I maestri elementari venivano scelti dai Comuni e dovevano provvedere a preparare maestri e maestre. 2. Il Regno d’Italia 2.1. Le principali riforme Il 18 febbraio 1861 i deputati e senatori proclamarono che il Re assumesse il titolo di Re d’Italia per grazia di Dio e volontà della Nazione. L’iniziativa partì da un ordine di Sua Maestà con concorde avviso del Governo: il titolo doveva essere dato anziché assunto e non veniva dal popolo. Nel 1861 si uniformò la dizione di prefetti e sottoprefetti nelle provincie. Si raggiunse l’unità amministrativa, perfezionata con leggi nel 1865, che provvidero a piemontesizzare l’Italia. Si procedette all’abolizione del contenzioso amministrativo che faceva tutelare da atti amministrativi illegittimi entro la stessa Pubblica Amministrazione attiva; i diritti soggettivi passarono al giudice ordinario, gli interessi legittimi restarono privi di tutela giurisdizionale: si doveva ricorrere alla stessa P.A.; solo nel 1889 con la IV Sezione del Consiglio di Stato si dette tutela giurisdizionale agli interessi legittimi da eccesso di potere ed altri vizi dell’atto amministrativo. Lo Stato per anni si resse sui principi generali del diritto pubblico piuttosto che su una normativa complessa e analitica. Nessuno nel 1848 avrebbe detto che la sovranità era dello Stato anziché del Re. Cominciò ad affermarsi l’idea che lo Stato fosse separato dai suoi soggetti. Il principio di legalità o dello Stato di diritto implicava il rispetto della libertà e giustizia per tutti, nonché la separazione dei poteri (Stato amministrativo). Lo Stato fece passi avanti dal punto di vista del territorio, acquisendo Venezia nel 1866 e Roma nel 1870. Si affermò il problema sociale, cioè dell’attenuazione delle grandi disuguaglianze sociali esistenti. 2.2. Laicità del Regno e la “questione romana” La prima fase dopo il 1861 premeva sul consolidare l’unità e, il ceto dirigente era rimasto lo stesso. Continuò la “lotta ai religiosi”, per cui una legge consentì di occupare le case degli ordini religiosi se fossero servite per pubblico servizio militare o civile, e le leggi del 1866-1867 completarono la soppressione degli enti religiosi e dei loro patrimoni. Con l’approvazione del Codice civile Pisanelli del 1865 si laicizzò il matrimonio. Prima di Trento il matrimonio era stato considerato un fatto privato, dopo tale concilio interamente di competenza canonistica, divenne un fatto di diritto pubblico, attinente ai rapporti Stato-Chiesa. La famiglia era ritenuta un istituto attraverso il quale si realizzava l’influenza sociale della Chiesa, per cui si doveva toglierle il monopolio perché non aveva avuto nessuna autorità di ingerirsi nei rapporti dei cittadini. La legge delle guarentigie per il Papato del 1871 intervenne con i riconoscimenti della libertà per le funzioni spirituali in modo da accreditare il Regno a livello internazionale dopo la soppressione dello Stato pontificio: era un atto unilaterale dello Stato che regolava i rapporti con la Santa Sede e non fu accettata dal Papato che non riconobbe lo Stato italiano. Perdurò entro il popolo italiano cattolico il problema della fedeltà al nuovo Stato. Fu una legge di compromesso che scontentò molti. I democratici trovarono eccessivo che si dicesse sacro ed inviolabile il Papa e che fosse considerato sovrano con “godimento” del Laterano, del Vaticano, di Castel Gandolfo e delle guardie, con una rendita di 3 milioni di lire annue, diritto di legislazione … Fu soppressa la facoltà di teologia e del diritto canonico come materia di insegnamento, furono esclusi gli ecclesiastici dall’ufficio di giurati, dall’esenzione dal servizio militare, da direttori spirituali dei licei … 2.3. La Sinistra al governo Continuità con la linea politica pre-unitaria non venne meno con l’avvento della Sinistra nel 1876. Già le elezioni del 65 avevano fatto sentire vicino il cambio. Depretis lamentava il fiscalismo ed immobilismo della Destra , voleva più libertà, il decentramento amministrativo, l’abolizione della gabella sul macinato, la scuola elementare gratuita ed obbligatoria. Sulla questione della tassa sul macinato la Destra crollò. La Sinistra si presentava composita. Depretis resse col trasformismo, annullando la distinzione Destra-Sinistra (continuando a governare con il Centro). La Sinistra non poté eliminare la gabella sul macinato ed imporre la progressività delle imposte. Crispi e Giolitti proseguirono sul sentiero tracciato da Cavour e Rattazzi. L’attività del Governo rimaneva regolata dalla prassi. Nessuna regola scritta se non per le competenze. Nessuna norma prevedeva la partecipazione del Re, né competenze riservate al gabinetto all’inglese. Esso era un organo di collegamento tra il Re ed il Parlamento, dal quale erano tratti i ministri. Un decreto del 67 aveva previsto che al Presidente dei ministri spettasse convocazione e fissazione dell’ordine del giorno, firmava il decreto di nomina degli altri ministri da lui proposti e i decreti di convocazione, la chiusura e lo scioglimento della Camera. Il Presidente doveva rappresentare l’unità di indirizzo politico ed adempiere agli impegni presi nel discorso della corona. Il discorso fu ripreso e portato a termine nel 76 da Rattazzi. Fu accresciuto il potere del Presidente nei confronti della corona e dei ministri, il Governo assunse un carattere parlamentare. Bisogna aspettare l’87 per avere una segreteria alla Presidenza ed un regolamento ad hoc che ampliò le competenze del Presidente. Egli poteva esaminare i progetti prima che arrivassero in consiglio, sapere delle