IL MONDO IN TAVOLA La cucina come spazio di mediazione interculturale INTRODUZIONE............................................................................................................. 2 PRIMA PARTE 1. IL MEDIATORE, UN NEGOZIATORE STORICO ................................................... 9 1.1 La mediazione in Italia ....................................................................................... 11 1.1.1 La formazione nelle università italiane ........................................................ 19 1.2 Professione mediatore ......................................................................................... 21 1.3 Differenti modelli di mediazione ........................................................................ 27 1.4 La mediazione interculturale............................................................................... 30 2. CULTURA E LINGUA: CONCETTI “NON-NATURA” ......................................... 34 2.1 La lingua ............................................................................................................... 35 2.2 La cultura .............................................................................................................. 37 2.3 L’interculturalità: contatto, scambio e conoscenza ............................................... 41 2.4 Intercultura e comunicazione ................................................................................ 51 2.4.1 Edward E. Hall: l’alba di una nuova disciplina ............................................ 58 3. LO STRUMENTO VISIVO E LA VISUAL CULTURE ............................................ 65 3.1 La multisensorialità: il mezzo audiovisivo ........................................................... 71 3.1.1 Il mezzo audiovisivo in campo universitario ............................................... 78 4. MANGIARE NON SOLO PER NUTRIRSI .............................................................. 83 4.1 Cibo, società e identità culinarie ........................................................................... 89 4.2 L’interculturalità gastronomica: tra fusion e confusion ........................................ 97 SECONDA PARTE 1. INTRODUZIONE AL LABORATORIO................................................................. 101 2. LA RICOSTRUZIONE DE IL MONDO IN TAVOLA ............................................. 105 2.1 I protagonisti visti da vicino ............................................................................... 112 2.2 A tu per tu con Ersilia D’Antonio ....................................................................... 118 2 3. ULTIME CONSIDERAZIONI................................................................................. 124 CONCLUSIONI ........................................................................................................... 127 3 INTRODUZIONE “Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra.”1 Secondo la tradizione cristiana, la torre di Babele rappresenterebbe la genesi delle differenziazioni linguistico-culturali. Prima di questo momento la storia avrebbe consegnato all’umanità una lingua e una cultura universali, capaci di creare condizioni favorevoli per una perfetta comunicazione. Stando all’esegesi cristiana, partirebbe da qui, pertanto, l’inizio di una lunga storia fatta di scontri e rivalità, diversità e uguaglianze che hanno creato nel tempo il terreno fertile per la nascita di una disciplina che va sotto il nome di mediazione interculturale. Ed è proprio dall’idea di mediazione che il mio studio parte, intesa in senso stretto, come ausilio per la gestione di rapporti interculturali, e in senso più esteso, come sostegno allo sviluppo della conoscenza, dello scambio e del confronto con l’Altro. La natura della mia ricerca mira ad acquisire una valenza teorica nella prima parte e una vena sperimentale nella seconda, avendo quest’ultima lo scopo di dimostrare la potenza dell’audiovisivo applicato ai contesti di ricerca e mediazione. I mesi da Giugno a Novembre, infatti, hanno visto la prof.ssa Silvia Riva, i suoi collaboratori e un gruppo di quindici studenti, me compreso, impegnati nella realizzazione di un progetto-documentario, all’interno del Laboratorio professionalizzante Il mezzo audiovisivo come strumento di ricerca per la pratica del mediatore interculturale, ideato dalla prof.ssa Riva, docente di Letteratura francese contemporanea e Culture francofone presso il Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Milano. 1 Genesi, XI 1-9. 4 La struttura della prima parte, da intendersi come quadro teorico a supporto di una migliore comprensione della seconda, si sviluppa proprio dal titolo del Laboratorio stesso, che è stato scomposto in microstrutture, delle quali sono state analizzate caratteristiche e significati: la mediazione, l’intercultura e l’audiovisivo saranno, dunque, i suoi principali oggetti di studio; in aggiunta ai quali si apre, in chiusura, una finestra sul mondo culinario, quale tema portante di quest’edizione, la quinta, del Laboratorio professionalizzante. Come già anticipato, il primo capitolo introduce, dunque, il mondo della mediazione, descrivendolo come un settore in fase di assestamento e ancora in cerca di una propria conformazione. Partendo da un excursus storico, che vede l’America degli anni Sessanta farsi portavoce di un sistema extra-giudiziale per la risoluzione delle controverse minori, l’argomento si sposta nell’Italia degli anni Novanta, tempo e luogo che vedono per la prima volta l’arrivo della mediazione nostrana, della quale il capitolo intende illustrare sviluppi e viluppi in termini di competenze e riconoscimenti; avvalorando l’idea di una figura, quella del mediatore, troppo spesso devalorizzata e privata dei titoli giuridici che ne dovrebbero difendere preparazione e professionalità. Seguono alcune considerazioni che portano, attraverso un viaggio nel mondo accademico italiano, a fornire dettagli su come la mediazione e la preparazione dei mediatori siano trattate a livello universitario. Nel secondo capitolo, s’introduce e approfondisce il tema dell’interculturalità, fornendo un primo sguardo d’analisi sugli elementi lingua e cultura, concepiti e studiati come caratteri non biologici, ma acquisiti e riconducibili, pertanto, alla sfera del cognitivo: della prima si enfatizzeranno le molteplici funzioni che è in grado di espletare, mentre della cultura si parlerà soprattutto in termini di artificialità, essendo un elemento pensato e costruito dalla mano e dalla mente dell’uomo. Nel corso del capitolo, il concetto cultura sarà declinato nelle sue molteplici sfumature e definizioni acquisite nel corso della storia, fino ad arrivare alla teoria di Geert Hofstede, quale uno dei modelli più influenti del XX secolo. 5 A seguire, sarà analizzato il concetto proprio d’interculturalità, generato dall’incontro/scontro di differenti culture. Si vedrà come a promotore di queste contaminazioni si distacchi sicuramente il ruolo del processo migratorio, processo del quale si riporterà una breve analisi atta a dar conto delle sue principali caratteristiche ed evoluzioni storiche. In particolare, la tesi si interesserà al processo di acculturazione, articolato su quattro differenti livelli e studiato come conseguenza di cambiamenti psicologici e culturali. Si darà evidenza, quindi, di come il processo di acculturazione non dipenda solo dalla volontà dell’immigrato, ma anche dall’atteggiamento della società ricevente, in termini di politiche, pregiudizi e discriminazione. Successivamente, l’intercultura verrà studiata in funzione del processo comunicativo, legittimando l’ipotesi di come quest’ultimo possa avere un diverso grado di interculturalità oramai in tutte le sue forme e declinazioni: a tal riguardo si illustrerà la teoria sul grado di strangeness di William Gudykunst e Young Yun Kim. Infine, una sezione sarà dedicata allo studioso Edward T. Hall, grazie al quale assistiamo, a cavallo tra gli Cinquanta e Sessante del Novecento, alla nascita della Comunicazione Interculturale come disciplina autonoma e con una propria valenza scientifica. Il terzo capitolo sarà incentrato, invece, sullo studio del mezzo audiovisivo come strumento di ricerca e rappresentazione. A mo’ di nota introduttiva, si riporta un’analisi sulla visual culture quale disciplina che sostiene l’importanza acquisita dall’immagine, importanza metaforizzata dal neologismo ocularcentrism, con chiaro riferimento alla centralità dell’elemento visivo nella società contemporanea. La seconda parte del capitolo, invece, è studiata per analizzare il rapporto tra il video e l’audio, surclassando la “storica” di supremazia del senso visivo sugli altri e conferendo a questi ultimi pari importanza e dignità. Il mezzo audiovisivo verrà, così, approfondito nelle sue principali caratteristiche, illustrandone la potenza e l’efficienza a motivo di studi e ricerche sulle differenze culturali tra i popoli. Infine, attraverso uno sguardo sul mondo universitario, saranno analizzati alcuni corsi che utilizzano il mezzo audiovisivo in alcune università italiane, anglofone e 6 ispanofone: finestra che mira a descrivere come questi argomenti vengano trattati nel contesto accademico e come essi si differenzino dall’approccio antropologico. Il quarto capitolo, in chiusura della prima parte, apre uno scenario sul mondo culinario, illustrando l’importanza che nel tempo il cibo ha acquisito nella vita dell’uomo; un rapporto che da sempre lo ha contraddistinto dal bisogno-istinto animale di nutrirsi, inteso come esigenza squisitamente fisiologica. Si analizzerà, quindi, il cibo soprattutto nel suo carattere di artificialità, poiché parte di un’eredità culturale; un’eredità che plasma l’identità dell’individuo, diventando elemento di rappresentazione. Questa stessa identità, tuttavia, viene messa in crisi dal processo di contaminazione gastronomica, del quale si illustreranno cause e conseguenze, includendo il paradosso che porta l’uomo ad un bivio tra la voglia e la paura di scoprire ciò che è nuovo ma sconosciuto e, quindi, potenzialmente dannoso. Chiuderà questa parte, un breve approfondimento critico sulla cucina fusion, quale massima espressione di “mediazione gastronomica” a un passo tra l’arricchimento culturale e la perdita d’identità culinaria. La seconda parte dell’elaborato, dal taglio nettamente più sperimentale, verterà a ripercorre le tappe d’ideazione e creazione del documentario Il mondo in tavola, titolo che dà nome alla tesi stessa. Come una sorta di diario, si descriveranno le giornate trascorse con un gruppo di immigrati, una start-up finalizzata alla creazione di un catering professionale a stampo interculturale. Verranno, così, ripercorse le tappe che hanno visto il gruppo del Laboratorio, tra docenti - oltre a Silvia Riva, Isabella Bordoni - e noi studenti, impegnati nelle riprese e nelle discussioni di diversi tavoli di lavoro tematici. Uno specifico capitolo servirà a raccontare la storia e l’identità degli otto aspiranti cuochi, mentre un’intervista con Ersilia D’Antonio, responsabile del progetto, servirà da supporto alla ricostruzione del progetto catering dalle sue prime fasi, sino all’attuale conformazione. 7 Alcune personali ultime considerazioni, in conclusione, faranno da corollario alle mie ricerche, atte a dar dimostrazione concreta della potenza del mezzo audiovisivo nella pratica del mediatore, per la ricerca e per la rappresentazione del mondo, della società e delle diverse culture dei popoli. 8 PRIMA PARTE 1. Il mediatore, un negoziatore storico Il verbo mediare risale al latino tardo del sec. XVII medire, “interporre”, e identifica un processo finalizzato a colmare le falle che si generano da problemi di incomunicabilità. Tuttavia, spesso si tende ad associare la sua pratica al solo contesto socio-amministrativo, ad esempio per la risoluzione di pratiche burocratiche a favore degli immigrati, così generando un ridimensionamento della figura del mediatore, spesso chiamato a gestire situazioni molto più complesse e delicate: funzioni di interprete, accompagnatore e negoziatore possono, pertanto, essere inglobate nel termine unico di mediatore, elemento che porta a considerare come valida la tesi di una mediazione definibile socioculturale poiché prende “in considerazione sia lo stato materiale, sia riferimenti, valori, concezioni che possono caratterizzare le esperienze degli immigrati.”2 Da queste prime considerazioni è possibile evincere come la mediazione sia ancora oggi un concetto in fase di elaborazione nonostante la sua pratica, per quanto considerata moderna, affondi le proprie radici in epoche lontane. Gli elementi comuni, riscontrabili nella pratica della mediazione lato sensu, sono principalmente tre e riguardano la presenza di terzi imparziali (in funzione di conciliatori), il coinvolgimento delle parti in conflitto e il piano extragiudiziario. I primi predecessori dei moderni mediatori sono rinvenibili nell’antica Grecia, dove i dissidi tra le poleis venivano risolti con l’ausilio di un conciliatore, conosciuto come proxenètes, che aveva il ruolo di intercedere su diatribe di carattere personale o commerciale. Questo stesso ruolo, nell’antica Roma, venne a configurarsi come intermediario di matrimoni e conciliatore di dissidi familiari e solo in seguito, con lo sviluppo dell’impero romano, assunse l’incarico di mediatore in affari commerciali. Nel 2 Luatti Lorenzo (a cura di), Atlante della mediazione linguistico-culturale. Nuove mappe per la professione di mediatore, Franco Angeli editore, Milano, 2006, p. 89. 9 periodo medievale la risoluzione delle contese era perlopiù affidata alla Chiesa, attraverso i sacerdoti che si attivavano per la risoluzione di liti domestiche così come di reati e conflitti diplomatici. Anche nella cultura araba, conosciuto come sensale (o simsar in arabo), il conciliatore aveva il compito di mediare tra venditore e acquirente in contratti di svariata natura, con speciale riguardo al settore dell’agricoltura e dell’allevamento. Maggior rilievo a questo ruolo era dato nella cultura cinese, dove la religione e la filosofia hanno da sempre ricoperto un importante ruolo sociale. Nell’antica Cina la mediazione serviva, infatti, per la risoluzione di dispute e conflitti, elemento che si è poi trasmesso anche alla società contemporanea con l’uso, da parte della Repubblica Popolare Cinese, di comitati di conciliazione: organismi a partecipazione popolare creati per la “definizione celere delle controversie civili” 3 , nonché rappresentanti simbolici di un “sentimento di solidarietà nel popolo che contribuiscono al mantenimento della pace sociale, perseguendo l’interesse generale alla modernizzazione socialista della Repubblica popolare cinese”4. Un primo prototipo di mediazione, così come oggi conosciuto, si fa risalire, invece, solo all’America degli anni Sessanta, una nazione segnata dagli eventi della guerra del Vietnam. I movimenti generati per la conquista dei diritti civili, le proteste studentesche, così come le battaglie per la conquista della parità tra sessi, crearono terreno fertile per lo sviluppo di un’alternativa al tradizionale sistema giuridico statunitense, il Community Relations Service (CRS) del Ministero della giustizia americano, fondato nel 1964, ha avuto un fondamentale ruolo di battistrada. […] Con l’abolizione della segregazione razziale si era creato un grosso potenziale di conflitto che non doveva né essere espresso sulle strade in modo violento né portato in tribunale.5 Negli anni Settanta l’applicazione della mediazione crebbe esponenzialmente attraverso la nascita e la diffusione dei Neighborhood Justice Centers, fondati nel 1973. 3 Mazza Mauro, Le istituzioni giudiziarie cinesi. Dal diritto imperiale all’ordinamento repubblicano e alla Cina popolare, Giuffrè Editore, Milano, p. 231. 4 Ivi. 5 Besemer Christoph, Gestione dei conflitti e mediazione, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1999, pp. 4748. 10 Questi centri offrivano servizi di mediazione gratuiti o a basso costo e si rivolgevano tendenzialmente a persone con bassi introiti, nella maggior parte dei casi persone di colore, per la risoluzione di discussioni familiari, controversie inquilini-affittuari o contese tra vicini di casa. A oggi negli USA esistono oltre 700 centri per la mediazione, “molte di queste istituzioni sono statali e collaborano con i tribunali, altre sono indipendenti e si propongono come progetti di base, come alternativa al sistema giuridico tradizionale.”6 Sulla scia del grande successo americano, la mediazione negli anni Ottanta arrivò anche nel vecchio continente, con particolare riferimento alla Germania, Inghilterra e Francia, mentre per l’Italia si dovrà aspettare ancora un decennio. 1.1 La mediazione in Italia Nel nostro paese, la mediazione interculturale prese piede soprattutto dagli anni ’90, quando i primi flussi migratori si convertirono in primordiali insediamenti che, a loro volta, divennero nuclei più corposi prima di trasformarsi in vere e proprie comunità permanenti inseritesi in seno a società più grandi. Quello dell’immigrazione è un fenomeno in crescente aumento in tutto il mondo, così come nella nostra penisola e, pertanto, l’integrazione dei migranti è, oggi più di ieri, “un obiettivo fondamentale nel lavoro messo in atto in molti contesti locali da cittadini, società civile e istituzioni”.7 Sempre più associazioni di volontariato entrano in contatto con il mondo dei mediatori per facilitare l’inserimento degli stranieri nella nuova terra d’arrivo, spesso distante dalla propria d’origine non solo da un punto di vista culturale ma anche, e soprattutto, sotto un profilo burocratico. Oggi, il modello d’inclusione degli immigrati che vige in Italia è affidato in gran parte al mondo del mercato che, con i suoi andamenti, stabilisce l’aumento e la diminuzione del bacino di immigrati. Riuscire a regolarizzare la loro posizione sarà, in seguito, possibile grazie alle leggi di sanatoria che fanno del nostro paese uno dei più favorevoli per l’inserimento sociale e politico dei nuovi arrivati. Le sanatorie, tuttavia, 6 Ivi. Albertini Valentini, Capitani Giulia, “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità”, I Quaderni, n. 47, Aprile 2010, p. 5. 7 11 sono lungi dall’essere prive di cavilli burocratici, difficili da comprendere anche per chi ha una perfetta padronanza della lingua. In molti di questi casi il mediatore è da considerarsi come una figura di rilievo, che segnala anche una sensibilità maturata da parte dello Stato nel continuare a “garantire e implementare, nei nostri servizi territoriali, la presenza di mediatori e mediatrici linguistico-culturali che facilitino l’accesso ai servizi essenziali di queste persone in viaggio.”8 Sul piano legislativo la figura del mediatore viene citata in diversi testi e articoli. La prima apparizione su un testo normativo risale al 1990, una circolare ministeriale avente come oggetto l’integrazione degli alunni stranieri. Il mediatore era segnalato come la figura garante dell’agevolazione comunicativa tra gli insegnanti, gli studenti e le loro famiglie, ma nulla in più veniva specificato sui suoi ruoli e sulle sue competenze. Bisogna attendere la legge 40/98, art. 36, relativa sempre all’istruzione degli stranieri. La richiesta di mediatori linguistici e culturali nelle scuole sorge come effetto dell’aumento di studenti stranieri e, attraverso le esperienze consolidate, si possono individuare quattro ambiti di intervento nei quali il mediatore può agire: - compiti di accoglienza, tutoraggio e facilitazione nei confronti degli allievi neo arrivati e delle loro famiglie; - compiti di mediazione nei confronti degli insegnanti; fornisce loro informazioni sulla scuola nei paesi di origine, sulle competenze, la storia scolastica e personale del singolo alunno; - compiti di interpretariato e traduzione (avvisi, messaggi, documenti orali e scritti) nei confronti delle famiglie e di assistenza e mediazione negli incontri dei docenti con i genitori, soprattutto nei casi di particolare problematicità; - compiti relativi a proposte e a percorsi didattici di educazione interculturale, condotti nelle diverse classi, che prevedono momenti di conoscenza e valorizzazione dei Paesi, delle culture e delle lingue d’origine.9 Anche l’art. 40 “Misure di Integrazione Sociale” della legge del 98 e la legge 285/97 dal titolo “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per 8 9 Ivi. http://archivio.pubblica.istruzione.it/news/2006/allegati/cm24_06all.pdf 12 l’infanzia e l’adolescenza” fanno riferimento ai mediatori culturali/interculturali qualificati, sempre più richiesti nei servizi di welfare, quali operatori professionisti titolari di un percorso formativo e non volontari improvvisati. La successiva evoluzione del quadro in materia d’immigrazione, con la legge 198/2002 (la cosiddetta “BossiFini”), non introdurrà novità sul tema. La normativa nazionale rimane così sfocata e confusa, portando le singole Regioni alla produzione di regolamenti e statuti che fissino dei minimi punti fermi almeno sul proprio territorio. Questa proliferazione di testi individuali ha portato ad un mosaico composito, con forti differenze da Regione a Regione. Pertanto, nonostante tale legittimazione locale, il mediatore rimane un operatore che ancora non vede riconosciuto il proprio valore e il suo profilo, la sua formazione e il suo ruolo sono ancora temi aperti e ampiamente dibattuti. Oggi, la mediazione linguistico-culturale si è diffusa velocemente e macchia d’olio anche se in modi e a livelli completamente disomogenei tra le varie Regioni, tra le città di una stessa Regione e, a volte, tra zone e servizi di una stessa città. Una delle prime definizioni a stampo italiano venne redatta a Bologna nel 1993, durante un convegno del COSPE10, Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti: la mediazione è finalizzata a facilitare la comunicazione e la comprensione, sia linguistica che culturale, fra l’utente di etnia minoritaria (e, per estensione, una comunità di etnia minoritaria) e l’operatore di un servizio pubblico, in contesto di poteri impari, rispettando i diritti di tutte e due le parti.11 Negli anni a venire, tuttavia, tale definizione non fu esente da critiche, poiché sembrava voler relegare il ruolo del mediatore a mera traduzione linguistica, non evidenziandone né la dimensione psicosociale, né la forte carica d’influenza che, attraverso le asimmetrie informative, faceva, e fa, del mediatore un attore potenzialmente attivo. Durante il processo di mediazione, infatti, non va sottovalutata l’importanza di una pausa, di una riformulazione di un concetto, di eventuali interruzioni o possibili manipolazioni da parte del mediatore che potrebbero portare il 10 Il COSPE è un’associazione privata, laica e senza scopo di lucro nata nel 1983. Opera nel sud del mondo, in Italia e in Europa per il dialogo interculturale, lo sviluppo equo e sostenibile, i diritti umani, la pace e la giustizia tra i popoli. 11 Villano Paola, Riccio Bruno, Culture e mediazioni, il Mulino, Bologna, 2008, p. 12. 13 discorso, e quindi le due parti in conflitto, verso una soluzione prefigurata e non necessariamente ottimale. Queste considerazioni portano a capire il perché tra gli studiosi si sia creato uno spartiacque tra chi considera i mediatori attori passivi, vale a dire semplici facilitatori della comunicazione, e chi, al contrario, affiderebbe loro compiti di rilevanza politico-sociale. La varietà ideologica dipende da una moltitudine di fattori: dalla tipologia di servizio, dal tipo di intervento, fino alle aspettative dei singoli operatori e mediatori stessi. In una struttura idealmente gerarchica (fig. 1), alla base troviamo il mediatore come mero interprete linguistico o traduttore. E’ il mediatore con il profilo più basso ma, paradossalmente, anche il più diffuso, specie in contesti ospedalieri dove gli interventi sono spesso di carattere emergenziale e caotico. Leggermente più in alto di posizione troviamo il mediatore culturale, che differisce dal primo per i caratteri informativo ed esplicativo: con il primo si incarica il mediatore di comunicare all’immigrato le regole e leggi vigenti sul nuovo territorio, con il secondo di spiegarne il significato, ovverosia chiarire cosa è possibile e cosa non è possibile fare. Di maggior rilievo è il mediatore con funzione psico-sociale di accompagnamento, ruolo spesso rivestito da personale di sesso femminile. La loro funzione è di offrire sostegno e aiuto e include un certo grado di coinvolgimento 14 attraverso l’identificazione con lo straniero e l’immedesimazione nella situazione. Nei piani alti della piramide incontriamo l’interprete culturale dei bisogni. Il bisogno è qui considerato come un elemento che nasce e si forma all’interno di un preciso ambiente culturale e per questo potrebbe essere non riconosciuto come tale nel nuovo contesto ospitante. Compito del mediatore sarà di reinterpretare il bisogno sostenendone la legittimità. In un crescendo si presenta il mediatore come creatore di cultura, quest’ultima non più considerata come un elemento fisso e statico ma come un’entità in movimento, in continua trasformazione. Il mediatore sfrutterà, allora, questa dinamicità per creare degli incroci, delle contaminazioni, convertendosi in produttore di nuove culture. Al vertice della struttura si colloca il mediatore come operatore sociale, da intendersi come un assistente sociale a tutti gli effetti con la possibilità di promuovere diritti a livello sindacale, politico e legislativo. L’Italia, in questi quasi quindici anni di storia della mediazione, ha visto il susseguirsi di una serie di trasformazioni di pensieri, un proliferare di pubblicazioni e, soprattutto, un suo notevole incremento nei settori sanitari, sociali e dell’educazione. Franca Balsamo, sociologa e direttrice del Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne dell'Università di Torino, distingue questi processi della mediazione italiana raggruppandoli in quattro grandi fasi. La prima è quella definibile come fase della “creatività”, un’epoca di “sperimentazione sul terreno e, insieme, dell’elaborazione teorica”.12 E’ il momento in cui il dibattito sulla poliedricità di questa figura si acuisce. Questi dibattiti, se da un lato non permisero di creare dei punti fermi, dall’altro misero in luce le potenzialità di un ruolo ricco e sfaccettato. In questo contesto i primi mediatori cominciarono a muovere timidi passi all’interno dei servizi pubblici. Il momento successivo fu quello definibile “del pensiero” poiché, a seguito dei primi approcci, si decise di investire nella formazione e per questo si puntò sul coinvolgimento delle Università e delle molte associazioni sorte sul territorio nazionale; quest’ultime, tuttavia, peccavano dell’assenza di un controllo della qualità del servizio offerto, così come di una disomogeneità nei percorsi, nei temi trattati o nel numero di ore. Sul versante delle Università, invece, queste con “l’autonomia e i nuovi percorsi di 12 Luatti Lorenzo (a cura di), Atlante della mediazione linguistico-culturale. Nuove mappe per la professione di mediatore, cit., p. 72. 15 studi triennali, si stavano trasformando in agenzie di formazione professionalizzante”13, indirizzi che col tempo cominciarono ad arricchirsi di master o corsi di perfezionamento post-laurea. Nonostante gli sforzi attuati, il tentativo di far convergere le strade intraprese da Università e associazioni si rivelò fallimentare e queste rimasero, pertanto, percorsi separati ma paralleli. La terza fase vide la presenza di due elementi contrastanti tra loro. Di fatti, se da una parte la pratica della mediazione cominciava a diffondersi su tutto il territorio, dall’altra si osservò un certo grado di “isolamento”. Al termine della formazione i mediatori erano lasciati in balia dei singoli servizi, senza che vi fossero progetti di aggiornamento, di riflessione sul lavoro svolto o di accompagnamento e supporto. Abbandonati a se stessi, i mediatori venivano sempre più rilegati e “ridotti” a servizi di mera traduzione linguistica (con particolare riferimento alle istituzioni più forti, come i contesti ospedalieri), diventando vittime di un senso di abbandono e di solitudine e fautori di una professione creata e trascurata, plasmata ma non fatta maturare. Ad oggi la mediazione sembra aver acquisito una nuova e maggiore autorevolezza, con corsi post-laurea di alta formazione, agenzie, e organizzazioni autonome che mirano ad una riqualificazione del lavoro: “i mediatori locali passano da essere rappresentati degli “stranieri” e degli immigrati all’essere cittadini mediatori di diverse “culture/lingue” presenti nella società multiculturale”.14 Rappresentano le prime esperienze di corsi di formazione per mediatori linguistico-culturali in Italia importanti associazioni come il NAGA di Milano o il Centro Interculturale delle donne Alma Mater di Torino. Il NAGA nato nel 1987 come associazione laica e apartitica, si pone come obiettivo il promuovere “l’impegno umano e sociale dei cittadini democratici senza alcuna discriminazione di razza, religione, partito, al fine di stimolare attività di carattere socio-assistenziale” 15 . Il servizio è completamente gratuito, fondato sulle collaborazioni di volontari e donazioni private, e si rivolge, nello specifico, agli immigrati sprovvisti di residenza o in posizione irregolare. Il servizio di accoglienza svolge un ruolo di primaria importanza e per questo la ricerca e la formazione diventano essenziali. Il NAGA, in questo senso, si configura 13 Ibidem, pp. 75, 76. Ibidem, p. 78. 15 Fiorucci Massimiliano, La mediazione culturale. Strategie per l’incontro, Armando editore, Roma, 2000, p. 126. 14 16 come avanguardista nella mediazione italiana, per l’aver istituito due tra i primi corsi mai realizzati nel nostro Paese: il primo per la formazione di intermediari, ossia persone addette al superamento di ostacoli di natura linguistico-culturale, il secondo per ausiliari socio-assistenziali, specializzati nell’aiuto degli anziani. Al termine del primo corso si è dato vita alla Cooperativa Kantara (termine che in arabo significa “ponte”) che, nata nel 1989, si colloca di diritto come la più longeva e attiva cooperativa italiana sulla mediazione. Il NAGA, con questa sua azione pioneristica, ha introdotto così per la prima volta in Italia la figura dell’intermediario culturale, figura “già presente in altri Paesi europei con una tradizione di immigrazione più antica e consolidata, dove intermediari (definiti a volte “mediatori”, o “tecnici delle relazioni”) sono presenti sia nei servizi sanitari sia nei servizi socio-assistenziali o educativi.”16 Il centro Alma Mater di Torino nasce, invece, nel 1993, a seguito di un’idea lanciata da un gruppo di donne straniere, con lo scopo di svolgere prevalentemente attività di counseling, come accoglienza, informazione e orientamento per le donne immigrate. Nel corso degli anni il centro ha cominciato ad affiancarsi ad altre associazioni, nate e sviluppatesi sulla scia del successo di Alma Mater. Nello specifico, l’associazione “La Talea”, costituita nel 1992 a seguito di un corso di formazione, si propone come punto di riferimento per servizi di assistenza di traduzione, interpretariato, mediazione e come organizzatrici di eventi culturali e convegni. Da annoverare a pari modo come una tra le più importanti e attuali entità nel campo della mediazione italiana è sicuramente il già sopracitato COSPE, impegnato nella progettazione di laboratori linguistici e di educazione interculturale. Il COSPE nel convegno del 1993 ha redatto una procedura, in costante aggiornamento, per la pratica della mediazione linguistico-culturale, procedura divenuta il caposaldo delle loro attività. Secondo queste linee guide il mediatore, quale professionista nel facilitare la comunicazione, è incaricato di svolgere tale ruolo con imparzialità ed estrema riservatezza, impegnandosi in un costante aggiornamento in materia di regolamenti, leggi e circolari. La sua attenzione deve vertere, in particolar modo, su una traduzione il più possibile fedele e aderente alla versione originale e si impegnerà nell’aiutare le due parti nel superamento di eventuali pregiudizi e stereotipi culturali. 