Schiavello Diritto e convenzionalismo 87 Aldo Schiavello Diritto e convenzionalismo SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. I presupposti della svolta convenzionalista. – 3. La svolta convenzionalista. 1. Premessa In relazione al diritto, il termine “convenzionalismo” esprime più significati collegati fra loro. Procedendo dal significato più generico a quello più specifico, vi sono almeno tre accezioni di “convenzionalismo” che meritano di essere rilevate. In una prima accezione molto blanda, la tesi convenzionalista afferma che «il diritto è una funzione di pratiche sociali, senza compromettersi con nessun punto di vista determinato relativamente al tipo di funzione di cui si tratta» 1. In questa accezione affatto generica, la tesi convenzionalista è considerata una ovvietà da tutte le concezioni del diritto contemporanee e, dunque, sarebbe un errore o, almeno, una semplificazione eccessiva, utilizzarla per tracciare una linea tra prospettive giusfilosofiche riconducibili al positivismo giuridico e prospettive giusnaturalistiche. John Finnis, uno tra i principali esponenti del giusnaturalismo contemporaneo, osserva ad esempio che: «per quanto la legge degli uomini [human law] sia un artefatto ed un artificio, e non una conclusione necessaria a partire da premesse morali, tuttavia, sia l’atto di porla sia il riconoscimento della sua positività (da parte dei giudici, di chi per professione ha a che fare col diritto, dei cittadini, e, pertanto, dagli studiosi che si pongono da una prospettiva descrittiva o prescrittiva) non possono essere compresi a prescindere dal riferimento ai principi morali che fondano e suffragano la sua autorità ovvero che sfidano la sua pretesa autoritativa» 2. La prospettiva di Finnis al riguardo non è affatto eccentrica o isolata, e ciò è adeguatamente messo in evidenza in modo perentorio da Christopher Kutz, il quale sostiene che «[…] anche da una prospettiva giusnaturalistica la legalità non può prescindere da questioni che riguardano fatti sociali: le istituzioni e le pratiche riempiono di contenuto i principi di giustizia di fondo, e svolgono un’opera di mediazione tra questi ultimi e le norme giuridiche presunte che sono soggette al loro vaglio» 3. In una seconda accezione, “convenzionalismo” o “convenzionalismo giuridico” è l’etichetta che Ronald Dworkin adotta per denotare una versione interpretativa del positivismo giuridico. Dworkin compendia questa prospettiva giusfilosofica nel modo seguente: «il diritto è il diritto. Non è ciò che i giudici ritengono esso sia, bensì ciò che è effettivamente. Il compito dei giudici consiste nell’applicare il diritto, non nel modificarlo per adeguarlo alla loro etica o politica personale» 4. In base alla ricostruzione proposta da Dworkin, per il convenzionalismo l’esistenza del diritto implica l’assenza di controversie. In questa seconda accezione, dunque, il termine “convenzionalismo” è sinonimo di “accordo”. Per il convenzionalismo, la funzione principale del diritto è quella di tutelare le aspettative degli individui e ciò può avvenire solo a condizione che questi ultimi siano in grado di conoscere ex ante i comportamenti richiesti dal diritto. Di conseguenza, l’ambito di estensione del diritto coincide con la parte non controversa del significato delle disposizioni normative; nel caso di disaccordi interpretativi, l’interprete è chiamato ad esercitare una discrezionalità forte, vale a dire a creare la norma per il caso da decidere piuttosto che applicare una norma preesistente. In questa seconda accezione, il convenzionalismo giuridico coincide con un certo tipo di positivismo giuridico, per molti versi assimilabile a quello che Norberto Bobbio ha denominato “positivismo giuridico come teoria”. A dire il vero, Dworkin riconduce a questa prospettiva anche (e soprattutto) il normativismo di Hart. In questa sede possiamo soprassedere su questo specifico aspetto della polemica Hart/Dworkin 5, limitandoci a rilevare che l’etichetta convenzionalismo giuridico designa una versione del positivismo giuridico decisamente vintage e poco attraente. In una terza e più specifica accezione, la tesi convenzionalista individua una “svolta” (di parte) del positivismo giuridico contemporaneo 6, attraverso la quale il giuspositivismo ha ritenuto di trarsi fuori dalle secche in cui è stato condotto da alcune puntuali critiche mosse da Dworkin, sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso 7, alla practice theory of norms 8 di Hart. È soltanto questa l’accezione di convenzionalismo giuridico che approfondisco in questa sede. In breve, gli aspetti più interessanti della cosiddetta svolta convenzionalista del positivismo giuridico riguardano il tema dell’obbligo di obbedire al diritto e della normatività del diritto. Il discorso sulla normatività del diritto riguarda la capacità del diritto di essere una ragione giustificativa dell’azione. Chi ritiene che il diritto possegga tale capacità, può scegliere tra tre alternative: a) la normatività del diritto dipende dalla coazione (“modello del bandito”); b) la normatività del diritto dipende da ragioni morali (“modello della morale”); c) la normatività del diritto è indipendente sia dalla coazione sia da ragioni morali e deve essere ricondotta a quelle che adesso possiamo accontentarci di denominare, genericamente, “ragioni giuridiche” (“modello dell’autonomia”). In base al primo modello, il diritto sarebbe una ragione prudenziale che agisce sull’ordine gerarchico delle preferenze degli individui attraverso la minaccia dell’uso della forza. Fatte salve rare eccezioni, gli esseri umani preferiscono tenere per sé il proprio denaro piuttosto che consegnarlo a terzi. La pistola del rapinatore puntata alla tempia di un individuo modifica le preferenze di quest’ultimo: egli preferirà rinunciare al proprio denaro pur di avere salva la vita. Il diritto, per chi adotta questo modello, funziona in modo simile: nessuno pagherebbe le tasse se all’evasione fiscale non fossero associate pesanti sanzioni. I restanti due modelli sono accomunati dalla condivisione della insofferenza nei confronti del modello del bandito. Il limite principale di quest’ultimo modello è quello di non cogliere una differenza cruciale tra le norme giuridiche e gli ordini del bandito. Il bandito, attraverso le minacce, induce un determinato comportamento ma non rende quel comportamento obbligatorio in senso proprio. È corretto dire che un cassiere di banca che subisca una rapina “sia stato costretto” o anche “obbligato” a consegnare il denaro, ma non che “avesse l’obbligo” di consegnare il denaro. Il diritto, al contrario, sembra essere