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1. INTRODUZIONE E DEFINIZIONE GHG
Le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) in atmosfera sono una delle principali cause del cambiamento
climatico, del degrado ambientale ed ecosistemico, nonché alcune delle più importanti minacce al benessere e
alla salute dell’intero pianeta. Le crescenti concentrazioni di composti come CO2, CH4 e N2O in atmosfera
stanno provocando un graduale surriscaldamento: ciò ha come conseguenza un’alterazione del clima mondiale,
già in atto, che potrebbe mettere in grave crisi sia il sistema umano che gli ecosistemi naturali. L’emissione di
GHG è direttamente collegata alla combustione di carburante (carbone, benzina, gasolio, cherosene) ed alla
respirazione e decomposizione di biomassa. Si deduce, dunque, che la produzione ed il consumo di energia
siano i principali agenti di emissione di grandi quantità di questi gas.
È stato evidenziato che le sostanze inquinanti rilasciate nell’aria sono una delle cause principali dell’aumento
delle malattie respiratorie e cardiache, degli ictus e di altre patologie: si stima che a causa delle sostanze nocive
dell’aria siano morte quasi 7 milioni di persone nel mondo, di cui la maggior parte in paesi a basso reddito.
Per questo motivo esiste una grande quantità di studi scientifici referati che mettono in luce il nesso tra crescita
economica/attività produttive ed emissioni di GHG.
A seguito dell’aumento dei problemi ambientali che hanno caratterizzato gli anni ‘80, uno degli argomenti più
discussi è stato quello della relazione tra crescita economica e degrado ambientale.
Si tratta di un problema molto controverso: è evidente che una progressiva crescita economica porti ad un
aumento del consumo di energia, le cui conseguenze sono un alto livello di emissioni e quindi di degrado
ambientale. Al tempo stesso, la crescita economica viene vista come fondamentale driver per la lotta alla
povertà e alle differenze sociali. La totalità degli studi in materia dimostra una relazione diretta tra essi e imputa
principalmente alla globale crescita economica, degli ultimi 250 anni, il repentino aumento delle
concentrazioni di GHG in atmosfera. In un’ottica di programmazione futura, la domanda che ci si pone è se
sia possibile mantenere nel tempo una crescita economica compatibile con un rallentamento o addirittura una
riduzione delle emissioni di GHG o, se invece, sia necessario mettere un freno all’economia mondiale per
salvaguardare il clima del nostro pianeta. Tecnicamente tale fenomeno si chiama decoupling: esso si riferisce
alla relazione di disaccoppiamento che può intercorrere tra una/più variabili economiche (variazione del PIL
pro capite o della produzione industriale) e le rispettive variabili ambientali (nel nostro caso, le emissioni di
GHG), all’interno di un territorio e in un dato periodo di tempo. Si assiste al fenomeno del decoupling quando
la variabile economica e quella ambientale non si muovono all’unisono e le loro variazioni in termini
percentuali si discostano l’una dall’altra. L’obiettivo, che diverse istituzioni internazionali e Stati si sono posti
per lo sviluppo futuro, è il disaccoppiamento tra un PIL pro capite crescente e una riduzione relativa o assoluta
delle emissioni di GHG annue, attraverso processi di decarbonizzazione e di progresso tecnologico, delle loro
economie.Diversi Stati, in particolare quelli più economicamente sviluppati, alcuni dei quali principali
emettitori di GHG, affermano di aver raggiunto un disaccoppiamento e alcuni studi sembrano avvalere le loro
dichiarazioni, confermando la presenza di una curva a U rovesciata (EKC) per le emissioni di GHG oltre
determinate soglie di reddito. Tuttavia esistono, all’interno della letteratura, diversi dubbi e ambiguità che
riguardano:
• Le metodologie utilizzate per la valutazione del decoupling sulla base della produzione piuttosto che
del consumo.
• La conseguente dubbia efficacia di sistemi che non considerano il carbon leakage
• L’affidabilità degli stimatori econometrici relativi al decoupling.
• La reale esistenza della Environmental Kuznets Curve (EKC).
Quali siano obiettivi di riduzione, che attraverso il decoupling, siano sufficienti alla lotta al cambiamento
climatico.
1.1. Il Decoupling dei GHG
Con il termine decoupling dei GHG si indica il disaccoppiamento del rapporto di correlazione tra crescita
economica ed emissione di gas ad effetto serra. Come precedentemente accennato, esso avviene quando, in
un determinato periodo di tempo, il tasso di crescita delle emissioni di GHG è inferiore a quello del suo
driver economico. Per rappresentare le due diverse componenti, che determinano il decoupling dei GHG,
vengono utilizzati diversi indicatori di tipo economico come ad esempio variazione del PIL pro capite, della
produzione industriale o del consumo di energia, messi in relazione con la variabile ambientale delle
emissioni in atmosfera. (Ruffing, 2007).
La relazione di decoupling non è univoca, infatti, può assumere due diverse forme:
•
•
decoupling debole (o relativo), quando la variazione della pressione ambientale è positiva ma inferiore
a quella della componente economica.
decoupling forte (o assoluto) , nel caso in cui alla crescita economica si abbina una variazione negativa
della pressione ambientale.
TAPIO è uno dei principali modelli utilizzati per lo studio del decoupling, tralasciando per ora le complesse
analisi quantitative che lo compongono una sua rappresentazione grafica può aiutare a comprendere meglio le
diverse sfumature che il decoupling può assumere.
2. APPROCCI METODOLOGICI AL DECOUPLING GHG: EKC E DECOMPOSITION
La discussione sul disaccoppiamento dei gas serra richiede l’impiego di un rigoroso quadro analitico: esso,
infatti, può essere caratterizzato in base agli indicatori e modelli utilizzati per la quantificazione delle attività
economiche e le pressioni sull’ambiente.