manifestazioni e della pubblica opinione. Ci fu chi lamentava confusione nella disciplina di Governo e Camera e l’usurpazione di poteri da parte del Presidente del Consiglio. Nel 1901 giunse il decreto Zanardelli ad ampliare i poteri del Presidente, limitando quelli del sovrano per le nomine del Presidente del Senato, senatori, membri della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato, direttori generali, capi di Stato Maggiore, presidenti di sezioni e procuratori generali delle corti di Cassazione e di Appello, prefetti … Anche la nomina del ministro della Real Casa fu tolta al Re. Croce parlava di restaurazione liberale. Si affermò il Consiglio dei ministri e la collegialità. I sottosegretari dall’88 divennero vicari del ministro, ma non potevano essere sostituiti in Consiglio dei ministri, né controfirmavano; avevano delega a firmare per gli atti del loro ministero. È velleitario dire che fossero membri del Governo. 2.4. Le Camere Il sistema parlamentare può essere configurato come un bicameralismo imperfetto o zoppo. La storia sottolinea come il sistema elettorale desse voce alla Camera solo ai ceti privilegiati. Fu importante la Camera per il suo lavoro legislativo, regolamenti, inchieste. Molte critiche vennero mosse negli anni 90 al parlamentarismo come prassi di deviazione dal corretto funzionamento parlamentare. Il numero dei parlamentari salì a 508. Sulla scelta influì il non expedit (non conviene) con cui la Chiesa vietava ai cattolici di partecipare alle elezioni: “né elettori, né eletti”. Vita facile ebbe l’anticlericalismo. Il rimborso spese fu introdotto nel 1912; i sostenitori lo ritenevano utile per far entrare alle Camere anche operai, dare più libertà di scelta agli elettori e modo ai deputati di soggiornare a Roma a lungo. Di contro si obiettava che gli operai non erano diretti da operai, che la funzione parlamentare si trasmetteva di padre in figlio e che non c’era bisogno dell’indennità, perché avevano già una posizione di lavoro. Non c’era la norma per cui un parlamentare era responsabile per ciò che aveva fatto. La Camera non ebbe un Presidente eletto dal Re, per cui il Governo poteva giocare sulla chiusura anticipata delle sessioni, facendo decadere i progetti in corso di approvazione e la presidenza della Camera. Inoltre ministri e sottosegretari nelle votazioni di fiducia si autovotavano. Seguendo uno scritto di Chimenti, possiamo illustrare il diritto parlamentare. Il Re sceglieva il primo ministro secondo le indicazioni dei gruppi parlamentari alla Camera, formava un Governo che si presentava con un programma per ottenere la fiducia alla Camera. Avere la fiducia alla Camera non voleva dire avere quella del Paese. Il Re doveva risolvere le crisi tra Governo e Camera, se non ci riusciva si aveva lo scioglimento o il licenziamento del Governo. Il Paese era governato da deputati e governi con fiducia. La tradizione che voleva capo del Governo il capo della maggioranza era rispettata, per cui il Governo era il comitato direttivo della Camera. Perciò non mancarono scandali come quello della Banca romana … Solo eccezionalmente lungaggini parlamentari misero in difficoltà i Governi: nel 99 in odio a Pelloux e nel 1914 contro i provvedimenti fiscali di Salandra. Un grave conflitto ed ostruzionismo si ebbero nel 99 quando Enrico Ferri oltraggiò il Re e l’esercito. Tra i problemi c’era quello se dare alla polizia il potere di vietare le riunioni in luogo pubblico ed al Governo il potere di sopprimere le associazioni sovversive e modificare il regolamento della Camera. Si arrivò allo scioglimento della Camera e le elezioni dettero ragione al Presidente Zanardelli, secondo cui il Governo non poteva disporre di materie costituzionali delicatissime caratterizzanti la forma costituzionale, come le libertà del cittadino. Il Governo fu battuto. Nel 1900 avvenne il regicidio, l’uccisione di Re Umberto I. Nel 1901 il Governo Zanardelli con Giolitti ministro dell’interno lasciò libera azione alle organizzazioni operaie, sperando di attenuarne le rivendicazioni. Ma continuarono manifestazioni e scioperi generali. Giolitti tentò di elevare le leghe operaie all’altezza di quelle padronali per avere il voto favorevole o l’astensione. Il Senato era di fatto tagliato fuori dalle vicende della vita politica. Se si mostrava recalcitrante, una nuova infornata di nomine sistemava tutto. Esso dette problemi in sede di emendamenti e leggi di bilancio e tributarie, dove lo Statuto voleva che ci fosse l’esame della Camera. Il Presidente del Senato era nominato dal Re e doveva controllare le nomine, difendere il Senato e la sua presenza nei Governi. Il regolamento stabilì lo scrutinio segreto per la convalida dei nuovi eletti e che il nuovo Presidente venisse indicato al sovrano dai senatori stessi. 