16 Ibidem, p. 128. 17 La stessa procedura prevede anche sei diverse fasi che riguardano l’attività del mediare, a partire dalla fase del primo contatto. Questa interessa l’accertamento, da parte del mediatore, sul tipo di servizio richiesto, sul gruppo linguistico ed etnico degli utenti e sul loro sesso. Viene, infine, sottolineata l’importanza di un’adeguata preparazione terminologica, con l’ausilio di un glossario, laddove ce ne fosse bisogno. La seconda fase funge da memorandum sul materiale necessario che il mediatore deve procurarsi e portare con sé, inclusi i fogli di servizio, leggi e regolamenti sulla materia in causa ed eventuali glossari di terminologia. Con la fase di arrivo, la terza, il mediatore è incaricato di contattare il referente del servizio per far firmare il foglio di presenza. Contattare, quindi, il responsabile per il colloquio, assicurandosi che questo sia consapevole del ruolo del mediatore. Nella fase del pre-colloquio ci si accerta della corrispondenza linguistica e culturale tra le parti, si chiedono specifiche sul caso e si controlla che il setting dell’incontro sia approntato nella maniera più consona per un servizio di mediazione. Infine, viene ricordato che il colloquio sarà coperto dal segreto professionale e ci si assicura che non ci siano conoscenze personali. Durante la fase del colloquio il mediatore è incaricato di prendere appunti e al momento di dover intervenire esprime tale decisione attraverso un segnale concordato. Esporrà, allora, la sua intenzione di intervento motivandola sia nella lingua A, dell’operatore, che in quella B, dell’utente. L’ultima fase, quella del post-colloquio, serve al mediatore per accertarsi che la sua funzione sia stata svolta in maniera ottimale nei confronti di tutte le parti. Chiede se ci siano ulteriori aspetti da dover chiarire e, in caso contrario, è libero di andare conservando per sé gli appunti presi durante tutto il colloquio. Va da sé che la procedura redatta dal COSPE non è garante di uniformità ed è lontana dal voler essere universale e assoluta. Per quanto ampiamente discusso negli anni, il ruolo del mediatore è, infatti, ancora privo di uno statuto ufficiale che ne descriva i ruoli e legittimi le competenze in maniera chiara e uniforme. Ogni azione del mediatore sarà, allora, regolata sulla base della singola situazione e del singolo organismo che ne farà uso. La sua figura professionale è ancora lontana dall’essere riconosciuta ed inserita all’interno di un albo. Questo contesto sfocia inevitabilmente in un mercato senza regole, dove sfruttamento, 18 basse retribuzioni e contratti inqualificabili la fanno da padrone. I mediatori sono spesso oggetto di speculazioni da parte delle agenzie e, pertanto, l’idea dei diretti interessati verte verso la costituzione di un Albo Professionale con il quale garantire autocontrollo e gestione delle proprie commissioni, senza più dover passare per appalti ad agenzie e cooperative. 1.1.1 La formazione nelle università italiane In Italia, i primi veri corsi per mediatori culturali si fanno risalire al 1992 e si collocano geograficamente in alcune della maggior città del nord, come Milano e Torino. Tutti i corsi erano a carattere sperimentale, elemento rimasto a lungo costante per assenza di direttive nazionali che ne determinassero gli standard formativi. A partire dal 1998 si cominciò a riscontrare un netto incremento delle possibilità di formazione, grazie anche all’aumento dell’utenza immigrata: sono state, di fatti, “diverse le associazioni di migranti e native che, soprattutto nella prima fase, hanno promosso e gestito corsi di mediazione culturale.”17 I primi corsi attuati duravano in media 500 ore, poi portate a 600. Al termine di queste venivano rilasciati degli attestati, denominati in maniera disuniforme a seconda dell’istituzione interessata: da operatore sociale aggiunto, ad accompagnatore con compiti di mediatore culturale, a facilitatore linguistico-culturale, fino ad operatore socio-sanitario. Questi corsi erano finanziati, nella maggior parte dei casi, dal Fondo sociale europeo ed aperti a tutti coloro avessero compiuto i 25 anni d’età, per motivi legati alla maturità personale, che avessero un diploma di scuola media superiore e una buona conoscenza della lingua italiana, così come di una seconda (in alcuni casi anche di una terza, a scelta preferibilmente tra il francese o l’inglese). Nelle università di oggi, sulla base delle 42 classi dei corsi di laurea individuati dal decreto legislativo 4 agosto 2000, i percorsi triennali che si focalizzano sulla mediazione sono concentrati nelle classi di “Scienze della mediazione”, “Lingue e Culture moderne”, “Scienze per la cooperazione, lo sviluppo e la pace” e, seppur in 17 Belpiede Anna (a cura di), Mediazione Culturale. Esperienze e percorsi formativi, UTET Libreria, Torino, 2002, p.60. 19 misura minore, nella Classe di laurea in “Lettere”. La prima dell’elenco punta, con prevalenza sulle altre, a condurre un lavoro mirato alla preparazione dei propri studenti per la professione di mediatore e l’allegato 3 del DM 4 agosto 2000 pone in luce che i laureati nei corsi di laurea della classe devono: possedere una solida base culturale e linguistica in almeno due lingue, oltre l'italiano, e nelle relative culture; possedere sicure competenze linguistico-tecniche orali e scritte, possedere specifiche conoscenze relative alla struttura delle lingue naturali e una adeguata formazione di base nei metodi di analisi linguistica; possedere nozioni di base in campo economico o giuridico o storico-politico o geografico-antropologico o letterario; essere in grado di utilizzare gli strumenti per la comunicazione e la gestione dell'informazione; possedere adeguate conoscenze delle problematiche di specifici ambiti di lavoro (istituzioni pubbliche, imprese produttive, culturali, turistiche, ambientali, ecc.) in relazione alla vocazione del territorio e alle sue possibili evoluzioni, con riferimento anche alle dinamiche interetniche e interculturali. I laureati della classe svolgeranno attività professionali nel campo: dei rapporti internazionali, a livello interpersonale e d’impresa, della ricerca documentale, della redazione in lingua di testi quali rapporti, verbali, corrispondenza, di ogni altra attività di assistenza di alto profilo alle imprese e negli ambiti istituzionali. Ai fini indicati, i curricula dei corsi di laurea della classe: comprendono in ogni caso attività linguistico-formative finalizzate al consolidamento della competenza scritta e orale dell’italiano e delle altre lingue di studio e all'acquisizione delle conoscenze fondamentali necessarie alla mediazione interlinguistica e interculturale; comprendono in ogni caso l'introduzione alla traduzione, ai fini della mediazione linguistica scritta, di testi inerenti alle attività dell'impresa o dell'istituzione; l'introduzione all’interpretazione, ai fini della mediazione linguistica orale nell'ambito dell'impresa o dell'istituzione, con particolare riferimento allo sviluppo di capacità quali, ad esempio: memorizzazione, traduzione a vista, presa delle note; la prova finale verificherà le competenze relative alla mediazione linguistica mirata; prevedono gli insegnamenti economici e giuridici funzionali all'ambito di attività previsto, nonché le discipline 20 maggiormente collegate alla vocazione del territorio; prevedono tirocini formativi o corsi presso aziende, istituzioni e università, italiane o estere.18 In Italia, alcuni tra i corsi che, seppure con piani di studi diversamente articolati, permettono di svolgere attività da mediatore sono: “Comunicazione interculturale” (Facoltà di Lettere dell’Università di Torino); il corso in “Operatori di pace, gestione e mediazione dei conflitti” (Interfacoltà di Scienze Politiche e Scienze della formazione di Firenze); i laureati in “Civiltà e culture dell’Asia e dell’Africa” e in “Lingue e civiltà orientali” (Facoltà degli studi orientali dell’Universita “La Sapienza”); il corso “Scienze della cultura” (Università di Modena e Reggio Emilia), “L’Orientale” di Napoli e il corso di “Scienze della Mediazione linguistica e culturale” dell’Università Statale di Milano. Fattore comune tra tutti questi corsi è l’appartenenza alla sfera degli studi umanistici, oltre al voler porre in rilievo l’importanza della conoscenza linguistica e, quindi, della comunicazione. Questo evidenzierebbe la tendenza, riscontrabile poi nella realtà lavorativa, di intendere la pratica del mediatore in termini di “facilitatore della comunicazione”. La formazione sul territorio italiano offre, poi, la possibilità di consolidare le proprie capacità e conoscenza grazie a corsi post-laurea e master. Nel primo di questi casi, troviamo percorsi biennali di secondo livello tra cui “Lingue, culture e comunicazione internazionale”, “Lingue straniera per l’impresa e la cooperazione”, “Scienze linguistiche per la comunicazione interculturale” e “Lingue moderne e studi interculturali”. Questi si presentano come il naturale proseguimento delle triennali già citate, ma l’offerta formativa non esclude la possibilità di frequentare master professionalizzanti di primo o secondo livello che presentano una panoramica di scelte varia e articolata, ma comunque focalizzata sulla formazione di figure professionali in ambiti e contesti interculturali. 1.2 Professione mediatore La mediazione è diventata negli anni una pratica sempre più diffusa e visibile “non solo tra le associazioni e all’interno della rete di servizi, ma anche in alcuni 18 http://mediazione.unimc.it/it/utilty/ordinamenti-didattici-mediazione/oducl308.pdf 21 contesti istituzionali e para istituzionali”.19 Tuttavia, questa spinta espansionistica non ha trovato sviluppi formativi direttamente proporzionali e questo ha portato ad avere un inquadramento professionale annebbiato; destino purtroppo condiviso da molte professioni del settore terziario, caratterizzate da precarietà e debolezza di status. E’ possibile, con particolare riferimento al settore della mediazione, che questa precarietà sia dovuta proprio alla natura poliedrica del servizio, un carattere trasversale che la porta a collocarsi in ambiti più disparati che richiedono spesso competenze e accortezze differenti, come nel caso delle scuole, dei servizi sanitari o degli ambienti familiari. I corsi offerti non sempre sono in grado di fornire conoscenze esaustive e così variegate, lasciando spesso vuoti e lacune che vanno dal non contribuire al rafforzamento delle tecniche comunicative al non garantire la padronanza di tutti questi temi “sensibili”, con i quali i futuri mediatori potranno doversi scontrare. Lo stesso tirocinio, nella maggior parte dei casi, non prevede un effettivo affiancamento del corsista a operatori senior e questo risulta così spesso demotivante e affatto professionalizzante. Nella stessa formazione universitaria, di cui in precedenza si è detto, si può segnalare una grave “falla nel sistema”, che sta nelle difficoltà riscontrate da molti stranieri nell’accedere alle offerte formative, difficoltà dovute, ad esempio, alle ingenti tasse unite al costo della vita per il loro sostentamento nel nuovo paese; senza considerare la ritrosia italiana nel riconoscere titoli di studio esteri. Il paradosso di questa situazione è che le università di mediazione si riempiono di studenti autoctoni, laddove la quasi totalità dei mediatori sul campo sono di origine straniera, immigrati di prima o seconda generazione, generalmente definiti unskilled o mediatori naturali. La tendenza delle università sembra quindi quella di volersi indirizzare verso studi mirati più alla ricerca e alla progettazione che all’azione sul campo, tendenza che però spesso sembra stridere con la possibilità di rinvenire, tra università e percorsi professionalizzanti, alcune sovrapposizioni in materia di sbocchi. Questo quadro altro non fa che creare una grande confusione: chi è il mediatore più titolato? L’italiano laureato o lo straniero professionalizzato? E gli italiani che hanno seguito il corso di formazione 19 Albertini Valentini, Capitani Giulia, “La mediazione linguistico-culturale. Stato dell’arte e potenzialità”, cit., p. 16. 22 professionale, come si collocano rispetto ai loro connazionali laureati? Il rischio poi di creare una situazione in cui una formazione di serie A, universitaria, seguita prevalentemente da italiani, si affianca a una di serie B, professionale, rivolta principalmente a stranieri, è evidente. A volte invece i corsi di laurea in mediazione riguardano ambiti professionali specialistici e sensibilmente diversi rispetto alla mediazione linguistico-culturale propriamente intesa, come ad esempio l’interpretariato professionale, a dimostrazione di una sostanziale confusione terminologica ormai creatasi sul tema. D’altronde tutti i percorsi universitari in mediazione danno enorme importanza all’aspetto linguistico, che rappresenta la parte più corposa degli insegnamenti. L’aspetto di riflessione sul concetto di mediazione e sulle esperienze e i percorsi fatti in questo senso risulta invece carente, così come l’aspetto pratico, “professionalizzante”, rappresentato dal tirocinio, cui generalmente sono attribuiti ben pochi crediti formativi.20 Si torna quindi a menzionare la presenza di una realtà precaria e dissonante, dove ai mediatori de iure si affiancano quelli de facto, che svolgono le medesime funzioni seppur privi di un titolo di riconoscimento. Il perché questi ultimi siano soggetti potenzialmente dannosi è facilmente intuibile e lo sarà maggiormente quando, a seguire, verranno analizzati alcuni degli aspetti di mediazione che prescindono dal trasportare un enunciato dal codice A verso il codice B. Al momento di ricorrere a un mediatore, alcuni potrebbero decidere di affidarsi a un non professionista per ragioni legate, ad esempio, alla conoscenza personale; prediligendo così aspetti come la fiducia o la familiarità a quelli della professionalità. Potrebbero essere altresì affascinati dal prezzo proposto, generalmente più basso quando non si ha un titolo da far valere. Tuttavia, dietro al “buon affare” spesso si nascondono lacune che fanno certamente la differenza tra un esperto e chi, invece, si improvvisa tale. L’abilità nel comunicare, nel gestire situazioni di stress, di far avanzare il discorso, così come la conoscenza del tema in dibattito, delle varie possibilità per risolvere la disputa, del linguaggio non-verbale e delle culture che in quel momento entrano in contatto sono solo alcuni degli elementi da prendere in considerazione in un servizio di 20 Ibidem, p. 34. 23 mediazione. Spesso il cliente inesperto può anche decidere di affidarsi a un mediatore non qualificato per la sua capacità di parlare perfettamente la lingua interessata, poiché magari madrelingua; mentre quest’ultimo finisce per “rifugiarsi” in questa sua dote naturale nella convinzione che sia l’unico elemento necessario. Eppure, la differenza, tra chi ha uno studio alle spalle e chi invece no, è abissale: “a skilled mediator knows how to bring disputing parties to genuine settlement; an unskilled mediator can push parties into agreements they later regret or, worse, can inflame the situation”.21 E’ possibile, quindi, definire la mediazione non solo come un processo linguistico ma come un processo di costruzione, di gestione della vita sociale al di fuori del dominio legale che sfrutta la cooperazione, laddove “uno o più individui aiutano le parti nella soluzione di una disputa interpersonale e/o intergruppi o di una incomunicabilità.”22 La letteratura mostra che a livello mondiale l’impiego dei servizi di mediazione è tutt’altro che omogeneo. Gli Stati Uniti d’America, nonostante si distinguano per il loro essere stati terra pioneristica, si classificano al di sotto delle media mondiale, difatti solo il 10% delle dispute trova soluzione nella presenza di mediatori, il cui intervento rimane, così come in molti Paesi del vecchio continente, episodico e isolato. La tendenza opposta può essere, invece, riscontrata in alcuni Paesi del mondo orientale, con specifico riferimento alla Cina, al Giappone e alla Thailandia. Queste differenti predisposizioni si pensano possano essere riconducibili a un fattore di natura culturale, che vede nel primo caso la presenza di una società individualistica, nell’altro di una società collettivista. L’America, così come in generale il mondo occidentale, si muove su una linea di pensiero che predilige lo scontro diretto per il raggiungimento dei propri obiettivi e, quindi, degli interessi del singolo. La mediazione, quale processo mirato per l’incontro di esigenze, non può essere, pertanto, considerata il mezzo ottimale. Al contrario, i Paesi orientali, nella grande maggioranza, fondano le proprie società sullo spirito di comunione, laddove il bene collettivo ha priorità su quello del singolo individuo. 21 Bagle Constance E., Managers and the Legal Environment: Strategies for the 21st Century, SouthWestern Cengage Learning, Mason, 2013, p. 69. 22 Villano Paola, Riccio Bruno, Culture e mediazioni, cit., p. 36. 24 Come già detto in precedenza, il termine “mediatore” trova essenzialmente un valido sinonimo nel termine di “conciliatore” poiché entrambi sono da intendersi come mezzi ausiliari per la soluzione costruttiva dei conflitti, questi ultimi solitamente vissuti come un “qualcosa di fastidioso, minaccioso, distruttivo e doloroso. Conformemente a ciò la maggior parte delle persone tenta di evitarli.”23 Il conflitto, inteso come incompatibilità di pensiero, è il principale motivator della mediazione che, a sua volta, è intesa come un mezzo per riparare la frattura creatasi dal sentimento di ostilità. La rottura, se non risolta, tende a svilupparsi, amplificandosi e non permettendo alle parti di ripristinare la comunicazione, già difficile e indiretta che alla fine si spezzerà del tutto: al momento della totale rottura, ogni parte invece di affrontare il problema identifica l’altra persona con il problema stesso. Sono queste le circostanze in cui l’incomunicabilità, intesa nel senso più ampio del termine, arriva ad un punto di stallo e necessita dell’ausilio di terzi per essere ripristinata. I mediatori, prima che conciliare devono essere ottimi “spettatori”, ossia ascoltatori passivi delle richieste di tutte le parti interessate, lasciate a esprimere i propri sentimenti attraverso un libero flusso di coscienza. L’ascolto passivo sarà la base dalla quale partire e sulla quale lavorare per aiutare le parti a chiarire i loro reali interessi. Questo processo introspettivo, tuttavia, non deve far concepire il processo di mediazione come una terapia. Se in entrambi i casi, i sentimenti vengono presi in considerazione, nel nostro non sono di centrale importanza. La mediazione come processo di risoluzione dei conflitti non prevede la guarigione, né la rielaborazione del dolore passato, bensì il raggiungimento di una soluzione futura e dello scioglimento delle difficoltà. Le parti si focalizzeranno, in questo modo, sui reali problemi presenti e cercheranno di essere sensibilizzate nei confronti dei sentimenti della parte avversaria, con l’auspicio di una reciproca e ritrovata fiducia. Il concetto di interesse è fondamentale in questi casi, poiché una comunicazione errata potrebbe creare l’insorgere di problemi, anche nei casi in cui di problemi non ve ne fossero. 23 Besemer Christoph, Gestione dei conflitti e mediazione, Gruppo Abele, Torino, 1999, p. 21. 25 Due sorelle si contendono un’arancia. Alla fine convengono di dividere il frutto. Una prende la sua metà, mangia la polpa e getta la buccia. L’altra invece butta la parte interna e usa la buccia per fare un dolce.24 Nel momento della mediazione non si deve capire quale sia lo scopo ma quali i reali interessi. La differenza tra i due concetti, intesi dal punto di vista di un mediatore, è fondamentale. Lo scopo indica l’obiettivo da voler raggiungere (ottenere l’arancia), e per il quale il rapporto, e con esso la comunicazione, è stato lacerato. L’interesse indica maggiormente il bisogno, la necessità di dover ottenere qualcosa (la polpa vs la buccia), ma non necessariamente le due cose devono corrispondere, come nell’esempio proposto. La decisione ottimale, auspicata dal servizio di mediazione, può essere raggiunta solo dopo una profonda analisi delle posizioni delle parti e per fa questo è necessario che il problema alla mano venga studiato a più livelli, nello specifico sul piano dei conflitti visibili, quello dei conflitti nascosti e quello dei retroscena. Il conflitto in superficie potrebbe non essere quello determinante bensì solo “la goccia che fa traboccare il vaso”. Il tutto deve essere risolto a livello più profondo. Vengono allora trattati quelli che sono i problemi di relazione e di personalità e la mediazione lo fa attraverso il colloquio (nuovamente, se il colloquio non sarà sufficiente e si entra nello studio approfondito dei sentimenti si sfocia nella terapia che nulla, o quasi, ha a che fare con la pratica della mediazione): l’obiettivo finale del mediatore sarà quello di risolvere il problema che si manifesta con gli elementi che si hanno in mano, gli elementi allo stato attuale delle cose. A questi livelli si unisce, come già detto, quello dei retroscena: si tratterà soprattutto dei retroscena immediati che riguardano la lite manifesta. […] Dietro un conflitto oggettivo ci possono essere diversi interessi oppure diverse esigenze che, in linea di principio, sono conciliabili tra loro (cfr. l’esempio delle arance). In un altro contesto, come ad esempio nella condivisione di un alloggio o in una convivenza, si possono trovare, dietro le quinte, sentimenti feriti oppure “interessi emotivi” (per esempio il desiderio di gratificazione e di conferma).25 24 25 Ibidem, p. 23. Ibidem, pp. 25, 26. 26 Il conflitto oggettivo può essere causato da molti elementi che riguardano problemi interpersonali, come manie dell’ordine o fobie, o ancora problemi legati alla sfera della comunicazione, ne sono un esempio gli equivoci. Nel conflitto le cause non sono mai isolate e fini a se stesse ma si sovrappongono e si sommano. 1.3 Differenti modelli di mediazione Sulla base della linea di pensiero e di azione che si prediligono, è possibile distaccare diversi percorsi di mediazione. A premessa di ciò è opportuno, però, sottolineare come, per quanto differenti, questi modelli abbiano alcuni elementi comuni. Primi fra tutti, due processi sine qua non, ossia la richiesta da parte dei disputanti di una figura in qualità di mediatore ed il consenso, da parte di quest’ultimo, di fungere da terza parte. Senza queste due premesse iniziali alcun tipo di mediazione potrà mai avere luogo. Altro importante elemento comune è quello dell’imparzialità. Il mediatore non può avere alcun potere di tipo decisionale. E’, pertanto, fatto divieto qualunque forma di imposizione del risultato finale. A motivo di ciò, si evidenzia come il mediatore non agisca da giudice, quale soggetto incaricato di prendere decisioni per conto di altri, ma cerchi di guidare il discorso verso una soluzione concordata con le parti. A livello decisionale, ciò che distingue il piano del procedimento giudiziario da quello della mediazione sono le basi sulle quali elaborare la soluzione finale: nel primo dei due casi il passato la fa da protagonista. Si cerca, pertanto, di capire il come si sia arrivati ad un punto di rottura e il giudizio verrà formato sulla base di chi ha più o meno ragione. Nel secondo caso, quello della mediazione, ciò che conta maggiormente è il futuro o, in altre parole, non il come si sia giunti al punto di rottura ma come sia possibile superarlo, cercando di farlo senza dover necessariamente trovare un colpevole nel conflitto: compito dei mediatori non sarà, allora, quello di pronunciare un giudizio arbitrale o una sentenza ma di elaborare una soluzione ottimale, un accordo che tutte le parti accettano e traspongono in azione. 27 Nel 2001, i tre teorici Wall, Stark e Standifer hanno proposto una cornice teorica della mediazione (fig. 2), nella quale hanno cercato di inglobarne tutti gli aspetti comuni e interdipendenti. Fig. 2 Riportando l’attenzione sui differenti modelli di mediazione, si evidenzia come, una volta richiesto e iniziato il colloquio, sia possibile prediligere un percorso da seguire piuttosto che un altro. Uno dei modelli maggiormente utilizzati è quello definito a tappe. Questo modello ha visto, negli anni, l’insorgere di numerose rivisitazioni e ad oggi è possibile identificarne vari sottogruppi teorizzati da studiosi provenienti da tutto il mondo. Il modello riportato di seguito è quello proposto nel 1997 da Beer e Stief, due antropologhe americane ed è caratterizzato da sette passaggi. Il primo interessa la dichiarazione di apertura del colloquio, con, a seguito, uno spazio personale durante il quale ogni parte potrà concentrarsi sulla libera espressione dei propri pensieri. Una volta che i sentimenti avranno avuto libero sfogo è possibile passare alla terza fase, momento del colloquio propriamente inteso. Nel quarto passaggio, attraverso lo spirito di collaborazione tra il mediatore e le parti, verrà codificata una serie di regole atta a gestire l’andamento del dibattito stesso. Nel successivo step si cercherà di arrivare a un accordo, una soluzione accettata e condivisa dalle parti che sarà, infine, posta per iscritto e riletta affinché si possa verificare che tutti ne abbiano compreso perfettamente ogni singola parte. Nel settimo passaggio, a mediazione compiuta, se ne decreta la chiusura. 28 Il secondo modello è quello crossculturale, teorizzato da Gulliver sulla base di studi etnografici negli Stati Uniti, Canada e Tanzania e impostato su otto differenti tappe. La prima è quella della ricerca di un’arena, intesa sia come luogo fisico dell’incontro sia come luogo di scontro tra le parti. Stabilito ciò, s’identificano gli argomenti e se ne progetta un planning per la trattazione. La terza fase è quella dell’esplorazione del campo, relativa al momento di libero “sfogo” delle parti, durante il quale ognuna di loro esporrà la propria versione dei fatti, enfatizzandone le cause del disaccordo. Il quarto punto, quello della restrizione delle differenze, mira proprio alla diminuzione della lontananza tra le parti e cerca il modo, attraverso la cooperazione, di farle ricongiungere o, almeno, di smussare le differenze di pensiero per il raggiungimento di punti comuni e condivisi. Questo porta a una preliminare fase di patteggiamento che anticipa quello conclusivo. La settima fase è quella della ritualizzazione dei risultati, vale a dire l’affermazione concreta degli accordi pattuiti. Questa fase può avvenire con dinamiche differenti secondo la cultura di riferimento: in un paese occidentale i risultati potrebbero essere sanciti con un accordo da firmare, in altri paesi non-occidentali potrebbe avvenire attraverso una preghiera o uno scambio di oggetti. L’ottava e ultima tappa di questo modello è quella che prevede la messa in atto dei risultati ottenuti. Nel 2004, Matthew S. Fritz, ricercatore statunitense, propone una classificazione dei modelli di mediazione non tanto basati sulla suddivisione delle tappe, quanto sul focus degli orientamenti. Avremo così, ad esempio, un modello di mediazione focalizzato sui partecipanti, identificati come il fulcro di tutto il processo. E’ un tipo di modello utilizzato soprattutto nei contesti familiari dove il mediatore agisce prevalentemente come facilitatore ed ha la funzione di stabilire alcuni elementi di contatto tra le parti in maniera che queste considerino, rispettivamente dell’altra, i punti più positivi. Un modello differente è quello basato sulla soluzione, nel quale il mediatore ha il compito di dirigere la discussione verso la risoluzione del problema. Il terzo modello proposto di Fritz è quello della mediazione trasformatrice, dove la stessa è da intendersi come un mezzo per plasmare le parti. Ciò che si tiene maggiormente in considerazione non è tanto la ricerca di una soluzione quanto l’idea che l’attitudine delle parti possa essere cambiata e il loro atteggiamento modificato a favore di un risultato ottimale; queste hanno quindi la responsabilità del risultato stesso mentre al mediatore è 29 lasciato il compito di favorire lo sviluppo del processo che è, a sua volta, affidato quasi esclusivamente alle mani dei partecipanti. A seguire troviamo il modello della mediazione narrativa, atta a far sviluppare la storia generatrice del conflitto, che segue una struttura a tre tappe: nella prima vengono coinvolti i soggetti, nella seconda viene de-costruita la loro storia mentre nella terza ed ultima tappa la storia verrà ricomposta affinché se ne modifichi o, almeno, ridimensioni il conflitto. L’idea alla base di questo modello è che le realtà non sia unica e oggettiva ma che esistano tanti differenti realtà che cambiano sulla base dei punti di vista e sulla base delle differenti interpretazioni. L’ultimo modello proposto dal ricercatore statunitense è quello definito Humanist Integrated Process, come modello di mediazione integrato che accentua l’esperienza culturale, l’emancipazione e la creatività delle parti. Il mediatore si presenta come un facilitatore della comunicazione e della riflessione con il compito di valutare costantemente l’interazione tra i soggetti. La risoluzione del conflitto è considerata una scelta libera e individuale: solo se le parti avranno un reale interesse, la mediazione potrà avere luogo e sarà possibile raccoglierne i frutti. 