in grado di produrre obblighi genuini. Ciò è comprovato anche dal fatto che, in relazione alle prescrizioni previste dalle norme giuridiche, espressioni come “si ha l’obbligo di …” o “si deve …” sono, da un punto di vista semantico, perfettamente adeguate. Secondo i sostenitori degli ultimi due modelli ciò significa che la normatività del diritto non può fondarsi su ragioni prudenziali ma deve essere ricondotta a ragioni morali o, alternativamente, a ragioni giuridiche. Da questo angolo visuale il positivismo giuridico “convenzionalista” è interessante perché a) propone una spiegazione della norDiritto e convenzionalismo 91 matività del diritto in parte originale rispetto alle spiegazioni elaborate in precedenza e b) tenta di distinguere l’obbligo giuridico rispettivamente dall’obbligo morale e dalla coazione. Si tratta dunque di una versione del modello dell’autonomia 9. Anticipando le conclusioni, sembra che le opzioni a disposizione del convenzionalismo giuridico siano due ed entrambe, alla fine dei conti, insoddisfacenti. La prima opzione – accolta anche da Hart nel Poscritto – consiste nel difendere una versione “debole” del convenzionalismo. Come vedremo, questa strategia è perdente in quanto non propone una concezione della normatività del diritto che consenta di emancipare il diritto dalla morale. La seconda opzione – che accoglie una versione “forte” del convenzionalismo – delinea un modello coerente di obbligo giuridico in chiave convenzionalista ma al prezzo di distorcere la realtà. Tali conclusioni sono l’esito del seguente percorso. In primo luogo, è necessario ricostruire la practice theory of norms mettendo in evidenza gli aspetti di tale teoria che sono presi di mira da Dworkin e che, proprio per tentare di replicare alle critiche di Dworkin, verranno rivisti dai giuspositivisti in chiave convenzionalista. In secondo luogo, vanno presentate le critiche di Dworkin. In terzo luogo, è approfondita la versione “debole” del convenzionalismo e, infine, si delineerà, molto brevemente, la versione “forte” che ha avuto un seguito modesto in letteratura. 2. I presupposti della svolta convenzionalista 2.1. La teoria dell’obbligo fondata sulle regole sociali La practice theory of norms nasce dall’esigenza di distinguere – in contrapposizione con l’imperativismo – le regole sociali dalle abitudini, i comportamenti regolati da quelli regolari 10. Uno dei principali limiti che Hart attribuisce all’imperativismo di John Austin 11 è infatti quello di non avere colto l’importanza di tale distinzione e, proprio per questo, di avere proposto una concezione del diritto all’interno della quale la nozione di “norma” o di “regola” è oscurata. Hart sostiene che i comportamenti regolari e quelli regolati hanno in comune l’aspetto esterno, vale a dire la regolarità empiricamente rilevabile di comportamenti convergenti. Le regole sociali, a differenza delle abitudini, presentano anche un aspetto interno, che consiste in «un atteggiamento critico riflessivo nei confronti di certi modelli di comportamento intesi come criteri comuni di condotta [che] si manifest[a] nella critica (compresa l’autocritica), nelle richieste di conformità, e nel riconoscimento che simili critiche e richieste sono giustificate: tutto questo trova la sua espressione caratteristica nella terminologia normativa di dovere, obbligo, giusto e sbagliato» 12. La practice theory of norms consente ad Hart di superare in modo più convincente rispetto a Hans Kelsen il problema del fondamento della validità del diritto: una norma giuridica è valida se soddisfa i criteri stabiliti dalla regola di riconoscimento che, a differenza della norma fondamentale, è una regola sociale. La regola di riconoscimento consente di ricondurre ad unità sistemica tutte le norme giuridiche e di distinguere queste ultime dalle regole morali o dalle regole di etichetta. Una regola di riconoscimento – così come ogni altra regola sociale – esiste quando è possibile individuare un gruppo di persone che accetta tale regola dal “punto di vista interno”. Va ricordato che il “punto di vista interno”, non presuppone l’accettazione morale di un sistema giuridico e dei suoi principi fondamentali, ma soltanto un generico atteggiamento critico riflessivo, empiricamente verificabile 13. Tale verifica empirica consiste sia nell’analisi delle espressioni linguistiche che accompagnano gli obblighi giuridici, sia nella osservazione del fatto che i funzionari, i giudici in particolare, agiscono conformemente alle norme secondarie. In conclusione, Hart intende l’accettazione del diritto in un senso debole e per molti versi vago: accettare il diritto significa considerare il comportamento prescritto dalle regole giuridiche come un modello comune di comportamento. L’obiettivo di Hart è difendere la tesi che il diritto è almeno in parte autonomo dalla morale. Una questione ulteriore è quella di specificare qual è il gruppo di persone la cui accettazione rileva in relazione all’esistenza di una regola di riconoscimento e, conseguentemente, di un sistema giuridico nel suo complesso. Per Hart è in linea di principio plausibile che il punto di vista interno sia condiviso esclusivamente dai funzionari e che i cittadini seguano le norme primarie solamente per paura della sanzione. Come anticipato, Hart elabora la sua concezione generale dell’obbligo a partire dalla teoria delle regole sociali. L’esistenza di una regola sociale è, secondo Hart, una condizione necessaria ma non sufficiente affinché un determinato comportamento venga configurato in termini di obbligo: se una persona ha l’obbligo di fare qualcosa, allora sarà sempre possibile rinvenire una regola sociale che fondi (o che contribuisca a fondare) tale obbligo; tuttavia, non ogni regola sociale è indice dell’esistenza di un obbligo. Hart individua tre condizioni che, unitamente all’individuazione di una regola sociale, consentono di ricostruire un determinato comportamento in termini di obbligo. La prima è che vi sia una “persistente generale richiesta di conformità” al modello di comportamento prescritto dalle regole ed una “grande pressione sociale” su coloro il cui comportamento configuri una deviazione da tale modello. La seconda condizione è che le regole siano considerate rilevanti per il mantenimento della vita sociale in generale o di qualche suo aspetto specifico. La terza, infine, è che il comportamento che configura l’adempimento di un obbligo implichi un satura crificio o una rinuncia e, di conseguenza, vi sia una “permanente possibilità di conflitto” tra l’obbligo da un lato e l’interesse personale dall’altro. Peter Hacker, in un celebre saggio