2.5. La magistratura Lo Statuto prevedeva la Corte dei conti e il Consiglio di Stato come organi di consulenza, oltreché di giurisdizione non agenti, perché non formavano la volontà dello Stato, ma importanti per la loro indipendenza. Il Consiglio di Stato era stato istituito per gli Stati di terraferma da Carlo Alberto nel 1831 e fu esteso all’Italia nel 65. Perdette la funzione giurisdizionale ma molti suoi pareri di legittimità e di merito erano obbligatori, talvolta vincolanti. La Corte dei conti fu istituita nel 1862. Importante anche l’Avvocatura erariale istituita nel 1875. Divenne Avvocatura dello Stato nel decennio riformatore fascista. La magistratura era soggetta al potere del Governo. La legge del 59 sembrava fatta per consentire epurazioni. Nel 62 il deputato e magistrato Giuseppe Musio sostenne che si aveva un ordinamento incostituzionale nel libro Sul riordinamento giudiziario; si sottolineò da parte di Francesco Carrara e di Giuseppe Mirabelli lo strapotere del pubblico ministero. La giuria a partire da 48 venne utilizzata per reati di stampa. La legge del 59 la ammetteva ma i giurati venivano vagliati da una doppia cernita e con un capetto che comandava; molti rimanevano i poteri del giudice. Per quanto riguarda la Cassazione si propose di farne una corte suprema di tipo americano, ma la reazione che suscitò fece rientrare il progetto. Nel 75 si riuscì ad istituire una Cassazione a Roma competente per le cause dell’ex-Stato pontificio, con competenza per le leggi in materia tributaria, leggi eversive del patrimonio ecclesiastico, elezioni e conflitti di attribuzione. Solo nel 1888 si sarebbero abolite le sezioni penali delle Cassazioni di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, unificando la giurisdizione penale del Paese. Ingerenze gravi si ebbero in Sicilia, dove agli inizi degli anni 60 era stato arrestato arbitrariamente il repubblicano Giovanni Raffaele. Il pm non aveva dato corso alla denuncia contro la polizia; il ministero intervenne contro la Cassazione, che procedette contro lo stesso Procuratore del Re. Le leggi del 64 e 65 introdussero le commissioni di sindacato sulla condotta dei magistrati per valutare il loro comportamento e l’adesione ai principi costituzionali. I giudici dovevano cooperare al successo elettorale dei candidati governativi. Ai trombati andava la solidarietà dell’opinione pubblica e della stampa. Con la Sinistra non cambiò nulla. Il ministro Mancini si servì della legge del 59 per continuare la prassi di interventi di condizionamento governativi. Nel 1900 il ministro fece approvare il progetto sulle guarentigie della magistratura, ma nel 1908 si poté consolidare il principio dell’inamovibilità dopo 3 anni. Si istituì il Consiglio supremo della magistratura, costituito di alti magistrati: un autogoverno, ma al Senato era attribuito un potere disciplinare perché la Corte suprema disciplinare era comporta di magistrati e senatori. 2.6. I prefetti La legge comunale e provinciale del 1859 tratteggiò la figura del Governatore della Provincia: dal 61 si chiamò Prefetto e continuava la figura dell’Intendente generale cui la legge del 42 aveva assegnato giurisdizione amministrativa ed economica sulla provincia sabauda e vigilanza sui Comuni. La legge del 59 dette veste uniforme ai Comuni nelle varie parti d’Italia, piemontesizzando il tutto. I Governatori, poi Prefetti, rappresentavano il Governo presso il popolo ed il popolo presso il Governo. Finì per operare agli ordini del Governo. Controllava le amministrazioni ed interveniva in caso di necessità. Poteva chiedere l’intervento della forza pubblica e dipendeva dal Ministero dell’Interno. Scarse erano le garanzie per la carriera fino all’89 quando con la “IV Sezione” del Consiglio di Stato si contribuì al miglioramento della giustizia amministrativa. Le leggi di unificazione amministrativa del 65 restituirono alle Provincie le competenze sottratte nel 59. Nel 77 il ministro Nicotera dimise molti Prefetti e nell’87 si consentì la nomina a Prefetti di deputati (vietata nella legge precedente). 2.7. I Comuni e le Provincie Le leggi dal 1865 al 1915 disciplinarono Comuni e Provincie. Tra le questioni dibattute rimaneva quella regionale perché alla “piemontesizzazione” si era replicato chiedendo autonomia o decentramento amministrativo. Nel discorso della corona del 61 il sovrano aveva accennato a tale necessità ed il ministro Minghetti ne era convinto. Lo Stato del 59-61 era inaccettabile per molti cattolici; per i meridionali e federalisti: non si teneva conto delle diversità regionali. Nel 63 iniziò a circolare lo scritto Il sistema regionale richiesto dalla natura e dalla garanzia del diritto umano, che insisteva sul regionalismo e diritti individuali. Carlo Cattaneo al Nord spiegava che erano i problemi economici e sociali che dovevano far trionfare il regionalismo, non potendosi disciplinare in modo uguale realtà diversissime. Minghetti nel 61 aveva lanciato l’idea delle grandi provincie, e nel 64 l’idea era stata ripresa da Francesco Crispi e Giovanni Lanza. Tra il 62 ed il 64 si fecero delle direzioni sovra provinciali per le finanze e Quintino Sella sostenne l’esigenza di prefetture sovraprovinciali per risparmiare. Rattazzi, capo dell’opposizione, criticò Minghetti. La Sinistra era ferma su posizioni antiautonomistiche per consolidare l’unità. Nel 1888 si svincolarono le Provincie dal controllo rigido del Prefetto. Da allora lo scioglimento del Consiglio provinciale divenne possibile solo per gravi motivi di ordine pubblico o per inosservanza degli obblighi di legge. Con la IV Sezione del Consiglio di Stato nell’89 si poté controllare che gli scioglimenti fossero giustificati. Il Consiglio provinciale era elettivo. Le sue deliberazioni erano soggette ad annullamento del Prefetto o del Governo solo se contrarie alle leggi o a norme procedurali interne. Il mandato era gratuito salvo il rimborso spese. I Comuni erano stati affievoliti nella autonomia ma erano per tutti le piccole patrie. Specialmente ora che avevano amministrazioni elettive. Godevano dell’autonomia di cui godevano gli organi elettivi, erano enti rappresentativi ed associativi. Ma soprattutto enti potestativi, nei confronti dei quali il cittadino aveva un rapporto di sudditanza. Erano enti decentrati dello Stato che perseguivano finalità statali, in materia di stato civile, liste elettorali, leva militare, liste dei giurati … oltreché per polizia, assistenza e beneficienza. Le elezioni si tenevano ogni 5 anni ed ogni anno si aveva il rinnovo di ⅕: dal 1908 ogni 6 anni col rinnovo di ⅓ per biennio; dal 1915 ogni 4 anni. I Presidente del Consiglio comunale e della Giunta era il Sindaco che era ufficiale dello Stato per certe funzioni di polizia. Veniva eletto a scrutinio segreto tra i consiglieri. Le delibere comunali erano sottoposte a visti ed annullamenti amministrativi o contenziosi per ricorsi di cittadini alla Giunta provinciale amministrativa. Il Sindaco fu elettivo da 1896. 