1.4 La mediazione interculturale Come già menzionato nelle sezioni che precedono, la mediazione, intesa come la gestione dei rapporti tra terzi, investe tutta una serie di settori diversi e variegati e che richiedono competenze, conoscenze e accortezze differenti. Entrando nello specifico della questione, quando i soggetti coinvolti vengono considerati e “studiati” anche per il loro appartenere a culture differenti entrano in gioco dinamiche particolari che rendono la mediazione lecitamente definibile come culturale o interculturale o linguistico-culturale. E’, nel concreto, il caso degli immigrati, a cui già è stato fatto riferimento all’inizio del capitolo, che sperimentano difficoltà e bisogno d’aiuto al momento dell’arrivo ma non solo. La mediazione culturale è solitamente richiesta in tre specifici ambiti: quando la comunicazione in atto avviene tra persone appartenenti a culture differenti, quando tali relazioni avvengono in contesti istituzionali asimmetrici e quando i membri della cultura non dominante si trovano in una posizione di netto svantaggio dovuta a possibili immagini stereotipiche da parte delle cultura dominante. 30 Nel caso specifico dell’Italia, il mediatore culturale sul campo svolge maggiormente due ruoli, quello del mediatore-operatore impiegato soprattutto nei servizi di sportello e quello del mediatore-supporto operativo che si occupa prevalentemente dei servizi relativi all’ambito scolastico e sanitario. Entrando nel merito delle funzioni di un mediatore, seppur mantenendo concettualmente l’idea che queste abbiano una valenza molto relativa, da ricondurre alla specificità territoriale piuttosto che affidar loro carattere di universalità, è possibile attribuire una forte centralità alla competenza interculturale, intesa non come una semplice conoscenza di culture e linguaggi ma come una consapevolezza sviluppata dall’elaborazione personale, del proprio vissuto: una riflessione sulla propria cultura che possa portare a capire la ricchezza che si genera dall’incontro e dalla contaminazione di mondi culturali differenti. Un’altra competenza è quella definibile come empatica, poiché richiama l’esigenza di sintonizzarsi sui sentimenti dei clienti. E’ una competenza che rievoca la sfera psicosociale ma fondamentale data l’importanza assunta dal sapere contenere le ansie e le emozioni. Per questo è rilevante anche il concetto di equivicinanza, che si fonda sul sentimento di fiducia che il mediatore stabilisce con il cliente senza che però incappare nel rischio di immedesimarsi eccessivamente nella sua condizione, poiché questo porterebbe a una mancanza di lucidità e freddezza di pensiero. La sociologa Belpiede, analizzando le funzioni di base dei mediatori, individua cinque grandi macro gruppi. Il primo interessa proprio la sfera dell’interpretariato linguistico-culturale, con il quale si intende “la capacità di decodificare i codici culturali dei due partners della relazione”26. E’ una funziona di fondamentale importanza e tra le sue competenze pratiche troviamo, per esempio, la traduzione e compilazione di documenti, le prassi riguardanti l’accoglienza e la decodifica di eventuali malintesi. Il secondo gruppo riguarda l’informazione sui diritti e i doveri. Conoscere le proprie possibilità sul nuovo territorio è di fondamentale importanza per un immigrato affinché questo possa sfruttare a pieno tutti i servizi per lui previsti. Altrettanto importante è, però, che gli immigrati conoscano i loro doveri; sarà compito anche dei mediatori illustrar loro le norme giuridiche e penali vigenti nella nuova realtà. Il terzo gruppo delineato dalla Belpiede riguarda la sensibilità da parte dei mediatori nel conoscere le 26 Belpiede Anna (a cura di), Mediazione Culturale. Esperienze e percorsi formativi, cit., p. 29. 31 differenze culturali dei soggetti con i quali dovrà entrare in contatto: è possibile che il mediatore debba ritrovarsi a dover “prendere delle decisioni rispetto a comportamenti che non condivide, o addirittura ritiene lesivi di diritti. Comportamenti che all’interno di un diverso mondo culturale possono trovare tradizioni consolidate, e talvolta vere e proprie legittimazioni”. 27 Infine, l’ultimo gruppo valorizza l’importanza del sostegno all’inserimento e ai processi d’integrazione della popolazione immigrata, politiche attraverso le quali far diminuire le tensioni tra questa e la popolazione autoctona. Tuttavia, è rilevante sottolineare come queste funzioni siano influenzate fortemente da due variabili che il mediatore deve considerare essendone direttamente condizionato. La prima di queste variabili è il contesto, che ingloba la regolamentazione, la normativa e l’organizzazione del lavoro come aspetti volubili a seconda della situazione lavorativa proposta. Questa variabile introduce, inevitabilmente, anche la seconda, ovvero il grado di autonomia. In generale è possibile rilevare una scarsa autonomia nei confronti dei mediatori, i quali compiti vengono affidati loro solo in una parte. Difatti, mentre in alcuni pochi contesti, come ad esempio l’accoglienza nelle strutture o alcuni servizi agli sportelli, il coinvolgimento totale ed esclusivo del mediatore è prassi consueta e tradizionale, in molti altri, come quelli ospedalieri, la totale “delega” è infrequente e insolita. Fra le competenze definibili come non tecniche troviamo quella del saper assumere un ruolo sociale, ovvero la capacità che un mediatore deve avere di rappresentare se stesso come veicolo di sentimenti e sensazioni e farlo con credibilità. Uno dei rischi maggiori potrebbe, infatti, essere proprio quello della perdita di autorevolezza. L’attendibilità agli occhi dei soggetti mediati è fondamentale affinché si crei, tra loro e il mediatore, un sentimento di reciproca fiducia. Per la parti la percezione dell’avere un mediatore competente e affidabile è fondamentale al momento di trovarsi nella condizione di accettare i consigli da quest’ultimo dispensati. I soggetti mediati sono, difatti, generalmente più propensi a valutare le raccomandazioni proposte, anche se negative nei loro confronti, se la loro percezione è quella di essere affiancati da un mediatore esperto, attendibile e preparato. A tal proposito va ricordato il valore della self-efficacy: l’autoefficacia, come la convinzione di un soggetto nel riuscire a portare a 27 Ibidem, p. 30. 32 termine un determinato compito, la sicurezza di conseguire lo scopo prefissato. Le ricerche sul campo hanno dimostrato come i mediatori con un maggior livello di autoefficacia ottengano prestazioni generalmente migliori di coloro con un basso livello, proprio perché hanno una maggiore tendenza nel valutare gli aspetti positivi delle cose prima di quelli negativi e agiscono con meno ansia e senza stress. Sebbene, a oggi, le ricerche siano ancora limitate, è stato possibile verificare come “il forte senso di autoefficacia e una buona credibilità sono essenziali ingredienti “psicologici” per la riuscita della mediazione.”28 Infine, i due ultimi elementi da considerare sono quelli della neutralità e della riservatezza. In termini di neutralità il mediatore deve fungere da mero facilitatore della comunicazione “evitando di assumere atteggiamenti parziali o di difendere i diritti dell’una o dell’altra parte.”29 Sebbene non esista un vero e proprio codice deontologico, è bene che il mediatore padroneggi alcuni aspetti di carattere etico come quello del non giudicare. Non devono emergere convinzioni personali che possano indurre le parti verso una soluzione che il mediatore ha già ideato nella sua mente. La giusta distanza è un concetto fondamentale poiché il mediatore non è da considerarsi come un avvocato: “si tratta quindi di una posizione di equilibrio, il mediatore deve essere, da un lato, credibile, […] d’altro canto però, deve essere abile a non lasciarsi coinvolgere troppo dalle problematiche”.30 Sul piano della riservatezza è, invece, importante che il mediatore mantenga per sé le informazioni delle quali entra in possesso durante il servizio. L’etica lo obbliga alla discrezione professionale che lo porta a dover conoscere i limiti entro i quali poter diffondere le informazioni personali acquisite. 28 Villano Paola, Riccio Bruno, Culture e mediazioni, cit, p. 88. Luatti Lorenzo (a cura di), Atlante della mediazione linguistico-culturale. Nuove mappe per la professione di mediatore, cit., p. 98. 30 Ibidem, p. 99. 29 33 2. Cultura e lingua: concetti “non-natura”31 La lingua e la cultura sono due elementi che plasmano il nostro mondo o, in altre parole, il nostro modo di essere, di fare, di porci in contatto con le società che ci circondano; sono le lenti focali attraverso le quali noi siamo in grado di osservare gli altri e di comunicare con loro. Il rapporto tra lingua e cultura è tanto importante quanto bidirezionale: non è possibile, o comunque molto difficile, entrare in un nuovo mondo senza che se ne conosca la chiave d’accesso più diretta, ossia la lingua, e al contempo la lingua non è uno strumento sufficiente per poterne fare parte se non supportata dalla conoscenza della cultura. Per entrare in una nuova realtà, difatti, non basta apprenderne l’idioma come mero compito cognitivo; bisogna imparare a vivere linguisticamente la cultura, che è più un processo di carattere affettivo. E’ forse questa la differenza più grande tra il bilinguismo e il biculturalismo. Se nel primo caso è possibile usare una lingua differente dalla propria per ragioni puramente strumentali e rimanendo, pertanto, nel proprio mondo; nel secondo è indispensabile uscire dalla propria realtà per avere un contatto più profondo e continuativo con un ambiente che, almeno in un primo momento, non ci appartiene. Questo processo di contatto e di reciproca influenza tra la lingua e la cultura è studio di particolare interesse di una disciplina che va sotto il nome di pragmatica interculturale e che nasce con l’obiettivo di analizzare le interazioni tra nativi e non nativi di una determinata lingua in un preciso sistema culturale. Come sostiene la linguista Camilla Bettoni, né la lingua né la cultura fanno parte della nostra eredità biologica, anche se biologica è la capacità di apprenderle. Quindi, “nella contrapposizione tra natura (innata) e cultura (acquisita), dai grandi filosofi tedeschi Immauel Kant (1724-1804) e Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770 – 1804) in poi, tutte e due sono considerate non-natura.”32 Questo ci permette di valutarle come conoscenza, come frutto di un apprendimento e riconducibili, pertanto, alla sfera del cognitivo. In questo senso, sia la lingua che la cultura possono essere classificate come 31 Camilla Bettoni, Usare un’altra lingua: guida alla pragmatica interculturale, Laterza, Roma, 2006, p. 5. 32 Ivi. 34 una realtà mentale, non essendo composte esclusivamente da elementi materiali: conoscere una lingua e conoscerne la cultura significherebbe, quindi, apprenderne i modi di pensiero e di interpretazione del mondo e, in qualità di realtà mentali, diventano fautrici di segni immateriali trasmessi e condivisi attraverso la comunicazione. Poiché quello che comunichiamo è la rappresentazione mentale della realtà, cultura e lingua permettono di stabilire relazioni simboliche tra individui e collettività e di connettere questi con altri individui e altre collettività. In definitiva, sebbene cultura e lingua siano due fenomeni pienamente indipendenti e, quindi, perfettamente separabili, è possibile riscontrare nel loro essere non-natura, conoscenza e comunicazione alcuni tra i loro tratti comuni. 2.1 La lingua La lingua rappresenta la manifestazione della cultura più alta ed evidente e si compone di elementi quali suoni, parole e strutture grammaticali specifiche, che variano di lingua in lingua. Le funzioni che espleta sono state illustrate in diverse classificazioni, con differenti criteri, da moltissimi studiosi. Tra le teorie più accreditate, con particolare riferimento all’Italia, troviamo sicuramente quella di Jacobson; tuttavia, volendo illustrare ecletticamente le funzioni della lingua, è possibile affermare come questa rappresenti la realtà, comunichi, esprima emozioni, stabilisca e preservi il contatto interpersonale, compia azioni e sia manifestazione dell’identità dell’individuo che la parla. Entrando nel dettaglio delle differenti funzioni elencate, possiamo definire quella del rappresentare la realtà come la funzione referenziale; funzione attraverso la quale classifichiamo e concettualizziamo la realtà stessa, espressa attraverso l’utilizzo di parole, che a loro volta rappresentano il referente, ossia il contenuto del nostro messaggio. Ciò che esprimiamo attraverso il referente non sempre rimanda a “cose” materiali, concrete e tangibili ma spesso descrive entità extralinguistiche che sono frutto di una mera rappresentazione mentale. Infatti, “la realtà extralinguistica esiste solo nelle forme e nei modi in cui è concettualizzata, individuata, discriminata, classificata e 35 strutturata dalla mente.”33 Ne può essere esempio un messaggio che parla di fate, orchi o draghi: per quanto questi siano elementi che hanno dei referenti nella nostra enciclopedia mentale, non significa che li percepiamo come entità fisiche esistenti nelle realtà. La seconda delle funzioni è quella definitiva comunicativa: attraverso la lingua si trasmette il referente, ovvero il contenuto del nostro messaggio. In altre parole, la lingua permette la comunicazione. In funzione espressiva, la lingua viene utilizzata per esprimere delle emozioni, dei sentimenti e degli atteggiamenti; scongiuri o esclamazioni ne sono un tipico esempio. Quella espressiva è stata per lungo tempo una funzione poco considerata dalla linguistica, tuttavia a oggi si è riscontrato una notevole rivalutazione della stessa proprio perché gli studiosi hanno evidenziato come l’espressione fonica delle emozioni esprima una parte importante del contenuto nell’atto comunicativo. A seguire, troviamo la funzione fàtica, ossia l’utilizzo della lingua per il mantenimento delle relazioni sociali, degli intenti e delle buone intenzioni, ne sono un esempio i convenevoli come i saluti, i ringraziamenti o le considerazioni sul tempo. Come per l’espressiva, anche questa non è una funzione riconosciuta dalla tradizione secolare ma ha guadagnato terreno solo successivamente. Seppur simili, queste due funzioni si distinguono poiché, se in quella espressiva l’attenzione è focalizzata esclusivamente sul parlante, in questa fàtica entrambi gli interlocutori giocano un ruolo centrale. Con la funzione performativa, la lingua permette che l’individuo possa compiere delle azioni linguisticamente. Come sottolineava per la prima volta il filosofo britannico John Langshaw Austin, “dire è sempre fare” 34 , asserendo con ciò che parlando compiamo delle azioni come il chiedere, l’informare, lo scusarci, il ringraziare. In ultima analisi è rilevante, ai fini del nostro discorso, porre in evidenza come la lingua sia espressione della nostra identità, non solo perché ci permettere di parlare agli altri di noi stessi, di far percepire al gruppo la nostra individualità ma anche perché, in maniera intrinseca ed implicita, è la lingua stessa che parla di noi o, per meglio dire, è il nostro modo di usare la lingua che dà informazioni sulla nostra identità. Dal tono di 33 34 Camilla Bettoni, Usare un’altra lingua: guida alla pragmatica interculturale, cit., p. 18. John L. Austin, Come fare cose con le parole, Marietti, Torino, 1987, p. 7. 36 voce, dal quale è spesso possibile risalire al sesso e all’età dell’interlocutore, per passare alle scelte lessicali, alla pronuncia, la cadenza, all’uso della grammatica e delle strutture delle frasi che produciamo, è possibile rivelare, tra le altre caratteristiche, la nostra provenienza regionale, l’appartenenza etnica, lo status sociale e il livello d’istruzione. E’ possibile, dunque, evincere che la lingua sia un mezzo per descriverci, e che ci descrive, anche quando non la usiamo per parlare di noi. 2.2 La cultura Il termine cultura deriva dal latino colÄ•re, “costruire”, “coltivare”, “curare” ed è, pertanto, generalmente associato all’atto del produrre un qualcosa attraverso l’intervento dell’uomo. Se in senso letterale colÄ•re rimanda all’atto del lavorare la terra, la sua estensione metaforica riconduce, invece, alla coltivazione dello spirito e della formazione dell’individuo. Seguendo questo filone è possibile dedurre come la cultura stessa si coltivi, si crei artificialmente. Nel diciannovesimo secolo alcuni intellettuali europei sostenevano la legittimità del voler opporre il concetto di cultura a quello di civiltà, intendendo con quest’ultima l’insieme dei progressi tecnologici ottenuti nel periodo della Rivoluzione industriale, causa di trasformazioni sociali. La volontà di distanziare cultura e civiltà significava “protestare contro il pensiero illuminista, contro la credenza che il progresso fosse necessariamente benefico, contro gli aspetti deteriori dell’industrializzazione, e contro ciò che Marx chiamava il ‘rapporto monetario’ del capitalismo”,35 principio secondo il quale ogni individuo e oggetto materiale sembrava dover essere valutato su basi economiche. La civiltà era percepita come un agglomerato di fabbriche sprigionanti fumo nell’aria, come un ammasso di persone considerato poco più che un esercito produttore, pezzi di ricambio a sostegno dell’industrializzazione. Tanti uomini e tante donne erano lungi dall’essere a favore di una così fredda minimizzazione dell’animo umano e vedevano nella cultura la chiave di salvezza, la sorgente delle belle espressioni e della 35 Wendy Griswold, Sociologia culturale, il Mulino, Bologna, 2005, p. 17. 37 creatività umana. In questa dicotomia, l’abbruttimento della civiltà era contrapposto alle capacità benefiche e salvifiche della cultura. Matthew Arnold, pedagogo inglese, esaltando il potenziale d’influenza della cultura sul mondo sociale, criticò l’Inghilterra vittoriana per il suo materialismo, per il suo culto delle macchine e dell’industrializzazione. Se da un lato l’ambiente aristocratico, troppo occupato ad allestire “salotti mondani” nelle proprie ville, non avrebbe provveduto alla difesa della società; dall’altro la cultura, con il suo potere salvifico, avrebbe potuto sanarla. La cultura, era per Arnold, lo studio della perfezione e grazie a essa sarebbe stato possibile riconsegnare alla civiltà luce e dolcezza. Soltanto la cultura avrebbe potuto curare le malattie sociali causate dal materialismo sfrenato di quell’epoca, diventando così “l’agente umanizzante che modera le conseguenze più distruttive della modernizzazione.”36 Per Arnold d’importanza primaria era il voler distaccare il concetto di vita quotidiana da quello di cultura, enfatizzando le capacità che quest’ultima aveva di poter influenzare il comportamento umano: questo filone di pensiero era comune a molti studiosi umanistici del tempo; sebbene, a oggi, le discipline umanistiche contemporanee stiano intensamente ripensando questo approccio tradizionale. La teoria arnoldiana può essere sintetizzata sulla base delle quattro caratteristiche principali del suo pensiero. Egli riteneva che: - vi fossero culture e opere culturali superiori ad altre; laddove la cultura aveva a che fare con il concetto di raggiungimento della perfezione. - la cultura opponesse la sua forza illuminante e benefica contro le norme deterioranti della civiltà - la cultura fosse un essere fragile, facile da indebolire e distruggere e che, pertanto, avesse bisogno di essere preservata - la cultura fosse detentrice della salvezza e per questo era necessario conferirle un’aura di sacralità, separandola dall’esistenza quotidiana. 36 Ibidem, p. 19. 38 Nel corso del diciannovesimo secolo, fiorirono alcune nuove discipline dell’antropologia e della sociologia che tentarono di ridefinire un modo di pensare la cultura molto diverso da quello di Arnold, troppo incentrato sull’high culture, che interessava, cioè, solo una cerchia ristretta di eletti. Tra i primi a dar voce a questa nuova espressione e ridefinizione di cultura ci fu Johann Gottfried Herder, un filosofo tedesco che si contrappose duramente al largo consenso trovato dall’etnocentrismo della cultura europea alla fine del diciottesimo secolo. Secondo Herder era impensabile che le classi istruite europee potessero monopolizzare la cultura che, piuttosto, doveva essere una ricchezza non solo fruibile da tutti gli uomini ma per di più visibile in svariate sfumature e rinvenibile in un’eterogeneità di contesti. Difatti, invalidando l’idea di Arnold dell’esistenza di una sola cultura alta, Herder sosteneva che fosse opportuno dover parlare di culture, al plurale, per l’ovvia ragione che ogni nazioni ne avesse una propria e ugualmente meritevole. Per mano di E.B. Tylor fu introdotta nell’antropologia inglese l’idea che la cultura rispecchiasse lo stile di vita di una società, dando così per superato il lungo dibattito cultura versus civiltà, che tanto aveva dato da pensare agli studiosi che lo avevano preceduto: la cultura o civiltà, presa nel suo più ampio significato etnografico, è quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro di una società.37 Quest’ampia definizione della cultura domina da allora le scienze sociali, compresa la sociologia contemporanea. Il sociologo Peter Berger, per esempio, definisce la cultura come “la totalità dei prodotti dell’uomo”, 38 sia materiali che immateriali, sostenendo che la stessa società “non è che parte ed elemento della cultura non-materiale.” 39 A differenza della vecchia scuola umanistica, infatti, gli scienziati sociali tendono a vedere armonia, e non opposizione, tra cultura e società. 37 Ibidem, p. 21 Peter Ludwig Berger, La sacra volta: elementi per una teoria sociologica della religione, SugarCo, Milano, 1984, p. 5. 39 Ibidem, p. 6. 38 39 Nel XX secolo, tra le teorie più influenti troviamo quella dell’antropologo olandese Geert Hofstede, secondo il quale la cultura può essere definita come “the collective programming of the mind which distinguishes the member of one group or category of people from another”. 40 Nel suo modello, proposto nel 1991, Hofstede suggeriva che la cultura avesse una struttura a cipolla, creata da diversi strati in ordine di subordinazione. Il primo di questi livelli era quello dei valori, che rappresentavano il nocciolo interno del sistema, lo strato più nascosto. I valori corrispondevano alle idee degli individui, a come questi credevano che le cose dovessero essere. Il livello successivo ai valori erano i rituali, che riguardavano il come dare e pretendere rispetto; seguivano gli eroi, visti come coloro che fungevano da esempi comportamentali e, infine, il livello più esterno, quello dei simboli come le parole, i colori, gli artefatti arricchiti dei significati che a loro si attribuivano. Il modello di Hofstede si basava su un precedente sistema, molto più “rudimentale”, che descriveva la cultura come composta di due soli livelli: il primo, quello visibile, formato dagli artefatti e un secondo, invisibile, composto dai valori. A distanza di dieci anni un nuovo modello venne proposto dalla sociologa Spencer-Oatey, che introdurrà alcuni altri fattori oltre i valori, artefatti e comportamenti. La studiosa ci descrive la cultura come “a fuzzy set of attitudes, beliefs, behavioural norms, and basic assumptions and values that are shared by a group of people, and that influence each member’s behaviour and his/her interpretations of the “meaning” of other people’s behaviour.”41 La Spencer-Oatey condivide con Hofstede l’idea i valori formino il nocciolo più interno della struttura, il cuore pulsante della cultura stessa. Questo nocciolo è poi attorniato da altri strati, a partire dalle credenze, per seguire con le attitudini e, infine, con le convenzioni. Questi ultimi tre livelli ne influenzano, però, un quarto, quello dei sistemi e delle istituzioni. Un elemento di novità apportato dalla sociologa riguarda soprattutto la differenza tra artefatti e prodotti da un lato, definiti come oggetti non comportamentali, e i rituali dall’altro, considerati come manifestazione del comportamento umano. 40 Geert Hofstede, Culture and organizations: software of the mind, Harper Collins, Londra, 1994, p. 5. Helen Spencer-Oatey, Culturally Speaking: managing rapport through talk across cultures, Continuum, Londra, 2000, p. 4 41 40 Oggi, nell’uso comune il termine “cultura” si caratterizza per l’essere un concetto potenzialmente applicabile a svariati contesti differenti tra loro: cultura come forma di arte, come conoscenze su una disciplina, come l’insieme delle capacità cognitive di un individuo o come l’adozione pratica di un sistema di vita, di un comportamento, di una linea di pensiero o, in termini tecnici, di organisational culture, ossia la maniera in cui i soggetti si muovono all’interno di un’organizzazione attribuendo significati ai loro comportamenti all’interno della stessa. Nel porre come esempio un contesto economico, è possibile affermare come un’azienda operi in an high competitive culture, sottolineando così come la competizione sia un principio condiviso dalla compagnia, un valore impiantato nel cuore del proprio sistema. Il concetto alla base di tutte queste differenti sfumature di significato è quello della condivisione: condivisione di un modus operandi, di un valore, di costumi e tradizioni, conoscenze, principi e comportamenti. 2.3 L’interculturalità: contatto, scambio e conoscenza In passato alcuni studi antropologici tendevano a definire la cultura come un’entità statica, circoscrivibile all’interno di limiti e confini ben tracciabili e immutabili, “in cui le caratteristiche di comunanza e condivisione fossero dominanti rispetto alle differenze interne ai gruppi e alle comunità.”42 Questa tendenza nasceva soprattutto dall’esigenza di voler conferire a tutti i popoli una pari dignità culturale, come risposta rivoluzionaria ai tanti modelli razzisti e imperialisti sviluppatisi alla fine del XIX secolo. Tuttavia, nel corso del tempo le ricerche antropologiche hanno sempre più mostrato di voler rappresentare la cultura come un elemento soggetto a cambiamenti e, pertanto, come un concetto dinamico che, allontanandosi dalla primordiale descrizione di complesso unitario, si ridefiniva come un processo in constante movimento di contaminazione e mutazione. Tra i diversi modi di parlare antropologicamente di cultura, quello forse più tradizionale suggerisce il concetto d’identità culturale, vale a dire la cultura come un valore condiviso da un insieme di persone. 42 Paolo Villano, Bruno Riccio, Culture e mediazione, cit., p.21. 41 L’identità si delinea come il nostro saperci riconoscere e identificare tra gli altri, è quello che caratterizza il nostro quotidiano, è un tratto distintivo che ci descrive anche per il nostro essere parte di un gruppo, parte di una comunità composta da legami fatti di abitudini e tradizioni condivise. “Identità” è ciò che ci distingue, è l’evidenza della nostra diversità; il termine diviene popolare nelle scienze sociali solo a partire dagli anni Cinquanta, come studio dell’individuo e della sua percezione di sé e della società. Secondo i sociologi, la sua formazione avveniva attraverso un processo di identificazione, valeva a dire che l’individuo si conformava alle figure che vedeva intorno a sé, rispetto alle quali si sentiva uguale e con le quali condivideva alcuni caratteri; producendo così il senso di appartenenza a un'entità collettiva. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti d’America si distinsero per alcuni studi sul campo, strettamente collegati con la prospettiva sociologica funzionalista, che evidenziavano il rapporto tra la cultura e il suo carattere nazionale: identità culturale come sinonimo di unione emotiva con gli altri, percepiti come parte del medesimo gruppo. Gli studi americani portarono avanti a lungo il dibattito per decretare su quale piano di analisi l’identità culturale dovesse essere esaminata affinché divenisse strumento di categorizzazione concreto e tangibile, laddove il creare categorie è da sempre stata una necessità dell’uomo legata al bisogno di generare ordine tra le cose che lo circondano. Tenendo a mente il fatto che l’identità culturale fosse principalmente condivisione, ci si poneva il problema di come poter stabilire il dove iniziasse una cultura e ne finisse un’altra o, in altri termini, dove iniziasse e finisse una specifica condivisione culturale. Nel linguaggio comune è usuale sentire espressioni come “cultura latina”, che suggerisce come paesi diversi, quali l’Italia o la Spagna, possano avere una medesima cultura; o addirittura sentir parlare di “cultura europea”: quanto possano effettivamente avere in comune paesi diversi come la Francia, la Germania, la Polonia o il Regno Unito è davvero difficile da stabilire e, pertanto, è difficile decretare un livello di risoluzione definitivo che stabilisca i confini delle differenti identità. Tuttavia, “in more practical 42 terms, national bounderies have been the preferred level of resolution, and therefore countries the preferred unit of analysis”43. I motivi per i quali le nazioni possano essere considerate come un buon metro di misura sono svariati: in primo luogo i confini nazionali sono facili da individuare, così come la nazionalità di una persona è facilmente identificabile e lungi dall’essere elemento di possibili ambiguità; in secondo luogo perché si considera notevolmente più probabile che gli individui provenienti da una stessa nazione condividano tra loro valori e norme, in misura direttamente proporzionale al grado di patriottismo. Se da un lato, come già detto, l’individuo è plasmato dalla propria identità culturale e, quindi, il proprio modo di agire, pensare, parlare è altamente influenzato dal contesto in cui vive, è importante sottolineare che al contempo la cultura non è l’unico fattore che agisce sul suo modus vivendi, ma esistono altri caratteri, definiti dallo psicologo statunitense Harry C. Triandis “subjective culture”. La cultura soggettiva indica come l’individuo non sia schiavo della cultura, ma che ognuno agisce con libero arbitrio e seguendo la propria, personale percezione dell’ambiente che lo circonda con le sue norme, i suoi valori, i suoi modi di pensare e agire. Il concetto d’identità culturale, con il suo diversificarsi sulla base delle nazionalità, richiede, tuttavia, una riflessione sulle possibilità che queste differenze culturali s’incontrino; eventualità accentuata anche grazie al processo d’immigrazione. Questo fenomeno, benché finora mai opportunamente approfondito, è un concetto più volte richiamato e al quale ci si è spesso riferiti ma, anche laddove non vi fossero stati espliciti rimandi, rimane comunque un presupposto di base, un elemento imprescindibile al momento di parlare di mediazione, di lingue, di culture e, ancor più, della loro contaminazione. Le migrazioni sono un fenomeno antichissimo, tanto che molti studiosi sono arrivati al punto di definire gli umani come una specie migratoria; e sono da intendersi come una forma di mobilità territoriale che può avvenire in diversi modi e per diverse ragioni. Con specifico riferimento alla storia moderna e contemporanea, negli anni ‘30 dell’Ottocento, a seguito dello sviluppo industriale, ingenti masse di popolazioni cominciarono i loro primi spostamenti, soprattutto verso le Americhe, in cerca di 43 Stephan Dale, “Intercultural research: the current state of knowledge”, Middlesex University Discussion Paper, n. 26, Gennaio 2004, p. 7. 