Rappresentare l’ambiente - L’esigenza di informazione ambientale Il sorgere della questione ecologica degli anni Sessanta ha fatto emergere l’esigenza di ricerca ed informazioni in campo ambientale. Successivamente, dalla fine degli anni Settanta, i diversi organismi internazionali e gli istituti statistici nazionali hanno cooperato in funzione di una monumentale ricerca di informazioni per connettere le conoscenze del sistema naturale con quelle del sistema socio-economico. La necessità conoscitiva in campo ambientale ha dunque dato il via a studi, prima internazionali poi nazionali*, che si sono mossi in due direzioni parallele: 1. la raccolta quantitativa di informazioni per un rapporto sullo “stato dell’ambiente”; 2. l’applicazione di metodologie integrative del dato ambientale ai conti economici nazionali in unità fisiche e tramite i conti satellite. Per far fronte alla crescente domanda di informazioni ambientali, che in breve si è ampliata a tutte le scale geografiche, si è cercato di rispondere con il reporting ambientale. Quest’ultimo racchiude in sé un insieme eterogeneo e non sempre coerente di strumenti (indicatori ambientali, ecobilanci ..), strutturati in diversi tipi di filiera. Nonostante ciò, il reporting ambientale risulta essere un importante strumento a supporto dei diversi livelli di governance, a tutte le scale geografiche. Gli scopi principali dell’attività di reporting sono: 1. 2. 3. 4. Individuare le priorità tramite l’analisi dei problemi ambientali; Monitoraggio delle politiche ambientali; Coinvolgimento e responsabilizzazione dei soggetti; Lettura trasversale ed integrata dei fenomeni ambientali sia locali che globali. *SCALE ISTITUZIONALI OCSE (1989) è tra le prime organizzazioni internazionali ad intraprendere uno studio sistematico di metodologie che consentissero la rappresentazione delle relazioni tra ambiente e sistema economico, attraverso degli indicatori quantitativi. - Sviluppo di set di indicatori ed approcci integrati con possibilità applicativa comune in tutti i paesi: CEI (Core Environmental Indicators), 50 indicatori per indicare i progressi degli stati in campo ambientale; KEI ( Key Environmental Indicators), sottoinsieme ristretto con focus sulle questioni chiave; SEI (Sectoral Environmental Indicators) che forniscono informazioni sugli aspetti territoriali; DEI (Decoupling Environmental Indicators), i quali rappresentano il disaccoppiamento tra crescita economica ed impatto ambientale. Pubblicazioni OCSE: - Factbook (100 indicatori di cui alcuni ambientali) - Environmental Data Compendium AEA (AGENZIA EUROPEA DELL’AMBIENTE) ha proposto il modello DPSIR EUROSTAT «Sistema Europeo di Raccolta delle Informazioni Economiche sull’Ambiente - Conti SERIEE, 1994». Si fonda sul V Programma d’azione per l’ambiente dell’Unione Europea. Si tratta di conti satellite che ci dicono come una nazione ha utilizzato le risorse finanziarie per mitigare i propri impatti sull’ambiente. Le unità contabili sono monetarie e considerano i diversi settori di intervento ed il tipo di spesa. I conti SERIEE appartengono a metodologie economiche che rientrano all’interno dei conti economici classici, operando una ri-contabilizzazione interna del bilancio economico nazionale. EUROSTAT + AEA+ JOINT RESEARCH CENTER EU 9 centri di ricerca e raccolta dati aggiornano costantemente le statistiche ambientali territoriali attraverso l’impiego di centinaia di indicatori. Gli argomenti sono molteplici e spaziano dal cambiamento climatico alla gestione delle risorse quali suolo, acqua e rifiuti. CSD (Commission on Sustainable Development) ha elaborato metodologie e line guida per la selezione di indicatori di sviluppo sostenibile. UNEP (United Nations Environmental Programme) Programma GEO (Global Environmental Outlook) monitora ,a livello globale e regionale, i principali trend ambientali e si occupa di pubblicare ed aggiornare annualmente i risultati nel GEO Yearbook. ISTITUTI STATISTICI NAZIONALI redazione di rapporti sullo stato ambientale del paese e propone l’integrazione tra sistemi di contabilità ambientale, in unità fisiche, e quella economica, in unità monetarie. Un esempio, in Italia, è il Ministero dell’ambiente che si occupa della Relazione sullo stato dell’ambiente; l’Istat, invece, si occupa della ricerca quantitativa e provvede a pubblicare i risultati periodicamente nei volumi di delle Statistiche ambientali. ARPA Agenzia regionale protezione ambiente provvede a stilare dei rapporti sullo stato ambientale a livello locale (regionale/provinciale/comunale). Un limite di questi rapporti è la palese difformità nell’approfondimento dei singoli temi. 4.2. Gli indicatori ambientali L’insieme di indicatori, scaturito dalla ricerca scientifica in campo ambientale, ha permesso di elaborare criteri qualitativi e quantitativi per misurare i livelli d’uso delle risorse ambientali in rapporto alla capacità rigenerativa dell’ambiente. La funzione degli indicatori è intuibilie dalla sua etimologia: il termine indicatore, dal latino indicator-indicatoris, significa svelare, rendere noto. Essi, infatti, comunicano le informazioni sulla progressione degli obiettivi sociali quali lo sviluppo sostenibile. Tra i diversi tipi di indicatori possibili (economici, sociali..) quelli ambientali sono legati a filo doppio con le pratiche territoriali, come strumento di conoscenza dei fenomeni naturali. In letteratura, sono state date numerose definizioni di indicatore: Malcevschi (1987), ad esempio, lo definisce come un’entità semplice che viene utilizzata al posto di un’altra per operazioni pratiche e non. In questa definizione emerge la prima caratteristica di un indicatore, ossia la rappresentazione sintetica dei fenomeni complessi. L’OECD (1994), infatti, ha provveduto a fornire un’ulteriore definizione ascrivendone la caratteristica di significato che va oltre le proprietà associate direttamente al parametro. Tuttavia, il concetto di indicatore ha una correlazione intrinseca con lo strumento di rilevazione e di conseguenza, pur avendo una relazione empirica con un dato fenomeno ed essendo in grado di riassumerlo, può comunque fornire risultati parziali. Ad esempio, la temperatura corporea come indicatore di buona salute non è totalmente applicabile. Questo è un caso di soggettività positiva, in generale si può affermare che gli indicatori siano affetti da una soggettività ineliminabile, poiché la scelta è ampiamente influenzata dallo scopo. L’indicatore, quindi, non è rappresentativo della realtà bensì di un suo modello empirico che mette in relazione l’osservazione, il dato statistico grezzo e gli enunciati teorici. Per tale relazione, l’indicatore è ulteriormente definibile come legame tra dato grezzo ed insieme di enunciati teorici. I dati grezzi possono essere collocati alla base di una piramide, ai cui vertici vi sono gli indici, successivamente gli indicatori e poi i dati rilevati. L’indicatore, infatti, può essere ulteriormente definito come un’entità A che viene utilizzata al posto di un’altra B la quale non direttamente è misurabile. La scientificità dell’indicatore risulta quindi l’esplicitazione del modello sottostante che lega l’entità A alla B. Affinché possano rappresentare con maggior aderenza la componente ambientale, gli indicatori devono avere una serie di proprietà, tra cui: - la rilevanza, ossia fornire un quadro rappresentativo delle relazioni con l’ambiente che siano di facile interpretazione. Essi devono, inoltre, essere reattivi ai cambiamenti, fornendo così un andamento temporale, confrontabile con un benchmark. - La misurabilità è una caratteristica che ascrive alla disponibilità dei dati ed alla loro accurata e continua documentazione. - La consistenza analitica prevede una solida definizione scientifica degli indicatori ed l’utilizzo di standard internazionalmente riconosciuti ed accettati. Per quanto riguarda le funzioni assegnate agli indicatori, possono essere sintetizzate in 3 principali: - Diagnostico- analitica, gli indicatori sono essenziali per la ricerca scientifica ad esempio per la verifica della presenza o meno del cambiamento climatico. Solitamente , forniscono informazioni molto complesse e dettagliate e sono utilizzati prevalentemente dalla comunità scientifica. - Pianificazione, tali indicatori sono fondamentali per i decisori nella formulazione di politiche efficienti ed efficaci. Sono caratterizzati da una condensazione parziale dei dati che li rende sintetici ma capaci di operare distinzioni e comparazioni tra aspetti e fenomeni diversi. - La funzione comunicativa, invece, è assolta da quegli indicatori che aiutano l’opinione pubblica nell’identificazione degli obiettivi e le priorità da seguire. Essi sono caratterizzati da una forte condensazione dei dati, brevità d’informazione e altissima comprensibilità. Per un’azione concreta in campo ambientale, è necessario organizzare un così vasto insieme di informazioni in sintesi parziale, per scopi di policy making, oppure totale, utili a scopi comunicativi. Sono state, infatti, sviluppate