dedicato alla filosofia del diritto di Hart, riassume la teoria hartiana dell’obbligo attraverso otto condizioni 14. La prima condizione è che vi sia una regola sociale che richieda a coloro che sono ad essa soggetti di comportarsi (o di astenersi dal comportarsi) in un certo modo in determinate circostanze. La seconda condizione è che la maggior parte dei membri del gruppo ritengano che la regola sociale in questione sia importante per il mantenimento della vita sociale o di qualche caratteristica di questa altamente apprezzata. La terza condizione è l’esistenza di un conflitto potenziale tra la condotta richiesta dalla regola sociale e i desideri di coloro che sono soggetti alla regola. La quarta condizione è l’esistenza di una conformità generalizzata da parte del membri del gruppo nei confronti di quanto prescritto dalla regola. In altri termini, la regola deve essere tendenzialmente efficace. La quinta condizione è che le deviazioni dalla regola siano seguite da serie reazioni critiche, tali da scoraggiare la violazione della regola. La sesta condizione prevede che le eventuali deviazioni dalla regola siano considerate come una buona ragione per una reazione critica. La settima condizione prevede che tale reazione critica sia generalmente considerata legittima; in altri termini, di solito la critica per la deviazione dalla regola non è seguita da una contro-critica. Infine, l’ottava condizione è che nel criticare i comportamenti devianti si faccia largo uso del linguaggio normativo. Il diritto, così come la morale, rientra nella sotto-classe dei sistemi normativi in grado di produrre obblighi. Gli obblighi giuridici possono essere distinti dagli obblighi morali perché dipendono dalla regola di riconoscimento mentre questi ultimi da una regola morale. Inoltre, gli obblighi morali presentano ulteriori caratteristiche che, considerate congiuntamente, consentono di distinguerli da tutti gli altri tipi di obblighi e, dunque, anche dagli obblighi giuridici 15. Diverse sono le obiezioni che minano in profondità la teoria hartiana dell’obbligo nella sua versione originaria. Non a caso Hart, in un passaggio di una lettera del 1980 alla figlia Joanna, in cui la informa di avere cominciato a lavorare ad una replica alle critiche a Il concetto di diritto, scrive: «[...] quando mi volgo al tema dell’obbligo e metto da canto il mio libro per leggere le obiezioni che ancora non ho adeguatamente approfondito [...] mi accorgo di essere in profonda difficoltà, con la consapevolezza che dovrò riconoscere un numero davvero grande di errori, relativi principalmente (ma purtroppo non esclusivamente) all’ambito etico, e l’impresa mi sembra immensa» 16. In relazione alla svolta convenzionalista, bisogna guardare soprattutto ai limiti della tesi secondo cui ogni obbligo presuppone l’esistenza di una regola sociale. 2.2. Contro la teoria dell’obbligo fondata sulle regole sociali Esiste dunque un legame inscindibile tra esistenza di un obbligo ed esistenza di una regola sociale? Secondo Dworkin, no. Un vegetariano, ad esempio, potrebbe affermare che esista un dovere di non uccidere alcun essere vivente pur in assenza di una regola sociale che prescriva effettivamente un modello di condotta di questo tipo. In altri termini, un vegetariano può ritenere che esista un obbligo di essere vegetariani anche nel caso in cui egli sia l’unico individuo al mondo a ritenere che esista un tale obbligo. Questo celebre esempio si propone di mostrare che la fonte degli obblighi non sono le regole sociali, ma le regole morali, le regole della moralità critica degli individui, regole che, non necessariamente, sono anche regole sociali. Da ciò segue che gli unici obblighi genuini (obblighi “tutto considerato”) sono obblighi morali e, dunque, che non è possibile distinguere, a dispetto di quel che afferma Hart, gli obblighi giuridici dagli obblighi morali in senso proprio. Almeno, che non è possibile distinguerli nel modo in cui pretende di distinguerli Hart ne Il concetto di diritto. Insomma: «una norma giuridica può giocare un ruolo giustificativo nel ragionamento pratico dei giudici solo in quanto venga accettata in virtù dell’accettazione di un giudizio morale che fornisce legittimità a una determinata autorità e di un giudizio descrittivo delle prescrizioni di questa autorità [...]» 17. Non resta dunque che prendere atto dell’inesistenza di un legame concettuale tra obblighi e regole sociali ovvero è possibile escogitare una strategia di difesa? È lo stesso Dworkin a indicare ad Hart una via apparente per mettere al riparo, sia pur parzialmente, la practice theory of norms da questa obiezione. In prima battuta si potrebbe tentare di adottare la strategia conservativa consistente nel ribadire la connessione necessaria tra obbligo e regola sociale ogniqualvolta fosse possibile individuare una regola sociale dietro al comportamento ritenuto obbligatorio. Questa opzione è tuttavia preclusa a meno che non si distingua tra due situazioni che sono qualitativamente differenti. La prima situazione include i casi in cui il fatto che all’interno di una comunità vi sia un accordo generalizzato sull’esistenza di un certo obbligo è accidentale. In relazione a questi casi di “moralità coincidente” (concurrent morality), l’accordo non rientra tra le ragioni essenziali dell’esistenza dell’obbligo in questione. Si immagini, ad esempio, che tutti i membri di una comunità siano vegetariani e che, dunque, in quella comunità sia possibile riscontrare l’esistenza di una regola sociale che vieti di uccidere esseri viventi per cibarsene. L’esistenza di questa regola sociale non fonda l’obbligo, che ciascun membro della comunità ritiene di avere, di non uccidere esseri viventi. Verosimilmente, infatti, un vegetariano è convinto di non dovere uccidere esseri viventi anche qualora nessuno condivida questa sua credenza morale. In relazione a casi di questo tipo, l’interazione tra l’esistenza di un obbligo da un lato e l’esistenza di una regola sociale dall’altro è alquanto lasca: il fatto che tutti i membri del gruppo accettino una determinata regola non è la ragione, né una tra le ragioni, dell’accettazione di quella regola da parte di ciascuno. In conclusione, nei casi in cui l’esistenza di una regola sociale è accidentale, la fonte dell’obbligo non è la regola sociale, che potrebbe anche non esserci, ma le convinzioni morali – la moralità critica – di ciascun individuo. La seconda situazione comprende i casi in cui l’accordo generalizzato sull’esistenza di un certo obbligo è collegato in qualche modo all’esistenza di un problema di coordinazione. In relazione a questi casi di “moralità