43 fortuna e migliori condizioni di vita. Un periodo, di libero movimento sul territorio mondiale e scarse regolazioni sugli ingressi, che passerà alla storia come quello delle grandi migrazioni. Tuttavia, nel corso del tempo, questo fenomeno ha visto alternarsi regolazioni più liberali, come quelle negli anni Cinquanta del ‘900, a seguito della seconda guerra mondiale, dovuto alla necessità di ricostruire interi Paesi distrutti dai bombardamenti; a momenti di forti restrizioni, come avvenuto in seguito negli anni Settanta, con il blocco economico causato dallo shock petrolifero del ’74, dove l’immigrazione era contrastata e il rimpatrio fortemente incoraggiato. Oggi, il processo migratorio è un fenomeno che genera dissensi e approvazioni, che spacca in due governi e società civili e che è generalmente controllato da regolazioni più o meno stabili ma di rado sufficienti. Nonostante le politiche tendano alla chiusura e siano applicati diversi controlli, espliciti e impliciti, sia dentro che fuori il territorio nazionale, è difficile contenere una forza così energica come quella dell’immigrazione, specie quando il sistema si fa pieno di cavilli burocratici che non ne permettono una totale. Un esempio può essere il caso dell’Unione Europea che, con l’abbattimento delle frontiere e la possibilità di libera circolazione sul territorio, ha creato delle grandi “brecce” all’interno della sue fortezza; per non parlare dell’impossibilità di limitare alcuni tipi di migrazione, come quelli dovuti ai ricongiungimenti familiari o alle richieste d’asilo. Senza pretesa alcuna di poter esaurire in così poche righe un tema talmente ampio e articolato, mi limiterò nel concludere che, a prescindere dalle logiche politiche più o meno ferventi, la presenza di contesti multiculturali nei diversi Paesi di tutto il mondo è oggi una realtà presente e molto viva. E’ importante, su questo piano, fare una distinzione tra politiche di integrazione e processi d’integrazione poiché, anche laddove non vi fossero specifiche regolazioni nazionali mirate ad agevolare l’ingresso e l’inserimento sociale degli immigrati, spesso i processi d’integrazione avvengono ugualmente come conseguenza, per esempio, di leggi che, senza includere né escludere particolari categorie, coinvolgono indirettamente anche gli immigrati; o anche grazie alle molte attività e iniziative che, pur non essendo di carattere nazionale, conferiscono privilegi agli stranieri a livello locale, attraverso l’impegno di molte associazioni, parrocchie e gruppi di volontariato. 44 Questa realtà multiculturale è vissuta e gestita differentemente nei vari paesi, tanto che possono essere tracciati due tipi di modelli sulla base della gestione del contatto tra diverse culture. In un primo caso, definibile liberale o del laissez faire, le differenze culturali “sono tollerate, ma non favorite da un impegno diretto dello Stato”44, modello tipico degli Stati Uniti; mentre in un secondo caso vengono introdotte “politiche multiculturali esplicite, che implicano la volontà del gruppo di maggioranza di accettare le differenze culturali, modificando di conseguenza comportamenti sociali e strutture istituzionali” 45 , come avviene in alcuni Paesi del Canada e dell’Australia e anche dell’Europa, come Svezia e Olanda. Anche in conformità a questi diversi orientamenti, l’inserimento in un’altra società da parte di uno straniero può portare quest’ultimo a dover ridefinire alcuni aspetti di sé, riorganizzando la delicata struttura dell’identità personale e sociale. Aspetti che, se da una parte entrano in relazione con l’appartenenza alla nuova società, dall’altra sono ancora legati alla tradizione e ai valori della cultura di provenienza. Questa “ridefinizione di se stessi” va sotto il nome di acculturazione, definibile come un processo di cambiamento culturale e psicologico. Gli studiosi ne hanno differenziato quattro livelli, primo fra quali quello dell’assimilazione. Con il termine assimilazione ci si riferisce alla volontà dell’individuo di abbandonare la propria cultura d’origine per assorbire completamente quella della nuova società ospitante. In seconda analisi abbiamo, viceversa, il caso in cui l’apprendimento e il contatto con il nuovo mondo culturale non impedisce il mantenimento di alcuni aspetti della propria cultura di provenienza, processo definito dagli studiosi di integrazione o assimilazione segmentata. I casi presumibilmente più nocivi sono quelli, invece, della separazione e della marginalità. Con il primo l’individuo lotta per il mantenimento totale della propria identità, rifiutando la contaminazione con la cultura ospitante; nel secondo caso, differentemente, il disordine mentale causato dall’esperienza migratoria, porta il soggetto verso uno scarso interesse tanto nel mantenimento della propria identità, quanto al contatto con la nuova realtà, causando a se stesso uno stato di malessere che lo induce verso l’esclusione sociale e il degrado. 44 45 Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, il Mulino, Bologna, 2011, p. 224. Ivi. 45 Nelle casistiche reali gli studi hanno posto un forte accento sulle differenze tra l’Europa e gli USA per le fasi di contatto tra culture diverse. Nel primo dei due casi è possibile riscontrare un doppio modello idealtipo: nel primo, quello strutturalista, si condanna l’immigrato alla discriminazione perenne e all’esclusione dalla società come suo unico destino possibile (caso della marginalità); nel secondo modello, quello neoassimilazionista, si prevede come inevitabile il processo di completa assimilazione. Il panorama degli Stati Uniti è molto più articolato, poiché oltra alla totale assimilazione o al totale fallimento, si fa strada la modalità d’integrazione o assimilazione segmentata, per la quale gli immigrati acquisiscono alcuni aspetti della cultura ospitante pur preservando tratti della propria cultura di origine: un tentativo di acculturarsi, nella maggior parte dei casi di successo, pur non rinunciando alle proprie origini e tradizioni. La predisposizione dell’immigrato nell’accogliere o rifiutare il nuovo sistema sociale, tuttavia, non è sempre l’unico fattore che conta. Il desiderio d’integrazione, per essere realizzato, deve essere sempre ben compensato da una buona disponibilità economica, tale da permettere al soggetto di poter sostenere il costo della vita che per se stesso si auspica. Incrociando, dunque, il livello di benessere economico con la propensione di rinuncia o desiderio di assimilazione, si tratteggiano quattro differenti profili (fig. 3), che rappresentano alcuni possibili sviluppi del processo d’immigrazione. Fig. 3 46 La prima prospettiva, definita in sociologia assimilazione verso il basso o downward assimilation, è quella che prevede una scarsa integrazione economica incrementata dal rifiuto di assimilazione. Lo straniero, pertanto, tenderà a seguire comportamenti devianti, a rifugiarsi ai margini della società, confluendo negli strati svantaggiati della popolazione. Un tipico caso di letteratura, è quello degli immigrati di origine messicana negli Stati Uniti d’America. Il secondo profilo, quello dell’integrazione illusoria, mette a confronto i buoni propositi di assimilazione culturale non supportati, tuttavia, da un’integrazione economica. E’ il caso in cui gli immigrati ispirano ad ottenere modelli di vita simili a quelli dei cittadini autoctoni: dalle scuole per i figli, al vestiario, alle cene nei ristoranti; ma l’acquisizione di tali stili di vita deve poi scontrarsi con la mancanza di strumenti, in termini di risorse e opportunità necessarie per accedere a standard di consumo così elevati. Il terzo modello, quello dell’integrazione selettiva, prevede la possibilità di conservare i propri tratti minoritari pur riscontrando esiti positivi nei processi di inclusione economica. Questa è, difatti, favorita proprio dal mantenimento di legami comunitari e codici culturali propri. Infine, l’assimilazione lineare classica, sinonimo di massima integrazione economica e massima assimilazione culturale: l’immigrato abbandona l’identità ancestrale per immergersi in un totale processo d’inserimento culturale, al quale segue di pari passo un avanzamento socioeconomico. Se fino ad adesso abbiamo posto l’accento sul versante immigrato, è bene ricordare che anche le società riceventi giocano un ruolo decisivo nel permettere questi diversi livelli d’inserimento sociale. Infatti, fin da subito, tramite i processi di socializzazione, gli individui acquisiscono un senso di appartenenza e di legame con altri che si manifesta in solidarietà verso chi è percepito come parte del proprio gruppo e ostilità verso chi è percepito come outsider. Le forme di trattamento discriminatorio influiscono certamente sulle possibilità di inclusione sociale e nascono come diretta conseguenza del pregiudizio. Questo, a sua volta, è generato da alcuni meccanismi, tipici delle menta umana, come quello della classificazione, vale a dire la distinzione in categorie precostituite di tutte le cose, 47 termine da intendere nel suo significato più ampio: dagli oggetti materiali, agli immateriali, alle persone, agli animali. Il problema nasce quando i processi di categorizzazione danno luogo a forme di generalizzazione indebita, che consistono dell’attribuire a tutti i membri di un determinato gruppo sociale (nel nostro caso, etnico) alcuni comportamenti o caratteristiche rilevate o sperimentate, o anche soltanto attribuite a uno o ad alcuni individui di quel gruppo.46 Sono queste generalizzazioni che danno luogo agli stereotipi, delle valutazioni rigide e stigmatizzanti, spesso a base etnica, che finiscono per definire, ad esempio, gli albanesi come “coloro che rubano” o le rumene come “brave badanti”. Dal momento in cui l’immigrato outsider viene ritenuto come facente parte di un gruppo etnico inferiore, è possibile parlare di un altro processo psicosociale, quello dell’etnocentrismo, che distingue l’in-group, ossia il proprio gruppo di appartenenza ritenuto come superiore, dall’out-group, ossia quello esterno e, pertanto, inferiore. Un derivato di questo processo, così come del pregiudizio etnico, è il fenomeno della xenofobia, per il quale un individuo ha un atteggiamento di rifiuto e di paura nei confronti degli stranieri. Questo complesso di atteggiamenti si traduce in quello che Pierre-André Taguieff, uno dei maggiori studiosi del campo, definì come “pensiero razzista ordinario” che consiste “nell’interpretare la distinzione tra Noi e Loro, o tra Noi e gli Altri, come una distinzione tra due specie umane, la prima delle quali – quella dell’enunciatore della distinzione – viene giudicata più umana della seconda, o persino la sola veramente umana tra le due.”47 Max Weber sottolineava nelle sue ricerche sociologiche come il fenomeno del razzismo nasceva soprattutto dalla paura del declassamento e che, pertanto, si manifestava in maniera differente non solo nei diversi paesi e periodi storici ma soprattutto all’interno delle diverse classi sociali. 46 Vittorio Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici. Razzismo, immigrazione e società multiculturale, Laterza, Bari, 1999, p. 211. 47 Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999, p. 60. 48 Attraverso questo pensiero weberiano “si comprende quindi perché manifestazioni più dirette e marcate di pregiudizio razziale e di xenofobia siano usualmente più diffuse nelle classi inferiori della società […], che sono più a contatto con i nuovi arrivati e desiderano distinguersi da loro.”48 Non è, pertanto, l’ignoranza di per sé che genera il razzismo quanto la vicinanza, il contatto autoctono-straniero che porta alla nascita di quel sentimento d’invasione degli spazi, sentimento fomentato dalla percezione di una volontà dell’immigrato a non volersi conformare alle regole della società ricevente. Tra le classi superiori il sentimento di declassamento e la paura della mescolanza sono meno percepiti: si diffondono, così, nella società privilegiata, tipi di razzismo che richiamano l’avvertire l’immigrato come una minaccia per la sicurezza pubblica e la paura per la perdita dell’identità culturale. Quello che in termini di atteggiamento definiamo pregiudizio e in termini ideologici razzismo, può essere definito discriminazione in termini di comportamenti concreti. Per usare le parole di Taguieff, il processo discriminatorio può essere definito come un “trattamento differenziale e ineguale delle persone o dei gruppi a causa delle loro origini, delle loro appartenenze, delle loro apparenze (fisiche o sociali) o delle loro opinioni, reali o immaginarie. Il che comporta l’esclusione di certi individui dalla condivisione di determinati beni sociali”.49 La discriminazione può presentarsi sia in forme esplicite, come nel caso di annunci o attività commerciali che precisano la non volontà di inserire immigrati in specifici contesti 50 ; che in forme implicite, come disposizioni e pratiche sociali che favoriscono alcuni gruppi etnici penalizzandone ed escludendone altri. La discriminazione, il pregiudizio, lo stereotipo sono fenomeni che interessano e influiscono anche sulla comunicazione, creando dei filtri che diventando potenziali deterrenti per le relazioni stesse. A volte possono essere “trasformazioni della realtà sociale che modificano la percezione dei diversi gruppi e l’accettabilità di certe immagini stereotipiche”, dove il colore della pelle, la lingua o la religione diventano 48 Maurizio Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, cit., p. 276. Pierre-André Taguieff, Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti, cit., p. 112. 50 E’, tuttavia, doveroso osservare come molti paesi, Italia compresa, hanno creato leggi ad hoc per proteggere le minoranze etniche dalle forme discriminatorie più evidenti; per quanto, almeno in termini lavorativi, il libero mercato abbia insita la possibilità di generare qualche forma di esclusione. 49 49 delle stigmate, delle forme di violenza simbolica che riducono le prospettive di possibili ed eventuali rapporti interculturali. Questi rapporti avvengono nel momento in cui due o più culture entrano in contatto, anche con la possibilità che si influenzino, si condizionino dando vita a culture ibride (C3), nate dalla contaminazione tra la cultura principale dell’individuo (C1) e quella nuova con la quale il soggetto entra in contatto (C2). Questi ambienti di fusione possono essere definiti come contesti biculturali. Il biculturalismo, per un individuo, equivale al partecipare alle manifestazioni di due culture e “sarà tanto più marcato quanto più numerose saranno le manifestazioni di C1 e C2 condivise”51. In questo senso si può affermare che è possibile avere un’identità biculturale, dove quella monoculturale è messa in crisi dall’incontro/scontro con la C2. Un interessante inquadramento sulla percezione della propria identità, di tipo mono o biculturale, è stato teorizzato dallo studioso Edward T. Hall nel 1983. Hall, nel parlare di cultura, riteneva indispensabile dover introdurre il concetto di subconscio; infatti, secondo lo studioso la cultura era paragonabile “to an invisible control mechanism operating in our thoughts. We become only aware of this control when it is severely challanged, for example by exposure to a different culture”52. La cultura è un valore innato e per questo spesso non la percepiamo fin quando non è posta a giudizio, diventando, così, oggetto d’analisi. Un proverbio inglese recita “A man who has never travelled thinks his mama’s cooking is the best”; è quello che accade anche con la cultura. Bisogna imparare a guardare al di fuori dei propri confini, perché la cultura è ovunque, ma spesso non la si riconosce come tale fino a quando non ci si avventura in luoghi (e attraverso culture) da noi sconosciuti. Quando la nostra impostazione mentale, fatta di valori, norme, modi vivere e pensare – altrimenti definibile come “la nostra cultura” – si scontra con impostazioni mentali differenti, può capitare che l’individuo metta in discussioni i propri meccanismi di controllo, prendendo consapevolezza del fatto che possano esisterne altri e dando, così, vita all’interculturalità. 51 Camilla Bettoni, Usare un’altra lingua: guida alla pragmatica interculturale, cit., p. 57. Stephan Dahl, Intercultural Research: The current state of knowledge, http://www.dialogin.com/fileadmin/Files/User_uploads/Intercultural.pdf 52 50 at 2.4 Intercultura e comunicazione Ciò che forse maggiormente accomuna la cultura e la comunicazione è il senso della condivisione: se quest’aspetto è stato già ampliamente discusso in relazione alla cultura, nei confronti della comunicazione è possibile evidenziarlo fin da subito semplicemente risalendo all’etimologia del termine. Comunicazione deriva, infatti, dal latino communis, “comune”, “condiviso”; che a sua volta ha la stessa radice di communio, ovvero “unione”. Una successiva scomposizione della parola ci porta ad ottenere cum e moenia, ossia, rispettivamente, “con” e “mura”, termini che richiamano lo stare all’interno delle stesse mura, indicando, così, chi condivide una medesima situazione. La comunicazione può essere, pertanto, pensata come un momento di compartecipazione, un processo che crea e condivide informazioni attraverso l’utilizzo di uno o più codici. Una sua primordiale definizione, ben diffusa nel senso comune, è quella che si limita a descriverla come una trasmissione di informazioni e che prevede, pertanto, il passaggio di un messaggio da un emittente verso un ricevente. Tuttavia, per quanto corretto sia, questa descrizione sembra riduttiva e soggetta a possibili critiche laddove se ne considerino i limiti. Infatti, intesa come mera trasmissione, la comunicazione si delinea come un processo unidirezionale, con un destinatario passivo che rappresenta, non un potenziale “donatore” di nuove informazioni, quanto un bersaglio del parlante. Non viene, inoltre, considerato il fattore contesto, come se fosse ininfluente in termini di ricezione del messaggio, né si menziona quest’ultimo come suscettibile a variazioni d’interpretazione ma lo si consideri come un pacchetto che, passando attraverso un canale, non ne risulta, da questo, modificabile e viene scartato dal ricevente che ne coglie gli unici e possibili significati contenuti. Tuttavia, la comunicazione non è, o per lo meno non è sempre, così semplice e diretta, specie quando si parla di comunicazione interculturale. Una definizione più completa e chiara è stata data, tra gli altri, dallo studioso Luciano Paccagnella, che definisce la comunicazione come un “ processo di 51 costruzione collettiva e condivisione di significato, processo dotato di livelli diversi di formalizzazione, consapevolezza e intenzionalità.”53 In altri termini, questo processo di costruzione collettiva può essere tradotto come processo dialogico. Dialogo è un termine di origine greca, formato dalla preposizione dià, che indica la separazione, la discordanza; e il verbo légein, con il significato sia di “parlare” che di “legare”, “raccogliere”. Seguendo il percorso etimologico, è possibile definire il dialogo come un processo attraverso il quale “si lega ciò che è separato, si uniscono i diversi.” 54 L’elemento chiave del dialogo è, molto probabilmente, quello dell’alterità: la differenza come elemento di ricchezza che, attraverso l’instaurarsi di una relazione e il processo di ascolto, trasforma il ricevente in interlocutore con il riconoscimento del ruolo attivo di entrambi i soggetti attraverso l’elemento della reciprocità. “Attraverso il dialogo è possibile non soltanto lo scambio di informazioni che arricchiscono la conoscenza, ma anche la costruzione cooperativa di un mondo comuna attraverso lo scambi di simboli”.55 E’, quindi, possibile stabilire che alcuni degli elementi-chiave della comunicazione, intesa come dialogo, sono il suo essere processo bidirezionale, dove lo scambio di informazioni avviene attraverso il contributo di tutti i partecipanti che, in rapporto paritetico, sono ritenuti interlocutori a pieno e pari titolo e soprattutto considerati come soggetti concreti e individuali, senza che intervengano categorizzazioni, pregiudizi e stereotipi. Si presuppone, infine, che i partecipanti condividano il medesimo lasso di tempo, laddove la condivisione dello stesso spazio non è più condizione necessaria grazie alle nuove frontiere tecnologiche nel campo della comunicazione. Al momento di intrecciare un rapporto tra cultura e comunicazione, alcuni studiosi hanno precisato come, soprattutto con l’avvento della globalizzazione, ogni interazione è diventata, in un certo senso, interculturale, questo perché, come ricorda l’antropologo svedese Ulf Hannerz, ogni persona, per le proprie caratteristiche fisiologiche, per le influenze culturali, per le esperienze e le relazioni che caratterizzano la sua biografia 53 Luciano Paccagnella, Sociologia della comunicazione, il Mulino, Bologna, 2004, p. 27. Chiara Giaccardi, La comunicazione interculturale, il Mulino, Bologna, 2005, p. 15. 55 Ivi. 54 52 costruisce un proprio particolare punto di vista sul mondo, che non può mai essere esattamente corrispondente a quello di qualcun altro. Naturalmente la condivisione di un contesto culturale ed esperienziale facilita la comprensione reciproca, ma nello stesse tempo resta inevitabilmente uno scarti tra le diverse prospettive.56 Molti studiosi hanno creato così le condizioni strutturali per l’assioma della comunicazione interculturale: a partire dal concetto di “villaggio globale” si è teorizzata l’impossibilità del non comunicare interculturalmente, poiché il contatto con “l’altro” è inevitabile, così come lo è scambio di culture. Sotto il profilo culturale, il villaggio globale, edificato dai nuovi mezzi di comunicazione - dalle televisioni satellitari ai collegamenti internet - ha reso possibile la comunicazione istantanea al di fuori dei confini locali, apportando un intreccio di culture differenti, che ora si arricchiscono scambievolmente ora competono alla ricerca di una qualche forma di supremazia. “La globalizzazione trasforma la vita quotidiana e, di conseguenza, mobilita movimenti locali di resistenza che difendono le tradizioni locali contro l’intrusione di idee straniere e problemi globali; il nazionalismo, i movimenti etnici, le mobilitazioni religiose, il fondamentalismo islamico sono stati visti come una reazione a questo processo.”57 Tuttavia, non per forza il globale e il locale devono essere visti come due concetti antitetici, ma piuttosto come due differenti sfumature di una stessa dimensione; a questo proposito il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha dato vita all’idea di “glocalizzazione”, come un fenomeno che polarizza la mobilità, attraverso “quella capacità di usare il tempo per annullare la limitazione dello spazio”58: globale e locale, quindi, quali due facce della stessa medaglia. Per la glocalizzazione, il cuore pulsante di ogni società, a prescindere dall’epoca e dalla nazione, è la comunità locale, intesa come un insieme di individui interagenti e organizzati in gruppi sempre più allargati e complessi che, a loro volta, generano delle sovrastrutture, dei soprainsiemi. Quello che si origina è un modello di sistemi e 56 Ulf Hannerz, La complessità culturale, il Mulino, Bologna, 1998, p. 53. Pietro Fantozzi (a cura di), Potere politico e globalizzazione, Rubbettino Editore, Catanzaro, 2004, p. 209. 58 Zygmunt Bauman, Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Roma 2005, p. 346. 57 53 sottosistemi, relazionati e orientati dal micro verso il macro, dall’individuo verso il mondo. La glocalizzazione, infatti, fonda la propria “filosofia” sull’analisi dei sistemi semplici che conducono verso quelli più complessi, mentre la globalizzazione viene messa in discussione per il suo favorire i sistemi complessi tralasciando le loro relazioni con le entità minori. Nel 1997, dalla cooperazione tra due importanti studiosi di comunicazione interculturale, William Gudykunst e Young Yun Kim, prese vita un’interessante teoria che definirono “Communicating with strangers”. Gudykunst e Kim elaborarono questo pensiero intorno al concetto di “straniero”, definito come un qualsivoglia individuo che appartenga ad un gruppo differente dal nostro e che sia, in qualche forma e misura, a noi sconosciuto. I due studiosi affermano che tutte le comunicazioni hanno un certo grado di interculturalità proprio poiché due individui condividono sempre un certo grado di estraneità: “The difference between your interaction with a colleague at work who shares your ethnicity and language, and your interaction with a visiting Inuit who shares neither, is not qualitative difference, just a question of the degree of strangeness.”59 Le teorie empiriste che avevano preceduto i due studiosi sostenevano la differente natura della comunicazione interetnica da quella intraetnica, ma Gudykunst e Kim aprirono la strada ad una differente concezione della cultura, come un fenomeno che opera a tutti i livelli. Gli autori suggerirono, per questo, quattro tipi di fattori che influenzano il processo comunicativo: - Cultural influences: includono valori, norme e regole concepite come “sets of expected behaviors for particular situations”60; - Sociocultural influences: relazionate, come le prime, alle norme e alle regole ma non dirette alla situazione quanto al ruolo sociale degli interlocutori; 59 Matthew Scott, Grant Sherson, Intercultural communication as a dominant paradigm, Victoria University, Wellington, 1999, p. 7. 60 William Gudykunst , Young Yun Kim, Communicating with strangers: an approach to intercultural communication, McGraw-Hill, New York, 1997, p. 47. 54 - Psychocultural influences: derivano non tanto dalla cultura o dalla società quanto dalle esperienze personali; - Environmental influences: relazionate alle nostre aspettative comportamentali. L’aspetto interculturale, al momento di relazionarsi con la comunicazione, trascina con sé tutta una serie di inevitabili conseguenze. La comunicazione interculturale ha, difatti, delle caratteristiche molto peculiari dovute a come le differenti culture interagiscono tra di loro e gli effetti che hanno sulle diverse situazioni. E’ possibile evidenziare come quest’ultime siano percepite delle persone sulla base della propria cultura di appartenenza che, inevitabilmente, condiziona la relazione con gli altri. Per questo il mediatore culturale, prima che buon interprete, deve essere un ottimo conoscitore delle culture che entrano in contatto e del loro modo di percepire la comunicazione. Queste competenze possono essere racchiuse nel concetto di competenza comunicativa che comprende, a sua volta, diverse abilità: - competenza linguistica, ossia la capacità di produrre ed interpretare segni verbali - competenza paralinguistica, ossia capacità legate alla prosodia - competenza cinesica, ossia il saper comunicare attraverso segni gestuali - competenza prossemica, ossia il saper variare il rapporto con lo spazio (inteso come distanza con l’interlocutore) - competenza performativa, ossia capacità di usare atti linguistici e non per raggiungere degli scopi - competenza pragmatica, ossia la capacità di adeguare segni linguistici e non alla situazione - competenza socioculturale, ossia il saper riconoscere le situazioni sociali, insieme alla capacità di carpire significati ed elementi proprio di una specifica cultura. L’insieme delle percezioni di tutte queste competenze, vale a dire il come un soggetto riceva o produca un enunciato verbale, il come usi la gestualità, come viva il 55 rapporto dello spazio con il suo interlocutore e così via, formano il modello mentale comunicativo di una persona. Modelli mentali appartenenti a una stessa cultura di riferimento riescono ad avere molto elementi comuni e la comunicazione, in questo senso, è avvantaggiata. Quando le culture sono differenti, tuttavia, i meccanismi che si innescano possono creare difficoltà di diverso tipo come, ad esempio, il cosa dire e il cosa evitare o escludere all’interno di un discorso. A dispetto di conoscenze universalmente riconosciute, poniamo ad esempio il sapere che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America, molti altri elementi possono essere dati per scontati in una cultura ed essere, invece, totalmente estranei in un’altra: in una comunicazione interculturale come facciamo a comprendere quali parole o significati usare e quali invece tacere per evitare fraintendimenti e interruzioni di comunicazione? […] Il caso più banale è quando si presuppone che abbiamo credenze (conoscenze, atteggiamenti) in comune con altri membri della stessa cultura. Anche l’atto di conoscere personalmente e intimamente altre persone, come i genitori o amici, solitamente implica che conosciamo il modello concreto di informazioni di cui disponiamo, in modo da non dover esprimere nel discorso quella informazione.61 L’abilità del mediatore è proprio quella di riuscire ad intervenire per colmare queste asimmetrie informative. In situazioni interculturali, pertanto, è necessario essere consapevoli ed informati su quelle che possono essere definite come le basi della comunicazione interculturale. La letteratura è storicamente concentrata maggiormente sugli stili di interazione, inglobando le componenti verbali e non verbali, la mimica e le norme che influenzano la comunicazione. A livello di comunicazione verbale è, senza alcun dubbio, l’abilità linguistica che svolge un ruolo di primaria importanza. La scarsa padronanza della lingua della società dominante può essere causa di malessere e stress psicologico: è importante parlare bene per inserirsi all’interno di un nuovo contesto. A livello non verbale, i gesti, lo sguardo, la postura devono essere tutti elementi con i quali lo straniero deve familiarizzare. Questo non implica necessariamente un 61 Paolo Villano, Bruno Riccio, Culture e mediazione, cit., p. 63. 56 processo di acculturazione da parte del migrante, ma una dinamica di reciproca conoscenza e mutuo rispetto. Un problema fondamentale da studiare nella cinesica è quello de confine esatto tra movimenti, espressioni e atti istintivi, rispetto ai numerosi codici cinesici basati sulla cultura che quindi devono essere appresi come qualunque sistema simbolico arbitrario inventato […] Molto di ciò che acriticamente veniva […] attribuito a risposte innate ereditarie può oggi essere chiaramente visto come risposte apprese culturalmente.62 Sebbene molti autori riconoscano la presenza di espressioni facciali universali, dove la loro correlazione con specifici stati d’animo è riconosciuta a livello mondiale, quello che differisce è la loro pertinenza nelle svariate situazioni, che, invece, varia da cultura a cultura. E’ quest’ultima, infatti, che stabilisce gli standard di utilizzo e la sua influenza sulla comunicazione non verbale può essere considerata secondo due prospettive: nella prima prospettiva, la cultura tende a determinare il comportamento non verbale che rappresenta o esprime simbolicamente specifici pensieri, sentimenti o stati di chi comunica. In questo caso, ciò che può costituire un gesto di saluto in una cultura potrebbe rilevarsi un gesto osceno in un’altra. O ciò che è considerato un segno affermativo in una cultura può essere privo di significato, o addirittura significare negazione in un’altra. Nella seconda prospettiva, la cultura determina quando è appropriato mostrare o comunicare diversi pensieri, sentimenti o stati d’animo; questo è particolarmente evidente nell’esternazione delle emozioni. Sebbene non sembrino esistere macroscopiche differenze interculturali nel compramento non verbale che rappresenta gli stati emozionali, possono esistere differenze culturali significative nella specificazione di quali differenze possono essere mostrate, chi può mostrarle e come esse possono essere mostrate. 