Dalla letteratura presa in analisi, emerge che per lo studio delle relazioni di disaccoppiamento dei gas serra
vengono solitamente impiegati due metodi di indagine: l’analisi di decomposizione e lo studio della curva
ambientale di Kuznets. Di assoluta rilevanza nel dibattito scientifico sulla relazione tra ambiente e crescita
economica, è senza dubbio la teoria dell’ Environmental Kuznets Curve: essa mostra la relazione tra degrado
ambientale e l’output economico, inteso come livello di emissioni di un determinato inquinante (la CO2 è
spesso l’oggetto principale degli studi). La teoria sostiene che le fasi iniziali di crescita economica di un
paese porteranno necessariamente ad un aumento progressivo delle emissioni, tuttavia, ipotizza che oltre un
certo livello di crescita economica, detto punto di svolta, si verificherà un decremento delle stesse. Il motivo
di questa diminuzione progressiva scaturisce dall’idea che la crescita economica porti ad un perfezionamento
tecnologico, in grado di aumentare l’efficienza energetica del sistema (una minor quantità di sostanza
inquinante emessa rispetto alla quantità di energia generata). Questa teoria, dunque, mette in dubbio la
necessità di una regolamentazione stringente per contenere le emissioni, in quanto questa riduzione potrà
essere raggiunta in spontaneamente, grazie alla progressiva crescita economica dei paesi. Uno studio
condotto dalla World Bank, nel 1992, descrive l’ipotesi EKC come una serie di “passaggi”, in particolare, da
economie agrarie non inquinanti ad economie industriali inquinanti, per poi succedere ad economie di
servizi non inquinanti. Graficamente, il risultato di questa relazione tra crescita economica e degrado
ambientale è una curva ad U rovesciata. Tuttavia, l’ipotesi EKC si è rivelata negli anni sempre più debole,
soprattutto a causa di una scarna letteratura a suo favore: infatti, i principali oppositori di questa teoria
negano che il degrado ambientale possa risolversi con il business-as-usual, affermando la necessità di
politiche regolatorie separate, per contenere le emissioni. Tra gli obiettori dell’ipotesi EKC si ricorda Itkonen
(2012) che prende in considerazione un recente filone di studi sulla Carbon Kuznets Curve (CKC), che
inserisce il consumo energetico come variabile di controllo. L’autore anticipa che i risultati saranno affetti da
una certa distorsione dovuta all’effetto del consumo energetico sull’integrità del parametro di emissione. Il
risultato di Itkonen, infatti, evidenzia come questa distorsione metodologica porti a previsioni troppo
ottimistiche e poco reali riguardo l’andamento tra crescita economica ed emissioni. Un’ulteriore analisi da
considerare è quella fornita da Azam e Khan (2016), i quali attraverso una comparazione tra paesi con redditi
differenti analizzano l’ipotesi EKC, nel periodo 1975- 2014. I paesi considerati sono: Tanzania (basso),
Guatemala (basso-medio), Cina (medio) e USA (alto). Attraverso la regressione, si è cercato di far dipendere
le emissioni pro capite annue in relazione quattro fattori, ossia reddito pro capite, consumo energetico pro
capite, grado di apertura dei mercati e tasso di urbanizzazione. Emerge che, per tutti gli Stati, le emissioni
pro capite hanno una relazione positiva con il consumo di energia e l’apertura dei mercati; mentre si rileva
una relazione negativa tra il tasso di urbanizzazione e le emissioni, solo per gli USA. I risultati mostrano
come l’ipotesi di EKC sia verificata per paesi a basso e medio-basso reddito (Tanzania e Guatemala), mentre
per non lo è per paesi a medio e alto reddito (Cina e Stati Uniti). Gli studi sopracitati si uniscono ad una
nutrita letteratura che indebolisce l’ipotesi dell’EKC, a fronte di una mancanza di valenza generalizzata ed
aderenza alla realtà. La letteratura, tuttavia, presenta anche studi empirici validanti l’EKC; a tal proposito, si
segnala lo studio di Fosten ed al (2012), in UK, il cui obiettivo principale era lo studio della relazione di
disaccoppiamento della CO2 ed SO2, attraverso l’impiego di un modello time series, che copre due periodi
(1830- 2003) e (1850 al 2002). E’ evidente come l’orizzonte temporale considerato sia molto ampio rispetto
a precedenti studi simili con l’introduzione di due variabili: i prezzi dell’energia ed i trend (proxy del
cambiamento tecnologico). Attraverso due modelli, il TAR ed l’ M-TAR 1, si dimostra che i disequilibri
nelle emissioni pro capite di CO2 ed SO2 sono corretti molto più velocemente quando sono verso l’alto
rispetto a quando sono verso il basso. Si rileva, inoltre, una velocità maggiore per la CO2 rispetto all’SO2 e
ciò implica maggiori costi di abbattimento per quest’ultima. Il risultato finale sul lungo periodo è il supporto
all’ipotesi di EKC per entrambe le sostanze: si stima il punto di svolta2 per la CO2 di 7691 GK$, mentre
8167 GK$ per l’SO2, redditi raggiungibile per paesi in via di sviluppo avanzata. Questo studio appartiene al
filone teorico che attribuisce alla crescita economica il ruolo di soluzione naturale ai problemi del
cambiamento climatico. Un altro caso studio in favore dell’ipotesi EKC è di Marques et al. (2018) che si
concentra sulle emissioni di CO2, in Australia, dal 1965 al 2016, servendosi di un modello auto regressivo e
del Decoupling Index (DI), per capire il comportamento effettivo delle emissioni.