due metodologie per assolvere a questi compiti: una richiede la costruzione di indici, mentre l’altra adotta indicatori che siano rappresentativi di un fenomeno. Questi ultimi sono chiamati headline indicator e con questo termine si identifica un indicatore chiave che viene scelto perché rappresentativo di tutti gli altri. Per quanto riguarda l’indice, invece, si cerca di aggregare e riassumere in un unico numero un insieme di informazioni date da diversi indicatori. Un indice infatti è una somma di indicatori pesati, normalizzata tra 0 ed 1: questo introduce una questione, ossia il “problem cake”, poiché i pesi attribuiti agli indicatori sono anch’essi su base arbitraria. Ciò a dimostrazione del fatto che, anche nel caso degli indici e degli headline indicator, la scientificità non è data dall’oggettività ma dall’esplicitazione della costruzione /scelta degli indicatori e dalla loro interpretazione. Framework concettuali: PSR e DPSIR La necessità di ricondurre ad uno schema concettuale la moltitudine di dati ambientali, che scaturisce da indicatori eterogenei, ha permesso lo sviluppo di framework che consentono di trarre informazioni più accessibili. Un esempio è lo schema “Pressione-Stato-Risposta”, sviluppato dall’OCSE nel 1994. Il nome del modello ne chiarisce la struttura, infatti esso consente di cogliere le relazioni che intercorrono tra il sistema ambientale e quello antropico, tracciando un quadro di ciò che sta avvenendo nel suo complesso, il perché e le possibili risposte. Il Framework prevede tre tipi di indicatori: quelli di Pressione, che monitorano tutte le attività umane che hanno un impatto sull’ambiente (emissioni di CO 2; deforestazione/anno); di Stato che descrivono il cambiamento dello stato biofisico dell’ambiente (concentrazione di CO2; stock di risorse naturali) ed infine, di Risposta, i quali indagano sulle misure politiche adottate ed il riscontro dell’opinione pubblica. Tali indicatori sono tra essi collegati perché ad una pressione corrisponde uno certo stato che necessita di una risposta. Tuttavia, questo schema concettuale pecca di eccessiva esemplificazione dovuta al fatto che le relazioni tra gli aspetti analizzati siano più complesse di quanto espresse dal modello. Successivamente, questo modello ha avuto un’integrazione dall’Agenzia Europea dell’Ambiente che ha introdotto due nuove categorie: i determinanti, intesi come popolazione, agricoltura, industria) e gli impatti, intesi come cambiamenti significativi dell’ambiente, dell’economie e della salute. Il modello risultante, dunque, è il DPSIR, il quale mira a rappresentare l’insieme degli elementi e delle relazioni che caratterizzano un fenomeno ambientale, concatenandoli in una relazione causale. In questo framework, le risposte possono agire a vari livelli: sugli impatti, attraverso politiche di adattamento; sullo stato e sulle pressioni con politiche di mitigazione ed infine sui determinanti con politiche di prevenzione. In funzione di una progettualità futura converrebbe agire sui determinanti, dal momento che un’azione sugli impatti sarebbe un’azione sugli effetti e di conseguenza poco efficace nella risoluzione dei problemi scaturiti dagli impatti. Tuttavia, questi framework non sono esenti da limiti, infatti, una delle prime criticità che si riscontra è la rigidità logica dello schema che introduce delle categorizzazioni troppo nette che si discostano dalla reale applicabilità. Una seconda criticità è la rappresentazione della componente ambientale resa dagli schemi PSR/DPSIR; in essi le relazioni ecologiche tra ambiente e società sono ricondotte a rapporti causa- effetto di eccessiva linearità, del tutto in contrapposizione con i reali scambi che avvengono tra ambiente e società. Un ulteriore integrazione è stata fatta dall’OMS che ha adottato un approccio più ampio per includere gli impatti delle forze motrici macro e delle pressioni sia sulla salute che sull'ambiente. Il framework è stato chiamato “Driving Force-Pressure-StateExposure-Effect-Action” (DPSEEA). E’ utile in quanto copre l'intero spettro delle relazioni di causa ed effetto a partire dai driver del cambiamento ambientale (come la tecnologia e la popolazione) alle pressioni (come la produzione, il consumo e il rilascio di rifiuti) ai cambiamenti dello stato ambientale (come i livelli di inquinamento) all'esposizione (come dosi per organi esterni, interni e bersaglio) agli effetti sulla salute, sull'ambiente e sulla sostenibilità generale. Tutti i settori, inclusi il governo, il settore