2.8. Diritti di libertà e origini dello “Stato sociale” Lo Statuto disciplinava la parità dei diritti civili, l’ammissione alle cariche pubbliche, la libertà individuale, l’inviolabilità del domicilio e della proprietà ed il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi. L’art.40 riservava l’ufficio di deputato ai maggiori di 30 anni. La libertà di stampa subì restrizioni durante la guerra del 59 e poi del 1915-1918 e qualche modifica nel 1899. Tale libertà si ritenne difficilmente disciplinabile; si previde che la prima copia di ogni opera fosse presentata al pm locale. Per il diritto di associazione i governi piemontesi suscitarono opposizioni soprattutto per la politica ecclesiastica. Il Consiglio di Stato nel 52 sostenne che il diritto di associazione non andava regolato. Nello stesso anno i Comitati garibaldini di provvedimento parvero pericolosi per l’ordine pubblico; Rattazzi presentò un disegno di legge per punire le associazioni che raccogliessero armati non autorizzati. Rattazzi si dimise per la repressione dei fatti dell’Aspromonte. Nel 67 il dibattito fu riaperto per i comizi dei cattolici operanti nel Veneto contro la politica ecclesiastica: furono proibiti da Ricasoli. Si sosteneva che il Governo doveva giudicare cosa fosse nocivo per l’ordine pubblico ed il Paese. Pasquale Stanislao Mancini replicava che quando un diritto non è regolato dalla legge è pieno; un ordine del giorno della Camera auspicò la fine delle violazioni alla libertà di riunione finché non comportasse violazioni di legge o disordini. Ne derivò ampia libertà di “associazione”, anche se si era parlato solo di “riunione”. Un problema fu se potessero tollerarsi le bandiere repubblicane: per Crispi doveva rientrare nella libertà di associazione, mentre Depretis disse che in uno Stato monarchico non poteva essere tollerabile. Nel 94 una legge vietò riunioni ed associazioni miranti a sovvertire l’ordine sociale e permise la chiusura di circoli socialisti. Nel 1900 si fece marcia indietro e vi fu ampia libertà. Nell’86, vietandosi anche lo sciopero, era stato disciolto il Partito dei lavoratori italiani e nel 93 prese il nome di PSI (Partito Socialista Italiano), primo partito organizzato. Giolitti si mostrò tollerante. Nel 1900 era stata sciolta la Camera del lavoro di Genova, ma la misura fu revocata: per Giolitti si sarebbe resa nemica dello Stato la classe operaia. Fra i diritti di libertà venne a collocarsi quello di sciopero, sostenuto dal sindacalismo moderno. Lo sciopero poneva questioni politiche e giuridiche. Il codice penale sardo del 39 e quello toscano del 53 tenevano presente che sotto l’astensione dal lavoro c’era lo sforzo di costringere altri all’astensione. Nell’83 la commissione di inchiesta sullo sciopero suggerì a Depretis un disegno di legge che sosteneva che gli scioperi fossero illegali se venivano usati strumenti di azione, avversando il codice penale in preparazione; i socialisti respinsero il progetto sperando in meglio. Il codice penale del 1889 dispose che per assicurare la libertà di lavoro fosse punito fino a 20 mesi chi avesse usato violenza o minaccia per modificare i rapporti di lavoro. 10 anni dopo la magistratura fu più sensibile agli scioperi politici e degli addetti a servizi di importanza generale. Il decreto Pelloux attribuiva al Ministero degli Interni la competenza a sciogliere associazioni sovversive e punire gli scioperi nei servizi pubblici. Giolitti nel 1902 sostenne l’illiceità dello sciopero dei ferrovieri. Ne seguì un ostruzionismo che costrinse il Governo alle dimissioni. La legge del 1905 avocò allo Stato le principali linee ferroviarie, assimilando i ferrovieri ai pubblici ufficiali. Si sviluppò una politica sociale in tema di assistenza; nel 1890 si creò in ogni Comune una congregazione di carità. Dall’86 si regolamentò l’attività mutualistica e nel 98 intervenne l’assicurazione obbligatoria a carico di imprenditori sugli infortuni sul lavoro nell’industria e per i lavori rischiosi anche agricoli. Nell’86 si legiferò in tema di lavoro dei fanciulli, nel 99 sulla prevenzione degli infortuni. Nel 1902 si istituì l’Ufficio del lavoro presso il Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio, per informazioni circa l’emigrazione, produzione italiana, rapporti di lavoro. Un Consiglio superiore del lavoro di 43 membri elaborò progetti di legge sul contratto di lavoro nelle miniere e nelle solfare, risaie, per donne e bambini, casa maternità, collocamento lavoro, giudizi sulle controversi di lavoro. Fu emanata una normativa sull’emigrazione; nel 1906 fu istituito il corpo degli ispettori del lavoro che raccoglievano dati sul mondo del lavoro per prevenire e risolvere i conflitti. Crebbe l’opinione pubblica sensibile ai problemi della giustizia sociale, ad esempio in materia tributaria. Per molti anni non si poté fare a meno dell’imposta sul macinato. L’art.25 dello Statuto parlava di proporzionalità delle imposte, ma non era inteso come progressività delle aliquote. L’istruzione gratuita si affermò e fu importante perché al possesso di titoli di studio erano condizionati vari diritti. Significativa era la previsione del diritto di legalità, di esercitare quanto previsto dalle leggi e pretendere che l’autorità operasse conformemente alla legge. 