I risultati, pur confermando l’ipotesi EKC, segnalano, tramite il DI, una situazione di disaccoppiamento
relativo nel periodo considerato (studiando intervalli di 10 anni, si riscontra accoppiamento solo nel periodo
1965-1975). Risulta evidente come la crescita economica, in questo momento, stia facendo aumentare le
emissioni, seppur ad una velocità minore: ciò mostra come l’Australia si trovi in una fase iniziale della curva
di Kuznets e deve ancora raggiungere il punto di svolta (nonostante abbia superato abbondantemente i livelli
di pil pro-capite indicati da Fosten et al.). Per gli autori l’obiettivo sarà raggiunto nel lungo periodo
concretizzando una situazione di disaccoppiamento assoluto, tuttavia, evidenziano la necessità di interventi
regolatori come quelli di efficientamento energetico ed investimenti per abbassare i costi di utilizzo delle
rinnovabili. L'analisi di decomposizione, invece, vede la sua prima applicazione negli anni Settanta, a seguito
della crisi petrolifera, con lo scopo di studiare l’impatto delle variazioni della struttura produttiva sulla
domanda energetica dell’industria3. Infine, per avere uno sguardo di insieme è importante citare lo studio di
Li et.al (2007), che attraverso un approccio statistico fornisce una meta-analisi di 588 osservazioni relative
all’EKC.
L'analisi di decomposizione, invece, vede la sua prima applicazione negli anni Settanta, a seguito della crisi
petrolifera, con lo scopo di studiare l’impatto delle variazioni della struttura produttiva sulla domanda
energetica dell’industria4. Questa analisi indaga la variazione di un indicatore considerato, in un determinato
intervallo temporale, scomponendo i cambiamenti di una variabile nei cambiamenti nei suoi determinanti. Di
recente, tale analisi è stata estesa anche al campo ambientale, in particolare all’ambito delle emissioni
atmosferiche per la comprensione delle cause retrostanti alle variazioni. La letteratura ha individuato due
metodologie applicative per l’analisi di decomposizione: l’Index Decomposition Analysis (IDA) e la
Structural Decomposition Analysis (SDA). L’IDA si concentra maggiormente sul tipo di indicatore e sulle
modalità di decomposizione, utilizzando dati economici aggregati a livello di settore, in forma vettoriale. Le
principali componenti in cui è possibile scomporre le emissioni sono la crescita economica, la struttura
dell’economia e l’intensità di emissione o energetica. Come evidenziato da Chen et al5 , l’intensità di
emissione o energetica, può essere considerata una proxy della componente tecnologica, in quanto fornisce
indicazioni sull’efficienza dei settori produttivi, essenziali per politiche ed azioni rivolte all’innovazione
ambientale degli stessi settori. La SDA, invece, si fonda su un modello input- output e la presenza
dell’inversa tecnica di Leontief fra le componenti consente di valutare sia gli effetti indiretti che diretti della
domanda. Le principali componenti per un’analisi di decomposizione strutturale sono la crescita economica,
la tecnologia (riconducibile all’ “inversa tecnica” di Leontief), l’intensità di emissione e la domanda finale.
In generale, il punto di partenza per l’analisi di decomposizione è la costruzione di un’identità, la Kaya’s
1
Threshold autoregressive adjustment (TAR) e Momentum threshold autoregressive adjustment (M-TAR): sono modelli di cointegrazione e correzione
degli errori con aggiustamento asimmetrico.
2
Inteso come reddito pro-capite espresso in dollari Geary- Khami.
3
L’analisi di decomposizione può essere applicata anche con i dati NAMEA per indagare gli andamenti non direttamente evidenti dal
confronto temporale tra le variabili economiche e ambientali.(Analisi di decomposizione delle emissioni atmosferiche di anidride
carbonica e degli acidificanti potenziali applicata ai dati della NAMEA italiana- APAT, Settembre 2007)
4
L’analisi di decomposizione può essere applicata anche con i dati NAMEA per indagare gli andamenti non direttamente evidenti dal
confronto temporale tra le variabili economiche e ambientali.
(Analisi di decomposizione delle emissioni atmosferiche di anidride carbonica e degli acidificanti potenziali applicata ai dati della NAMEA italianaAPAT, Settembre 2007)
5
J. Chen, P. L. (2018). Decomposition and decoupling analysis of CO2 emissions in OECD. Elsevier - Applied Energy.
Identity6, in cui la variabile da analizzare è indicata come prodotto di componenti, intese come cause
retrostanti. L’identità è fornita a priori; è indispensabile scegliere le componenti che meglio aderiscano ai
dati disponibili e all’obiettivo dell’analisi. Come definito dall’OCSE (2002), il disaccoppiamento scollega il
rapporto tra lo sviluppo economico e le pressioni ambientali e ciò che ne risulta è un possibile duplice
risultato: un disaccoppiamento assoluto o relativo. Entrando nel particolare, per la verifica del livello di
disaccoppiamento risulta fondamentale la scelta dell’indicatore: tra quelli maggiormente utilizzati spicca il
Tapio Decoupling Index e l’ LDMI. Il ricercatore finlandese, Tapio, nel 2005, ha proposto una definizione
dell’indice di disaccoppiamento per esplorare la connessione tra PIL ed emissioni di carbonio, nel settore dei
trasporti dell'UE15 dal 1970 al 2001.7 Egli definisce, dunque, l’indicatore di disaccoppiamento come il
rapporto tra il tasso di crescita delle emissioni di CO2 (∆C/C0) ed il tasso di crescita del PIL (∆G/G0).
Successivamente alla definizione dell’indicatore di decoupling, è necessario definire il metodo con cui lo si
decomporrà: l’LMDI8 (Log Mean Divisia Index) è uno dei procedimenti maggiormente utilizzati. Sulla base
dei risultati dell’LDMI, si procede con il calcolo dell’indice di elasticità di disaccoppiamento ε , tale valore
riflette il sistema di influenza radicato dei diversi effetti. Partendo da questa riflessione, è possibile definire
lo stato di disaccoppiamento (δ T ) come la somma dei singoli indici di decoupling dei fattori considerati
δpop, δint, δ mix, δ fac.9 Il fattore δ fornisce la misura del contributo relativo di ciascun fattore al progresso
complessivo del disaccoppiamento ed assume valori variabili: per δ ≥ 1, l’ effetto di disaccoppiamento è un
forte; per 0 <δ<1, l’effetto di decoupling . relativo ed, infine, per δ ≤0 non vi è stato di disaccoppiamento.