convenzionale” (conventional morality) si può sostenere che risolvere un problema di coordinazione presuppone un accordo, in senso ampio, tra coloro che si trovano implicati in tale problema e, di conseguenza, l’accordo (che può consistere nell’accettazione di una regola sociale) diviene una condizione almeno necessaria dell’esistenza di un obbligo. L’espressione “problema di coordinazione” individua una specie particolare di interazione strategica in cui: a) ciascun agente trae un vantaggio maggiore dalla cooperazione che dalla non cooperazione; b) ciascun agente preferisce alcune azioni se, e solo se, anche gli altri agenti preferiscono quelle azioni; c) vi siano almeno due combinazioni di azioni che gli agenti mettono sullo stesso piano come soluzione del problema di coordinazione (vi siano, in altri termini, almeno due “equilibri di coordinazione”). La soluzione di un problema di coordinazione di questo tipo richiede che vi sia qualcosa che sospinga tutti gli agenti nella direzione indicata da uno soltanto dei possibili equilibri di coordinazione. In altri termini, quel che serve è qualcosa che attribuisca ad uno soltanto dei possibili equilibri di coordinazione la salienza (salience) necessaria ad essere preferito da tutti gli agenti. Una possibile soluzione di un problema di coordinazione è l’esistenza di una regola sociale convenzionale. Seguendo la ormai classica analisi di David Lewis, una “convenzione” è una tra le so98 Aldo Schiavello luzioni possibili di un problema di coordinazione: «una regolarità R nel comportamento dei membri di una popolazione P quando essi sono agenti in una situazione ricorrente S è una convenzione se e solo se, in ogni caso di S tra i membri di P, (1) ciascuno si conforma ad R; (2) ciascuno si aspetta che anche gli altri si conformeranno ad R; (3) ciascuno preferisce conformarsi ad R a condizione che anche gli altri vi si conformino, stante che S sia un problema di coordinazione e la conformità uniforme ad R sia un appropriato equilibrio di coordinazione in S» 18. In taluni casi, una regola sociale potrebbe essere considerata come una convenzione à la Lewis. Ad esempio, una regola sociale che prescriva di guidare sul ciglio destro della carreggiata (o, indifferentemente, su quello sinistro) è ciò che serve per coordinare il traffico. In relazione a casi di questo tipo, la practice theory sembra mantenere una certa plausibilità: dopotutto, che cosa è che “obbliga” a guidare sul lato destro se non l’esistenza di una regola sociale che dà la salienza necessaria a questa prassi? Una difesa compiuta della practice theory non può arrestarsi a questo punto, ma prevede che si mostri che la regola di riconoscimento è una regola convenzionale. Questa è la strada intrapresa dal convenzionalismo giuridico. 3. La svolta convenzionalista 3.1. Il convenzionalismo in senso debole 3.1.1. La svolta convenzionalista di Hart nel Poscritto Nel dibattito giusfilosofico degli ultimi due decenni, l’importanza del Poscritto è stata alquanto esagerata. Pur non potendo entrare nel merito in questa sede, ritengo che Hart non avesse intenzione di abiurare alle sue posizioni precedenti ma soltanto di proporre qualche piccolo aggiustamento e di chiarire alcune sue tesi che potevano essere state travisate. Ciò non toglie che, come anticipato, sia proprio il tema dell’obbligo a suscitare in Hart le preoccupazioni maggiori. I passaggi del Poscritto maggiormente rilevanti al fine di caratterizzare come convenzionalista la concezione hartiana dell’obbligo si trovano nel terzo paragrafo, intitolato The Nature of Rules (La natura delle norme), e nel quarto paragrafo, intitolato Principles and the Rule of Recognition (Principi e norma di riconoscimento). Nel terzo paragrafo, Hart, dopo avere concesso a Dworkin che l’ambito di estensione della sua teoria dell’obbligo debba essere ristretto, sostiene tuttavia che essa si applichi nei confronti delle regole convenzionali ed aggiunge che la regola di riconoscimento è una regola convenzionale. Secondo Hart, «Le regole sono pratiche sociali convenzionali se la generale conformità ad esse di un gruppo è parte delle ragioni per le quali i membri individuali del gruppo le accettano [...]» 19. Il fatto che Hart consideri la “generale conformità” nei confronti di una regola convenzionale solo “parte delle” ragioni per accettarla, indebolisce la sua svolta convenzionalista. Hart non sostiene infatti la tesi che l’unica ragione per cui un individuo è tenuto a considerare obbligatoria una norma giuridica è che anche gli altri membri del gruppo la considerano tale, ma la tesi, in effetti più ragionevole, che la generale conformità dei membri del gruppo ad una norma è una condizione necessaria e non sufficiente per ritenere quella norma obbligatoria. Questa tesi, tuttavia, riconoscendo che l’obbligo di obbedire al diritto possa dipendere anche da valutazioni circa la giustizia e la correttezza morale delle norme non consente di preservare l’autonomia del diritto dalla morale. Per Hart, inoltre, anche nel Poscritto, le ragioni che possono indurre ad accettare una regola sociale sono molteplici, per molti versi insondabili e tutte sullo stesso piano. Al riguardo, l’unica differenza apprezzabile tra l’edizione originaria e il Poscritto è che in questo scritto postumo Hart esplicita con maggiore enfasi l’idea che, nel caso delle regole sociali, l’accettazione da parte degli altri membri del gruppo è una ragione necessaria per l’esistenza di un obbligo. Ciò rende questa ragione diversa da tutte le altre e giustifica la caratterizzazione della concezione dell’obbligo giuridico di Hart come convenzionalista, sia pure in senso debole. In linea di principio, taluni partecipanti, quelli maggiormente conformisti, potrebbero considerare l’accettazione di una regola sociale da parte degli altri come una ragione non solo necessaria ma anche sufficiente per porre in essere il comportamento prescritto dalla regola. In che senso dunque la regola di riconoscimento sarebbe una regola convenzionale? La risposta di Hart è che tra le ragioni di ciascun funzionario (o giudice) per accettare la regola di riconoscimento vi è anche il fatto che i suoi colleghi fanno lo stesso. In conclusione, nella replica postuma Hart si limita ad esplicitare con maggiore chiarezza quella che, seguendo Bruno Celano 20, chiamo “condizione di dipendenza”. La condizione di dipendenza può essere intesa in senso forte o in senso debole. Se si sostiene che l’unica ragione che un individuo ha per considerare una regola sociale come un modello di condotta è che anche gli altri membri del gruppo la considerano come tale, allora la