63 62 63 Weston La Barre, Paralinguistica, cinesica e antropologia culturale, Hayer e Bateson, 1970, p. 283. Chiara Giaccardi, La comunicazione interculturale, cit., pp. 60-62. 57 Alcuni dei problemi che derivano da una non corretta comunicazione possono essere, ad esempio, i fraintendimenti. La comunicazione non riuscita o miscommunication può presentarsi sotto diversi aspetti. Abbiamo il caso del misunderstanding, ovvero l’errata comprensione di un enunciato o di un’intenzione da parte di chi ascolta o una misrepresentation, vale a dire un’errata elaborazione dell’enunciato, a livello di pronuncia o di intenzioni, da parte del parlante. Parallelamente a queste caratteristiche più individuali, è possibile identificare elementi di carattere più sociale, come gli effetti negativi sulla comunicazione apportati da pregiudizi e stereotipi. A livello di mediazione, è importante percepire “il mediatore e la mediazione come un servizio, attraverso e grazie al quale si aprono spazi di dialogo e di soluzioni riflettendo sul caso e su di sé, sulla cultura dei migranti, ma anche sulla propria, sui propri schemi mentali e i propri pregiudizi.”64 2.4.1 Edward E. Hall: l’alba di una nuova disciplina La nascita, come disciplina, della Comunicazione Interculturale si fa risalire alla fine della seconda guerra mondiale. Di matrice anglosassone, la sua prima funzione fu meramente strumentale, vale a dire che serviva per il potenziamento degli interventi di sviluppo in quello che era allora definito il Terzo Mondo. Senza le pretese per la costituzione di una disciplina autonoma, i primi ragionamenti e le prime riflessioni sui contatti interculturali, e la loro influenza sul processo comunicativo, si concretizzarono in Occidente con l’avvento della modernità: i progressi tecnologici, come i treni, la stampa e il cinema, così come i processi di urbanizzazione, a seguito della rivoluzione industriale, furono i maggiori fattori che rinvigorirono i rapporti tra le culture e accrebbero la consapevolezza sui problemi che questi avrebbero potuto generare. Nel XX secolo, una delle scuole più influenti sul tema dell’interculturalità fu la cosiddetta Scuola di Chicago, sorta nel 1892. Negli anni ’20 del Novecento, la ricerca creò delle basi piuttosto solide per lo studio delle diversità culturali, di cui William Thomas e Florian Znaniecki, con il loro Il contadino polacco in Europa e in America, 64 Paolo Villano, Bruno Riccio, Culture e mediazione, cit., p. 96. 58 ne rappresentano uno degli esempi più alti e concreti. Nell’opera, che trattava di una ricerca condotta su contadini polacchi emigrati, i due studiosi evidenziavano come la cultura di provenienza influenzasse la ricezione e la comprensione di un messaggio prodotto nel contesto di arrivo. Sulla base di questi studi, Thomas delineò la teoria dell’uomo marginale, inteso come colui che “sperimenta un’incongruenza tra il sistema culturale della comunità da cui proviene e quello della società di arrivo, vivendola come una duplice perdita: di status, ossia di riconoscimento del proprio gruppo, e di senso del proprio sé, ossia di riconoscimento del suo ruolo all’interno del gruppo.”65 Discepolo di questo filone di pensiero, così come della Scuola di Chicago, sarà anche Robert E. Park, accademico e giornalista, che teorizzò la nozione della distanza sociale, quale “grado di vicinanza e/o lontananza, e il senso di familiarità e/o estraneità che accompagna [l’individuo], tra soggetti sociali appartenenti a diverse culture (per razza, etnia, religione, occupazione ecc.).”66 Come anticipato, queste teorie e scuole di pensiero altro non costituirono che la fase preliminare di quella che ancora non poteva essere definita una disciplina autonoma e che non lo sarebbe diventata fino, almeno, alla fine degli anni ’40. A seguito della seconda guerra mondiale, infatti, gli Stati Uniti si fecero promotori di un’opera di ricostruzione e di rinascita dello sviluppo economico di alcune nazioni fortemente ferite dai conflitti. Gli USA promossero piani a sostegno di tanti paesi del Sudamerica, dell’Africa e dell’Asia, attraverso l’invio di “finanziamenti, tecnologie, professionisti per l’alfabetizzazione degli adulti, il miglioramento delle condizioni di salute, l’incremento della produttività agricola, la costruzione di centrali idroelettriche e di mulini in acciaio.”67 Tuttavia, molti di questi programmi fallirono a causa dell’inettitudine di molti dei funzionari americani, completamente disinformati sulla cultura e sulla lingua dei paesi interessati. Come sottolinearono, difatti, Rogers e Steinfatt, sociologi americani, a quel tempo, gli Stati Uniti erano la potenza mondiale leader, ma i suoi diplomatici erano inefficienti. Raramente conoscevano la lingua delle 65 Loredana Sciolla, Sociologia dei processi culturali, il Mulino, Bologna, 2002, p. 24. Chiara Giaccardi, La comunicazione interculturale, cit., pp. 34. 67 Everett M. Rogers, Thomas M. Steinfatt, Intercultural communication, Waveland Press, Illinois, 1999, p. 60. 66 59 nazioni presso le quali erano assegnati e non avevano alcuna comprensione delle diverse culture. Il Dipartimento di Stato fondo allora il Foreign Service Institute (FSI) allo scopo di preparare i propri diplomatici.68 Quando, nel 1946, si fondò questo Istituto, non si era ancora consapevoli della direzione che questa iniziativa avrebbe preso e dell’azione di assesto disciplinare che portò, poco più di dieci anni dopo, Edward T. Hall alla pubblicazione della sua opera The Silent Language, che sancì la nascita della Comunicazione Interculturale quale disciplina autonoma, con una propria valenza scientifica. Il Foreign Service Institute contava sulla collaborazione di molti docenti, tra cui linguisti, con esperienze molto valide alle spalle, come quella dell’istruzione dei soldati durante la guerra, e antropologi. Tra questi, figurava proprio Hall che, sensibile alle tematiche dell’inconscio di stampo freudiano, operò mettendo in evidenza gli aspetti microculturali della comunicazione, spesso usati inconsapevolmente, con particolare enfasi sulla gestualità, la postura, l’uso della voce e dello spazio. Per Hall la contaminazione tra cultura e comunicazione era qualcosa di inevitabile e considerava la comunicazione come “il cuore della vita e della cultura stessa”.69 L’intreccio tra questi due elementi è evidente, in primo luogo perché le manifestazioni culturali sono costituite nella maggior parte dei casi da eventi comunicativi, come ad esempio i riti o le celebrazioni, e poi perché la cultura può sopravvivere solo se comunicata, se trasmessa tra gli attori sociali. L’elemento interculturalità è, anch’esso, intrinseco nel concetto di cultura stesso, poiché la cultura si tramanda e, nell’essere tramandata, subisce delle diverse interpretazioni, delle contaminazioni e così, inevitabilmente, si modifica. Nel 1959, Hall pubblicò il suo volume The Silent Language, oggi considerato come il documento fondativo della nuova disciplina. Nel testo, Hall accreditata una grande importanza a Benjamin Worf, un linguista e antropologo statunitense di origine tedesca, che, per prendere in prestito le parole dello stesso Hall, “usando il linguaggio come oggetto delle proprie ricerche, offrì un contributo originale sulle regole implicite 68 69 Ibidem, p. 39. Edward T. Hall, La dimensione nascosta, Bompiani, Milano, 2001, p. 11. 60 che controllano sia il pensiero che il comportamento.” 70 Hall, infatti, si concentrò a lungo sull’importanza della comunicazione non verbale, ritenendo che esistesse una tipologia di comunicazione che è al di fuori della nostra consapevolezza e affidando l’interpretazione della cultura a chi la riceve. Il linguaggio verbale, per Hall, era soltanto uno dei mezzi per comunicare; la cultura stessa è comunicazione: la gestualità, le posizioni del corpo, le tradizioni, i tabù, gli usi e i vestiti appartengono tutti al linguaggio silenzioso dei comportamenti. A partire dagli anni Sessanta, inizierà tutta una serie di studi successivi, tra i quali quelli dedicati alla prossemica, termine derivante dall’inglese proximity che fu coniato dallo stesso Hall, nel 1963, a denominazione di una nuova disciplina interessata allo studio dell’uso dello spazio nel rapporto interpersonale. La prossemica di Hall si muoveva su tre grandi livelli: - Infracultura, che riguarda i comportamenti radicati nel passato biologico della specie e interessa la territorialità, il controllo del popolamento, la tendenza a occupare, difendere e circoscrivere uno spazio critico che garantisca sicurezza e sopravvivenza. - Precultura, che interessa la base fisiologica comune a tutti gli esseri umani nelle sue variazioni culturali, tali per cui persone educate in ambiti diversi vivono in mondi percettivi diversi (ad esempio, comportamenti di contatto e di non contatto, rimozione/valorizzazione dell’olfatto). - Microcultura, che interessa i modi in cui ogni gruppo e cultura strutturano lo spazio e attribuiscono valore simbolico alle sue configurazioni. Questo livello investe l’organizzazione degli ambienti privati, pubblici e di lavoro, i processi relazionali e comunicativi.71 Nel 1966, ad opera dell’Università di Pittsburg, si inaugurò il primo corso di comunicazione interculturale, ma sarà solo nel pieno degli anni Settanta che si assisterà alla realizzazione di un vero e proprio corso di dottorato, presso l’Indiana University, negli Stati Uniti d’America. Da qui in poi, infatti, la disciplina cominciò ad arricchirsi di molteplici studi, ai quali seguirono altrettante numerose pubblicazioni di libri, riviste e 70 71 Edward T. Hall, Il linguaggio silenzioso, Bompiani, Milano 1969, p. 121. http://www.regione.vda.it/istruzione/Pubblicazioni/ecole_valdotaine_archives/81/58.pdf 61 testi universitari. E’, quindi, a partire da questi anni che si comincerà a parlare di comunicazione interculturale come disciplina istituzionalizzata. Questa ufficializzazione venne data anche grazie ad alcuni lavori, tra cui American Cultural Patterns: a crosscultural perspective di E.C. Stewart, che “indicavano come la comunicazione interculturale fosse ormai riconosciuta come un ambito disciplinare autonomo.”72 Fu in questo contesto che Hall pubblicò una delle sue opere più importanti, “Beyond Culture”, nel 1976, dove tracciò la famosa distinzione tra le culture fortemente contestualizzate e quelle con un basso tasso di contestualizzazione. “Culture tells a person what to pay attention to and what to ignore”73: su questo postulato di base si muove tutta la teoria di Hall basata sui contesti e le culture. L’ambiente che ci circonda, il detto e il non-detto, ciò che fisico e ciò che è immaginato, tutti sono elementi che condizionano e influenzano il messaggio comunicato, poiché, come più volte ribadito, la comunicazione non interessa solo la lingua parlata. Se così fosse, basterebbe uno dei tanti programmi capaci di tradurre le parole e di trasportare le regole grammaticali da una lingua ad un’altra; ma ciò che inevitabilmente si perderebbe sarebbe il contesto che, invece, assume un ruolo decisivo nell’interpretazione di un messaggio. Per usare le parole di Hall, “the real meaning of a message comes through the context.”74 Nel distinguere l’high-context culture dalla low-context culture, Hall ci dice che the high and low context concept is primarily concerned with the way in which information is transmitted, that is to say communicated. […] High context transactions feature pre-programmed information that is the receiver and in the setting, with only minimal information in the transmitted message. Low context transactions are the reverse. Most of the information must be in the transmitted message in order to make up for what is missing in the context.75 Pertanto, se le culture altamente contestualizzate inseriscono pochi elementi nel messaggio comunicato, poiché la maggior parte di essi sono già stati interiorizzati dal 72 Chiara Giaccardi, La comunicazione interculturale, cit., p. 40. Edward T. Hall, Beyond Culture, Anchor Press, New York, 1976, p. 85. 74 Ibidem, p. 86. 75 Ibidem, p. 101. 73 62 ricevente, nelle culture poco contestualizzate il messaggio trasmesso si fa più diretto, poiché un maggior numero di elementi ha bisogno di essere espresso dal parlante. Questo tipo di comunicazione, più esplicita, avviene in particolar modo nelle situazioni di comunicazione interculturale poiché la porzione di background condivisa è davvero minima, in certi casi nulla. L’evento comunicativo, inoltre, può essere complicato nel momento in cui le culture che si incontrano appartengono l’una al caso dell’alta contestualizzazione e l’altra al caso della bassa. In queste situazioni il dire, il cosa dire, il cosa tralasciare e il cosa erroneamente si pensa possa essere tralasciato portano ad inevitabili fallimenti comunicativi. Hall lavorò per diversi decenni allo studio della comunicazione interculturale ma, essendo stato il pioniere di questa disciplina, il suo lavoro, per quanto oggi ancora fortemente utilizzato, è stato, negli anni a seguire, posto in discussione. Ciò che sicuramente si deve riconoscere ad Hall è il fatto di essere riuscito a creare un mezzo attraverso il quale osservare e comparare le culture, ponendo un accento sulle dinamiche dell’uso dello spazio, del tempo, del movimento del corpo o dello sguardo come espressioni di messaggi non trasmissibili attraverso il linguaggio parlato. Tuttavia, il punto debole di Hall risiede nella mancanza di dati statistici ed empirici che non permette di poter definire una data cultura come high-contexted o lowcontexted. Inoltre, l’idea di categorizzazione di Hall, nata da un’iniziale osservazione sugli animali e solo successivamente adattata al comportamento umano, presuppone che l’uomo, in risposta ad uno stimolo, debba comportarsi in una prescritta maniera senza possibilità di variazioni poiché “humans are all of the same species so […] one might expect all members of that species to operate in similar fashion”.76 Inoltre, Hall non teneva in considerazione il fatto che, al contrario degli animali, gli uomini possono essere in grado di nascondere i propri sentimenti, per cui un individuo offeso non deve necessariamente mostrare i suoi sentimenti feriti, ma è capace di nasconderli, mascherarli. Per questo è vero che “humans within a certain culture tend to behave a certain way, according to the script of their culture, but they 76 http://culturnicity.files.wordpress.com/2011/04/et-hall-cultural-paper.pdf 63 cannot be said to be bound to action by an uncontrollable biological impulse”77, come avviene, contrariamente, negli animali. Gli anni Ottanta rappresentarono un’ulteriore tappa di affermazione di questa disciplina; un periodo di riorganizzazione, dove, grazie soprattutto agli studi di Geert Hofstede, si cominciò a delineare un prospetto sull’avanzamento della disciplina, che focalizzava sempre più lo stretto rapporto tra il linguaggio, la cultura e la comunicazione. Gli anni Novanta, invece, segnarono in definitiva il periodo della maturità, dove si tratteggiarono nuovi interessi di studio, come nel campo della comunicazione non verbale. La storia di questa disciplina vede, quindi, lo sviluppo di tematiche nate dall’esigenza di formazione comportamentale di quei diplomatici americani considerati troppo incompetenti nelle loro missioni estere, per arrivare ad uno studio molto più approfondito e ampio che vede questa disciplina affondare le proprie radici nell’antropologia, per poi essere riconosciuta come un ambito specifico entro gli studi della comunicazione. Oggi, di fatti, rispetto alle prime fasi, questa disciplina si è concentrata su caratteri che appartengono a quella che è stata definita come la comunicazione interculturale di secondo livello, che prende in esame “la questione della reciprocità, il mettersi nella prospettiva dell’altro, il tema del potere, delle asimmetrie, l’attenzione ai nuovi contesti culturali, piuttosto che (le) singole situazioni comunicative.”78 77 78 Ivi. Chiara Giaccardi, La comunicazione interculturale, cit., p. 44. 64 3. Lo strumento visivo e la visual culture Nel campo della comunicazione, lo strumento visivo si presenta come un mezzo in grado di rendere la trasmissione del messaggio più diretta ed efficace. Si considera un elemento visivo tutto quell’insieme di segnali che stimolano e ampliano il processo comunicativo, permettendo l’acquisizione di ulteriori informazioni attraverso l’uso della vista. Ne sono un esempio i segnali inviati dal linguaggio corporeo o quelli che ci arrivano direttamente dall’ambiente, come la collocazione degli spazi e degli oggetti. L’efficacia della comunicazione visiva, chiamata a volte anche iconica poiché basata sull’uso dell’immagine, è permessa dal suo essere in grado di rendere la trasmissione di un messaggio più fluida e chiara, di richiamare l’attenzione del ricevente e di supportare i passaggi tra differenti tematiche. Sebbene lo studio del mezzo visivo sia di origine relativamente recente, l’inizio del suo utilizzo va fatto risale al Paleolitico, quando lo sciamano dipingeva animali sulle pareti delle caverne come elemento di buon auspicio per la caccia. Questi dipinti rupestri rappresentano la forma più antica di comunicazione visiva, riflessi di emozioni e percezioni che ci hanno aiutato a comprendere il modo di pensare di un'intera epoca. L’osservazione delle immagini è spesso un’azione direttamente riconducibile a quella della decifrazione dei simboli, attraverso la quale i segni si convertono rapidamente in idee o concetti anche complessi. Tuttavia, non sempre i simboli utilizzati hanno un'interpretazione univoca universalmente riconosciuta: ogni cultura ne produce di propri e questo può rischiare di diventare un ostacolo che limita l’efficacia del messaggio e altera lo scopo della comunicazione. Il XX secolo è stato lo scenario di una delle più grandi crisi epistemologiche, conosciuta come “la crisi della rappresentazione”. Questa definizione fu coniata dagli studiosi George Marcus e Michael Fisher in risposta al postulato cartesiano secondo il quale la rappresentazione della realtà doveva avvenire attraverso l’uso esclusivo del linguaggio verbale. Marcus e Fisher ponevano, invece, l’accento sull’inadeguatezza dell’uso unico di questo mezzo per la descrizione della realtà sociale, non solo perché spesso le situazioni erano “unquantifiable but also difficult to convey in words.”79 79 Antonio Bautista, Laura Rayón, Ana de las Heras, “Value of audivisual records in intercultural education”, Comunicar, n.39, XX, 2012, p. 170. 65 La seconda metà del XX secolo vedrà, così, nascere una disciplina denominata antropologia audio-visuale, interessata allo studio dell’uso di fotografie, suoni e video. L’obiettivo cardine di questa disciplina è quello di decodificare la cultura attraverso le sue forme visibili, analizzando quei processi che portano l’uomo a gestire e modellare l’ambiente, i luoghi in cui vive, gli edifici che crea e gli oggetti che produce. Il suo interesse, inoltre, si riversa ben oltre le sole civiltà primitive, interessandosi anche e soprattutto a quelle occidentali, delle quali studia il legame sempre più potenziato tra la quotidianità e l’uso delle immagini. La società contemporanea è certamente circondata da una grande varietà e diffusione di tecnologia visiva e ognuna di queste offre una visione del mondo lungi dall’essere priva di forti e specifici riferimenti. E’ possibile, pertanto, affermare che le immagini, così come i suoni, non sono finestre trasparenti e neutrali sul mondo, ma che lo rappresentano, ne forniscono una visione propria; lasciando, così, che lo spettatore che le guarda si chieda cosa una data immagine possa voler rappresentare. La risposta, tuttavia, non è mai unica e scontata e non ne esiste una corretta e una sbagliata: “there is no law which can guarantee that things will have ‘one, true meaning’, or that meanings won't change over time”80; l’immagine va interpretata e l’interpretazione non riguarda il trovare la verità nelle cose ma coglierne aspetti che spesso si rivelano essere del tutto soggettivi. A tal riguardo la letteratura crea una distinzione tra i termini, di derivazione anglosassone, vision e visuality. Con il primo, ci si riferisce a tutto ciò che l’occhio umano è fisiologicamente capace di vedere, mentre il termine visuality riguarda il come noi vediamo, il come riusciamo a cogliere gli aspetti più interiorizzati delle immagini, non percepiti dall’occhio nella sua funzione di vision. La visuality viene fatta corrispondere al tratto immateriale dell’immagine visionata, è il modo culturalmente determinato di osservare le cose, che definisce il cosa guardiamo e il come lo guardiamo o, in altre parole, corrisponde al codice culturale che ci permette di analizzare l’immagine ricavandone un’interpretazione personale. Nel 1988, lo studioso americano Martin Jay userà il termine ocularcentrism81, 80 Gillian Rose, Visual methodologies: an introduction to the interpretation of visual materials, SAGE publications, Londra, 2001, p. 2. 81 Martin Jay, “The Rise of Hermeneutics and the Crisis of Ocularcentrism”, Poetics Today, vol. 9, n. 2, 66 per descrivere l’apparente centralità dell’elemento visivo nella società occidentale contemporanea. Questa prospettiva rappresentava anche l’elemento-chiave del passaggio dalla premodernità alla modernità e ancora dalla modernità alla postmodernità. L’idea che il concetto di società contemporanea ocular-oriented suggeriva era che nelle società premoderne le immagini, e più in generale l’elemento visivo, non erano particolarmente importanti in termini di rappresentazione culturale, condizione dovuta anche alla scarsa circolazione delle stesse. Questo cominciò a cambiare con l’avvento della modernità, quando il guardare e il conoscere cominciarono a diventare fenomeni intrecciati. La produzione e la diffusione del sapere scientifico, infatti, cominciarono a essere sempre più relazionate all’uso dell’immagine piuttosto che dei testi scritti, tanto che venne a profilarsi un nuovo campo di studi, definito visual culture. Questo termine fu usato per la prima volta da Svetlana Alpers, una storica dell’arte statunitense, che si servì di questa espressione per sottolineare l’importanza che le immagini avevano nel diciassettesimo secolo per la società olandese. Il termine “visual”, nella nozione di visual culture, è spesso equiparato al termine “immagine”. Tuttavia, questa associazione porterebbe ad un ridimensionamento del campo di studi di questa disciplina: “the visual aspect of our world does not manifest itself primarily in the cinema or on a television screen, but it actually pervades our daily lives in all its facets: watching, being watched, visualizing, depicting (reproducing) etc.” 82 E’, pertanto, possibile sottolineare come il campo del visivo si esprima sotto diverse forme, dall’architettura, alla moda, alle forme di interazione. Tuttavia, è indiscusso il consolidato rapporto tra l’immagine e la realtà, dove quest’ultima si prefigura come fonte d’ispirazione per l’immagine che, a sua volta, influenza il nostro modo di percepire la realtà osservata. Se in passato, la cultura occidentale ha costantemente privilegiato la comunicazione verbale come la più alta forma di pratica intellettuale, mentre la rappresentazione visiva era considerata una forma secondaria di espressione e manifestazione delle idee, oggi assistiamo ad una rivalutazione dell’immagine che, sul 1988, p. 308:. 82 Luc Pauwels, “Visual literacy and visual culture: reflections on developing more varied and explicit visual competencies”, The open communication Journal, vol. 2, 2008, p. 82. 67 testo scritto, ha acquisito una forte egemonia. Lo studioso statunitense William John Thomas Mitchell ha sviluppando, così, la “picture theory”, teoria derivante dal pensiero che [the] spectatorship (the look, the gaze, the glance, the practise of observation, surveillance and visual pleasure) may be as deep a problema s various forms of reading (decipherment, decoding, interpretation, etc.) and that ‘visual experience’ or ‘visual literacy’ might not be fully explicable in the model of textuality.”83 La letteratura della visual culture sottolinea la presenza di cinque postulati fondamentali, sui quali la disciplina stessa si fonda. Il primo è quello che l’immagine stessa abbia una propria valenza, che abbia capacità di agire. Tuttavia, si sottolinea come la potenza dell’immagine nel trasmettere un’idea, un messaggio, possa essere valorizzata anche dall’uso di altri tipi di rappresentazione, come di fonti audio o di testi scritti o orali: “it is very unusual, for example, to encounter a visual image unaccompanied by any text at all, whether spoken or written. Even the most abstract painting in a gallary will have a written label on the wall giving certain information about its making”.84 Il secondo principio alla base della visual culture riguarda la possibilità dell’immagine di visualizzare, descrivere o talvolta annullare le differenze sociali. Negli ultimi due decenni, il modo in cui gli scienziati sociali hanno cominciato a studiare e capire la vita sociale ha subito un forte cambio di direzione, definito in letteratura come cultural turn. Questo processo ha visto la rappresentazione della cultura come un mezzo per capire i processi e le identità sociali, i cambiamenti e i conflitti. Il cultural turn precisa come le categorie sociali non siano naturali, ma che siano, invece, costruite dall’uomo stesso, costruzioni artificiali che possono anche apparire sotto forma di materiale visivo. A questo riguardo molti studi vennero fatti soprattutto da gruppi di femministe e studiosi postcoloniali, interessati ad analizzare come il fenomeno del mezzo visivo si approcciasse alla rappresentazione della femminilità e della razza. 83 Nicholas Mierzoeff, The visual culture reader, Routledge, Londra, 1998, p. 5. Gillian Rose, Visual methodologies: an introduction to the interpretation of visual materials, cit., p. 10. 84 68 Un esempio di questi studi è quello di Paul Gilroy, professore di letteratura alla King’s College di Londra, che analizzò un manifesto del partito conservatore sul quale si leggeva: “Labour says he’s black. Tories say he’s British” (fig. 4). Fig. 4 Un punto particolarmente discusso da Gilroy riguardava la possibilità che il manifesto offriva di poter scegliere tra l’essere un britannico o un uomo di colore, visione espressa non solo dal testo scritto ma anche, appunto, dall’immagine dove “the black man is pictured wearing a suit”85 , elemento che rappresenta, usando le parole dello stesso Gilroy, “that blacks are being invited to forsake all that marks them out as 85 Ibidem, p. 11. 69 culturally distinct before real Britshness can be guaranteed.” 86 Il manifesto, quindi, gioca su questi aspetti, chiedendo implicitamente al proprio pubblico di non vedere solo la blackness in un britannico di colore vestito con un completo da uomo d’affari. Il terzo punto della visual culture interessa proprio l’analisi non solo del cosa l’immagine esprima, di come si presenti agli occhi degli spettatori, ma anche del modo in cui queste immagini possano essere guardate. Lo studio del come le fonti visive possano essere soggette a diverse interpretazioni sulla base di chi le guarda è stato a lungo trattato da molti ricercatori del campo, tra questi degno di nota è sicuramente John Berger, con la sua opera Ways of seeing. Nel testo Berger afferma che “we never look just at one thing; we are always looking at the relation between things and ourselves.” 87 Tutto viene riportato e rapportato alla nostra dimensione individuale; l’occhio vede in relazione all’esperienza fatta da ognuno di noi e, pertanto, è l’esperienza stessa che elabora il potenziale significato di un’immagine in un’ottica del tutto intima e personale. Il quarto tra i postulati base, prende in esame il concetto di cultura, definito come una delle parole più complesse al mondo, poiché esprime una e tante cose, si arricchisce di sfumature, è carica di connotazioni e spesso si riduce col definirla come un sistema, un modo o uno stile di vita. Tuttavia, per gli studiosi della visual culture, la cultura è molto di più, è il fattore che condiziona il modo di accostarsi all’immagine, di analizzarla, di interpretarla. Come già detto, l’immagine ha una propria carica espressiva, analizzata dal singolo individuo secondo la propria individuale esperienza, ma tutti questi elementi si intrecciano inevitabilmente con il contesto sociale e culturale di riferimento. Inoltre, la visione dell’immagine può avvenire in differenti location, che sono a loro volta dei sottogruppi del contesto culturale. Queste location possono essere “a king’s chamber, a Hollywood cinema studio, an avant-garden art gallery, an archive, a sitting-room, a street. These different locations all have their own economics, their own disciplines, they own rules for how their particular sort of spectator should behave, and all these affect how a particular image is seen to.”88 Infine, la diversificazione del pubblico si prefigura come il quinto caposaldo 86 Paul Gilroy, There ain't no black in the Union Jack: the cultural politics of race and nation, Hutchinson, Londra, 1987, p. 58. 87 John Berger, Ways of Seeing, British Broadcasting Association and Penguin, Londra, 1972, p. 9. 88 Gillian Rose, Visual methodologies: an introduction to the interpretation of visual materials, cit., p. 15. 