In riferimento all’elasticità di disaccoppiamento, un’ ulteriore metodologia applicata al decoupling è la
Trend/Cycle Analysis10. Prendendo in considerazione lo studio di Cohen et al11, la scomposizione della
crescita delle emissioni e del PIL reale avviene nelle loro componenti tendenziali e cicliche. Le elasticità
cicliche risultano mediamente positive pari a 0,5; mentre quelle tendenziali sono essenzialmente pari a zero o
negative. In questo caso, le differenze tra il gruppo dell'economia avanzata e il gruppo dei mercati emergenti
sono più evidenti. Per sei paesi, Italia compresa, questo risultato suggerisce che la componente tendenziale
delle emissioni si è disaccoppiata dalla componente tendenziale della produzione. Una possibile spiegazione
di questo risultato è l’effetto del commercio internazionale che fornisce un meccanismo per spostare
l’inquinamento ambientale altrove. Per tenere conto di questo effetto, si opera una distinzione tra emissioni
production- based e consumption- based, dove queste ultime si aggiungono alle emissioni embodied nelle
esportazioni nette dei paesi. In questa prospettiva, l’evidenza del disaccoppiamento per le nazioni più ricche
si indebolisce, anche per molti paesi europei. Come evidenziato, in generale, i fattori che possono influenzare
le emissioni sono di numerosi; tuttavia, la maggior parte degli studiosi8 concorda sul fatto che la crescita
economica sia il fattore principale dell’aumento delle emissioni di CO2, mentre identificano l’intensità
energetica come fattore critico per la riduzione delle stesse.
2.1. I CASI STUDIO
2.1.1. USA e Cina
Alcuni studi (Wang et al., 2018) si concentrano sulla rilevazione di decoupling nei due principali emettitori
di gas serra, Cina e USA. Realizzati sulla base di dati riguardanti il periodo 2000 – 2014, essi, attraverso una
metodologia production-based, mettono in relazione livelli di reddito ed emissioni di GHG (in particolare
CO2) nei due paesi e utilizzano una scomposizione LMDI dei diversi fattori di influenza come l’effetto PIL e
dell’aumento della popolazione, l’intensità energetica e l’intensità di carbonio dell’economia per ricavare
indicazione sul loro stato di GHG decoupling. I risultati, di seguito riportati in tabella, mostrano un forte
aumento annuale delle emissioni cinesi intorno all’8% annuo e una variazione sostanzialmente invariata per
gli USA, influenzata però dalle conseguenze della crisi finanziaria del 2008.
La Kaya’s Identity afferma che il livello di emissione totale di anidride carbonica dei gas serra può essere espresso come il prodotto di quattro
fattori: popolazione umana, PIL pro capite, intensità energetica e intensità di carbonio. 3 L’assunto di base parte da una teoria di Vehmas et al.
(2003).
7
L’assunto di base parte da una teoria di Vehmas et al. (2003).
6
LMDI decomposition approach: A guide for implementation – B.W. Ang (article Energy Policy, 2015)
Questi fattori indicano lo stato di disaccoppiamento in relazione alla popolazione, all'effetto dell'intensità energetica, all'effetto del mix energetico e
al fattore di emissione di anidride carbonica sul disaccoppiamento tra emissioni di anidride carbonica ed economia.
10
Analisi che scompone le forze coinvolte nella crescita economica in componenti di tendenza (crescita della popolazione, accumulo di capitale ed il
cambiamento della produttività), i cui effetti sono permanenti, e in componenti cicliche (deviazioni a breve termine della tendenza). Sebbene gli
economisti non credano più che il "ciclo economico" sia periodicamente deterministico, tale terminologia rimane.
11
G. Cohen, J. P. (2018). The long-run decoupling of emissions and output: Evidence from the largest emitters. Elsevier - Energy Policy.
8
9
Tabella 1. Gli stati di disaccoppiamento in Cina e negli Stati Uniti.
Fonte: (Q. Wang et al. 2018)
La Cina ha sperimentato prevalentemente periodi di disaccoppiamento debole e di accoppiamento espansivo,
dovuti soprattutto all’effetto GDP pro capite, sette volte più grande nel 2014 rispetto al 2000, e dall’aumento
della popolazione di più di 150 milioni di persone. In termini relativi l’intensità energetica ha avuto un effetto
di riduzione delle emissioni mentre l’intensità di carbonio dei carburanti utilizzati ha agito nella direzione
opposta evidenziando lo stretto legame tra l’economia cinese e il carbone, ancora oggi utilizzato come fonte
primaria di energia per trainare la crescita economica, nonostante il paese sia uno dei leader mondiali nel
mercato delle energie rinnovabili. Per quanto riguarda gli Stati Uniti si rivelano prevalenti i periodi di
disaccoppiamento debole e forte, con esclusione degli anni relativi alla crisi. I trend dominanti, all’interno
dell’economia statunitense, appare essere la minor intensità energetica accoppiata ad un’intensità di carbonio
decrescente, che hanno l’effetto di diminuire le emissioni contrastando l’effetto GDP pro capite. Questi fattori
riflettono probabilmente un miglioramento tecnologico nella produzione, il cambiamento del mix energetico
utilizzato e lo spostamento parziale e graduale dell’economia USA verso settori più “leggeri” e a più bassa
intensità energetica.
2.1.2.
Svezia E UK
Per comprendere se ci sia stato o meno disaccoppiamento in questi due paesi bisogna considerare diverse
variabili: le emissioni production based, le consumption based, la BEET (balance of emissions embodied in
trade), la TBEET (technology-adjusted balance of emissions embodied in trade) e il PIL.