condizione di dipendenza è intesa in senso forte; se invece si sostiene che la generale conformità dei membri del gruppo è soltanto una delle ragioni per l’accettazione di una regola, allora la condizione di dipendenza è intesa in senso debole. Hart accoglie la versione debole della condizione di dipendenza. Quel che è importante ribadire è che la natura convenzionale della regola di riconoscimento non è sufficientemente forte da fondare una teoria dell’obbligo giuridico ascrivibile al modello dell’autonomia; soprattutto se si ritiene che tutte le ragioni per accettare una regola siano “parassitarie” rispetto alle ragioni morali 21. L’unica strada percorribile sembra dunque quella di rinunciare all’autonomia dell’obbligo giuridico dall’obbligo morale, ma ciò implica il fallimento del convenzionalismo debole come replica all’obiezione di Dworkin presentata nel paragrafo precedente. Prima di rassegnarsi a questa conclusione è però opportuno guardare ad alcune altre versioni del convenzionalismo debole. 3.1.2. Il diritto come attività cooperativa condivisa La questione centrale, è bene ribadirlo, è la seguente: la regola di riconoscimento è in grado di obbligare (almeno) i funzionari? Si può sostenere che i funzionari abbiano «[…] il dovere di valutare la condotta richiamandosi a tutte e solo a quelle norme che sono valide in base alla regola [di riconoscimento]» 22? A queste domande Jules Coleman risponde affermativamente, sfruttando la nozione di “attività cooperativa condivisa” messa a punto da Michael Bratman 23. Alcuni interpreti di Hart negano che la regola di riconoscimento sia una regola normativa, in grado di imporre obblighi e le attribuiscono esclusivamente la funzione “semantica” di formulare i criteri di validità giuridica vigenti in una comunità 24; dal punto di vista di Coleman, questa posizione è criticabile anche per gli effetti “a cascata” che produce sulla normatività del diritto nel suo complesso, in quanto «[...] la pretesa delle regole subordinate alla regola di riconoscimento di fornire ragioni per agire dipende dal fatto di essere autorizzate dalla regola [di riconoscimento]» 25. L’argomento esplicitato ne La pratica dei principi a sostegno di una concezione convenzionalista dell’obbligo giuridico può essere disarticolato in due passaggi. Il primo passaggio consiste nel mostrare che la regola di riconoscimento è una ragione per l’azione; il secondo che tale regola è anche in grado di imporre obblighi. In relazione al primo passaggio, si può ritenere che la regola di riconoscimento sia una ragione per l’azione (almeno) per i funzionari in quanto è da loro accettata dal punto di vista interno. Questa tesi tuttavia è opinabile e merita un approfondimento. Se si riduce il punto di vista interno alla credenza dei funzionari di avere l’obbligo di seguire la regola di riconoscimento, l’argomento appare logicamente viziato: il mero fatto che qualcuno consideri una certa regola una ragione per l’azione non è in grado di trasformare effettivamente tale regola in una ragione per l’azione. Secondo Coleman, questa interpretazione della nozione di “punto di vista interno” non è accettabile. Il punto di vista interno, infatti, non sarebbe una mera credenza, ma l’esercizio di una cruciale capacità psicologica degli individui che consiste nel trattare una determinata pratica o tipo di comportamento come norma. Si tratterebbe, secondo Coleman, di una sorta di capacità innata, «la [cui] esistenza deve essere spiegata […] in modo causale, sociologico, biologico, o, più genericamente, facendo appello a un argomento evoluzionista che identifichi il valore adattivo di tale capacità (per esempio, la sua utilità nel mettere gli individui in condizione di intraprendere progetti e nell’assicurare i vantaggi dell’attività coordinata)» 26. Per chiarire la differenza tra una mera credenza e questa fondamentale disposizione psicologica che induce a trattare un comportamento come norma, Coleman si serve di un esempio. Se qualcuno prende l’abitudine di fare cento flessioni al giorno, questa abitudine non è in alcun modo una ragione in grado di giustificare il persistere di questa pratica; ciò non significa che non possano essere addotte altre ragioni – come il desiderio di mantenere la forma fisica, di combattere lo stress e così via – ma soltanto che l’abitudine di fare le flessioni non aggiunge alcunché alle ragioni ulteriori che eventualmente vengano avanzate a sostegno di questa pratica. Se tuttavia qualcuno assume nei confronti delle cento flessioni quotidiane l’atteggiamento che consiste nel trattare questa attività come norma, si è prodotta una ragione aggiuntiva rispetto alle ragioni preesistenti (mantenere la forma fisica, combattere lo stress e così via). Il punto di vista interno è dunque una disposizione che consente di trasformare un comportamento in una regola o un fatto sociale in un fatto normativo 27. In breve, nei confronti di una regola sociale, si possono immaginare due diversi atteggiamenti. Il primo è l’atteggiamento teoretico e descrittivo dello studioso e, in generale, dell’osservatore. Il secondo è invece l’atteggiamento normativo di chi si pone dal punto di vista interno e trae giudizi normativi non da un fatto sociale ma dal proprio «coinvolgimento pratico nei confronti dei fatti» 28. Il modo in cui Coleman ricostruisce il punto di vista interno presenta alcune oscurità. In particolare, la scarna spiegazione che egli fornisce del punto di vista interno come capacità psicologica degli individui ingenera il sospetto di circolarità dell’intero discorso: il punto di vista interno spiega come la regola di riconoscimento possa essere una ragione per l’azione in quanto esso è la manifestazione di quella capacità psicologica degli individui che consiste nell’adottare norme a guida del proprio comportamento; in altri termini, nel considerare determinate norme come ragioni per l’azione. Per amore dell’argomento, tuttavia, possiamo accogliere la ricostruzione del punto di vista interno proposta da Coleman e concentrarci sul secondo e decisivo passaggio del suo discorso che, come anticipato, si propone di mostrare che la regola di riconoscimento non sia soltanto una ragione per l’azione ma sia anche una regola in grado di imporre obblighi. Tra ragioni per l’azione ed obblighi non c’è una corrispondenza biunivoca. L’esistenza di un obbligo presuppone che vi sia una ragione per l’azione ma non ogni ragione per l’azione è in grado di produrre obblighi. L’esempio della norma autoimposta di fare cento flessioni al giorno è al riguardo emblematica. Nel momento in cui si è deciso di trasformare il comportamento di fare cento