70 della disciplina. Secondo la visual culture non tutti i tipi di spettatori sono capaci, o disposti a leggere uno specifico messaggio nel modo suggerito dall’immagine o da una particolare disposizione ed esposizione della stessa. Negli anni si è profilato anche un ulteriore sviluppo di questa disciplina che ha preso il nome di New Visual Culture, che si fonda prevalentemente sul concetto di visualizing, inteso come la visualizzazione di cose che non sono elementi visivi di per sé; non un’immagine del mondo, bensì il mondo concepito e analizzato come e attraverso delle immagini: “a world picture […] does not mean a picture of the world but the world conceived and grasped as a picture.”89 Va, tuttavia, sottolineata in ultima analissi l’importanza che la tecnologia ha rivestito nel mondo delle immagini, quindi nel loro processo interpretativo. La possibilità di modificare digitalmente una foto, un video o anche dei suoni, altera la visione della realtà, modifica la percezione dell’esterno, così come la volontà di voler riprodurre il mondo attraverso l’uso del visivo, obiettivo prefigurato, come detto, dalla new visual culture. E’ possibile, quindi, grazie o a causa della tecnologia vedere ciò che nella realtà non esiste, è possibile percepire un elemento difformemente dalla sua composizione reale. Il vedere perde, allora, la sua valenza di certezza e di affidabilità, così come si riscontra nella domanda che provocatoriamente si pone il teoreta Nicholas Mirzoeff: “What are we to belive if seeing is no longer believing?”90 3.1 La multisensorialità: il mezzo audiovisivo Martin Jay, professore di storia presso l’Università della California, descrive nel suo libro Downcast Eye la posizione privilegiata acquisita dal senso della vista nella cultura occidentale. Tuttavia, questo senso di superiorità era ricalcato già in epoche passate, come testimonia il Timaeus di Platone, dove il filosofo separava la vista dagli altri sensi, poiché se la prima veniva raggruppata tra le virtù creatrici dell’anima e 89 Martin Heidegger, “The age of the world picture”, in The Question Concerning Technology and Other Essays, Harper Torchbooks, New York, 1977, p. 130. 90 Nicholas Mierzoeff, An introduction to visul culture, Routledge, Londra, 1999, p. 1. 71 dell’intelligenza umana, gli altri sensi interessavano l’essenza prettamente materiale dell’uomo. Anche René Descartes, filosofo e matematico francese del Seicento, definiva la vista come il più universale e nobile dei sensi. Ciononostante, nel tempo si sono venuti a profilare studi e prospettive che hanno incrementato il margine d’importanza degli altri sensi e, soprattutto, del loro interagire. Si è generato, così, un approccio multisensoriale, definito in letteratura multiliteracy, secondo il quale il significato di un messaggio deve essere estrapolato non dall’interpretazione del singolo senso, ma dalla sovrapposizione dei diversi sensi e dei diversi canali di comunicazione come il video, l’audio e il testo scritto: “multiliteracy is now employed to mean the making of meaning through the interaction of different communicative modes.”91 Questo filone multisensoriale sembrerebbe, quindi, declassare l’importanza esclusiva dell’elemento visivo, laddove il carattere culturale viene trasmesso attraverso l’uso di più canali. There are no exclusively visual sites. All cultural sites that involve imagery include various ratios of other communicative modes and many employ more than vision. […] Furthermore, as Fairlough argues, the point of what he calls the ‘multisemiotic nature’ of contemporary sites is not simply how one interprets discrete sign system, but how meaning is extracted from how sign system iteract with each other.92 Anche Mark Paterson, studioso e ricercatore dell’università di Pittsburgh, nel suo lavoro The sense of touch fa riferimento alla multisensorialità, affermando che “these senses operates in tandem with each other”93; i sensi, quindi, si sovrappongono creando una rete di dati attraverso i quali elaborare ciò che ci circonda, le nostre esperienze e la nostra memoria. Nel contesto specifico dell’audiovisivo, si sottolinea come questo mezzo sia 91 Paul Duncum, “Visual culture isn’t just visual: multiliteracy, multimodality and meaning”, Studies in Art Education, 45(3), 2004, p. 252. 92 Ivi. 93 Mark Paterson, The sense of touch: haptics, affects and technologies, Berg Publishers, Oxford, 2007, p. 56. 72 particolarmente efficace per l’atto comunicativo, in quanto facilita la trasmissione del messaggio rendendolo più fluido ed incisivo. Se si provasse a togliere l’audio da un video ci si renderebbe subito conto di come le immagini, per quanto significative, non riescano da sole a soddisfare completamente la resa del messaggio. Allo stesso modo, l’audio, se privato del supporto grafico, diventa più debole e meno diretto. La potenza dell’incrocio tra questi due mezzi, o sensi, quello della vista e quello dell’udito, è data dalla compresenza di tre caratteristiche: la chiarezza, la velocità e l’assorbimento delle idee. Nel primo dei tre casi, il mezzo audiovisivo aiuta, poiché è in grado di veicolare non solo il messaggio in quanto contenuto, ma anche il contesto in cui il messaggio si realizza, il tono di voce con cui viene detto o una musica che ne sottolinei il mood: “audiovisual input enables both parties to observe facial expressions and gesture, hear tones and inflections in the voice and use both audio and visual cues to clarify each other’s meanings and positions.”94 Il secondo aspetto, quella della velocità, permette al processo comunicativo di diventare immediato. Basti pensare all’uso dei telefonini o, ancor più, delle videochiamate. Infine, il mezzo audiovisivo permette un migliore assorbimento delle informazioni trasmesse: “according to the United States Department of Labor, a mere 10 percent of information is retained when presented only orally and only 35 percent of information is retained when presented only visually.” 95 Al contrario, la fusione di questi mezzi permette l’assorbimento di più del 65 percento delle informazioni trasmesse. La situazione audiovisiva prevede una serie di elementi fissi e convenzionati, senza i quali la situazione stessa verrebbe meno, poiché tutti concorrono alla sua creazione. Il primo di questi caratteri è l’evento registrato, o oggetto, definibile come un insieme di immagini in movimento e di suoni. Il secondo carattere è quello di un pubblico di spettatori, o soggetti, che assiste alla trasmissione dell’evento audiovisivo attraverso l’utilizzo di un canale, terzo elemento imprescindibile per la realizzazione 94 Kay Ireland, http://smallbusiness.chron.com/audiovisual-media-considered-powerful-tool-meanscommunication-33541.html 95 Ivi. 73 dell’evento audiovisivo. Infine, il quarto costituente è il contesto, vale a dire il modo, il momento e il luogo in cui la situazione si realizza. Molti studi, soprattutto di carattere semiotico, analizzano il mezzo audiovisivo alla stregua di una lingua: l’inquadratura viene associata alla parola, la scena rappresenta la frase e la sequenza il paragrafo. Seguendo questo filone d’analisi, l’immagine si presenterebbe come l’unità minima di significato di un discorso filmico.96 Il rapporto che quest’unità crea con ciò cui si riferisce è molto più diretto e mirato, rispetto al sistema linguistico: vale a dire che l’immagine è in grado di esprimere un concetto con assoluta immediatezza. Si figurano, tuttavia, due tipi di significato. Il primo, definito denotativo, interessa il significato più immediato ed evidente. La connessione, in questo caso, tra l’oggetto e la sua rappresentazione è profonda e subito evidente. Nel secondo caso, invece, quello connotativo, il significato si definisce di secondo grado, poiché scaturisce dalla trasformazione del primo, dall’uso della fantasia e dell’immaginazione. Esemplificando quanto detto, è come se l’ombrello di Mary Poppins rappresenti un accessorio da oufit a livello denotativo, ma uno strumento di volo a livello connotativo. Continuando a seguire la similitudine linguistica, si può affermare che anche il mezzo audiovisivo possiede una sua specifica sintassi, riferendoci con questo alla possibilità di costruire un discorso completo, complesso, fluido e lineare. La composizione di questo discorso, che avviene con l’assemblaggio di suoni e immagini, al fine di trasmettere un certo significato, è affidata soprattutto alla fase di montaggio, che si considera, quindi, come la principale responsabile della sintassi audiovisiva. Il linguaggio audiovisivo, nel suo complesso, si compone essenzialmente di cinque codici: l’immagine, le scritti e gli elementi grafici, il parlato, la musica e il rumore. I primi due elementi danno generalmente il contributo maggiore per la comprensione del messaggio e riguardano la sfera del senso visivo. Gli altri, che appartengono alla sfera del suono, e quindi legati al senso dell’udito, li percepiamo con un grado di consapevolezza inferiore rispetto all’immagine, specie se non si tratta di voci ma di musiche o rumori. Il suono, nel suo senso più esteso e completo, può provenire da tre differenti sorgenti: 96 Ritengo, tuttavia, importante sottolineare come più recenti filoni di pensiero considerino il film come un continuum di significati, non suddivisibile in unità elementari. 74 - una sorgente interna, cioè presente nell’inquadratura, come la voce del soggetto parlante o di un oggetto in campo. Parleremo, dunque, di elementi sonori intradiegetici o in elements; - una sorgente assente dall’inquadratura, ma interna al contesto, come l’esempio di una musica proveniente da un radio dell’appartamento accanto o del vicino su di un balcone non inquadrato. Parleremo, in questo caso, di elementi fuoricampo o out elements; - una sorgente sonora esterna al film, come il caso di una colonna sonora o di voci narranti non individuabili all’interno dell’intero set. Parleremo, quindi, di elementi sonori extradiegetici o over elements. Al momento di dover analizzare il rapporto tra l’immagine e il sonoro, in un prodotto audiovisivo, è possibile distinguere quattro tipi di intrecci. Nel primo di questi, il messaggio verbale viene trasmesso contemporaneamente a quello dettato dalle immagini del canale visivo e parleremo, per questo, di rapporto parallelo. Nel secondo tipo, quello complementare, i due codici, visivo e audio, si intrecciano e si completano vicendevolmente. Il messaggio si arricchisce di elementi che vengono elaborati da entrambi i canali e il risultato sarà quello di un messaggio comprensibile solo se i due codici vengono recepiti congiuntamente. Nel caso del rapporto ridondante, il terzo, sia l’audio che l’immagine comunicano lo stesso messaggio. Non c’è alcun tipo di arricchimento, di scambio o di supporto, pertanto il messaggio arriverebbe identico, anche se ci si avvalesse di uno solo dei due codici. Infine, abbiamo il caso definito del rapporto contrario, vale a dire quando l’immagine e l’audio trasmettono due messaggi dal significato diverso, in alcuni casi opposto. Lo strumento audiovisivo si è dimostrato un mezzo molto utile anche per lo studio delle diversità culturali. La mediazione interculturale, come soggetto di analisi attraverso il mezzo audiovisivo, sarà oggetto di discussione soprattutto della seconda parte di questa tesi, nonché obiettivo del Laboratorio professionalizzante “Il mezzo 75 audiovisivo come strumento di ricerca nella pratica del mediatore interculturale”, di cui di seguito si tratterà. In questo campo, ancora non completamente esplorato, l’audiovisivo diventa uno strumento strategico poiché ci permette di studiare il comportamento umano in risposta ad una specifica situazione. In questo senso, il prodotto audiovisivo garantisce la possibilità di capire il viluppo delle relazioni interculturali e, quindi, di comprendere l’Altro, grazie alla natura narrativa della fotografia e del video, nonché del loro essere “representation and analysis of basic realities.” 97 Questo mezzo diventa spesso fondamentale nei casi delle relazioni interculturali, perché è in grado di veicolare situazioni intangibili, laddove le parole riscontrano limiti nel descriverle: infatti, con l’interculturalità “it is essential to know people’s location and movement, together with the feelings of rejection and exclusion sometimes experienced by immigrants”. 98 Questa serie di movimenti e sentimenti generano il comportamento dell’individuo, denominato in letteratura performance, ossia la maniera in cui un individuo si relazione all’ambiente e alle circostanze, più o meno consapevolmente. Lo studio di queste performance interessa, pertanto, l’osservazione delle risposte di un soggetto ai diversi input dati dall’ambiente esterno, risposte che sono spesso condizionate da schemi mentali determinati dalla cultura e che tendono a ripetersi tra gli individui che ne condividono una. A livello di produzione verbale, le performance si caratterizzano sulle base di come il parlato viene realizzato. In questo caso, la variabile da prendere in considerazione è il grado di controllo che i partecipanti esercitano sulla propria produzione orale. Possiamo distinguere sei differenti gradi di controllo: - parlato-scritto: quando il parlante legge un testo scritto preparato in precedenza, usando così forme, scelte lessicali e costruzioni tipiche del testo scritto; - parlato-recitato da copione: quando il parlante legge un testo preparato in precedenza cercando di dare emozioni a ciò che dice; - parlato-recitato a braccio: quando il parlante legge un testo preparato in precedenza ma concedendosi una libertà interpretativa; 97 Antonio Bautista, Laura Rayón, Ana de las Heras, “Value of audivisual records in intercultural education”, Comunicar, cit., pag. 169. 98 Ibidem, p. 170. 76 - parlato-controllato: quando il parlante ha una scaletta e tempi da rispettare, ma ha piena liberta di costruzione del proprio intervento; - parlato-parlato: quando il parlante è pienamente libero di parlare, senza scalette o convenzioni da rispettare. Tuttavia, consapevole di essere ripreso, gestisce il suo eloquio cercando di curarne l’espressione; - parlato-spontaneo: quando il parlante si esprime in maniera del tutto naturale, poiché non consapevole di essere ripreso. Al momento di voler rappresentare una cultura, il mezzo audiovisivo si può presentare sia come il potenziale frutto dello studio della stessa, che come il mezzo attraverso questa può essere studiata. Nella seconda delle due ipotesi, vediamo come lo studio di una cultura viene affrontato attraverso l’analisi di pellicole cinematografiche o, più generalmente, delle arti visive. Ne rappresenta uno study case il manuale The study of culture ad a distance, redatto da Margaret Mead and Rhoda Métraux, che suggerisce un’applicazione dell’antropologia visuale “for the distance study of national character through analysing visual materials such as film and fine art.”99 Lo scopo era proprio quello di conoscere specifiche culture, che non era possibile osservare direttamente, attraverso la loro rappresentazione del mondo: come veniva disegnato, immaginato, fotografato, riprodotto. L’altro dei due casi, che è quello che più ci è vicino e che più ci interessa, riguarda, invece, l’utilizzo del mezzo audiovisivo come prodotto di uno studio; studio attraverso il quale trasmettere la differenza culturale sulla base di un contatto diretto con la cultura di riferimento. A questo scopo, tra le varie tipologie di prodotti audiovisivi, sicuramente il documentario ne rappresenta uno dei più efficaci. Il documentario si presenta solitamente come un corto o mediometraggio a carattere informativo, attraverso il quale è possibile dare testimonianza di un evento, un luogo, un ambiente, una situazione della vita reale o, come nel nostro caso, di una cultura, di più culture e dell’interculturalità. Tuttavia, la scarsa letteratura a riguardo è indice di come il mezzo audiovisivo a supporto di tale rappresentazione sia un mondo ancora sotto analisi, un 99 Sarah Pink, The future of visual anthropology: engaging the senses, Routledge, Londra, 2006, p. 83. 77 campo in fase di rodaggio, in parte sconosciuto e, forse, ancora sottovalutato. 3.1.1 Il mezzo audiovisivo in campo universitario La potenza del mezzo audiovisivo è stata riconosciuta anche nell’ambito educativo, attraverso l’impiego di materiale che sfrutta l’unione dell’immagine e del suono per delineare un nuovo profilo didattico denominato media education. Uno dei principali vantaggi della media education è quello della flessibilità, ossia del suo essere un mezzo altamente versatile e, quindi, potenzialmente applicabile in diversi modi e in diversi contesti: il materiale audiovisivo, proprio per la pluralità di codici e di significati che lo caratterizzano, si presta ad essere didattizzato in molti modi, tenendo in considerazione le esigenze e le caratteristiche degli studenti-spettatori.100 Un valore aggiunto, che accompagna l’introduzione di questi mezzi nell’ambito didattico, è dato dalla necessità di dover fornire lo studente di chiavi di lettura, chiavi attraverso le quali sviluppare un approccio critico nei confronti dei messaggi audiovisivi che continuamente ci vengono proposti attraverso i più svariati canali di comunicazione, dalla televisione alla rete internet. Queste chiavi di lettura serviranno allo studente per non diventare un fruitore passivo dell’audiovisivo, ma per imparare ad accedere consapevolmente alla grande quantità di messaggi che questo propone e che sono spesso difficili da organizzare cognitivamente. Dopo un’attenta ricerca internet, riporto, a seguire, alcuni dei corsi sull’antropologia visuale e sull’utilizzo del mezzo audiovisivo, proposti in alcune università italiane, inglesi e spagnole. In primis, evidenzierei un corso di dodici ore, promosso dall’Università di Cagliari, insieme al circolo cinematografico universitario Notorius e intitolato Il trattamento del sonoro per il cinema e l’audiovisivo. Il Laboratorio mira allo studio 100 Paola Celentin, Riccardo Triolo, Audiovisivi, Intercultura e italiano http://venus.unive.it/filim/materiali/accesso_gratuito/Filim_audiovisivi_e_italiano_LS.pdf 78 LS, at delle principali “tecniche di ripresa e di post-produzione del suono per la realizzazione di prodotti audiovisivi.”101 Rivolto anche a studenti principianti, la prima parte è incentrata proprio sullo studio della ripresa del suono, dove vengono “presentate le caratteristiche degli strumenti e le tecniche in uso per la registrazione sonora di eventi, sia in ambienti chiusi che all’aperto” 102 ; mentre la seconda parte verte sullo studio della post-produzione audio, nella quale vengono “delineate la prassi di lavoro, gli strumenti e le tecniche più indicate per elaborare i diversi materiali, le tecniche di montaggio e missaggio ed infine i problemi tecnici e le scelte estetiche nella sincronizzazione audio-video.”103 Altri elementi che vengono richiamati sono i fondamenti dell’acustica musicale, la rappresentazione analogica di segnali e alcune nozioni basilari sul concetto di paesaggio sonoro per “far crescere la consapevolezza della possibilità dell’impiego del sonoro nel video”.104 Si tiene, invece, a Pescara un master in Psicologia della comunicazione audiovisiva, che si basa sul presupposto che il mezzo audiovisivo si stia affiancando sempre più alla comunicazione verbale nella vita quotidiana delle persone. Nella pagina ufficiale, il master viene introdotto così: nella società dell’immagine e della comunicazione il mezzo audiovisivo sta lentamente affiancando la comunicazione verbale nella vita delle persone. Sempre più spesso le informazioni vengono offerte attraverso prodotti audiovisivi, ma anche le capacità espressive consentite dalla tecnologia “low cost” permettono a tutti di esprimersi attraverso gli audiovisivi. Questa crescente pervasività del video crea gli spazi per l’azione degli Psicologi. Questi, da una posizione esclusivamente passiva di chi osserva ed analizza dall’esterno, possono assumere più ruoli in riferimento agli audiovisivi: possono compiere, quindi, funzioni di consulenza per chi li fa, 101 http://people.unica.it/celcam/attivita/il-trattamento-del-sonoro-per-il-cinema-e-laudiovisivolaboratorio-per-filmmaker (consultato in data 8 marzo 2015). 102 Ivi. 103 Ivi. 104 Ivi. 79 supporto per chi li subisce o partecipare alla loro realizzazione.105 L’obiettivo d’insegnamento proposto è quello di permettere l’acquisizione dei fondamenti sull’esperienza audiovisiva, affinché la sua creazione, impiego e fruizione possano avvenire in maniera consapevole e ragionata. Decisamente più pratico è, invece, il taglio dato al corso Uso del mezzo audiovisivo, promosso da un’università valtellinese, che mira alla “progettazione di un breve filmato audiovisivo originale (documentario, fiction o misto) prodotto dagli studenti singolarmente o a coppie.” 106 Il corso mira all’acquisizione delle principali tecniche di ripresa e di montaggio, così come nozioni per l’associazione di suoni e musiche e tecniche di sincronizzazione. Inoltre, vengono trattati i principali elementi di linguaggio audiovisivo e cenni tecnici per la realizzazione di semplici riprese. L’università di Torino, invece, promuove un corso del mezzo audiovisivo letto con un’ottica antropologica. Il titolo del corso è semplicemente Antropologia visiva e, indirizzandosi anche a studenti che non abbiano mai avuto studi precedenti in questo campo, mira a fornire un’introduzione alla disciplina, dai metodi prevalentemente utilizzati, agli scopi ottenuti. In particolare il corso vuole dare evidenza dell’importanza affidata “all’utilizzo di mezzi tecnici e di linguaggi audiovisivi nella ricerca antropologica” 107 , approfondendo il tema della rappresentazione visiva e fornendo chiavi di lettura per l’acquisizione di “competenze tecniche e metodologiche necessarie alla produzione e all’analisi di fotografie e film etnografici.” Sul versante anglosassone si distacca, invece, un corso di Antropologia Visuale dell’University of Kent, che vanta il riconoscimento dall’Economic and Social Research 105 http://www.igeacps.it/formazione/corsi-a-pescara/2149-master-a-pescara-in-qpsicologia-dellacomunicazione-audiovisivaq.html (consultato in data 8 marzo 2015). 106 http://univda.it/esse3/ProgrammaCorso.do%3Bjsessionid=5C8F219BAC9F92FA2E66C0A5D3FC3B8 3?CDS_ID=6&AA_OFF_ID=2011&AD_ID=1232&AA_ORD_ID=1998&PDS_ID=9999&FAT_PART_ COD=STD&DOM_PART_COD=LEZ_STD (consultato in data 8 marzo 2015). 107 http://www.didatticacps.unito.it/do/corsi.pl/Show?_id=h2jm;sort=DEFAULT;search=;hits=367#a_obie ttivi_h2jm (consultato in data 8 marzo 2015). 80 Council108 oltre che una preparazione sufficiente “for research in the various fields of social anthropology.”109 Lo scopo del corso è principalmente quello di esplorare metodi tradizionali e sperimentali per sviluppo dell’antropologia visuale, “furthering the Kent tradition of pioneering the uses of multimedia in anthropology.” Lo studio mira all’acquisizione di competenze pratiche e critiche nei confronti della disciplina, analizzando e sviluppando in particolar modo le tecniche di fotografia e di film-making.110 La Goldsmiths, sede distaccata della University of London, promuove, invece, un corso antropologico che mira a disctacarsi dal tradizionale percorso di studi, per aprirsi verso un approccio più aperto all’interdisciplinarietà, poiché “leaves the leaves the definition of visual anthropology wide open and considers various arguments about this sub-field.” Il sito ufficiale dell’Università riporta che il corso “is taught through lectures/seminars and hands-on training in the use of digital camcorders, sound recording equipment, and video editing” 111 e il progetto di esame finale interessa proprio la creazione di un video della durata di venti minuti. Il focus centrale del corso riguarda ovviamente lo studio, con approccio antropologico, di un prodotto visivo, gli argomenti trattati, e introdotti agli studenti di volta in volta, sono svariati e vanno dall’antropologia delle arti, ai film etnografici, al cinema, al tema dell’autorappresentazione. Un master proposto dalla Granada Centre for Visual Anthropology, è incentrato invece sullo studio dell’Antropologia in diretto ed esclusivo contatto con la produzione filmica: “our masters programmes combine anthropology with training in film-making, editing, photography and sound.”112 108 La ESRC è la più importante organizzazione britannica di investimento sulla ricerca. I campi di interesse sono quelli economici e sociali. Per maggiori informazioni, visitare http://www.esrc.ac.uk 109 http://www.kent.ac.uk/courses/postgraduate/201/visual-anthropology (consultato in data 8 marzo 2015). 110 http://www.kent.ac.uk/courses/postgraduate/201/visual-anthropology (consultato in data 8 marzo 2015). 111 112 http://www.gold.ac.uk/pg/ma-visual-anthropology (consultato in data 8 marzo 2015). http://granadacentre.co.uk (consultato in data 8 marzo 2015). 81 Indirizzato a studenti provenienti dai campi umanistici e delle scienze sociali, “the course is tailored to meet the needs of different levels of anthropological and filmmaking experience, from people who have little or no background in formal anthropology, film-production, visual methods and photography to those who may have substantial experience in one or more of these areas.”113 Infine, sul versante ispanofono si distacca per interesse e attinenza il corso tenuto dall’Università Complutense di Madrid, dal titolo Técnicas de investigación con medios audiovisuales. All’interno del campo di studi dell’Antropologia sociale e culturale, il corso mira ad esplorare, con approccio critico, campi più svariati: teorie sociologiche sul cambio della struttura sociale spagnola, studi sulla struttura demografica, studio della storia e dell’evoluzione della cultura popolare, studi sulle diversità culturali, sulle relazioni interculturali e sui modelli di sviluppo territoriali; il tutto attraverso la testimonianza visiva, ovvero il corso mira a far sì che gli studenti riescano a “exponer los resultados de los análisis […] a diversas audiencias haciendo uso de medios audiovisuales.”114 113 Ivi. http://www.ucm.es/estudios/grado-antropologiasocialycultural-plan-801203 (consultato in data 8 marzo 2015). 114 82 4. Mangiare non solo per nutrirsi Come riportato nei capitoli precedenti, la cultura ha carattere di artificialità, vale a dire che è un prodotto dell’uomo, un elemento associato all’atto del creare. E’ stato, altresì, precedentemente illustrato che i processi migratori hanno giocato un ruolo fondamentale nella contaminazione delle diverse civiltà, così come nella diffusione di usi e costumi creolizzati: nella società contemporanea, infatti, parlare di culture nette e definite, come parti di un mosaico dai confini rigidi e ben delineati, rischierebbe di non rappresentare fedelmente la realtà delle cose. L’interazione tra la cultura A e la cultura B, di fatti, fa sì che queste due si arricchiscano scambievolmente di caratteri non propri, la cui acquisizione genera subculture, ossia creolizzazioni culturali, fatte di forme organizzative, di tecnologie, di logiche e sistemi sempre più misti e impuri, che diventano fautrici di prodotti adatti ad essere collocati su un mercato di tipo globale. I processi di creolizzazione, come sottolineato dall’antropologo svedese Ulf Hannerz, diventano così una “combinazione di diversità, interconnessione e innovazione nel contesto dei rapporti globali.”115 E’ in questo quadro che si colloca la contrapposizione tra la cultura come tradizione e la cultura come innovazione, una dicotomia locale-globale che, se nel primo caso si fonda su una forte aderenza al senso di continuità culturale e trasmissione di elementi tipici, riconducibili a una specificità territoriale, nel secondo dei due casi si manifesta in un senso di profonda trasformazione. Nella società contemporanea, caratterizzata da una presenza sempre più massiccia dell’elemento multiculturale, la globalizzazione, definita dal sociologo Vittorio Cotesta come “un processo mediante il quale società, economie, culture, forme e stili di vita prima separati si inserisco in una prospettiva di interdipendenza”116, fa da sfondo ai cambiamenti sociali, politici e culturali. Anche il cibo, con le sue peculiarità e i suoi elementi di fusione, si fa metafora di questo processo di globalizzazione, grazie alla capillare e rapida circolazione dei 115 116 Ulf Hannerz, La diversità culturale, il Mulino, Bologna, 2001, p. 108. Vittoria Cotesta, Sociologia del mondo globale, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 94. 