2.9. I doveri civici Tra i doveri civici ricordiamo la frequenza scolastica, l’obbligo tributario, doganale e tributario in senso stretto. Ogni tributo poteva essere imposto per legge e proporzionale. Il dibattito continuò a vertere sul problema del macinato ma Giolitti nel 92 ammise che il sistema proporzionale era progressivo a rovescio, nel senso che i meno abbienti pagavano di più dei ricchi. Addossava all’opposizione l’impossibilità di attuare la progressività. Nel 66 si passò dal sistema di contingenti a quello della quantità fissa per ogni contribuente sui redditi e della ritenuta sui pagamenti. Dal 1854 ebbe applicazione il regolamento della leva militare obbligatoria con possibilità di esenzione e di affrancazione a pagamento. Legge definitiva fu quella del 1882. 2.10. La cultura giuspubblicistica Si trattava di costruire un nuovo Stato nazionale. C’era lo Statuto e una legislazione ricchissima oltre ai codici. La legislazione che accompagnò l’edificazione del nuovo Stato non poteva essere raccolta in un codice. Fu caotica e parcellizzata nei settori di intervento, ma amministrata dai tribunali e dal Consiglio di Stato secondo i principi elaborati dalla dottrina giuspubblicistica, e in particolare dalla nuova dottrina del diritto amministrativo, novità resa necessaria dalla dilatazione della legislazione e degli interventi dello Stato. Venne configurandosi dopo l’Unità che sarebbe rimasto tradizionale nella nostra dottrina. Fu condizionata da un fatto lontano e da un fatto recente che stava influendo sugli sviluppi della dottrina civilistica italiana, la Rivoluzione francese per il primo aspetto, la Pandettistica per il secondo. La nuova Italia si trovò a svilupparsi tra gli influssi culturale della cultura francese e tedesca. Nell’800 la cultura gius-pubblicistica dovette risolvere: 1) il problema della costruzione nazionale andando al di là delle culture locali pre-unitarie; 2) il problema della difesa e conservazione dello Stato liberale ormai costituito dalle minacce eversive della nuova classe prodotta dall’industrializzazione, il proletariato che cominciò a profilarsi in modo netto dal 1870. I nostri giuristi assolsero al compito rovesciando l’assunto fondamentale dell’Illuminismo che promuoveva la critica del diritto e delle istituzioni. Ora diritto e Stato divengono neutrali ed apolitici per la scienza giuridica, influenzata dalla Pandettistica tedesca. I suoi concetti vennero trasferiti nel diritto pubblico costruendo il metodo scientifico, che si presentava neutrale e si allineava alle nascenti altre scienze sociali, avalutative ed oggettive. 2.10.1. Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) e Santi Romano (1875-1947) In questo senso il più rappresentativo giurista dell’Italia liberale fu Vittorio Emanuele Orlando, palermitano ministro di Giolitti che partecipò all’elaborazione dello Statuto della Società delle Nazioni. A questo si deve un’opera amministrativistica con la quale si costituì la dottrina del diritto pubblico. Tale dottrina doveva sostenere lo Stato unitario e l’identità nazionale. Si era costruito lo Stato unitario liberal-parlamentare, avallando le necessità dello Stato visto come organismo naturale e legge positiva, perché il diritto precede alla legge. Alla base del sistema c’è la nozione giuridica di Stato, che Orlando trasse dalla gius-pubblicistica tedesca come Stato - persona. Si recepì la categoria civilistica della personalità giuridica e si fede del Leviatano hobbesiano un soggetto giuridico originario e metastorico, fondante e non fondato. Il che equivale a dire separato, altro e superiore rispetto alla politica: è titolare di sovranità di per sé, in luogo del re o del popolo. Risultato favorito dallo Statuto albertino, in cui convivevano sovranità monarchica e popolare, per cui si poteva dire che lo Stato non fosse dell’uno o dell’altra ma dello Stato medesimo personificato. Santi Romano intorno al 1900 scrive che non aveva consistenza teorica l’idea di un potere, funzione o volontà costituente, operando un’opzione antilluministica, anticontrattualistica. Lo Stato era un’entità naturale, autonoma dalla politica. Fu facile configurare i diritti fondamentali dei cittadini come “autolimitazioni” della sovranità dello Stato, concessioni, ed arrivare a parlare di sovranità, popolo e territorio come elementi costitutivo dello Stato. Lo Stato diviene un’astrazione giuridica, uomo artificiale di maggiore statura e forza di quello naturale, per la protezione e difesa del quale fu concepito. Siamo agli antipodi del modello liberale e contrattualistico lockiano, dello Stato di diritto come strumento per tutelare le persone che lo hanno costruito. La cultura generale e diffusa reca tratti illiberali che hanno pesato nel nostro 900 ed oltre. Contro il contrattualismo Orlando e la sua scuola furono netti. Ne risulta una visione statalistica che ignora il momento costituente, la sovranità popolare e il valore costituzionale dello Statuto albertino quale sistema di limiti e garanzie. Si sacralizzava lo Stato ma si appiattiva a Stato amministrativo, luogo dell’autorità ed imparzialità, contrapposto alla politica e alla società viste come sedi di interessi particolari, conflitti, egoismi