privato e gli individui, possono intervenire per i risultati a tutti i livelli e queste informazioni possono essere utilizzate per fornire feedback a tutti i livelli. Uno dei principali punti di forza di questo modello è una maggiore flessibilità ed l’applicabilità, rispetto ai PSR e DPSIR. ESI vs EFA Nel 2006 UE doveva scegliere degli indicatori di well-being and progresso sociale. Per il campo ambientale c’erano due candidati, EF (Ecological Footprint) e l’ESI (Environemntal Sustainability Index), e bisognava scegliere quale fosse il migliore. EFA è un sistema di contabilità ambientale in unità fisiche che traduce l’impiego di risorse in ettari di terreno produttivo. Quest’analisi considera tutte le risorse utilizzate da una nazione indipendentemente dal luogo di produzione, adottando una prospettiva consumption-based. Essa nasce rivoluzionaria metodologia contabile proposta da Rees e Wackernagel, l’ Ecological Footprint (EF). Il concetto base è la carrying capacity, inteso come numero massimo di esseri umani che la Terra potrebbe sostenere all’infinito. Rees propose di ribaltare il suddetto concetto trasponendo la questione a quanti pianeti siano necessari per sostenere la nostra popolazione e di conseguenza alla domanda generale di quanta natura occorra per vivere. Questa nuova prospettiva d’analisi, centrata sulle azioni umane di territorializzazione, fornisce l’abbattimento delle difficoltà di calcolo della capacità di carico, che fino ad allora considerava il prelievo antropico come variabile dipendente. Il calcolo pratico venne sviluppato da Wackernagel ,sotto supervisione di Rees, e successivamente nel 1994 pubblicarono il manifesto dell’impronta ecologica, in cui presentavano con linguaggio semplice la nuova metodologia di contabilità ambientale. L’EFA utilizza misure assolute, come gli ettari, così da permettere la confrontabilità dei dati ed inoltre, considerando la totalità di pressioni umane (dirette ed indirette) comprende 6 indicatori che forniscono stime sia della domanda antropica di terreni ecologicamente produttivi che l’offerta di questi ultimi agli esseri umani. Tuttavia, l’EFA non è esente da limiti in primis perché non considera la qualità locale dell’ambiente, infatti occorre aggiungere altri indicatori locali di salute ambientale, ed inoltre, conta l’uso delle risorse naturali solo attraverso l’uso contabile del terreno produttivo. Le debolezze dell’EFA riflettono la necessità di un’implementazione dei livelli di standardizzazione ed il miglioramento della copertura dati e del loro trattamento statistico. In risposta all’esigenza di maggiore robustezza scientifica dell’EFA, Wackernagel ha fondato un think tank, il Global Footprint Network, che permette la condivisione di studi, ricerche e criticità riguardanti l’EF da parte di scienziati, ricercatori ed istituti di ricerca. ESI E’ un indice proposto come misura dello stato generale dell'ambiente. L'ESI si basa su un set di 76 variabili , queste vengono poi aggregate per costruire 21 indicatori chiave, i quali vengono ulteriormente aggregati in 5 componenti1 per poi essere raggruppate in un unico indice, l’ESI. Tuttavia, questo indice presenta numerose lacune, in particolare, a fonte della moltitudine di variabili ed indicatori considerati quelli riferiti all’ambiente erano un numero davvero esiguo, rispettivamente 38 ed 8. Il problema che emerge, dunque, è il preponderante orientamento sociale dell’indice piuttosto che ambientale, oltre all’arbitrarietà dell’attribuzione dei pesi che privilegiano le intenzioni piuttosto che le performance attuali. L’ESI mette insieme domini che non hanno nulla in comune, diminuendo la fiducia nei risultati, dovuto anche al mancato utilizzo di benchmark fisici. L’indice fornisce quindi una misura di performance relativa che può fornire una falsa immagine di alcune nazioni, in particolare i grandi emettitori. (Sistema ambientale, ridurre lo stress ambientale, Ridurre la vulnerabilità umana, Componente della capacità sociale e istituzionale, Gestione globale). 