83 prodotti che permettono, ad esempio, la proliferazione di ristoranti di cucina etnica sul territorio nostrano. Il motivo di sottolineare ancora una volta l’artificialità della cultura risiede proprio nella volontà di voler considerare anche il cibo come un elemento artificiale, essendone, della cultura, un sottoinsieme. Dicendo ciò, si classifica il cibo come un veicolo di scambi, un elemento culturale e un fattore identitario. Di fatti, l’uomo è da sempre riuscito a soddisfare il proprio bisogno nutrizionale e soprattutto lo ha fatto differenziandolo secondo l’ambiente in cui viveva. Il cibo si fa, così, ambasciatore di differenti culture e la sua diffusione al di fuori del territorio di origine, permette all’individuo di avvicinarsi e di cominciare a conoscere l’Altro, favorendo la nascita di nuovi prodotti che sono il risultato di contaminazioni di idee, di mescolanze di abitudini e di combinazioni di ingredienti e di sapori esotici e nostrani, antichi e moderni. Lo storico Giovanni Rebora, nel suo libro La civiltà della forchetta. Storie di cibi e di cucina, scriveva che l’economia e l’antropologia dell’alimentazione risentono anche direttamente dei grandi avvenimenti politici, dei mutamenti dell’assetto territoriale dei regni, delle grandi scoperte, degli esiti delle guerre, delle fortune e delle sconfitte degli Stati ed anche degli accordi mercantili che una vera e propria classe sociale, quella dei mercanti internazionali, riusciva a stipulare nonostante le frequenti guerre e le differenze religiose che, soprattutto in età moderna, dividevano l’Europa. I mercanti infatti non scambiavano solo merci e denaro, ma anche idee e soprattutto mode, usi e costumi, compresi i modi di cucinare.117 Appare, dunque, evidente come il cibo si arricchisca di un’importanza che vada ben oltre la necessità fisiologica, ma che si carichi di una valenza culturale, storica, politica, economica e sociale. A motivo di questo rapporto nutrizionale-affettivo, che il genere umano ha sviluppato con il cibo, è possibile affermare come il mangiare sia diverso dal semplice 117 Giovanni Rebora, La civiltà della forchetta: storie di cibi e di cucina, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. XI. 84 atto del nutrirsi e questo fa differire l’uomo dall’animale. In quest’ultimo, infatti, il rapporto con il cibo è strettamente legato alla necessità di sopravvivenza e, soprattutto, condizionato dall’“offerta naturale”, ossia da ciò che è già presente in natura e che, in queste modalità, viene consumato. L’uomo, al contrario, sperimenta, arricchendo il cibo di sapori, mescolando e impastando o, in altre parole, facendo cucina, che a sua volta diventa un carattere distintivo dei diversi territori, delle diverse tradizioni, abitudini e forma mentis. Allora, se il cibo, come bisogno primario, soddisfa il bisogno di nutrirsi dell’organismo, l’atto dell’assaporarlo è metafore di sostentamento dell’anima. Per Massimo Montanari, insegnante di Storia dell’alimentazione all’Università di Bologna, il cibo, infatti, è cultura in ogni sua fase: è cultura quando si produce “perché l’uomo non utilizza solo ciò che trova in natura (come fanno tutte le altre specie animali) ma ambisce anche a creare il proprio cibo”118, è cultura quando si prepara, poiché, “una volta acquisiti i prodotti-base della sua alimentazione, l’uomo li trasforma” 119 , è cultura, infine, quando si consuma, “perché l’uomo, pur potendo mangiare di tutto, o forse proprio per questo, in realtà non mangia tutto bensì sceglie il proprio cibo, con criteri legati sia alle dimensioni economica e nutrizionale del gesto, sia a valori simbolici di cui il cibo stesso è investito.”120 D’altronde, già gli antichi medici e filosofi, a partire da Ippocrate, avevano definito il cibo come res non naturalis, che non apparteneva cioè alla natura, ma all’ordine artificiale delle cose, ovvero alla cultura: “nell’esperienza umana, infatti, i valori portanti del sistema alimentare non si definiscono in termini di “naturalità” bensì come esito e rappresentazione di processi culturali che prevedono l’addomesticamento, la trasformazione, la reinterpretazione della Natura.”121 Se questo è possibile, lo è anche grazie all’elemento che per eccellenza ha distinto l’uomo dalle altre specie animali, vale a dire la scoperta del fuoco, che lo ha portato alla possibilità di cucinare il proprio cibo, sviluppando sempre più tecniche culinarie. La possibilità di fare cucina, e, quindi, di portare alla bocca cibo trasformato per mezzo della cottura, sembra, quindi, diventare il caposaldo fondante dell’attività 118 Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. XI. Ibidem, p. XII. 120 Ivi. 121 Ibidem, p. XI. 119 85 nutrizionale dell’uomo: “l’uomo trasforma mediante l’uso del fuoco e un’elaborata tecnologia che si esprime nelle pratiche di cucina.”122 Nel saggio Il cotto e il crudo di Claude Lévi-Strauss, l’autore delinea metaforicamente in queste due modalità la contrapposizione fra cultura e natura, mentre il fuoco diventa l’elemento di mediazione fra la natura e l’uomo, quel punto di passaggio che porta, quindi, verso la creazione della cultura stessa. Così, intorno al fuoco si fonda e si istituisce la società, come organizzazione che si diversifica dal branco animale. Tuttavia, bisogna precisare che ridimensionare e limitare la cucina mondiale a tutto ciò che viene trasformato per mezzo della cottura è un asserzione riduttiva e lungi dall’essere veritiera. E’ sufficiente pensare alla cucina giapponese che con il suo sushi, ormai diffuso e conosciuto in tutto il mondo, basa la propria cucina proprio sulla preparazione e fruizione del pesce crudo. In generale, la cucina si definisce come tutto quell’agglomerato di tecniche atte alla preparazione degli alimenti; sottolineando come queste tecniche siano soggette sempre più a cambiamenti, anche e soprattutto a seconda delle società, dei tempi e dei luoghi in cui si inseriscono. Assistiamo, così, a un’evoluzione dell’idea di cucina, che ingloba determinate operazioni delle volte e le esclude delle altre, che si mostra ora più restrittiva ora più aperta a varianti, più specializzata o più generale, che può riuscire ad assorbire una gamma di azioni, che spazia dalle pratiche quotidiane delle casalinghe ai virtuosismi culinari dei grandi chef. La grande varietà di cibi che oggi ci viene proposta, tra i sapori nostrani e i sapori importati, rischia, tuttavia, di trascinare l’uomo verso l’oblio, verso un senso di confusione e di incertezza che lo induce ad un conflitto interiore, tra la voglia di esplorare, di comprendere il nuovo e la paura causatagli da ciò che non conosce. La dicotomia familiare-ignoto viene, così, posta al vaglio dell’individuo, chiamato a scegliere tra la sicurezza del cibo tradizionale e l’attrazione per il sapore esotico. Questo senso di smarrimento è stato studiato dall’antropologo francese Claude Fischler e racchiuso nel suo principio definito omnivore’s paradox123 , un paradosso secondo il quale l’uomo, proprio per il suo essere onnivoro e quindi adatto a trarre sostentamento 122 Ibidem, p. XII. Claude Fischler, “Food habits, social change and the nature/culture dilemma”, Social Science Information, vol. 19 (5), Dicembre 1980, p. 946. 123 86 da una grande quantità di alimenti e di regimi, si trova a dover fare in conti con se stesso, in una lotta continua che lo spinge da una parte verso l’esplorazione inconscia della novità, dall’altra verso il bisogno di volersi rifugiare nel conservatorismo, nella tradizione che già conosce e dalla quale si sente protetto. Questo paradosso spiega, infatti, che l’onnivoro, in continua tensione tra il bisogno biologico di varietà e l’imperativo di mantenere precauzioni, vuole continuamente cercare nuove forme di cibo ma sente al contempo la necessità di dover fare attenzione ai sapori con i quali entra in contatto, poiché essendo sconosciuti sono anche potenzialmente dannosi. Questa sensazione di incertezza e di sfiducia crea tensione tra l’uomo e il suo rapporto col cibo, un turbamento dovuto non solo all’ansia di avvelenamento, ma soprattutto ad una sfera ontologica molto più intima e personale che richiama la percezione, propria e della società, dell’essere. Il cibo, infatti, plasma l’individuo dall’interno, contaminandolo, trasformandolo e attivando quello che Fischler definiva “a dispossession of the self”124; come se, a livello biologico, attraverso l’assorbimento del cibo l’individuo diventasse ciò che mangia. Questo processo è stato spiegato ancora una volta da Fischler, che lo definisce principio dell’incorporazione: “to incorporate a food is, in both real and imaginary terms, to incorporate all or some of its properties. We become what we eat.”125 Riprendendo la tesi proposta da Fischler, la studiosa Deborah Lupton sottolinea nuovamente come “by incorporating a food into one’s body, that food is made to become self. It enters a liminal phase, like that of the foetus in the pregnant woman’s body.”126 Incorporare un alimento significherebbe, dunque, assumerne le proprietà e le caratteristiche, sia a livello biologico che a livello simbolico: “food […] stands as a bridging substance between nature and culture, the human and the natural, the outside and the inside.”127 Uno studio antropologico sul consumo di cibo in un convento ortodosso in Grecia spiegava come i rituali durante i pasti erano momenti di grande rilevanza per le 124 Claude Fischler, “Food, self and identity”, Social Science Information, vol. 27 (2), Giugno 1988, p. 281. 125 Ibidem, p. 277. 126 Deborah Lupton, Food, the body and the self, SAGE publications, Londra, 1996, p. 17. 127 Paul Atkinson, “Eating Virtue”, in The sociology of food and eating: essays on the sociological significance of food, Edited by Anne Murcott, Gower Publications, Aldershot, 1983, p. 11. 87 suore, poiché attraverso la benedizione cercavano di proteggersi dal pericolo associato all’apertura del corpo durante l’ingestione. La bocca si caratterizza, così, per essere una zona liminale, uno spazio di confine tra l’inside e l’outside ed è percepita come un sensore volontario di apertura del corpo che permette, attraverso il cibo, che l’esterno entri in contatto con l’interno, così come, attraverso l’espressione verbale, che l’interno entri in contatto con l’esterno. Non a caso, la bocca, definita dal sociologo Pasi Falk come un vestibolo, permette l’assorbimento di cibo, così come il flusso di parola. Falk concettualizzava la bocca come una porta d’ingresso che si erge a protezione del corpo: con la prima funzione “regulates what is allowed into the mouth, controlled by cultural rules”128, mentra la seconda coinvolge “the decision to take that something irreversibly into one’s body and self, thus making that something part of ‘me’”129. Infine, la terza funzione interessa “the judgment of taste at the site of the mouth, linked to the sense of smell, which itself is not independent of cultural representations.”130 Appare, dunque, chiaro dalle parole del sociologo, come la scelta del cibo, così come la possibilità di trarre piacere da alcuni tipi di sapori e non altri, piuttosto che da alcuni odori, sia un fattore strettamente correlato alla propria appartenenza culturale. Il rapporto che l’uomo ha sviluppato con il cibo è carico di valenze simboliche, culturalmente determinate, che da sempre hanno descritto l’individuo e la sua società di appartenenza. Ancora Falk disegnava una distinzione concettuale tra quelli che definiva corpi aperti e corpi chiusi. Nel primo dei due casi, l’open body è rappresentazione soprattutto delle società primitive e premoderne, all’interno delle quali l’atto del mangiare e altre azioni con il cibo correlate, come ad esempio la sua preparazione, svolgevano funzioni integrative all’interno della comunità e la condivisione, legata all’assunzione di cibo, designava l’individuo come appartenente alla stessa: “the individual, in the act of eating, is both eating into one’s body/self and being eaten into the community.”131 Nelle società moderne, al contrario, l’individualismo è molto più accentuato e il concetto di closed body esprime questo senso di deprivazione delle emozioni nei confronti della comunità esterna e di grande controllo del proprio essere in relazione al mondo. Così, sebbene il cibo rimanga comunque un elemento condiviso tra 128 Pasi Falk, The consuming body, SAGE publications, Londra, 1994, p. 14. Ivi. 130 Ibidem, p. 15. 131 Ibidem, p. 20. 129 88 e con amici e parenti, Falk suggerisce che la società moderna abbia perso quell’espressione ritualistica, poiché “the role of the meal as a collective communityconstituting ritual has been marginalized.”132 La dissolvenza dell’importanza affidata ai pasti e alla loro comunione è sicuramente, almeno in parte, dettata dalla costrizione del tempo, una compressione che limita la possibilità di condividere questi momenti, lunghi o corti che siano, intorno al tavolo di una cucina. A questo fattore si aggiunge lo stravolgimento della struttura familiare moderna, dove l’aumento di abitazioni ad uso esclusivo di una persona indebolisce l’importanza del tradizionale pasto collettivo. 4.1 Cibo, società e identità culinarie Come più volte sottolineato, la cucina e il cibo sono espressioni di tradizione ed eredità culturali, elementi tramandati nel tempo che formano l’individuo e parte della sua personalità, intesa come forma di concepimento e percezione del proprio Io e dell’Altro. L’antropologia, la sociologia, la psicologia, la fisiologia sono solo alcune delle discipline che si sono interessate allo studio della relazione tra il cibo e l’individuo, pur concentrandosi e esaminando aspetti e tematiche differenti: da un lato le scienze sociali si sono focalizzate sul legame che unisce la cultura a la cucina, dimostrando come la predilezione di determinati sapori su altri è un elemento spesso concepito e costruito a livello sociale e forgiando espressioni come quella di “gusto popolare” o “gusto borghese”; mentre, sull’altro versante, i ricercatori scientifici di “experimental psychology, physiology, physical anthropology and nutrition were busy analysing the human relationship to food in terms of behaviour, metabolic regulation, nutritional requirements.”133 Da sempre, la tavola e il senso di comunione hanno assorbito una grande forza simbolica e ritualistica. I vittoriani, ad esempio, consideravano i pasti come spazio 132 Ibidem, p. 25. Claude Fischler, “Food, self and identity”, cit., p. 275. 133 89 formativo, essendo il momento in cui i bambini imparavano l’educazione e le buone maniere. Come scrive, infatti, l’antropologa Margaret Visser, “the Victorians decreed that ‘every meal is a lesson learned’.”134 Anche Mary Douglas, nel suo libro Implicit meanings, rimarcava una sottile ma importante differenza tra il cibo e la bevanda, poiché, secondo l’antropologa Britannica, “drinks are for strangers, acquaintances, workmen, and family. Meals are for family, close friends, honoured guests. […] Those we know at meals we also know at drinks. The meal expresses close friendship. Those we only know at drinks we know less intimately.”135 Così, si osserva come il senso di condivisione a tavola sia legata soprattutto alla cerchia familiare e privata. Queste forme di comunanza domestica variano nello spazio e nel tempo, poiché non tutte le società conservano il senso di famiglia nucleare e soprattutto non lo fanno in tutte le epoche e tempi storici. Tuttavia, a questa condivisione particolareggiata, bisogna parallelamente contrappore quella che Claude Grignon definisce institutional commensality136, che non richiama cioè la sfera intima o degli affetti, ma che sottolinea la gerarchia della società; una commensality che, dominata dalle regole delle istituzioni, “reflects and reinforces the classifications, groupings and discriminitations which the insituion carries out according to gender, age, rank and oppisition of status.” 137 Sono esempi di comunanza istituzionale le mense scolastiche, dove gli insegnanti non mangiano nello stesso tavolo degli alunni, o quelle delle prigioni, dove i detenuti hanno spazi differenti rispetto a quelli delle guardie. In un certo senso, è legittimo poter definire questo tipo di commensality più come divisione che come condivisione. Un’ulteriore simbologia è legata, invece, alla preparazione di alcuni specifici piatti che, per tradizione o per complessità, vengono preparati e serviti solo durante particolari occasioni, riconducibili nella maggioranza delle volte a rituali religiosi o a importanti ricorrenze nella vita di un individuo. 134 Margaret Visser, The rituals of dinner: the origins, evolution, eccentricities, and meaning of table manners, Grove Weidenfeld, New York, 1991, p. 48. 135 Mary Douglas, Implicit meanings: selected essay in anthropology, New York, Routledge, 2003, p. 236. 136 Peter Scholliers (a cura di), Food, drink and identity: cooking, eating and drinking in Europe since the Middle Ages, Berg, Oxford, 2001, p. 25. 137 Ibidem, p. 26. 90 Da come si evince, la relazione che l’uomo ha stabilito con il cibo è sicuramente complessa e la si può dispiegare su almeno tre differenti livelli. A livello biologico, vengono studiate le funzioni nutrizionali legate ai diversi alimenti e gli effetti che questi producono, quindi, sull’organismo. A livello sociale, vengono studiate le dinamiche che differenziano il cibo e le sue relazioni con l’individuo e con la collettività, dove nel primo caso l’uomo stabilisce connessioni legate al suo gusto personale, mentre nel secondo si evidenziano rapporti su base sociale, che si sviluppano, cioè, all’interno di un gruppo che a sua volta può fondarsi su convinzioni religiose, come potrebbe essere per il caso del kosher 138 , piuttosto che su convinzioni animaliste e salutistiche, come nel caso dei vegetariani. Infine, abbiamo il livello culturale, quello che più ci riguarda, interessato alle simbologie legate al cibo, come riferimenti che plasmano l’identità e che variano da cultura a cultura e che spesso possono trovare varianti addirittura anche all’interno della stessa. Come Claude Fischler sostiene, infatti, “food is central to our sense of identity” 139 e questa relazione può essere folkloristicamente riassunta in un detto di antica memoria, “sei quello che mangi”, spesso citato da molti ricercatori alimentari anche nella sua variante geografica “you are where you eat.”140 Riferimenti simili sono rinvenibili anche nella letteratura, quando nel 1761 Jean-Jacque Rousseau scriveva, “en général, je pense qu'on pourroit souvent trouver quelque indice du caractère des gens dans le choix des aliments qu'ils préfèrent.”141 Lo scrittore francese proseguiva, quindi, descrivendo le differenti nazionalità in conformità a stereotipi culinari: gli italiani effeminati, perché mangiatori di verdure; gli inglesi, divoratori di carne, si contraddistinguono per il loro aspetto duro e barbaro, mentre gli svizzeri erano descritti 138 La parola kasher o kosher, di derivazione ebraica, significa conforme alla legge e rappresenta una serie di norme che condiziona il regime alimentare degli ebrei professanti. Tra le regole da seguire troviamo, ad esempio, il divieto di mescolare carne e latticini nello stesso pasto, il divieto di cibarsi di alcuni tipi di animali, come il coniglio, il maiale, il cavallo; e il permesso di macellarne altri, come la mucca, il vitello, la pecora o la capra. Tuttavia, anche la macellazione deve seguire regole ben definite e nel kosher descritte. Infatti, questa deve avvenire per mano di un sechita, che sarà provvisto di regolare licenza rilasciata dalla Comunità Ebraica, e attraverso un unico taglio praticato sulla gola, cosicché l’animale non soffra e si dissangui perfettamente. E’ fatto, infatti, divieto anche il consumo di sangue e di alcune parti di grasso. 139 Claude Fischler, “Food, self and identity”, cit., p. 275. 140 David Belle, Gill Valentine, Consuming geographies: we re where we eat, Routledge, London, 1997, p. 44. 141 Jean-Jacque Rousseau, Julie, ou la nouvelle Héloïse, Arvensa édition, Parigi, 1971, p. 480. 91 come freddi, tranquilli e semplici per il loro essere amanti ora dell’uno, ora dell’altro alimento, nonché grandi bevitori di vino e latte. La stereotipizzazione alimentare ha da sempre accompagnato il processo di etichettatura nazionale: ne sono un esempio, gli irlandesi che nel diciannovesimo secolo venivano bollati dagli inglesi come divoratori di patata, e ne siamo, ancora oggi, uno noi italiani, descritti e pensati nel mondo come pasta eaters, ovvero mangiatori di pasta. Tuttavia, a dispetto di questa marchiatura, spesso la dicotomia cibo-nazione è avvalorata per la necessità di voler combattere e difendere la propria identità culinaria contro la globalizzazione e la standardizzazione degli alimenti, spesso conformati e di bassa qualità, metaforicamente simboleggiati dal termine mcdonaldisation. Ma come può il cibo intervenire e influenzare il processo di costruzione e di rappresentazione di un’identità e di un’intera cultura? In primo luogo occorre precisare che l’identità, quale aspetto cruciale per tutte gli individui, è in grado di definire nelle persone la percezione del proprio essere e dell’Altro, attuare una distinzione nelle cose, categorizzandole, individuandole e creando in queste un ordine, così da rendere la persona in grado di discernerle, consapevolizzandola circa la propria esistenza e quella del resto del mondo. Svolgendo questa complessa funzione, sicuramente il concetto d’identità si presenta come problematico, tanto che i ricercatori hanno teorizzato l’esistenza di identità multiple nello stesso individuo: una di queste la definiscono reale, è quella primaria che esce fuori nei contesti familiari e in cui l’individuo è a suo perfetto agio; l’altra è quella costruita, un’identità secondaria che rimanda alla sfera delle istituzioni. Proprio per evitare questa complessità di relazioni e per svincolarsi dalla confusione che questa potrebbe creare, si è preferito adoperare la nozione d’identificazione, concetto che si caratterizza per l’andare oltre la condivisione di caratteristiche appartenenti a un dato gruppo, manifestandosi come un processo di costruzione e incorporazione in continuo movimento. L’identificazione contribuisce, così, ha dare significato a ciò che ci circonda, avvalendosi di elementi culturali quali la lingua, i costumi, le tradizioni, le religioni e anche il cibo. 92 Come sottolineato già negli anni Sessanta e Settanta, da autori come LéviStrauss e Mary Douglas, il cibo si è configurato per essere un forte costruttore d’identità e, così facendo, il sentimento di appartenenza si realizza passando anche attraverso gli alimenti, vale a dire nella loro classificazione, laddove non tutte le culture considerano commestibili gli stessi cibi; nel loro consumo, data la presenza di alimenti taboo che variano da territorio a territorio; e nella loro preparazione, come nel caso della macellazione islamica che segue un iter tutto suo. A tal proposito, il semiologo francese Roland Barthes, nel suo Elementi di semiologia, comparava l’atto del nutrirsi al linguaggio, identificando negli alimenti le singoli parole. Questi cibi, secondo l’autore, erano validi elementi sui quali basare pratiche di esclusione, ovvero comportamenti alimentari ritenuti incompatibili con la propria cultura di appartenenza o stili di consumo ritenuti inadatti, che potevano, ad esempio, portare all’astensione da prodotti sconosciuti o non apprezzati, a motivo del loro aspetto, sapore, odore, gusto, consistenza: a solo titolo d’esempio, il latte di vacca è ritenuto ripugnante dai Lele dello Zaire, il formaggio era fino a poco tempo fa scarsamente apprezzato in Estremo Oriente, un italiano raramente mangerebbe carne di cane, statunitensi e inglesi aborrono la carne di cavallo e così via. […] È importante porre l’accento sul fatto che i gusti e i disgusti sono culturalmente, socialmente e storicamente determinati e cambiano col passare del tempo; la salsa di pesce garum era una squisitezza d’epoca romana, oggi il suo semplice odore, di pesce marinato e frollato, probabilmente ci disgusterebbe.” 142 Prosegue a tal proposito Alessandra Guigoni, antropologa italiana: ogni cultura regola l’alimentazione dettando una serie di norme più o meno esplicite e rigide che fissano cibi commestibili e cibi considerati ripugnanti o vietati, ma anche i modi di preparazione, tempi e luoghi, contesti e persone con cui il cibo può o deve esser consumato. Il consumo del cibo, in una parola, è un procedimento per costruire, comunicare (ed eventualmente 142 Alessandra Guigoni, “Questioni antropologiche sul relativismo culinario”, in Tutto è relativo: la prospettiva in antropologia, (a cura di Bruno Barba), SEID, Firenze, 2008, p. 168. 93 trasgredire) regole sociali, gerarchie, legami. Ogni sistema d’alimentazione prevede al suo interno una precisa articolazione e disposizione degli alimenti, delle tecniche di preparazione e di cottura, di presentazione a tavola, secondo norme condivise dal gruppo sociale di riferimento. Gli alimenti sono raggruppati a seconda delle proprietà estrinseche o intrinseche […], e secondo gerarchie di preferenza e di desiderabilità ben precise, nelle quali concorrono anche gusto, peso, stato […], proprietà nutritive loro riconosciute […], che tuttavia variano da civiltà a civiltà, e di epoca in epoca.143 Per questo, come sottolineato già all’inizio di questo paragrafo, il cibo è eredità e il comportamento alimentare viene solitamente trasmesso dai genitori ai figli, in un processo di inculturazione. A questo comportamento, che detta leggi sul tipo di regime alimentare che un individuo deve seguire, va però aggiunta l’influenza dettata dalle scelte e dai gusti personali, possibili fautori di modifiche sul regime alimentare stesso. L’inculturazione avviene come diretta conseguenza del bisogno di appartenenza, vale a dire che la condivisione di un modello alimentare si deve alla voglia che ciascun individuo ha di rafforzare la propria identità in relazione all’inserimento in un dato contesto culturale. La studiosa Miriam E. Lowenberg ha individuato, nella relazione uomo-cibo, cinque livelli144 che progressivamente si muovono dalla dimensione biologico-naturale, a quella culturale. Il primo livello è definito livello del bisogno, poiché relazionato alla necessità che ogni uomo ha di alimentarsi per sopravvivere. Il secondo livello è quello della sicurezza, ovvero l’esigenza di procurarsi cibo non solo legata al presente, ma anche per una sopravvivenza futura. Il terzo stadio è definito bisogno di appartenenza, ovvero l’adozione di un modello alimentare condiviso al fine di definire e rafforzare il senso di identità e i processi di identificazione in un gruppo. 143 Alessandra Guigoni, “Tradizioni inventate: abitudini alimentari e identità sociale”, Diogene, n. 3, Settembre-Novembre 2008, p. 38. 144 Questi cinque livelli possono essere considerati come una trasposizione “alimentare” della piramide maslowiana, concepita come "Hierarchy of Needs", nel 1954. In questa gerarchia, lo psicologo statunitense Abraham Maslow prevedeva la presenza di differenti livelli, cinque stadi attraverso i quali l’uomo si realizza e così concepiti: bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, bisogni di appartenenza, bisogni di stima, di prestigio e di successo e bisogno di autorealizzazione. 94 Il quarto livello riguarda il bisogno di autostima, riconducibile cioè al senso di prestigio e successo legato alla possibilità di potersi nutrire. Infine, il quinto livello è quello dell’autorealizzazione, nel quale l’individuo sceglie di che cibo alimentarsi secondo i propri gusti e in relazione alla percezione della propria identità personale. Spesso il bisogno di identificazione diventa più forte se relazionato al processo migratorio e il cibo, nuovamente, diventa espressione di differenziazione che contribuisce ad amplificare il senso di appartenenza e superare quello che l’antropologo Kalervo Oberg definisce cultural shock145. Lo shock culturale, da considerare come uno stato d’animo trascinato dal processo migratorio in maniera automatica e intrinseca, sfocia in una forma di alienazione nei confronti della società ospitante, la quale non viene riconosciuta come composta da norme e valori decifrabili. Lo scrittore Mario Grasso sosteneva, nel suo libro Donne senza confini, che “l’emigrazione comporta una certa fase traumatica acuta, ma uscendo dall’interpretazione etimologica del termine, il trauma non è ascrivibile solo a un fatto isolato e acuto, ma anche a situazioni che si prolungano nel tempo.”146 Ma lo shock culturale non si presenta solo a livello psicologico, ma anche nella concretezza della realtà e tra queste concretezze compare proprio quella della differenza nei regimi alimentari: l’immigrato è, quindi, spinto verso il voler conservare le proprie consuetudini a tavola. Se questo, in passato, poteva essere difficile, costoso, a volte addirittura impossibile nei piccoli paesini di periferia, a causa della non facile reperibilità degli ingredienti o dei giusti macchinari per lavorarli, la realtà di oggi è ben diversa, essendo questo processo di conservazione facilitato dalla globalizzazione e della radicata circolazione di tutti quei prodotti tipici delle coltivazioni africane o asiatiche ma che cominciano a incontrare anche il gusto degli europei. E proprio parlando di gusto e della difficoltà di incorporarne e accettarne altri nuovi, è possibile identificare i differenti processi di integrazione basandoci su quanto discusso nel § 2.3: da un lato possiamo, pertanto, parlare di assimilazione, definibile 145 Kalervo Oberg, “Cultural shock: adjustment to new cultural enviroments”, Practical anthropology, n.7, 1960, p. 177. 146 Mario Grasso, Donne senza confini: immigrate in Italia tra marginalità e immigrazione, l’Harmattan Italia, Torino, 1994, p. 83. 95 come la volontà dell’individuo di abbandonare la propria cultura d’origine per assorbire completamente quella della nuova società ospitante; mentre nel caso opposto è legittimo parlare di separazione, da intendersi come lotta per il mantenimento totale della propria identità. In relazione a questo senso di smarrimento e di nostalgia dei sapori perduti, con particolare riferimento ai grandi esodi europei tra Ottocento e Novecento, l’antropologo Teti si esprimeva proprio così: il cambiamento d’aria e il diverso tipo di cibo contribuivano non poco al desiderio perpetuo e inesauribile di tornare al luogo natio. Non erano rari i casi di morte da nostalgia. All’ammalato bastava accennare alla possibilità di ritorno e già manifestava segni di guarigione. Mangiare come nel luogo d’origine ha in qualche modo contribuito a placare la nostalgia, come se insieme al cibo e alle abitudini alimentari si fossero portati con se nel nuovo mondo anche la casa, l’orto, i familiari, gli amici.147 Un ennesimo legale che l’uomo ha creato con il cibo è quello che lo mette in relazione con il proprio status sociale, un tipo di identificazione che sottolinea le possibilità economiche di ciascun individuo. Questa dicotomia cibo-status varia ovviamente non solo nelle diverse culture, ma anche nei diversi periodi storici. Nuovamente, scrive la Guigoni, molti sono, ed erano, i cibi e gli ingredienti che possono richiamare l’idea di ricchezza, “come le spezie nel Medioevo, o lo zucchero e la cioccolata nel corso dell’Età moderna, o ancora lo champagne e il caviale, stereotipi dell’‘esclusivo’ oggetto di desiderio della borghesia, di spreco, ostentazione, insieme alla selvaggina, ai tartufi e ad altri prodotti alimentari rari e costosi.”148 Negli ultimi anni, dalle riviste ai programmi di cucina, dalle guide alle manifestazioni gastronomiche, il campo della comunicazione si è particolarmente interessato al mondo della cucina e del cibo. 147 Vito Teti, Il colore del cibo: geografia, mito e realtà dell'alimentazione mediterranea, Meltemi, Roma, 1999, p. 94. 148 Alessandra Guigoni, “Tradizioni inventate: abitudini alimentari e identità sociale”, cit., p. 41. 96 Questo gran parlare ha portato ad entrare in contatto un sempre maggior numero di piatti e alimenti, un contatto certamente favorito, come più come volte sottolineato, sia dalla globalizzazione che dal processo migratorio. Se c’è chi, da una parte, vede questa mescolanza come un’ulteriore metafora di ricchezza culturale, c’è chi, dall’altra, considera pericolosa questa esotizzazione dell’offerta gastronomica, vista come una minaccia per l’identità e per la cucina tradizionale di ciascun paese. E’, infatti, ormai innegabile che la maggior parte delle cucine mondiali ha subìto questo processo di contaminazione e inserito tra i piatti tradizionali alimenti che di tradizionale hanno nulla o ben poco: basti pensare all’idea, largamente diffusa tra gli americani, che la pizza sia un’invenzione della loro catena PizzaHut, non per altro la catena di pizzerie più grande al mondo. Tra queste pietanze ibride, è possibile trovare piatti che esaltano perfettamente i diversi sapori, diventando difficilmente riconoscibili e identificabili come “nontradizionali”; altri, invece, rimangono molto ben distinguibili ed etnicamente connotati, pur avendo subìto profonde rivisitazioni e adattamenti. 