flessioni al giorno in una norma si è creata una ragione per l’azione aggiuntiva. L’esistenza di tale norma dipende tuttavia da un atto volontario individuale; di conseguenza, la norma in questione vige sino a quando persiste la volontà di considerare come norma il comportamento di fare cento flessioni al giorno. Se dunque tale norma può essere estinta semplicemente ritirando l’adesione ad essa, allora bisogna concludere che non si ha un obbligo di fare cento flessioni al giorno visto che «fa parte della natura degli obblighi che coloro che sono vincolati da essi non possano volontariamente estinguerli come ragioni» 29. In breve, l’esistenza di un obbligo presuppone che vi sia una norma nei confronti della quale non possiamo revocare liberamente la nostra adesione. Anche la distinzione tra ragioni per l’azione ed obblighi proposta da Coleman suscita qualche perplessità. Sulla scorta di quanto afferma Coleman sembrerebbe ad esempio che la morale (critica), proprio per il fatto di essere un sistema di norme autonome, non sia in grado di imporre obblighi e ciò è francamente paradossale. Anche in questo caso, tuttavia, possiamo sorvolare sulle difficoltà e continuare la presentazione della concezione dell’obbligo giuridico difesa da Coleman. Attraverso il punto di vista interno è possibile mostrare, in definitiva, che la regola di riconoscimento fornisce ragioni per l’azione. Per spiegare come essa sia anche in grado di imporre obblighi bisogna guardare alla natura della pratica che impegna i funzionari. A tal fine Coleman riprende da Margaret Gilbert l’esempio di due persone che passeggiano insieme. “Passeggiare insieme” è una attività o una pratica diversa da “camminare fianco a fianco”. Tra le varie differenze c’è anche il fatto che il passeggiare insieme ha una struttura normativa di cui non si riscontra alcuna traccia nel camminare fianco a fianco. Nel caso di due persone che passeggiano, le azioni e le intenzioni di ciascuna creano delle ragioni per l’altra. Ad esempio, il fatto che una delle due persone giri a sinistra, o che intenda o preferisca farlo, può dare all’altra persona una ragione per girare a sua volta a sinistra. Inoltre, in questo caso, l’affidamento e le aspettative giustificate 30 di entrambi gli individui fanno sì che la norma “(nel corso di una passeggiata) se una persona volta a sinistra, l’altra deve assecondarla” sia una norma che impone obblighi. Si tratta di una norma, infatti, che non può essere abbandonata a piacimento da ciascun individuo. Secondo Coleman, «[…] quando i giudici adottano la pratica di applicare la regola di riconoscimento, le azioni e le intenzioni degli altri giudici sono ragioni per ognuno di loro; è come se passeggiassero insieme invece di camminare semplicemente fianco a fianco» 31. Come nel caso della passeggiata, quindi, la regola di riconoscimento è una norma che impone obblighi in quanto tra le ragioni che ciascun funzionario ha per seguire la regola c’è anche il fatto che gli altri funzionari fanno altrettanto (condizione di dipendenza intesa in senso debole). A dire il vero, l’argomento di Coleman è leggermente più articolato: l’obbligo dei funzionari di seguire la regola di riconoscimento dipende dal fatto che l’impresa in cui essi sono impegnati presenta le caratteristiche di quelle che Bratman denomina attività cooperativa condivisa. Un’attività di questo tipo è caratterizzata i) dalla «sintonia reciproca» (mutual responsiveness); ii) dall’«impegno nella attività congiunta» (commitment to the joint activity); iii) dall’«impegno all’aiuto reciproco» (commitment to mutual support) 32. Al riguardo, Dworkin osserva in modo convincente che non vi è alcuna connessione necessaria tra la nozione di attività cooperativa condivisa ed il convenzionalismo; un’attività cooperativa condivisa – i cui casi paradigmatici sono cantare un duetto, dipingere insieme una casa, fare un dai e vai a pallacanestro e così via – non è necessariamente fondata su una convenzione o, comunque, su una regola, ma richiede soltanto che i partecipanti «[comunichino] l’un con l’altro e [aggiustino] costantemente il loro comportamento alla luce di ciò che fa l’altro» 33. Di conseguenza: «ogni parte di una attività cooperativa condivisa può giudicare da sé cosa è per essa appropriato fare in ogni momento, in relazione a ciò che stanno facendo gli altri, e senza alcuna guida da parte di una convenzione costituita dal comportamento passato e atteso di altre persone» 34. Inoltre, l’idea stessa di considerare il diritto un’attività cooperativa condivisa è discutibile. Il fatto incontrovertibile che i funzionari debbano in qualche misura coordinarsi – cosa che, peraltro, vale per tutte le attività sociali – non è sufficiente per affermare che il diritto sia una attività cooperativa condivisa. Una attività di questo tipo richiede qualcosa di più: un impegno non conflittuale di tutti i partecipanti nell’attività congiunta e la disposizione di ciascuno a sostenere lealmente gli sforzi altrui nel perseguimento dell’obiettivo comune. Il diritto è invece una pratica sociale caratterizzata da un elevato grado di conflittualità. I giudici hanno idee diverse su quale sia la loro funzione, su quale sia la soluzione corretta di una determinata questione; i conflitti di attribuzione tra i diversi poteri dello stato non sono rari e così via. Volendo rimanere agli esempi di attività cooperativa condivisa proposti da Bratman e ripresi da Coleman, è corretto dire che i funzionari, ed i giudici in particolare, «fanno le loro passeggiate e costruiscono le loro case da soli o in partiti, non tutti insieme» 35. Infine, anche a voler concedere che il diritto sia una attività cooperativa condivisa, va rilevato che, secondo Coleman, è l’affidamento reciproco dei partecipanti che si impegnano in questa attività a rendere i comportamenti di questi ultimi non più liberi ma obbligatori. Tuttavia, il fatto che qualcuno faccia affidamento sul comportamento altrui, di per sé, non è in grado di produrre alcun obbligo; ciò che, eventualmente, potrebbe creare obblighi è il principio morale di tutela dell’affidamento o di protezione delle aspettative giustificate. E questa conclusione è chiaramente anti-convenzionalista 36. 