1 Un set di indicatori di salute ambientale deve: 1) Separare gli aspetti ambientali, sociali, economici e culturali politici 2) Considerare le 2 dimensioni della sostenibilità ambientale : il livello di salute dell'ambiente locale e l'intensità dell'uso eccessivo degli ecosistemi globali – creazione di due indicatori diversi 3) Misurare le prestazioni assolute rispetto al benchmark fisico ambientale correlato alla vulnerabilità e resilienza locale e al tasso globale di rigenerazione Locale Specie minacciate (come percentuale delle specie esistenti) Pesca eccessiva (cattura come percentuale della capacità di rigenerazione) Globale Impronta ecologica (rispetto alla biocapacità) 4) Tenere conto dello spostamento del danno ambientale e la delocalizzazione della produzione nazionale nei paesi a basso reddito 5) Si raccomandano indicatori basati sul consumo o sul flusso come EFA, MFA, HANPP Sistemi di contabilità ambientale Sono state sviluppate numerose metodologie per valutare l’ambiente e quantificarne le relazioni con la società; gli obiettivi erano colmare le lacune conoscitive della contabilità economica e superare le criticità degli indicatori nei modelli precedenti con la costruzione di veri sistemi di contabilità. L’integrazione metodologica tra gli aspetti economici ed ambientali si articola su diversi livelli: - Metodologie che legano le valutazioni ambientali alla sfera finanziaria, costruendo un sistema di contabilità in unità monetarie, reinterpretato in chiave ambientale. Un esempio sono i conti SERIEE, un modello sviluppato dall’Eurostat nel 1994 che si basava sulle indicazioni del V programma d’azione per l’ambiente dell’UE. Questi conti descrivono le spese sostenute dall’economia per la protezione dell’ambiente, ciò avviene attraverso conti satellite che forniscono aggregati economici interpretabili come la risposta alle pressioni sulle ambiente. I conti satellite elaborati dal modello sono l’EPEA, per le spese della protezione ambientale e la RUMEA per l’uso e la gestione delle risorse. Il modello considera complessivamente i settori ambientali di intervento, del tipo di spesa ed i settori a suo sostegno. - Metodologie integrative che propongono una contabilità parallela da un lato economico-monetaria dall’altro fisica, esemplificativa è la NAMEA (national account matrix including environmental accounts). Si tratta di una matrice contabile accanto ai normali conti economici (in unità monetarie), è presente una contabilità dedicata agli input di risorse naturali e agli output di rifiuti ed emissioni, conteggiati in termini fisici. In colonna si trovano gli input, come la produzione delle attività economiche, le importazioni ed il prelievo di risorse; in riga, invece, è possibile trovare gli output ossia i consumi intermedi e finali, le pressioni ambientali dovute ai consumi e alla produzione. In questo modo è possibile confrontare coerentemente i dati socio economici con quelli delle pressioni dalle stesse attività, ed è possibile poiché nella matrice le grandezze (sia fisiche che economiche) sono riferite alle stesse categorie con logiche di attribuzione omogenee. L’ISTAT calcola la NAMEA a livello nazionale ed è stato proposto il calcolo della stessa applicata alla scala regionale (RAMEA). Gli inquinanti inclusi nella NAMEA italiana sono CO2, CH4, ossidi e protossidi di azoto, PM10 , PM2,5; per quanto riguarda i temi ambientali sono trattati l’acidificazione e l’effetto serra. Sono inoltre, inclusi i prelievi diretti di risorse naturali vergini come il vapore endogeno, le biomasse, i materiale ed i combustibili fossili. In conclusione, la NAMEA è un sistema contabile in grado di rappresentare le relazioni metaboliche tra ambiente e società attraverso gli schemi logici della contabilità economica nazionale; infine, risulta utile per comprendere se un’economia stia migliorando la propria ecoefficienza o meno. Eco-efficienza e delinking Eco-efficienza per un’esternalità è inteso come il rapporto tra il valore aggiunto del settore economico e considerato e l’esternalità ambientale prodotta da quella stessa attività. Con queste grandezze è possibile comparare coerentemente le performance produttive con quelle ambientali, quantificando le dinamiche greening. Quando l’eco-efficienza aumenta vi è un aumento del valore aggiunto a parità di CO2 emessa, tale fenomeno è conosciuto come delinking ed indica un andamento discordante tra un crescente valore aggiunto ed una diminuzione della pressione ambientale. Tale processo è definibile in base all’esternalità ambientale considerata, ad esempio, rispetto alla CO2 si definisce decarbonizzazione, mentre se si considerano le risorse materiali in entrata si parla di dematerializzazione. In generale, l’aumento di eco-efficienza è indicatore di due situazioni differenti: - Deliking assoluto una crescita dell’ecoefficienza corrisponde ad un aumento del valore aggiunto, a fronte di una diminuzione effettiva delle emissioni/inquinanti, e ciò si traduce in un reale