Particolare attenzione per questi casi è data a BEET e TBEET: una BEET (TBEET) negativa per un Paese
indica l’importazione netta di emissioni incorporate. BEET e TBEET per il Regno Unito sono negative per il
periodo di analisi (UK è quindi importatore netto di embodied emissions), mentre per la Svezia possiamo
notare una BEET negativa, ma una TBEET positiva, il che ci porta a concludere che le esportazioni svedesi
contribuiscono a evitare maggiormente emissioni all’estero che non al proprio interno. Osservando la Fig. 1,
infine, si può notare come ci sia stato un disaccoppiamento relativo in entrambi i paesi nel periodo di analisi
(1995-2009).
Figura 1. Indici del PIL, delle emissioni territoriali (PBA), dei consumi (CBA) e delle emissioni territoriali
Fonte:
2.1.3. UE-15
Attraverso il modello Tapio, e scomponendo quindi le emissioni di CO2 in più componenti, possiamo notare
due differenti risultati per quanto riguarda i paesi dell’UE-15.Confrontando le emissioni annuali rispetto a un
anno base (1995) si può vedere chiaramente che queste sono aumentate; se si considera invece la variazione
anno per anno, si possono trovare valori negativi, quindi riduzioni delle emissioni, per la quasi totalità del
periodo di analisi (salvo per: 1995-1996, 1997-1998, 1999-2001, 2002-2004, 2008-2010).
Tabella 2. Confronto degli indicatori di decoupling effort nel gruppo di paesi dell'UE-15: visione iniziale e visione alternativa.
Fonte: “Effects decomposition: separation of carbon emissions decoupling and decoupling effort in aggregated EU-15”; Mara Madaleno, Victor Moutinho
Nella Tabella 212, derivata dallo studio di Madaleno e Moutinho (2018), si possono vedere i periodi di
decoupling, assoluto o relativo, che hanno caratterizzato i paesi dell’UE-15 dal 1995 al 2014.
Nell’analizzare la tabella si può notare che a seconda della metodologia di confronto utilizzata si può
presentare o meno una situazione di decoupling (v. periodo 1999-2000 nella visione alternativa e in quella
iniziale). Bisogna aggiungere che si osservano quasi solamente valori degli indici di disaccoppiamento molto
prossimi allo 0, se non addirittura inferiori, il che segnala decoupling, ma in una forma debole o addirittura
negativa. Affacciandosi a questa analisi bisogna considerare che si stanno considerando i paesi dell’UE-15 in
maniera aggregata. Disgregando i dati si può facilmente notare come in realtà siano pochi i paesi che hanno
ridotto le emissioni di CO2 totali (Belgio e Lussemburgo per la visione iniziale, Grecia e Lussemburgo per
l’alternativa).
2.1.4. Il ruolo delle crisi economiche sul decoupling – Il caso della Grecia
Attraverso il metodo Index Decompition Analysis (IDA), basato sull’indice di Laspeyres13, è possibile
studiare la relazione di disaccoppiamento in Grecia in due diversi sotto-periodi: uno di crescita economica
(2003-2008) ad un altro di recessione (2008-2013). L’analisi decomposizione si concentra sui quattro fattori
responsabili delle emissioni di CO2 in Grecia: l'effetto dell'intensità di carbonio (CIeffect), l'effetto
dell'intensità energetica (EIeffect), l'effetto strutturale (Seffect) e l'effetto dell'attività economica (Geffect).14
Figura 2. Contributo dei settori economici ai fattori trainanti delle emissioni di CO2 derivanti dall'uso dell'energia nel periodo 2003-2008 (kt) e 2008-2013 (kt)
Fonte: A. Roinioti, C. Koroneos (2017)
In figura 2, nel grafico a sinistra, si osserva come le emissioni di CO2 siano trainate dalla crescita economica
ad un tasso medio di crescita del PIL intorno al 6,1%. Si deduce che, nonostante l’evidente sviluppo
economico, i restanti fattori sono riusciti a controbilanciarne l’effetto, favorendo una riduzione delle
emissioni. La diminuzione dell’effetto dell’intensità di carbonio (CI) è il risultato del passaggio a carburanti
e tecnologie più pulite. Il grafico a destra, invece, prende in analisi il periodo di recessione economica,
segnalando una contrazione del PIL del 20% ,contemporanea ad una riduzione del reddito pro capite del
25%. Durante questo periodo le emissioni di Co2 legate all’energia nei settori economici sono diminuite di
12
Fonte: “Effects decomposition: separation of carbon emissions decoupling and decoupling effort in aggregated EU-15”; Mara Madaleno, Victor
Moutinho
13
L’indice di Laspeyres isola l’impatto di una variabile lasciando che quella variabile cambi mantenendo costante le altre variabili.
14
Tali fattori che servono per creare la Kaya Identity.
19,8Mt. La riduzione più sostanziosa di emissioni è stata causata dall’effetto negativo dell’intensità
energetica (EI), ottenendo dei miglioramenti nell’efficienza energetica. Anche la contrazione economica ha
aiutato in maniera sostanziale a ridurre le emissioni. Tuttavia, si segnala che gli effetti strutturali (S) e
l’intensità di carbonio (CI) esercitano un aumento di emissioni. In generale, è possibile affermare che nel
periodo 2003-2008 , l’effetto dell’attività economica sia stata la principale causa di emissioni di CO2 , mentre
nel quinquennio successivo, la recessione economica ha portato ad una diminuzione delle emissioni nella
maggior parte dei settori economici.
2.1.5. La doppia prospettiva del decoupling – Confronto tra PS e PVS
Attraverso la combinazione del modello IGT15 ed il modello GRA16, Wu et al. hanno condotto uno studio
comparativo, tra i paesi sviluppati ed in via di sviluppo, delle tendenze di disaccoppiamento tra crescita
economica e del consumo di energia. L'arco di tempo considerato dallo studio copre gli ultimi cinquant’anni:
per tale motivo, al fine di un migliore confronto il periodo è stato suddiviso in 5 intervalli. L'indice di
disaccoppiamento (ID) tra crescita economica e consumo energetico, nella maggior parte dei paesi, varia
sostanzialmente da 0 a 1, indicando che questi paesi sono stati in stato di disaccoppiamento relativo per 50
anni.