individuali, di gruppo e di classe. PARTE QUINTA: IL 900: DALLA DITTATURA ALLA DEMOCRAZIA. DAI CODICI ALLA DECODIFICAZIONE Capitolo 1: VERSO IL FASCISMO 1. Elezioni e partiti L’incombere del “problema sociale” favoriva la propaganda del movimento operaio, organizzato anche nelle campagne, che registrarono proprio a inizio secolo i primi scioperi dei mezzadri. La pressione era forte, per cui non era possibile continuare a limitare il diritto elettorale con requisiti di censo e di istruzione. Il passo in avanti ci fu con la riforma del 1912, che prevedeva l’obbligo di voto, infatti si era giunti al suffragio universale ma solo limitato ai maschi. Rimanevano escluse le donne che però per effetto di una decisione del Presidente della Corte d’Appello di Ancona nel 1906, ebbero il diritto di voto amministrativo, sollevando ampie proteste. Le elezioni del 13 erano sempre state con il sistema uninominale tradizionale, ma oltre al suffragio universale maschile si ebbe il divieto per i cattolici di partecipare alla vita pubblica dello Stato italiano, grazie al patto Gentiloni che convenne con i giolittiani di votare i candidati liberali e viceversa. I cattolici erano così entrati in massa nella vita politica. I radicali seppero del patto Gentiloni solo dopo le elezioni, per cui indignati di ciò, in quanto violava la tradizionale laicità dello Stato, fecero mancare il sostegno a Giolitti. La sfiducia aprì la porta a un governo Salandra che Giolitti e i suoi si rifiutarono di far parte. La maggioranza si abbandonò al governo e la Camera gli concedette carta bianca se ci fosse stata la guerra, con leggi d’emergenza, bilanci provvisori, ecc. Il tutto avveniva in un Paese diviso che fu gettato impreparato in un’impresa immane, in una guerra decisa senza o contro la volontà degli Italiani e della maggioranza del Parlamento. La sua approvazione alla Camera avvenne sotto la minaccia del Governo e della piazza; il voto non fu libero, ma frutto della violenza. Fondamentali furono le prime elezioni svoltisi col sistema proporzionale, nel 1919, elezioni decisive perché i 2 partiti vincitori, socialista e popolare, non seppero sfruttare la vittoria e non trovarono un accordo, così il crollo del vecchio ceto dirigente liberale cagionò un vuoto di potere occupato dai fascisti provenienti dalla Sinistra. Con le nuove elezioni del 21 fu lo stesso ceto dirigente liberale in crisi, perché non aveva fatto i conti con il sistema proporzionale e si favorì l’emersione del fascismo, finché il 29 ottobre del 1922, Mussolini fu chiamato al governo dal re Vittorio Emanuele III dopo le dimissioni del governo Facta. Questi aveva proposto al re di firmare un decreto per proclamare lo stato d’assedio che avrebbe permesso di utilizzare l’esercito contro la marcia su Roma svoltasi il 28 ottobre. Il diniego del re fu considerato equivalente a un colpo di Stato, ma fu giustificato in quanto operò per necessità per evitare la guerra civile. Grazie all’aiuto del re, Mussolini finì per salire al governo ove rimase fino al 25 luglio 1943. 1.1. Novità nella cultura giuridica di primissimo 900 Le novità furono 2, collegate al consolidarsi del concettualismo pandettistico nella civilistica. Il concettualismo pandettistico si affermò anche nel diritto penale, fino ad allora dominato dalle 2 scuole, classica e positiva, che intorno al 1910, si affermò l’indirizzo tecnico-giuridico diretto da Vincenzo Manzini e da Arturo Rocco. Si affermava l’autonomia del giuridico negata dalla Scuola positiva, ma si rinunciava a giustificare il diritto penale e quindi a porsi il problema dei suoi limiti e delle sue garanzie. Metodo tecnico-giuridico voleva dire mettere tra parentesi i valori e l’utilitarismo illuministico, basato sulla critica del diritto esistente e sulla tutela delle libertà individuali. L’altra novità fu il positivismo sociologico presente nella giuspubblicistica. Ciò suggeriva l’immagine della società come luogo di conflitti e di gerarchie naturali in opposizione allo Stato configurato come momento dell’interesse generale e punto d’arrivo dell’evoluzione storica. Esso si incrociò con il giuspositivismo legalistico e con lo storicismo sistematico della pandettistica. Capitolo 2: LA COSTRUZIONE “TOTALITARIA”: IL CONTRIBUTO DI DIRITTO E CULTURA GIURIDICA 1. Il Fascismo al potere Dopo l’affidamento del governo a Mussolini nel 22, fu la legge elettorale Acerbo del 23, a facilitare l’ascesa al potere del fascismo. La legge prevedeva un sistema maggioritario con premio dei ⅔ dei seggi alla lista che avesse conseguito la maggioranza. I fascisti si trovarono di fronte liste eterogenee e litigiose, intervennero nelle operazioni di voto con minacce e intimidazioni, così si poterono assicurare quel premio. Alla Camera i brogli furono denunciati dal deputato socialista Giacomo Matteotti, che fu picchiato a morte. L’opposizione si ritirò all’Aventino, rifiutandosi di continuare i lavori parlamentari con degli assassini, ma Mussolini si assunse ogni responsabilità “politica, morale e giuridica” per quanto era avvenuto. Da allora si assisté, con le emanazioni delle leggi fascistissime, alla distruzione sistematica del sistema politico liberale e delle consuetudini invalse nell’applicazione dello statuto albertino nel chiaro tentativo di costruire uno Stato totalitario, imponendo il partito e il sindacato unico, l’eliminazione delle libertà politiche, ecc. Il I governo Mussolini del 22, accogliendo cattolici e moderati, si dette una veste accettabile perché si voleva presentare come legalitario, facendosi concedere ripetutamente deleghe di potere dalle 2 Camere. Il Re non fu più reggitore dello Stato, perché lo divenne il capo del Governo. 