3.1.3. Convenzioni costitutive e regola di riconoscimento Andrei Marmor ricostruisce la regola di riconoscimento come una “convenzione costitutiva di una pratica autonoma 37. Ciò che accomuna le regole convenzionali di qualsiasi tipo è, innanzitutto, l’“arbitrarietà” 38: se una regola è convenzionale, deve essere possibile immaginare una regola alternativa. Poi, una regola convenzionale è caratterizzata da quella che Celano ha denominato condizione di dipendenza (cfr. par. 3.1.1). La caratteristica saliente delle convenzioni costitutive di pratiche autonome è quella di contribuire a delineare il senso o il valore dell’attività in questione. In altri termini, la ragion d’essere delle “pratiche autonome” non può essere pienamente individuata guardando a scopi o valori esterni alla pratica, ma va ricercata anche all’interno della pratica stessa e, più precisamente, guardando alle convenzioni che la costituiscono. Questa caratteristica delle convenzioni costitutive individua un importante elemento di distinzione con le convenzioni coordinative. Il presupposto della nozione di convenzione di Lewis, infatti, è che esista un problema di coordinazione che precede la convenzione e che può essere compiutamente identificato in modo indipendente dalla convenzione. Al contrario, le convenzioni costitutive contribuiscono in modo decisivo a determinare una pratica sociale la quale, di conseguenza, non è chiaramente distinguibile dalle regole convenzionali che la costituiscono. Marmor individua cinque caratteristiche rilevanti delle convenzioni costitutive 39. La prima caratteristica è la sistematicità: «ci vuole un sistema di regole convenzionali per fondare una pratica sociale, vale a dire un grappolo di regole attorcigliate intorno ad una struttura più o meno complessa» 40. Al contrario, le convenzioni che costituiscono la soluzione di un problema di coordinazione non presentano necessariamente natura sistematica. In molti casi, è sufficiente un’unica convenzione per risolvere brillantemente un problema di coordinazione. La seconda caratteristica è la (parziale) autonomia della pratica, che dipende dal fatto che i valori e gli interessi che spingono verso la fondazione di una determinata pratica sociale sottodeterminano le regole convenzionali. In altri termini, vi è un numero indefinito di pratiche sociali potenziali che potrebbero tutelare i medesimi valori ed interessi sottesi alla pratica esistente. Ad esempio, il desiderio di cimentarsi in un’attività intellettualmente stimolante potrebbe essere soddisfatto in molti modi diversi dal giocare a scacchi. La terza caratteristica è la dinamicità: «[…] [a differenza delle convenzioni coordinative] le convenzioni costitutive tendono a trovarsi in un processo costante di interpretazione e reinterpretazione, che è influenzato in parte da valori esterni e in parte dai medesimi valori rappresentati dalla pratica convenzionale stessa» 41. La quarta caratteristica è la “divisione del lavoro”. Il fatto che alcuni, o anche molti, tra i partecipanti ad una determinata pratica sociale abbiano una conoscenza soltanto parziale, o comunque approssimativa, di tale pratica non è incompatibile con l’esistenza di una convenzione costitutiva. Le cose stanno in modo alquanto diverso nel caso delle convenzioni coordinative. Una convenzione coordinativa, infatti, può risolvere un problema di coordinazione soltanto se è conosciuta da tutti coloro che sono invischiati in tale problema. L’ultima caratteristica è la “condizione di efficacia”. Come si è detto già all’inizio del paragrafo, non ha senso seguire una regola convenzionale se questa regola non è effettivamente seguita dagli altri. Marmor tuttavia riconosce che nel caso delle convenzioni costitutive, a differenza delle convenzioni coordinative, il fatto che gli altri membri del gruppo le seguano non costituisce l’unica ragione per seguirle a propria volta: «le ragioni che gli individui hanno per impegnarsi in pratiche convenzionali non possono essere ricondotte esclusivamente al desiderio che vi sia uniformità nell’azione » 42. In altri termini, si può dire che, in relazione alle convenzioni coordinative, la condizione di efficacia è, al tempo stesso, una condizione di esistenza ed una giustificazione delle convenzioni mentre, in relazione alle convenzioni costitutive è soltanto una condizione di esistenza. Da ciò si evince che la versione del convenzionalismo giuridico proposta da Marmor – nella misura in cui il diritto è visto come una pratica autonoma prodotta da convenzioni costitutive – accoglie la condizione di dipendenza intesa in senso debole. Questa conclusione interlocutoria va approfondita osservando le caratteristiche salienti che consentono di distinguere il diritto dalle altre pratiche sociali, come i giochi ed i generi artistici, che si fondano su convenzioni costitutive 43. La peculiarità del diritto rispetto a queste ultime pratiche sociale è rappresentata dalla dimensione autoritativa 44. Dalla dimensione autoritativa del diritto scaturisce il problema della partecipazione involontaria alla pratica giuridica (involuntary membership). Mentre nessuno è costretto a giocare ad un certo gioco, la partecipazione alla pratica giuridica prescinde dalla nostra adesione volontaria ad essa. Il fatto che si è in qualche modo costretti, anche tramite la minaccia dell’uso della forza, a rispettare le norme giuridiche pone dei problemi in relazione alla intuizione che la normatività del diritto richiede che esistano ragioni per una partecipazione convinta alla pratica. Secondo Marmor, la soluzione di tale problema risiede nella tesi di carattere generale che il bisogno che vi siano ragioni non implica l’effettiva possibilità di scelta. Il fatto che qualcuno abbia bisogno di una buona ragione per fare A semplicemente non implica che evitare di fare A debba essere una opzione praticabile. Marmor immagina la situazione in cui qualcuno si trovi a dover scegliere tra fare A o B, ed in cui l’opzione B, a dispetto di ciò che crede la persona impegnata nella scelta, non sia effettivamente percorribile. L’individuo in questione, considerate tutte le ragioni rilevanti, decide di fare A. Il fatto che B non fosse disponibile come soluzione, non implica che la decisione di fare A non sia una decisione basata su ragioni. Per quanto sia corretto dire, sulla base di una mera osservazione esterna, che fare A è l’unica conclusione possibile, il processo che ha portato l’individuo dell’esempio a fare A è consistito in un bilanciamento delle ragioni pro e contro questa soluzione e ciò consente di affermare che egli ha posto in essere una decisione basata su ragioni. Se si modifica leggermente l’esempio, immaginando che l’individuo sapesse in anticipo l’indisponibilità dell’opzione B, le cose, secondo Marmor, non cambiano significativamente. A partire da queste premesse, Marmor osserva che «anche se la maggior parte degli individui non ha alcuna possibilità pratica di tenersi fuori dal raggio d’azione del diritto, può darsi che le ragioni che essi (o almeno alcuni fra essi) hanno per