Tuttavia, gli indici di disaccoppiamento dei paesi in via di sviluppo mostrano drammatiche fluttuazioni ed
andamento irregolare.
Figura 3. Analisi stato di decoupling 1965-2015
Fonte: Y. Wu et al.(2018)
Come evidente in fig.3, la Cina mostra un indice di disaccoppiamento in costante aumento, che comporta il
passaggio dallo stato “no decoupled” a “relative decoupling”. Dal punto di vista dei valori numerici, gli
indici relativi ai paesi sviluppati risultano maggiori di quelli dei PVS e si concentrano nell'intervallo [0,5;
1,0], suggerendo la volontà di voler superare le barriere del disaccoppiamento relativo. Tuttavia, gli ID dei
paesi in via di sviluppo si distribuiscono in modo dispersivo e fluttuando principalmente nell'intervallo di [0,5; 0,5]. I risultati del modello GRA mostrano come, nei PVS, la struttura industriale e il modello di crescita
economica abbiano maggiore impatto rispetto al progresso tecnico, un esempio è il caso della Cina. Al
contrario, in Russia, l’impatto maggiore è rappresentato dal progresso tecnico; invece, per il Brasile e l’India
il modello di crescita economica e la struttura industriale, sono rispettivamente, i fattori maggiormente
impattatanti. Ciò dimostra che i PVS, nel processo di mutazione dell'ID, sono caratterizzati da una struttura
industriale ed un modello di crescita economica sbilanciata, che porta alla crescita del consumo di energia. Il
progresso tecnico, d’altro canto, esercita poca influenza sull'indice di disaccoppiamento, e ciò implica che
rimanga elevato. La situazione opposta avviene nei paesi sviluppati, in cui i fattori del progresso tecnico
sono determinanti per l’ID; il secondo fattore impattante è la struttura industriale, ed infine il modello di
crescita economica. In generale, risulta che il progresso tecnico sia il fattore più influente nel confronto degli
ID di Stati Uniti e Francia; mentre il modello di crescita economica e la struttura industriale emergono come
i fattori più significativi per Regno Unito e Germania.
15
IGT: metodo di misurazione per la relazione di disaccoppiamento tra il consumo di risorse e il PIL, che suddivide completamente i tipi di
disaccoppiamento in assoluto, relativo e non disaccoppiato.
16
Grey Relation Analysis: analisi quantitativa del processo di sviluppo dinamico del sistema, basata sulla somiglianza o sulla dissimiglianza del trend di
sviluppo tra i fattori.
3. APPROFONDIMENTO CRITICO
Come evidenziato dalla letteratura, lo studio del decoupling tra crescita economica ed emissioni produce
risultati diversi a seconda della metodologia utilizzata. Ciò nonostante, la stragrande maggioranza dei casi
esaminati ha riscontrato stati di disaccoppiamento, soprattutto di tipo relativo. Sono emerse, inoltre, evidenze
per quanto riguarda le possibilità di disaccoppiamento tra la crescita economica e l’aumento delle emissioni. In
generale, dai risultati, appare chiaro come per il raggiungimento di un disaccoppiamento assoluto, sia
necessario un impegno che coinvolga più fronti. Un fondamentale contributo è, senza dubbio, dato dalle
politiche regolatorie, nazionali e transnazionali, volte ad una riduzione delle emissioni: alcuni autori hanno più
volte sottolineato come l’intervento statale sia una condizione imprescindibile per un efficace miglioramento
ambientale. Affinché si possa collegare la discussione empirica, finora condotta, ad un’applicazione delle
possibili «soluzioni», si considerano le attuali politiche ambientali in campo, sia in Europa che in Italia.
Nell’ “Environmental Action Programme to 2020” dell’UE sono riportati i progressi fatti negli ultimi anni per
quanto riguarda il disaccoppiamento tra crescita economica ed emissioni di GHG; tuttavia, al suo interno,
segnala come l’uso delle risorse non abbia ancora raggiunto la completa efficienza.
L’obiettivo che l’Europa si pone in questo documento è triplice:
1) proteggere, conservare e aumentare il capitale naturale,
2) trasformare l’Europa in un territorio resource-efficient, sostenibile, economicamente competitivo e a
basso uso di carbonio,
3) proteggere i cittadini da pressioni ambientali e rischi per la salute collegati all’ambiente.
Tuttavia, si sottolinea l’importanza di una vasta gamma di interventi volti al raggiungimento di questo
obiettivo. Tra quelli citati, i più rilevanti ci sono quelli di efficientamento energetico, realizzabili tramite fondi e
incentivi alle aziende o tramite strumenti market-based. Un altro tipo di intervento fondamentale è quello di
trasformazione dei cicli produttivi in processi sostenibili; emerge quindi la necessità di creare materie prime
adatte al riutilizzo e al riciclo. L’80% degli impatti ambientali causati dalla produzione viene generato dal
design iniziale del prodotto; tra i più importanti cicli produttivi da riformare si ricordano quelli alimentari,
edilizi e dei trasporti, i quali generano l’80% degli impatti del consumo.