vantaggio per l’ambiente. - Delinking relativo prevede una situazione in cui pur aumentando l’ecoefficienza si verifica un aumento delle emissioni inquinanti, parallelamente ad una crescita maggiore del valore aggiunto. Un esempio è il caso dell’Italia dal 1990-2009: in questo caso il valore aggiunto è rappresentato dalla linea verde e, al 1990 era 100. Nel 2007, invece, si ha un valore superiore al 25% circa, per poi precipitare l’anno successivo, a seguito della crisi economica, sempre avendo valori superiori a quelli del 1990. La linea grigia ,invece, rappresenta le emissioni di piombo le quali palesemente denotano un andamento decrescente, delineando quindi un delinking assoluto, perché il PIL è aumentato a fronte di una diminuzione delle emissioni. Considerando l’effetto serra(2004), precedentemente al 2008, si può notare come sia il pil che le emissioni siano aumentate di rispettivamente un 20% e 5-6%. Questa situazione delinea un caso di delinking relativo, dovuto ad un aumento delle emissioni, in questo caso, anche meno del valore aggiunto. Sistemi di contabilità ambientale in unità fisiche Le più importanti proprietà che li caratterizzano sono: 1) Omogeneità della misura. Viene individuato un “denominatore comune” per riuscire a riportare ad un’unica unità di misura, in modo coerente ed esaustivo, la stima quantitativa delle diverse risorse e servizi naturali usati dal metabolismo di una società. Si segue l’approccio della contabilità economica che traduce ogni valutazione quantitativa in unità monetarie, rendendo così confrontabili e sommabili grandezze anche molto diverse. 2) Strutturazione di bilanci. Similmente alla contabilità monetaria, vi è una struttura che permettere una comparazione tra entrate e uscite e quindi la costruzione di veri e propri bilanci. 3) Distinzione tra stock e flussi. Anche questa distinzione è ripresa dalla contabilità monetaria. Proposta da Georgescu-Roegen (1971) consiste nel distinguere tra dotazioni (o stock) ed utilizzi (o flussi). 4) Disaggregabilità. Il sistema di contabilità deve essere in grado di analizzare tutte le fasi del funzionamento metabolico di un sistema economico, fino alla più elementare: la misura che si ottiene deve quindi essere totalmente disaggregabile. Ad esempio, costo di costruire il Campus, poi costo di un’aula, poi costo dei banchi etc etc. 5) Applicabile a territori e produzioni. La metodologia deve essere applicabile sia a livello territoriale, sia ad una funzione produttiva (un prodotto, un’azienda, un settore economico). 6) Proprietà degli ecosistemi. È opportuno riferirsi nel modo più completo possibile alle proprietà e alle dinamiche degli ecosistemi e dell’ambiente. META-RIFLESSIONE CRITICA INDICATORI Gli indicatori possono essere suddivisi considerando diverse chiavi di lettura tecniche: - Catena causale - Componenti ambientali - Indicatori soggettivi ed oggettivi - Quantitativi e qualitativi - Monetari e fisici - Production e consumption - Metodologia di costruzione - Proprietà statistico- matematiche ECOLOGICAL FOOTPRINT L’impronta ecologica rappresenta la richiesta di capitale naturale di una popolazione in termini delle corrispondenti aree di superficie biologicamente produttiva. Quest’ultima stima la quantità totale di risorse naturali e servizi degli ecosistemi che una popolazione utilizza, calcolando la superficie di ecosistemi terrestri e acquatici necessaria per produrre, direttamente ed indirettamente, in modo sostenibile, tutte le risorse consumate e per riassorbire, sempre in modo sostenibile, tutte le emissioni prodotte da quella popolazione per vivere. Si può anche considerare una misura di quanta area di ecosistemi (quante risorse) si necessiti per produrre le risorse che servono la popolazione sta consumando. La metodologia classica dell’impronta ecologica pone la Footprint (F) come la sommatoria delle impronte ecologiche dei singoli beni consumati (Fn). Fn, ossia l’impronta ecologica di un singolo bene, è relativa ad un certa area ed è da intendere come quanto terreno impiegare per avere una certa footprint. L’EF considera varie tipologie di terreni ecologicamente produttivi: a) Terreno coltivabile: è il più produttivo, nei termini della quantità di biomassa vegetale prodotta per unità di superficie. La produttività media dei cereali è 2800 kg/ha/anno. b) Terreno per pascoli: terra per allevamento del bestiame e dei suoi alimenti, come il fieno. È meno produttivo dell’agricoltura, ed è quindi un modo di produrre cibo meno efficiente. La carne bovina, ad