fare ciò che il diritto richiede siano ragioni indipendenti da questa mancanza di scelta. Essi possono semplicemente ritenere che sia bene essere partecipanti impegnati nella pratica giuridica» 45. Dunque, la dimensione autoritativa del diritto non è incompatibile con la capacità del diritto di fornire ragioni per l’azione e di produrre obblighi. Il punto cruciale consiste dunque nel mostrare, rispetto a quelli che Marmor denomina “partecipanti impegnati”, quale concezione della normatività del diritto discenda dal considerare la prassi giuridica come il prodotto di convenzioni costitutive. La strategia di Marmor consiste nel distinguere tra ragioni primarie per l’azione e ragioni ausiliarie e nel riconoscere che soltanto queste ultime hanno natura convenzionale. Le ragioni primarie sono quelle che inducono a partecipare in modo convinto ed impegnato ad una pratica sociale (nel nostro caso, alla pratica giuridica). Queste ragioni hanno a che fare sia con i valori esterni alla pratica che hanno prodotto la nascita della pratica sia con i valori interni – parzialmente autonomi rispetto ai primi – incarnati dalla pratica. La presenza di valori esterni, insieme al fatto che i valori incarnati dalla pratica sono soltanto parzialmente autonomi rispetto ai valori esterni, evita che la distinzione tra ragioni primarie e ragioni ausiliarie si risolva in una circolarità viziosa 46. Le ragioni ausiliarie sono quelle che discendono dall’esistenza di regole convenzionali. Le convenzioni costitutive sono dunque obbligatorie in modo condizionato, a condizione cioè che esista un impegno preventivo a partecipare alla pratica in questione. Chi si impegna a partecipare ad una pratica, si impegna a rispettare le regole che la costituiscono. In relazione al diritto, la partecipazione impegnata alla pratica fa sorgere tutta una serie di obblighi giuridici definiti dalle norme ed in ultima istanza dalla regola di riconoscimento. Il modo in cui Marmor distingue il diritto da altre pratiche sociali suffraga la conclusione che egli accolga una versione particolarmente debole della condizione di dipendenza: le regole convenzionali forniscono solo ragioni ausiliarie per l’azione, ragioni cioè che sono subordinate al riconoscimento di altre ragioni la cui validità prescinde dal fatto di essere riconosciute come tali anche dagli altri partecipanti. 3.2. Il convenzionalismo in senso forte 3.2.1. Diritto e coordinazione Due sono le caratteristiche salienti del convenzionalismo giuridico inteso in senso forte. La prima è l’individuazione della funzione peculiare del diritto nella risoluzione di problemi di coordinazione (cfr. par. 2.2.). La seconda caratteristica è il collegamento necessario tra l’obbligo di obbedire al diritto e la capacità del diritto di risolvere problemi di coordinazione. Questa caratteristica implica l’accoglimento della condizione di dipendenza intesa in senso forte: l’unica ragione (o, la ragione essenziale) per considerare una norma giuridica come un modello di condotta è il fatto che anche gli altri consociati la considerano tale. Si tratta di caratteristiche esigenti e, difatti, in letteratura, le concezioni dell’obbligo giuridico in grado di soddisfarle sono molto poche. Qui mi limito a presentare una breve analisi critica della versione di Gerald Postema che si inserisce a pieno titolo nella controversia Hart/Dworkin da cui la svolta convenzionalista è stata originata 47. «L’intuizione fondamentale [della teoria del diritto di Hart]», osserva Postema, «è che il diritto poggia, in ultima istanza, su una consuetudine o convenzione peculiare e complessa». «Questa nozione di convenzione», egli aggiunge, «se intesa nel modo giusto consente di conciliare la tesi che il diritto è un fatto sociale e la tesi che esso è in grado di produrre obblighi genuini [...], in quanto una convenzione è sia un fatto sociale sia un insieme di ragioni per l’azione » 48. Secondo Postema, i problemi di coordinazione nel diritto si presentano a tre diversi livelli. Il primo livello individua quei problemi di coordinazione la cui esistenza è indipendente dal diritto e che il diritto ha il compito di risolvere in modo autoritativo; gli altri due livelli individuano i problemi di coordinazione che si manifestano nel contesto di interpretazione/applicazione del diritto e che riguardano, rispettivamente, funzionari e cittadini (secondo livello) o soltanto funzionari (terzo livello). Postema riconosce che il diritto è una ragione per l’azione dei cittadini nella misura in cui o risolve problemi di coordinazione (di primo livello) o incorpora e difende principi e valori morali da loro accolti. È dunque lo stesso Postema a riconoscere che, nel caso dei cittadini, l’obbligo giuridico non è autonomo dall’obbligo morale. Riguardo all’obbligo dei funzionari e dei giudici in particolare di rispettare le convenzioni interpretative di secondo e terzo livello, se è vero che, da un lato, Postema rimarca, a partire da una determinata concezione della responsabilità politica dei giudici, che tale obbligo prescinde dal contenuto delle convenzioni esistenti e si presenta quindi come indipendente da un obbligo morale che potrebbe consistere, ad esempio, nell’adottare l’interpretazione del diritto ritenuta giusta sulla base di determinati parametri morali, dall’altro, egli si trova costretto a ritagliare uno spazio alla morale concedendo che le valutazioni di tipo morale possono influire ex ante, prima cioè che si consolidi una convenzione interpretativa, ad indirizzare la scelta verso una delle possibili interpretazioni di una disposizione e, ex post, nella misura in cui sia la stessa convenzione interpretativa a riconoscere l’esercizio di discrezionalità all’interprete. Lo spazio, alquanto ampio, che Postema assegna alle valutazioni morali in ambito giuridico stride palesemente con la tesi che la funzione principale del diritto sia quella di risolvere problemi di coordinazione in senso stretto. Il fatto poi che Postema negli anni abbia indebolito questa tesi 49 è un indizio, insieme agli altri, della sua scarsa plausibilità. Per il convenzionalismo giuridico in senso forte (che sia internamente coerente), la funzione del diritto è esclusivamente quella di fornirci delle direttive per il comportamento; che queste ultime siano corrette o accettabili dal punto di vista morale è irrilevante. Tuttavia, tale ipotesi appare poco plausibile, anche considerando le intuizioni di senso comune sul diritto: per noi, non è affatto indifferente, ad esempio, che una costituzione tuteli l’eguaglianza di tutti gli individui ovvero discrimini apertamente alcuni gruppi etnici o religiosi.