1.1. Le “riforme” fasciste La prima riunione del 15 dicembre del 1922 stabilì: che le camicie nere divenissero una “Milizia volontaria per la sicurezza nazionale”; che si tornasse al sistema maggioritario; che i suoi sindacati si chiamassero “fascisti”. Il Gran Consiglio ebbe un ordinamento proprio solo con la legge del 28, dopo essere stato un organo che partecipò all’elaborazione di provvedimenti importanti, come la legge elettorale a lista unica che nel 1928 diede al Paese 400 deputati su 400. La legge del 28 dette al Gran Consiglio del Fascismo competenze importanti: -scelta dei candidati deputati -stabilire l’ordinamento del partito -nominare e revocare gli alti gerarchi -dare parere obbligatorio su tutte le questioni costituzionale -su proposta del capo del Governo, tenere 2 liste aggiornate,una con i nomi di possibili capi del governo e una di ministri da proporre al re in caso di bisogno. Importantissime furono la legge sulle attribuzioni del Capo del Governo e sulla facoltà dell’esecutivo di emanare norme giuridiche. Il potere esecutivo fu così concentrato nelle mani del Capo del Governo e il Parlamento fu ridotto alle sue dipendenze, infatti si negò la responsabilità politica del governo verso le Camere, il voto di fiducia, i ministri furono nominati e revocati dal Re su proposta del Capo del Governo, nessun argomento poteva essere messo all’ordine del giorno delle Camere senza il suo assenso, poteva richiedere che un disegno di legge bocciato fosse rimesso in votazione dopo 3 mesi dalla prima votazione. Il potere di emanare norme gli attribuì non solo il potere regolamentare, di esecuzione e di organizzazione, ma anche di organizzare amministrazioni dello Stato ed enti pubblici, servizi e personale dipendente; stabiliva inoltre che se i decreti aventi forza di legge non fossero stati convertiti in legge entro 2 anni avrebbero conservato la loro validità come leggi provvisorie. Una legge del 38 trasformò la Camera dei deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni, i cui membri provenivano in parte dal Partito unico e in parte dalle corporazioni senza elezione popolare. Durante il decennio riformatore: -il Consiglio di Stato fu posto sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio con nomine e dimissioni su delibera del Consiglio dei ministri -per la Corte dei Conti fu emanato un nuovo testo unico nel 24, per il quale il suo presidente doveva essere nominato dal governo, anche tra persone non appartenenti alla corte -nuove norme si ebbero riguardo l’Avvocatura detta dello Stato dal 1930, con consulenza obbligatoria ampliata. Nel 1931, su proposta di Giovanni Gentile, creatore dell’Enciclopedia italiana e filosofo della Scuola Normale di Pisa, giustiziato dai partigiani fiorentini nel 44, fu imposto un giuramento ai docenti “di esercitare l’ufficio di insegnante e adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al regime fascista”. Per quanto riguarda la magistratura: -furono abolite le Cassazioni locali e le sezioni civili, unificando tutto a Roma -ci fu nel 23 alla nomina regia (governativa) per i membri del Consiglio superiore della magistratura -nel 41 fu soppressa la garanzia della inamovibilità con l’ordinamento giudiziario Grandi. 1.2. Le corporazioni e i diritti civili Il fascismo valorizzò le corporazioni cominciando a vietare scioperi e serrate, istituì una Magistratura del lavoro, prevedendo la conciliazione tra le rappresentanze separate di lavoratori e datori di lavoro. Fu istituito il Consiglio nazionale delle corporazioni, cui fu dato un comitato centrale che sostituiva l’assemblea e dava pareri sui problemi della produzione. Il corporativismo voleva eliminare la “capitalistica” lotta di classe e costruire un ordine nuovo nell’interesse nazionale. La Carta del lavoro del 1927 finì per pubblicizzare ogni momento dell’attività economica nell’interesse della Nazione. È un documento complesso che rappresenta un superamento netto delle concezioni liberali e liberiste in tema di rapporti di lavoro, in quanto prevede un intervento penetrante dello stato nei rapporti di lavoro. Il lavoratore non è più solo, in quanto viete tutelato dalla legge statale ma anche dalla Corporazione, associazione che stipula i contratti collettivi di lavoro con la controparte e che hanno efficacia erga omnes. 1.3. La “riconciliazione” con la Chiesa Lo scopo di tutte queste riforme era di rompere la solidarietà classista e creare la solidarietà “nazionale”, interclassista. Su questo piano il fascismo trovò un alleato nel cattolicesimo con le encicliche “sociali” dei papi. Il fascismo riuscì a suggellare questo avvicinamento con un colpo, i Patti Lateranensi (1929), che riuscirono dove i governi precedenti avevano fallito: a sanare il conflitto con la Chiesa. 