esempio, ha una produttività di 40 kg/ha/anno. c) Terreno per foreste: fornisce prevalentemente legname, ma ha anche altre funzioni come la stabilità climatica, la prevenzione dell’erosione del suolo, equilibrio idrologico e di protezione della biodiversità. Ha una produttività media di 1900 kg/ha/anno. d) Superficie marina: è la porzione di mare compresa entro i 300 km dalla linea di costa, in cui avviene il 90% della pesca complessiva, ed è pari all’8% della superficie marina complessiva. Ha una produttività di 24/kg/ha/anno. e) Terreno edificato: area ricoperta da edifici, strada ed altro. Questo terreno ha prevalentemente perso la sua capacità bio-produttiva. Solitamente, si costruisce sui terreni coltivali, che ricordiamo essere i più produttivi. f) Terreno per energia: area che sarebbe necessaria per una gestione sostenibili del fabbisogno energetico. La tipologia di terra varia al variare della sua funzione. Esempio possiamo avere energia da biomassa se siamo in presenza di terra coltivabile, energia da fonti fossili se terra foresta per assorbire CO2 etc. Ha una produttività media di 80-100 GJ/ha/anno. L’EF, considerando i diversi terreni e la loro produttività, affinchè le misure siano tra loro confrontabili, opera una normalizzazione alla bioproduttività media. Infatti, nel far ciò utilizza gli equivalent factors, L’equivalent factor esprime la proporzione tra un ettaro di produttività media di un dato terreno e la produttività media di tutti gli altri. Un esempio è 1 ettaro di cropland sono 2,5 ettari di produttività media. La grandezza di misura risultante è gha, ovvero ettari medi globali, in questo modo è possibile costruire dei bilanci. Biocapacità è un indicatore complementare “opposto” di impronta ecologica, infatti non misura di quanta natura abbiamo bisogno, ma di quanta natura disponiamo. La biocapacità media mondiale, ad oggi si conosce attraverso immagini satellitari, e ci dice che in media ci sono 15 miliardi di ettari di terre emerse, di cui il 68% sono terre bioproduttive (circa 10.3 miliardi di ettari). 2% terre costruite, 33% foreste,23% pascoli, 10% cropland, 32% suoli ghiacciati/deserti/rocce. L’EF conta da vari indicatori: - Biocapacità calcola la quantità totale di servizi ecologici erogati dagli ecosistemi locali. - Impronta ecologica dei consumi conteggia la quantità totale di servizi ecologici consumati localmente, indipendentemente dal luogo di produzione e stima il livello di responsabilità di un territorio nell’uso delle risorse, costituendo un bilancio ambientale dei consumi di una regione - Impronta ecologica delle produzioni stima il livello di “salute” degli ecosistemi locali conteggiando tutti i servizi naturali impiegati localmente dall’economia, costituendo un bilancio ambientale della produzione di una regione. - Bilancio ambientale territoriale confronta la domanda di servizi naturali (impronta ecologica) con l’offerta (biocapacità) ricostruendo i flussi nascosti di import ed export dei servizi naturali e fornendo il surplus o il deficit ecologico di una regione/paese. Applicando l’EF ad un territorio occorre distinguere il caso di un’economia chiusa da quello di un’economia aperta. In un’economia chiusa, il consumo capitale naturale locale è strettamente collegato alla biocapacità, infatti in questo caso la produzione coincide con il consumo umano locale, dato l’assenza di importazioni ed esportazioni. La biocapacità, in questo caso, è da intendersi come capacità rigenerativa del capitale naturale. In un sistema aperto, invece, occorre considerare anche il capitale naturale, la produzione, i consumi globali, inserendo anche i flussi di import ed export. In questo caso, più verosimile, si nota che la situazione è più complessa e che se il sistema chiuso locale acquisisce risorse dal sistema globale, aggiungendo le importazioni alla precedente EF otteniamo “Ecological footprint of consumption”. Altrimenti considerando le esportazioni vediamo il prelevamento dal sistema globale e tale misura è chiamata “Ecological footprint of production”. EFC > BC bilancio negativo indica l’erosione del capitale naturale EFC < BC bilancio positivo ed indica una crescita di capitale naturale BCI < BC sovrautilizzo di risorse in cui occorre una drastica riduzione EX. Caso di Venezia Attenzione. Qui non possiamo dire se Venezia sta consumando o meno il suo capitale naturale. Infatti potrebbe essere che il suo deficit ecologico è totalmente coperto dalle importazioni. Paradossalmente potrebbe essere che di quell’1.45 di biocapacità sta consumando 0, poiché importa tutto. N.B. In slide 27 vediamo che possiamo “disgregare” i nostri dati. 62,5% sarebbe bisogno di foreste per assorbire CO2 prodotta da consumo di energia (ricordiamo che uno dei principi dei sistemi di contabilità è la disgregazione). IPAT 𝐼 = 𝑃 𝐴 𝑇, ovvero impatto è uguale a popolazione, consumi e tecnologica (quanto inquino per produrre i beni che ho consumato). Essendo identità e non equazione è sempre utilizzabile, anche per processi complicati, e ci permette di individuare “driver” importanti, decomponendo un certo fenomeno iniziale. 