Tale necessità è stata inserita nel Green Deal Europeo, che sancisce l’obiettivo della neutralità climatica
europea entro il 2050, attraverso svariate iniziative e proposte, tra cui la definizione del prezzo del carbonio17,
proposte di adeguamento del carbonio alle frontiere, per evitare la rilocalizzazione, e piani di investimento per
la transizione verso energie più pulite. Altre importanti novità sono l’istituzione del programma LIFE che, dal
2021, sarà l’unico fondo europeo totalmente dedicato al clima ed in generale all’ambiente. Un altro recente
passo in avanti è l’innalzamento degli obiettivi per il 2030, termine fissato per la riduzione di emissioni di gas
serra almeno del 55% rispetto ai livelli del 1990 (l’obiettivo precedente era del 40%). Questo accordo è stato
appoggiato fortemente anche dall’Italia, paese che negli ultimi anni ha cercato sul piano politico di dare il
proprio contributo alle iniziative climatiche europee e internazionali, non raggiungendo però gli obiettivi
prefissati. Tutti questi elementi fanno ben capire la linea europea sui temi trattati in questo report. L’UE crede
fortemente nel disaccoppiamento, lo considera un obiettivo raggiungibile. Il Green Deal afferma infatti che le
emissioni dal 1990 al 2018 si siano ridotte del 23% a fronte di una crescita economica del 61%. Tuttavia, fa
anche ben intendere l’opinione sull’EKC: con il business-as-usual, entro il 2050, le emissioni si ridurrebbero
solamente del 60%, percentuale ben più bassa rispetto all’obiettivo prefissato. Proseguendo nell’analisi della
letteratura a livello globale si può vedere che i Paesi sviluppati mostrano una situazione di decoupling relativo
solo con riferimento alle emissioni production-based. Non si può parlare invece di decoupling assoluto, se non
per alcuni brevi periodi e solo per alcuni Stati. Osservando il decoupling dal punto di vista dei consumi, è facile
notare come questi Paesi abbiano incrementato, sempre di più nel corso degli anni, le emissioni embodied:
sebbene la produzione interna abbia ridotto drasticamente le proprie emissioni, l’importazione di beni dal resto
del mondo ha compensato questo effetto, rendendo di fatto i PS dei grandi emettitori. E’ stato constatato,
inoltre, come l’analisi per scomposizione delle emissioni possa aiutare, in maniera sufficientemente precisa, ad
individuare le cause principali di un periodo di decoupling e le componenti che maggiormente possono
contribuire a una riduzione delle emissioni. Si pensi all’importazione di beni ad alta intensità di carbonio o ad
alta intensità di energia: queste tipologie di beni andranno sicuramente ad impattare maggiormente sul computo
finale delle emissioni di un determinato Paese. Viene, inoltre, dimostrato come la delocalizzazione di grandi
impianti industriali, in Paesi in via di sviluppo, contribuisca alle emissioni di CO2 e gas climalteranti:
l’implementazione di tali industrie in Paesi non tecnologicamente avanzati, fa sì che non vengano adottate le
misure che si avrebbero in un Paese caratterizzato da un progresso tecnologico più maggiore. L’analisi della
17
Strumento considerato da molti fondamentale per regolare le emissioni di CO2 nell’atmosfera
letteratura consente di individuare la posizione dell’UE per quanto concerne l’ipotesi EKC e quali siano gli
impegni che dovrebbero prendere i 25 Stati membri. L’Unione considera fondamentale un cambiamento
strutturale del sistema economico e sociale per poter scongiurare gli effetti catastrofici che il cambiamento
climatico potrebbe causare, proseguendo sulla strada seguita fino ad ora. Emerge, dunque, la necessità di
riforme ancora più stringenti e omogenee a livello internazionale, per poter ridurre le emissioni e vincere la
«battaglia per il clima». Il compito dei Paesi con una carbon efficiency maggiore, quindi tecnologicamente più
avanzati, dovrebbe essere la produzione i beni caratterizzati da maggior carbon intensity, sfruttando poi i
vantaggi comparati sul mercato internazionale, con l’import di beni a minor intensità di carbonio. La richiesta,
dunque, non è un commercio globale a zero emissioni, ma il semplice sfruttamento dei vantaggi comparati del
carbonio: un caso esemplare può essere la Svezia, la quale, attraverso le proprie esportazioni, contribuisce ad
evitare più emissioni all’estero di quelle causate dalle proprie importazioni (dati relativi al 2009). I Paesi
sviluppati che hanno miglior accesso alle fonti di energia rinnovabili dovrebbero compiere un’importante
transizione verso questo tipo di approvvigionamento energetico, in modo da ridurre ulteriormente le proprie
emissioni, sia dal punto di vista della produzione, che da quello dei consumi. E’ doveroso, in conclusione, un
focus sulla nostra politica nazionale, condotta in materia ambientale. Come paese fondatore, l’Italia ha seguito
le Direttive europee, mostrando sensibilità verso il tema dello sviluppo sostenibile. Negli ultimi anni, quando la
«green issue» è andata acutizzandosi, l’Italia ha rinnovato il suo impegno alla riduzione delle emissioni,
ottenendo anche alcuni risultati positivi. Un esempio è la stima delle emissioni GHG nazionali per il 2020, che
ha sottolineato la piena attuazione degli impegni assunti in materia di efficienza energetica e fonti rinnovabili.
La produzione normativa e le misure regolatorie18italiane, in materia climatica, hanno avuto l’obiettivo di
colmare le lacune delle precedenti azioni politiche, sia dal punto di vista del bilancio (Green FoundL.160/2019) che dal punto di vista sanzionatorio (D.Lgs 163/2019). Tuttavia, è necessario sottolineare come il
rinnovo degli impegni presi ed il raggiungimento di obiettivi di abbattimento sempre maggiori, sia
fondamentale per un percorso di sostenibilità.