1.4. La prevalenza del “sociale” sull’individuo Il fascismo ebbe l’accortezza di muoversi nel sociale ove cercò di acquisire il consenso, che fu molto alto negli anni 30, quando l’unica opposizione veniva dai comunisti clandestini con Togliatti e da pochi liberali con Benedetto Croce e ciò per costruire la dittatura di massa. I diritti di libertà non furono soppressi, ma furono regolati. Lo Stato fascista non operava per tutelare i diritti dei singoli, ma gli interessi nazionali interpretati dagli uomini “più degni e adatti” facendo prevalere i motivi politici rispetto a quelli giuridici. Fu travolto così il principio di uguaglianza. Violazioni di questo principio furono imposte dalle leggi razziali del 38 contro i “non ariani”. Furono vietate anche le associazioni segrete ( come la Massoneria). Il diritto alla cittadinanza fu regolato con una legge del 26, per cui si poteva esserne privati per fatti commessi all’estero o per essere oppositori politici. Comunque non va dimenticato che il fascismo volle soprattutto far valere i doveri verso il “tutto”, verso la Nazione, imponendo l’uso della divisa, il saluto romano, il “voi”, ecc. 2. La cultura giuridica e i nuovi codici In Germania il nazismo ruppe con la Costituzione di Weimar, quella repubblicana avallata e teorizzata dai giuristi. Nonostante la soppressione del sistema parlamentare e delle libertà fondamentali, i giuristi non si preoccuparono della rottura costituzionale, in quanto non avevano l’idea democratica della sovranità popolare né l’idea liberale del carattere inderogabile dei diritti fondamentali. Si sviluppò una dottrina fascista dello Stato totalitario che penetrò nell’ideologia dei ceti professionali e burocratici. Con l’ordinamento delle corporazioni, il fascismo creò uno specifico modello istituzionale, infatti ebbe un suo organico progetto giuridico, tradottosi in una profonda e ambiziosa riforma dello Stato in senso autoritario. Una certa autonomia fu mantenuta dalla magistratura ma si trattava di un’autonomia limitatissima e circoscritta alla sola magistratura giudicante, visto che il PM dipendeva dal potere esecutivo. 2.1. Verso il Codice civile del 1942 Nonostante la resistenza della tradizione anche nelle discipline civilistiche s’intaccò l’individualismo tradizionale. Il Codice del 42 realizzò un’altra impresa molto discussa: l’unificazione del diritto delle obbligazioni. Il diritto commerciale vi fu inglobato, attuandosi quella viene detta “commercializzazione” del diritto privato. L’unificazione del diritto delle obbligazioni aveva un significato politici-ideologico. 2.2. Il Codice penale (1930) Maggiore fu il peso dell’ideologia fascista nel nuovo codice penale, con i suoi caratteri autoritari tramutato in normativa di difesa più che della società, del diritto e dello Stato. L’involuzione riguardò il concetto di bene giuridico meritevole di tutela penale. L’ideologia fascista lasciò tracce precise con: -la reintroduzione della pena di morte -la previsione di una serie sterminata di reati d’opinione -le pene severissime per i reati contro la personalità dello Stato. 3. Il crollo del fascismo Per tutto il ventennio il re e il Paese si trovarono sotto un regime dittatoriale, ma nella drammatica notte del 25 luglio del 43, il Gran Consiglio convocato dal Duce affermò la necessità del ripristino delle “normali funzioni statali” chiamando alle loro funzioni la corona, il Parlamento, il Gran Consiglio delle corporazioni. La sera un comunicato annunciava che il re aveva accettato le dimissioni di Mussolini e informava che il re aveva designato Badoglio a capo del governo militare del Paese con pieni poteri. Il 27 luglio si disponeva lo scioglimento del partito nazionale fascista, del Gran Consiglio e del Tribunale speciale per la difesa dello Stato; il 28 si vietava la costituzione di qualsiasi partito politico e si manteneva la censura sulla stampa. La successiva disfatta nazista e la Liberazione compendiava nella ripresa della città liberate dai nazi-fascisti al Nord. Capitolo 3: IL DOPOGUERRA DEMOCRATICO TRA LUCI ED OMBRE 1. Problemi urgenti: la continuità Tornarono le libertà democratiche, si ebbe la formazione dei governi di coalizione del Comitato di Liberazione Nazionale e la ricostruzione dei partiti, aprendo così il periodo della ricostruzione. Con un decreto luogotenenziale si stabilì che dopo la liberazione del territorio nazionale, le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano, che eleggerà, a suffragio universale, diretto e segreto, un’assemblea costituente per deliberare la nuova costituzione dello Stato. In questo periodo restarono in vigore i 4 codici d’età fascista, quello penale, di procedura penale, civile e di procedura civile, quindi non si andò oltre l’abrogazione delle norme fascistissime. 1.1. La discontinuità istituzionale Comunque alla competenza della Costituente si sottrasse: 1)la scelta istituzionale, demandata al referendum svoltosi il 2 giugno 46, per la scelta tra monarchia e repubblica, e 2)la competenza legislativa ordinaria, affidata al governo. Il referendum istituzionale dette una discreta maggioranza alla repubblica, ma mostrò un Paese diviso, il sud votò in maggioranza a favore della monarchia ma anche per le elezioni per la Costituente si confermò la divisione del Paese. 1.2. La discontinuità: la Costituzione del 1948 La Costituzione mutò la forma dello Stato italiano e con essa l’intero paradigma del diritto. L’Assemblea costituente fu inaugurata da Vittorio Emanuele Orlando e riuniva il meglio della cultura politica e giuridica italiana. Insomma si delineò un modello di democrazia liberal-socialista che sottolineava la centralità del Parlamento, il ruolo di garanzia del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, il potere di controllo popolare sulle leggi tramite referendum abrogativo, la piena indipendenza della magistratura e le autonomie regionali. La Costituzione varata nel dicembre del 47 entrò in vigore il 1 gennaio 1948, essa fu ben studiata ed equilibrata, dando spazio alle istanze sociali della Sinistra come pure a quelle solidaristiche cattoliche e ai diritti individuali della tradizione liberale. Si adottò un sistema parlamentare per contrastare il primato dell’esecutivo avutosi durante il fascismo.