1) Primo fattore: se quindi popolazione aumenta del 10%, aumenta del 10% l’impatto. 2) Secondo fattore: se aumentano i consumi di una certa percentuale x aumenta impatto di questa percentuale. 3) Terzo fattore: impatto generato per produrre beni che ho consumato. Se quindi diminuisce perché migliora tecnologica e quindi diminuisce impatto (del 10% ad esempio), l’impatto diminuisce del 10%. È dunque chiamata equazione ma in realtà è una identità. Impronta ecologica pro capite A * T, infatti poiché il “consumo” si semplifica, troviamo impatto/popolazione, che è esattamente impronta ecologica pro capite. Nazioni ricche hanno aumentato popolazioni del 40%. La loro A * T è aumentata invece dell’80%. Le nazioni più povere sono aumentate in termini di popolazione del 166%, ma impronta pro capite è diminuita del 24%. In pratica vediamo che nazioni povere dal 1960 sono ancora più povere. Se dovessi individuare delle politiche per i paesi sviluppati ragionerei sull’80%, sia perché popolazione si è fermata sia perché è il fattore che più incide. Per il caso delle nazioni povere invece dovremmo concentrarci sulla crescita della popolazione. In altre parole, partendo dall’identità iniziale, ragionerei su A*T per paesi sviluppati e su P per paesi in via di sviluppo. N.B.: dal 1961 A * T (ovvero impatto pro capite) nei paesi ricchi è aumentato, e questo aumento ha già tenuto conto del miglioramento tecnologico. Quindi, nonostante quest’ultimo, comunque l’impatto sul pianeta è crescente. Questa si può considerare una buona risposta a chi dice che la tecnologica ci salverà (interpretazioni economiche dello sviluppo sostenibile). WATER FOOTPRINT L’impronta idrica è un indicatore del consumo di acqua dolce che include sia l’uso diretto che indiretto di acqua da parte di un consumatore o di un produttore. L’impronta idrica di un singolo, una comunità o di un’azienda è definita come il volume totale di acqua dolce utilizzata per produrre beni e servizi, misurata in termini di volumi d’acqua consumati (evaporati o incorporati in un prodotto) e inquinati per unità di tempo. Nella definizione dell’impronta idrica è data inoltre rilevanza alla localizzazione geografica dei punti di captazione della risorsa. Il water footprint assessment si sviluppa in tre fasi: - quantificazione e localizzazione dell’impronta idrica di un prodotto o di un processo nel periodo di riferimento; - valutazione della sostenibilità ambientale, sociale ed economica dell’impronta idrica; - individuazione delle strategie di riduzione della stessa. Il computo globale della water footprint è dato dalla somma di tre componenti: - Acqua blu: si riferisce al prelievo di acque superficiali e sotterranee destinate ad un utilizzo per scopi agricoli, domestici e industriali. È la quantità di acqua dolce che non torna a valle del processo produttivo nel medesimo punto in cui è stata prelevata o vi torna, ma in tempi diversi; - Acqua verde: è il volume di acqua piovana che non contribuisce al ruscellamento superficiale e si riferisce principalmente all’acqua evapo-traspirata per un utilizzo agricolo; - Acqua grigia: rappresenta il volume di acqua inquinata, quantificata come il volume di acqua necessario per diluire gli inquinanti al punto che la qualità delle acque torni sopra gli standard di qualità. L’utilizzo delle tre componenti di acqua virtuale incide in modo diverso sul ciclo idrogeologico. Ad esempio, il consumo di acqua verde esercita un impatto meno invasivo sugli equilibri ambientali rispetto al consumo di acqua blu. La water footprint offre quindi una migliore e più ampia prospettiva su come il consumatore o produttore influisce sull’utilizzo di acqua dolce. Essa è una misura volumetrica del consumo e dell’inquinamento dell’acqua. Non misura quindi la gravità dell’impatto a livello locale, ma fornisce un’indicazione sulla sostenibilità spazio-temporale dalla risorsa acqua utilizzata per fini antropici.