4. CONCLUSIONI
Dalla letteratura finora citata emerge che gli studi a favore della curva ambientale di Kuznets sono piuttosto
deboli e presentano evidenti distorsioni econometriche, fornendo risultati parziali e troppo ottimistici. E’
possibile affermare che lo studio, tramite ipotesi EKC, del fenomeno del decoupling tra emissioni e crescita
economica non aderisca perfettamente alla realtà. Si tratta di una metodologia che produce risultati più specifici
se applicata ad un contesto locale anche se trascina con sé alcuni limiti, tra cui la prospettiva production-based
e la mancata considerazione della delocalizzazione dei costi ambientali. Si ricordano alcuni studi che hanno
suggerito una prospettiva consumption- based all’EKC (Bagliani et al. 2008), con l’impiego dell’Ecological
Footprint. Il risultato principale di questo studio ha mostrato l’esistenza di una relazione che implica un
aumento illimitato dell’impatto ambientale piuttosto che di disaccoppiamento dell’impatto dal PIL ad alti livelli
di reddito. Di conseguenza, si conclude che il cambiamento nella composizione della produzione avviene
attraverso un cambiamento nella localizzazione dell’offerta e ciò non implica una globale riduzione dell’
impatto ambientale. Proseguendo il ragionamento critico sulla metodologia, occorre inserire l’analisi di
decomposizione: essa consente un’analisi delle variazioni delle emissioni atmosferiche nel tempo. Uno dei
limiti di questo metodo è rappresentato dalla disponibilità dei dati; per intraprendere quest’analisi, spesso, sono
necessari dati panel19, non sempre disponibili. Per queste ragioni, si è riscontrato che, a livello europeo, non
vengono prodotte analisi di decomposizioni coerenti tra loro e quindi la scelta metodologica deve adattarsi ai
dati a disposizione. Nonostante ciò, l’impiego della Decomposition analysis (DA) consente di avere un quadro
chiaro delle relazioni restrostanti ai principali fattori di emissione, a tal proposito, interessante è stato lo studio
condotto dall’ (APAT, 2007), in cui è stata proposto l’applicazione alla DA ai dati della NAMEA italiana.
L’analisi fornisce un importante contributo nello spiegare i fattori determinanti la variazione delle variabili
economiche ed ambientali grazie allo strumento NAMEA che ha consentito un’analisi approfondita della serie
storica dei dati, presentata nei conti ambientali.
In generale, considerando entrambi gli approcci metodologici ed i relativi risultati, emerge come situazioni di
decoupling assoluto per i GHG siano avvenute ma abbiano prodotto risultati temporanei e locali. Nonostante la
presenza di tale fenomeno, gli studi indicano l’improbabilità che avvenga su scala globale ed in tempi celeri ma
soprattutto, in un contesto di crescita economica continua. D’altro canto, i segnali globali di disaccoppiamento
relativo evidenziati dalle analisi production based, dagli incentivi verso efficientamento energetici, le riduzioni
dell’intensità energetica e dell’intensità di carbone, sono certamente positivamente rilevanti. Tuttavia, ogni
18
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Circolare Decreto Legge 17 Marzo 2020 n.18 ; Circolare Legge 24 Aprile 2020 n.27
Detti anche dati longitudinali (econometria) – Vengono definiti dati che prevedono l’osservazione di differenti variabili, ciascuna in una serie di
periodi di tempo
passo in avanti rischia di risultare una mera illusione se le riduzioni vengono compensate da un maggiore
consumo ed importazione di prodotti ad alta intensità di CO2. In tal senso, uno spunto di riflessione riguarda le
politiche di riduzione delle emissioni che impongono un limite a quelle prodotte localmente ignorando quelle
derivanti dal consumo. Politiche di questo tipo rischiano infatti di provocare una semplice traslazione delle
emissioni verso paesi con meno limitazioni attraverso meccanismi di carbon leakage e decentramento
produttivo, dando vita a quello che viene definito “colonialismo del carbonio”, fenomeni già osservato negli
anni del protocollo di Kyoto. La riduzione delle emissioni di GHG non può essere standardizzata in tutti i paesi,
si deve infatti tenere conto delle diverse traiettorie di sviluppo e delle differenti tecnologie a disposizione. È
evidente come traiettorie di sviluppo, che prevedano un decoupling debole per i paesi con le maggiori emissioni
di GHG, non possano essere compatibili con gli obiettivi fissati a Parigi di contenimento del surriscaldamento
globale a 1,5 / 2 °C entro il 2050.I modelli che proiettano una crescita verde entro i vincoli previsti da
quest’ultimo dipendono in larga misure da tecnologie ad emissioni negative; in mancanza di tali tecnologie, i
tassi decarbonizzazione richiesti, per i limiti sopracitati, sono più “ripidi” di quelli proposti dai modelli
esistenti, anche con l’applicazione di politiche di mitigazione aggressive.
In quest’ottica, considerando gli scenari conseguenti all’aumento delle temperature globali, risulta ancora più
importante ricordare che l’unico modo per evitare il peggio sia una stabilizzazione delle concentrazioni
attraverso la riduzione delle emissioni di GHG.
Come riportato dall’UNFCCC sarà, infatti, necessaria una riduzione annuale delle emissioni globali del 7,6%
nel prossimo decennio per raggiungere l’obiettivo dei 1,5°C, oppure del 2,3% perché il surriscaldamento si
limiti a 2°C (UN Emissions Gap Report, 2019).
Affinché ciò avvenga, risulta necessario il contributo congiunto sia dei paesi più economicamente sviluppati,
come gli Stati Uniti (rimasti per 4 anni fuori dagli accordi d i Parigi) e l’Unione Europea, che di quelli in via di
sviluppo come la Cina, leader nel settore delle rinnovabili ma ancora dipendente dal carbone. Questi tre attori,
insieme, contribuiscono a più della metà delle emissioni globali annuali ed è impensabile che una riduzione
adeguata delle emissioni globali di GHG sia raggiungibile senza la loro guida. Ad ora però, i loro risultati non
sembrano essere sufficienti, nonostante alcuni periodi di decoupling debole registrati, soprattutto in Europa e
Stati Uniti, e probabilmente un cambio di passo è necessario affinché ciò avvenga.
Alcune linee guida per l’applicazione di politiche adatte potrebbero essere utili:
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Investimenti nell’efficientamento tecnologico ed energetico con l’obiettivo di ridurre l’intensità di
carbone e aumentare l’efficienza energetica all’interno dei diversi settori produttivi, in particolare per
quanto riguarda i paesi in via di sviluppo.
Incentivi e fissazione di un carbon tax a livello globale per rendere le fonti di energia rinnovabili
competitive con quelle ad alto contenuto di carbonio.
Responsabilizzazione lungo tutta la filiera produttiva attraverso regolamentazioni che impediscano lo
spostamento delle emissioni in altri paesi.
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