4.2 L’interculturalità gastronomica: tra fusion e confusion Quando si parla di cibo e lo si intreccia con l’aspetto interculturale, non si può non pensare alla cucina fusion come massima espressione di mediazione gastronomica. La parola fusion è un termine di derivazione anglosassone e, come facilmente intuibile, è il corrispettivo italiano della parola fusione, unione. Quando, infatti, si attivano i processi migratori, questi non portano con sé solo uomini e donne carichi di speranza ma persone che alle loro spalle lasciano anche colori, sapori e odori della loro cucina. Lasciarsi indietro qualcosa di così culturalmente marcato, tuttavia, non è sempre semplice; spesso la tendenza e la voglia di trascinare con sé i ricordi di una terra che si sta abbandonando è più forte della forza di dimenticare; così, tra un paese e l’altro e una 97 cultura e l’altra, emigrano, insieme alle persone, anche i cibi, con le loro modalità di cucina, cottura e di consumo. L’intera storia dell’umanità testimonia questi scambi. Le tradizioni gastronomiche attuali sono il risultato di dinamiche di relazione con l’alterità e quindi di incontri interculturali. L’incontro interculturale, a sua volta, può portare al rifiuto di uno o più elementi di questa alterità o, al contrario, alla sua adozione. Quando tale adozione avviene, essa subisce un processo di rielaborazione e adattamento al contesto locale: una concezione della cucina fortemente identitaria, tradizionale e immutabile nel tempo è completamente priva di fondamento storico.149 Infatti, sebbene la cucina fusion sia spesso un fenomeno riconducibile solo alla realtà contemporanea, in realtà scambi di ingredienti e ricette avvenivano già nei tempi più antichi. Quelli che oggi sono simboli tipici della nostra gastronomia, sono in realtà prodotti importati da altre terre, come il pomodoro e il peperoncino che, originariamente piante amerindiane, sono divenute simbolo dell’italianità genuina. Se questi primordiali scambi gastronomici possono essere ricondotti all’idea di esportazione/importazione di prodotti di allora nuova scoperta, oggi con il termine fusion possiamo indicare l’esplicita mescolanza di ricette nostrane ed esotiche, che portano verso la conquista e la scoperta di nuovi piatti e sapori non ben identificabili o riconducibili ad una precisa tradizione culinaria. Tuttavia, sembra legittimo poter affermare che la fusion non nasca dalle idee, quanto dalla concretezza delle cose, quella concretezza che è figlia, come già detto, dell’immigrazione e che porta milioni di persone in un nuovo contesto, di fronte ad altri prodotti, altre persone, altre abitudini. E’ questa feconda contaminazione che dà luogo a una cucina nuova, ibrida nei suoi sapori e nel modo di amalgamarli, e così la mescolanza e la sovrapposizione di popoli e culture diventano i principali ingredienti della cucina fusion. In realtà, è possibile distinguere due tipi di cucina fusion: un primo tipo nasce dall’accostamento di piatti che appartengono a tradizioni culinarie differenti ma che 149 Vittorio Castellani, Il mondo a tavola: precetti, riti e tabù, Einaudi, Torino, 2007, p. 85. 98 spesso vengono erroneamente associate e costrette in un’unica etichetta, come può essere il caso della cucina asiatica, definizione sotto la quale spesso si uniscono la cucina giapponese, cinese, vietnamita o tailandese, ma che in realtà sono cucine ben specifiche e separate. Il secondo tipo è costituito, invece, da piatti che fondono in sé ingredienti o stili culinari tipici di culture completamente differenti, secondo un processo propriamente interculturale. Entrambi i casi possono comunque costituire un modo per “entrare in contatto con culture diverse, giacché mangiare il cibo altrui sembra più facile – anche solo all’apparenza – che codificare la lingua. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni.”150 Tuttavia, considerare la cucina fusion come l’abdicazione della propria cultura potrebbe essere sbagliato; al contrario proporre un piatto frutto di una contaminazione gastronomica significa in primo luogo conoscere bene le proprie radici, ma senza la paura di “sporcarle”, provando a sperimentare e assaggiare; rendendo questo processo un lavoro di amore verso i sapori di origine e quelli di nuova scoperta e non solo una spicciola moda piccolo-borghese. Ma come ogni cosa, anche tutto questo ha il proprio rovescio della medaglia, che sta nella possibilità di imbattersi in bizzarri accostamenti dai gusti poco probabili o improponibili, grottesche imitazioni di cibi che hanno dietro una tradizione secolare, come le miriadi di proposte italo-giapponesi che fanno del sushi quasi una scimmiottatura del tradizionale piatto nipponico. Questo perché la moda spesso detta leggi selvagge che investono anche il cibo e la fusion rischia di sfornare ricette che sono solo imbrogli mal riusciti, un calderone di mille soluzioni gastronomiche, figliastre di piatti già esistenti; un’accozzaglia di sapori mal assortiti che potrebbero finire per far diventare questa cucina un’identità quasi irreale, poiché mal gestita, nella quale gli ingredienti perdono la propria identità culturale per fondersi in sapori e ricette senza patria. Così, la nostra società corre il rischio di diventare l’epoca della troppa faciloneria, ad un passo dall’insensatezza, che cerca di creare, di inventare e reinventarsi 150 Massimo Montanari, Il mondo in cucina: storia, identità, scambi, Laterza, Roma, 2002, p. VII. 99 ma senza una vera logica, senza interiorizzare nulla, senza dare un vero valore alla cultura e alle radici; creando confusione, disordini e pasticci e facendo sì che il confine tra fusion e confusion diventi davvero troppo labile. 100 SECONDA PARTE 1. Introduzione al laboratorio Scorrendo tra i vari progetti proposti dall’università di Milano, nell’ambito di laboratori, stage e tirocini, a catturare la mia attenzione è stato Il mezzo audiovisivo come strumento di ricerca nella pratica del mediatore interculturale, un titolo che sembrava volersi distaccare dalla solita esperienza didattica e che, almeno nelle premesse, poi non deluse, mirava non solo all’acquisizione di tecniche di base relative al mondo dell’audiovisivo e della mediazione, ma ad essere un’esperienza ricca tanto dal punto di vista professionale, quanto da quello di crescita personale. La descrizione, che seguiva il lungo titolo, sottolineava come l’obiettivo del laboratorio fosse quello “di far acquisire competenze teoriche e pratiche relative all’uso del mezzo audiovisivo come strumento di ricerca sul campo e di riflessione sulla comunicazione e sulla gestione dell’informazione in un contesto interculturale.”151 Per quel che riguardava le passate esperienze del laboratorio, quattro sono le edizioni che hanno preceduto questa presa in esame: gli elementi pratici sui quali si era lavorato sono stati l'intervista, le riprese in esterna e in interni e le tecniche basilari del montaggio. Dal punto di vista delle tematiche, il focus è ricaduto sulle seconde generazioni, sugli spazi urbani dell'immigrazione, sull'autorappresentazione delle comunità migranti e sul linguaggio dei non udenti. Un insieme congiunto di spunti interessanti che hanno fatto sì che decidessi in definitiva di voler prendere parte all’edizione 2013/2014 del laboratorio professionalizzante Il mezzo audiovisivo come strumento di ricerca nella pratica del mediatore interculturale, ideato e diretto da Silvia Riva, docente di Letteratura francese contemporanea e Culture francofone presso il Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Milano. 151 http://www.scuolamediazione.unimi.it/img/common/Laboratori_MEDLIN_1415.pdf 101 Il 9 Giugno 2014 è stato il giorno del primo incontro. La sala prevista contava di un solo grande tavolo rotondo e una serie di sedie riempita da quindici studenti, me compreso, della laurea triennale e magistrale specializzandi in lingue e culture occidentali e orientali, che poco o nulla ancora avevano avuto a che fare con la mediazione, quella pratica e reale. Ricordo ancora l’espressione di sconcerto della prof.ssa Riva quando, a seguito dei nostri primi interventi, metabolizzò che nessuno di noi aveva avuto esperienze dirette di mediazione interculturale e che tutto ciò che sapevamo, o credevamo di sapere, era solo il frutto di anni di studi, fatti privi di alcuna competenza pratica. Il concetto di intercultura, presente nel titolo del laboratorio e tante volte richiamato durante le discussioni dello stesso, voleva essere per il nostro lavoro un sinonimo di apertura mentale, sinonimo di una forza in grado di rompere gli schemi, di creare domande che non avessero già risposte preconfezionate ma che andassero alla ricerca di nuove soluzioni. L’idea di mediazione interculturale proposta dal Laboratorio puntava ad ottenere un racconto inaspettato e mai banale e il video, che ne è la rappresentazione più diretta, doveva configurarsi come un racconto as you go, un percorso non lineare e prestabilito che aveva ancora bisogno di trovare la propria narratività. Di fatti, nel creare il documentario siamo partiti senza avere idea alcuna su dove saremmo arrivati, che cosa avremmo effettivamente mostrato, ma con la sicurezza e l’ambizione che il nostro prodotto finito sarebbe stato una fonte per molti spunti di riflessione. L’incontro introduttivo del 9 Giugno è servito soprattutto da presentazione per noi e per il gruppo di collaboratori della prof.ssa Riva, tra cui Isabella Bordoni, artista, autrice e docente NABA, e Davide Biscuola e Massimilano Franceschini, tecnici in rappresentanza del CTU, il centro d’Ateneo per l’e-Learning e la produzione multimediale a servizio della comunicazione istituzionale e della didattica delle nove Facoltà presenti nell’Università degli Studi di Milano. Una delle prime domande che provocatoriamente ci è stata posta è stata quella del nostro rapporto con la cucina, domanda alla quale la maggior parte di noi ha risposto descrivendolo come litigioso e, in casi estremi, di pura necessità di sopravvivenza. La 102 domanda, si sottolinea, non è stata fatta fuori da ogni logica, ma si incasellava perfettamente all’interno della tematica che quell’edizione del laboratorio, la quinta, avrebbe trattato ed evidentemente, quindi, relazionata al mondo del cibo e dei fornelli. Il workshop ha, infatti, seguito da vicino un gruppo di immigrati regolari più un italiano, unico componente maschile, alle prese con la creazione di un catering interculturale, diretto da Ersilia D’Antonio, responsabile del progetto e da sempre impegnata nel campo dell’orientamento e della formazione. L’iniziativa, denominata “Metti il mondo in pentola!”, nasceva all’interno del contesto Dencity, progetto dell’associazione culturale Dynamoscopio, che si fa pioniere e portavoce della riqualificazione culturale e della rivalutazione del tessuto urbano di zone della periferia milanese, come i quartieri di Giambellino-Lorenteggio. E’ proprio sul portale e sulla pagina Facebook di Dencity che il 7 gennaio 2014 viene lanciato e pubblicato per la prima volta il bando di concorso per il progetto. Con lo slogan “Sei pronto a diventare un cuoco interculturale?”, tradotto in spagnolo, giapponese e arabo, il manifesto pubblicizzava, per la giornata del 15 gennaio 2014, la presentazione del corso di cucina interculturale creativa, presentazione alla quale sarebbe seguita la comunicazione dei soggetti selezionati per il progetto di start-up. Il corso di formazione teorico e pratico, offerto ai selezionati e della durata di due mesi, prevedeva 150 ore di preparazione nella cucina professionale del Centro di Formazione del Comune di Milano e, a seguito, il rilascio dell’attestato HACCP.152 Il gruppo ha subìto, dalla data di creazione a quella della prima uscita ufficiale dell’8 Marzo 2014, uscita non testimoniata nel nostro documentario, una compressione in termini quantitativi, da 12 a 7 partecipanti e, pertanto, nei racconti a seguire il gruppo verrà descritto e analizzato così come si è presentato ai nostri occhi e alle nostre telecamere: sette aspiranti cuochi e potenziali imprenditori ridefiniti e reidentificati all’interno del gruppo-catering “Il mondo in pentola”. I mesi di lavoro, delle riprese e di lunghe discussioni che seguirono hanno portato, infine, alla creazione de Il mondo in tavola, un video-documentario che ha testimoniato il lavoro di questo gruppo nelle fasi di elaborazioni del progetto. Il 26 Novembre 2014, 152 L’HACCP è un attestato di formazione per il personale addetto alla manipolazione degli alimenti che viene rilasciato dopo un corso di formazione. 103 seppur in una versione ridotta di circa undici minuti, il documentario, uscito per la prima volta dagli studi del CTU, è stato presentato e trasmesso durante un festival in zona Lorenteggio. Il video, che ha seguito la costituzione e la crescita della start-up, ha voluto dar conto visivamente di un’esperienza che, attraverso il cibo, con le proprie declinazioni territoriali, ha visto sette persone, in un gruppo variegato per sesso, età e provenienza, unirsi e coalizzarsi per arricchire le loro condizioni, per migliorare le proprie autorappresentazioni sociali, ma anche, e soprattutto, per decostruire e contrattare le loro identità, senza pregiudizi né limiti, con la voglia di conoscere, farsi conoscere e di cucinare. Un scambio interculturale che ha visto il territorio milanese testimone della crescita di un sostrato di fattori sociali, culturali e spirituali; un humus da cui tutti abbiamo potuto trarre valore, competenza e professionalità. 104 2. La ricostruzione de Il mondo in tavola Nella giornata del 10 Giugno 2014, il gruppo si è riunito per la seconda volta intorno al tavolo rotondo, per discutere sulle nozioni basilari di ripresa che sarebbero servite a noi studenti per la documentazione del primo nostro incontro con il gruppo di catering. L’analisi di alcuni video, da quelli di carattere professionale a quelli più amatoriali, ci è stata d’aiuto per capire quello che dovevamo, ma soprattutto che non dovevamo fare. Le nozioni di ripresa si sono perfettamente incastrate con quelle di mediazione: per svolgere un lavoro ottimale, era importante che la documentazione del catering non interferisse con lo svolgimento dello stesso o che, in altre parole, noi, con le nostre telecamere, non fossimo d’intralcio al gruppo di lavoro. Nel pomeriggio di quella stessa giornata ci siamo, così, recati presso la Palazzina Liberty di Milano, dove l’ILO, International Labour Organisations, il MIUR, Ministero dell’Istruzione Università e Ricerca, il CICU, comitato italiano città unite, il MED, Associazione italiana per l’educazione ai media e il Comune di Milano invitavano tutti a partecipare alla giornata mondiale contro il lavoro minorile, un evento che vedeva protagonisti giovani e bambini di quattordici scuole musicali Suzuki del Piemonte e della Lombardia che, sotto la direzione del Maestro Antonio Mosca, avrebbero eseguito pezzi di musica classica e leggera, oltre alla lettura di poesia che gli stessi avevano scritto sul tema. Durante la manifestazione, l’interculturalità si respirava nell’aria, testimoniata anche e soprattutto dal Forum Città Mondo153 che, istituito nel 2011, si riunisce periodicamente intorno a diversi tavoli di lavoro tematici, dalle donne e la cultura, ai musei, agli eventi legati a Expo 2015. In un contesto così ricco e variegato di culture e identità, si inseriva perfettamente anche il catering Il Mondo in pentola, pronto a imbandire le tavole di loro prodotti per i partecipanti alla manifestazione. Arrivati sul luogo dell’evento, incontriamo così sette donne e un uomo. Vengono dall’Eritrea, dall’Albania, da Cuba, dal Costa Rica, dal Perù, dal Giappone, 153 Il Forum, istituito dal Comune di Milano come luogo dove le differenze culturali e il dialogo interculturale potessero prendere forma e avere manifestazione, rappresenta le oltre cento comunità di origine straniera presenti nell’area milanese. Grazie ad esso, queste comunità internazionali sono diventate anche protagoniste dell’evento Expo 2015, attraverso e grazie ai loro rapporti con i Paesi d’origine e in virtù del ruolo propulsivo che svolgono nella vita economica, sociale e culturale del paese ospitante. 105 dall’Italia. Il primo incontro si è rivelato diverso da come era stato prefigurato. La tensione si tagliava con la lama di un coltello. Infatti, fatta eccezione per Marco, l’unico uomo e l’unico italiano, il restante gruppo era alle primissime armi con la gestione di un buffet e anche l’interazione con i commensali, dal chiacchierare, al versare una bibita, al porgere un piatto si caricava di agitazione e nervosismo, un senso d’inquietudine dettato certamente dall’inesperienza. Sull’altra sponda del bancone c’eravamo noi, gli studenti, turbati dallo stesso senso d’inadeguatezza, dalla stessa agitazione dovuta all’inesperienza e dettata dal non saper come poterci muovere e relazionare con loro: avvicinarsi ma senza ostacolare, riprendere ma con discrezione; dovendo improvvisamente mediare tra il nostro lavoro di reporter e il loro lavoro di catering. A buffet concluso, la tensione è cominciata lentamente a disciogliersi, lasciando spazio alla possibilità di qualche veloce scambio di battuta con alcuni di loro. Il giorno seguente, arricchiti della nostra prima esperienza, il tavolo rotondo nella sala del CTU è stato il luogo dove soffermarci a riflettere su quanto avvenuto. La sensazione avvertita era stata per tutti un po’ la stessa: l’evoluzione di una situazione che, se in un primo momento sembrava volerci scivolare dalle mani a ogni singolo istante, in seguito ha subìto un’apertura, un piacevole e inaspettato risvolto, che seguiva poi le regole del nostro stesso documentario: nessun copione da seguire e nessun messaggio preconfezionato da trasmettere. Nel pomeriggio di quella stessa giornata, una delle cuoche del catering avrebbe ritirato un premio a Palazzo Reale di Milano e così, muniti di telecamere, macchinette fotografiche e telefonini, ci siamo recati lì anche noi, per assistere e festeggiare quel “traguardo culinario” che sarebbe poi diventato una parte del nostro progetto. Dal mondo con sapore era un concorso di cucina interculturale, organizzato dal Comune di Milano in partenariato con Pandora, una cooperativa sociale di animazione interculturale, e sviluppatosi all’interno del progetto Urban Cooking and Gardening.154 154 Il Comune di Milano, per dare maggiore impulso e visibilità al Forum della Città Mondo ha sviluppato il progetto Urban Cooking & Gardening: grow food, grow people, grow communities. Intento del progetto è quello di promuovere il dialogo interculturale, favorendo la conoscenza e l’accettazione reciproca tra società d’accoglienza e comunità di Paesi terzi. 106 Il bando era rivolto e riservato a cittadini e comunità migranti instauratisi sul territorio milanese e prevedeva l’assegnazione di sei premi ai migliori piatti presentati, tre nella sezione “ricette di famiglia” e tre in quella “professionisti”. Più di trecento le ricette pervenute, in seguito pubblicate in una grande raccolta sul portale del Forum Città Mondo155. Giudicati da esperti gastronomici, cuochi e nutrizionisti, i piatti avrebbero acquisito punteggio sulla base della loro completezza e chiarezza di preparazione, della sostenibilità economica, in termini di rapporto qualità-prezzo, e sul grado di legame con la cultura e la tradizione di origine. La premiazione è avvenuta a termine di una conferenza interculturale, intitolata Coltivare la cultura dell’integrazione, che discuteva il ruolo dell’orticoltura urbana e del cibo nella promozione dei processi di scambio ed integrazione tra culture. Irsa Milagros Vaillant, una giovane donna cubana di quarantadue anni, da quasi venti in Italia, è stata, per l’appunto, tra le protagoniste vincitrici del concorso. La felicità le si leggeva negli occhi, così pure come in quelli dei suoi amici-colleghi del catering, venuti ad assisterla e festeggiarla. Noi, con le nostre macchinette, abbiamo fotografato quei momenti, attimi in cui il gruppo, unito dalla condivisione di un progetto così grande come quello della start-up, aveva fatto della vittoria del singolo la vittoria di tutti. La cucina, il progetto comune, il desiderio di farcela erano riusciti nell’intento di saldare in breve tempo un gruppo di sconosciuti, che non si era neppure scelto, ma che era accomunato dal lavoro febbrile di formazione e servizio che stava facendo. Una delle altre protagoniste del documentario, una donna albanese di quarantanove anni, ha rivelato durante le nostre interviste che, per il tipo di cultura e di educazione inculcatele fin da bambina, mai avrebbe pensato di poter mangiare del cibo preparato dalle mani di una donna di colore; quell’esperienza era servita a lei e a tutti, non solo per resettare la rappresentazione dell’Altro, ma anche per re-identificare se stessi e il proprio modo di pensare e vivere l’interculturalità: il cibo, da solo, era già stato un potente mediatore. La giornata dell’11 Giugno 2014, è stata per il nostro gruppo di laboratorio piuttosto densa e articolata. Il planning del catering prevedeva tutta una serie di impegni che noi eravamo pronti a testimoniare con la nostra presenza. 155 http://cittamondo.it/?page_id=1054 (consultato in data 20 gennaio 2015). 107 Durante i mesi di formazione, infatti, il gruppo ha seguito delle lezioni teoriche per capire, tra le altre cose, il funzionamento del mondo imprenditoriale e l’iter da rispettare per la costituzione giuridica di una start-up; guidati da un gruppo di esperti riuniti sotto Massimiliano Lepratti, presidente dell’associazione Economia e Sostenibilità. EStà, abbreviazione della stessa, nasce nel 2012 proponendo un approccio economico compatibile alle questioni di sostenibilità, una parola che per loro significa trovare nuove forme di lavoro che aumentino la qualità della vita e proporre una riconversione ecologica dell’economia; studiando e facilitando, inoltre, progetti di sostenibilità per le attività socioculturali e processi di rivitalizzazione dei borghi. Così quella mattina, ci siamo recati presso il mercato rionale di Lorenteggio dove Stefano Carcano ha tenuto una lezione di economia. Dietro invito, ci siamo seduti anche noi intorno a quel tavolo di formazione, posizionato al centro di un piccolo spazio ricavato all’interno del mercato, che, trovandosi ad angolo, aveva due pareti aperte che ne facevano una zona di transito, ma al contempo un ambiente raccolto. L’estetica era piuttosto artigianale, ma l’atmosfera era di fermento e di grande interesse. L’intervento, protrattosi oltre il previsto, era finalizzato a configurarsi come un momento di accompagnamento, per capire se e come dare forma societaria al gruppo. Finita la lezione, il catering si è subito messo all’opera per l’allestimento del buffet, previsto per un evento di quella stessa sera. I tempi di organizzazione erano effettivamente molto brevi, motivo per il quale la scelta è ricaduta sul decidere di non seguire il gruppo durante la spesa e la preparazione dei piatti, così da non essere invadenti e ostacolare il loro ritmo diventato davvero molto serrato. La conclusione di cambiare tabella di marcia ha fatto sì che l’incontro col catering fosse posticipato direttamente al tardo pomeriggio quando, verso le 18.00, ci siamo recati in via Solari, presso un’ex –panetteria, dove il gruppo ha cominciato a imbandire la tavola di colori e sapori. L’aperitivo interculturale era inserito all’interno di un evento dal titolo La città che si può, un seminario formativo sul tema della sostenibilità, organizzato dalla stessa Dencity, già promotrice della start-up. Diversi gli interventi che si sono susseguiti: la sostenibilità in relazione alla cultura, all’arte, alla rigenerazione urbana, alla coesione sociale, all’economia; interventi al termine dei quali, tutti i partecipanti sono stati invitati ad avvicinarsi al buffet, che si componeva di torte di riso, polpette, falafel, 108 insalate, paté nero, pane pita, salse e mousse accompagnati da diverse bevande, un trionfo di colori e di sapori pronti ad essere impiattati. Durante la preparazione, siamo stati testimoni della cura con la quale tutto si stava organizzando, così come dell’ansia che li stava pervadendo per la voglia di fare un buon lavoro. Colpevole forse anche quest’ultima, sono nate tra alcuni di loro anche piccole diatribe causate dalla mancanza di alcuni degli scontrini, tra quelli che erano stati smarriti e quelli che, invece, non erano proprio stati rilasciati. Il gruppo è riuscito comunque a gestire la situazione, dandosi manforte e non colpevolizzando nessuno, ma concludendo di dover prestare maggior cura a questi aspetti che, seppur meramente burocratici, erano di grande rilevanza per una start-up. Il buffet, infine, si è concluso tra gli applausi dei commensali e il gruppo si è ritenuto stanco ma orgoglioso del proprio lavoro. Chiuse anche noi le ultime riprese, fatte di saluti, strette di mano e di tavole sbarazzate dai vassoi, abbiamo spento le nostre telecamere, soddisfatti del girato. Ciò che durante la giornata più ci ha colpiti è stata la piacevole scoperta di vedere due gruppi, il nostro e il loro, che cominciavano a lavorare in simbiosi. Nonostante la fretta e l’ansia dettata dai brevi tempi di preparazione, il catering si è mostrato disponibile nello scoperchiare qualche vassoio, in modo da mostrarcene il contenuto che poteva, così, essere immortalato, o pronto a scambiare una parola su quello che stavano preparando e come lo stavano facendo; disposto perfino a farci entrare in punta di piedi nella loro cucina di fortuna (una piccola stanzetta ricavata all’interno dell’expanetteria), dove erano affaccendati nel sistemare le ultime cose nei vassoi, prima che questi potessero essere portati in tavola. Il clima era finalmente di apertura e, se prima erano messi in soggezione dai nostri “aggeggi infernali”, pronti a riprendere ogni loro movimento, adesso questi erano diventati invisibili, quasi come fossero stati da sempre una parte del loro progetto. Il ricordo che più mi è rimasto di quella giornata, tuttavia, non riguarda il cibo di per sé, ma un episodio su Yukiko, la signora giapponese, che, riscopertasi a ballare su una musica cubana mentre ultimava la sua torta di sushi, ci ha detto, ridendo e nel suo italiano un po’ acciaccato, che mai si sarebbe sognata di farlo, che non era ammissibile per la sua cultura danzare in cucina mentre si preparava del cibo. 109 Ma in fondo, cos’è l’intercultura se non questo? A circa dieci giorni di distanza, in data 21 Giugno 2014, abbiamo seguito e ripreso per l’ultima volta il gruppo al lavoro. La nostra nuova destinazione è stata il Giambellino, che ha ospitato la summer edition del Jambellico del mondo, un festival interculturale di due giorni. Quest’adattamento di lettere giocava sul nome del quartiere e il termine jam: jam come jam session, un insieme di musicisti che si divertono nel suonare insieme, ma anche come marmellata, di cui ne era rappresentata una confettura nelle tante locandine in giro per le strade. Di fatti, la musica, il cibo e il divertimento sono stati gli ingredienti di questa festa di quartiere, un quartiere non facile e con una location sicuramente non semplice. Il Giambellino, infatti, è nella zona 6 di Milano, non molto lontano da Solari, ma dove il processo di gentrification sta tardando ad arrivare, lasciando notare, così, un quartiere ancora molto popolare e ad alta densità migratoria. Il programma dell’evento prevedeva, durante tutto l’arco della giornata, giochi, stands per il cucito creativo e la prova di costumi tradizionali, spettacoli di teatro, letture di testi e, infine, la grande cena interculturale che chiudeva il festival e con esso il nostro lavoro di riprese per il laboratorio. Tuttavia, andando indietro di qualche giorno, esattamente al 17 giugno, vorrei dedicare alcune ultime riflessioni sul nostro incontro all’università. Per la prima volta durante questi giorni di lavoro, in cui siamo stati parte del loro mondo, dei loro spazi e delle loro realtà, siamo stati noi a ospitare il gruppo nella nostra dimensione accademica. Così, è avvenuto il nostro incontro presso gli studi del CTU, nel polo dell’Università degli Studi di Milano di Sesto Marelli. E’ stato un momento significativo per tutti noi che siamo diventati depositari dei loro pensieri, delle loro vite e di ciò che per loro questo progetto aveva significato e stava significando. Siamo stati noi studenti a intervistarli, provvisti di una scaletta minima da arricchire in base alle loro risposte. Noi, come loro, sentivamo il peso della situazione e delle telecamere che, tuttavia, non ci stavano neppure riprendendo. La prof.ssa Riva che, oltre ad averlo ideato, ha seguito il progetto in ogni sua fase e momento, ci aveva dato delle dritte su come gestire l’intervista, ma, di nuovo, in un contesto genuino e spontaneo, proprio come volevamo che fosse il nostro documentario, nulla poteva essere dato per scontato, nulla poteva essere previsto o prevedibile. E’ stato in questa atmosfera che l’incontro si 110 è svolto: a ognuno di loro era stato chiesto di portare un oggetto con sé, un simbolo che li rappresentasse e, così, sono venuti con i loro vecchi album di musica, strumenti musicali, pupazzetti e abiti tradizionali che sono diventati per l’occasione ambasciatori di culture a noi parzialmente, o del tutto sconosciute. I loro racconti parlavano di storie di vita sincere, mille volte sentite o lette nei libri. Eppure, nei loro occhi c’era qualcosa in più. Sono laureati in scienze dell’educazione, in musica, sono badanti, colf e madri: per la maggior parte di loro la vita non ha consegnato quello che sognava, ma per tutti il catering significava ripresa, era sinonimo di rivalsa e voglia di rimettersi ancora in gioco per farcela. Nel gruppo, formato dal 90% di immigrati, non si leggeva solo l’immagine di chi, passivizzato dalla società, viveva nei ricordi di una terra lontana, ma si delieneava l’immagine di soggetti attivi, motivati ad entrare nel mondo dell’imprenditoria. Le interviste sono state interessanti e hanno fatto emergere molti lati di tutte le loro personalità. Infine, riuniti intorno a un tavolo, li abbiamo lasciati liberi di parlare, dando vita a quello che abbiamo definito la Tavola Rotonda. Le idee per come condurre questo ultimo momento sono state tante: si parlava di inserire un mediatore che pilotasse il discorso, si parlava di dar loro una scaletta con dei punti da toccare ma, infine, si è optato per un free-flowing: dando loro un semplice input, li abbiamo lasciati parlare e noi ci siamo limitati ad ascoltare. Attraverso un basso grado di controllo dell’esposizione, definito nei capitoli precedenti del parlato-parlato, sono stati liberi di conversare, lasciando che il discorso facesse il proprio percorso naturale. Si è parlato di mediazione, di coesione, di culture; fino a toccare temi più pratici che sottolineavano il bisogno di proseguire e non arrendersi, nonostante gli ostacoli di cui erano ben consapevoli. E’ stato per loro un momento di libero confronto, di cui forse avevano anche bisogno. E’ emerso come sia difficile parlare di società e imprenditoria in un gruppo che non si è scelto e che è formato da così tante teste, con così tanti modi di pensare, fare, parlare: quello un po’ brusco, tipico dei giapponesi che non amano i lunghi giri di parole e quello, invece, fin troppo esuberante, tipico dei cubani. Eppure, questi stereotipi non sono stati presi così come venivano loro consegnati. Ognuno dei partecipanti era visto e considerato soprattutto sulla base del proprio carattere e del suo 111 saper stare nel gruppo, così da non vedere più solo un cubano, un albanese, un italiano o un peruviano, ma un timido, un estroverso, un silenzioso, un riflessivo; aspetti anche sicuramente forgiati dalla cultura di appartenenza, ma che non possono mai essere collegati a quest’ultima così banalmente, e il gruppo questo lo aveva capito. Dopo mesi trascorsi nello studio di montaggio, grazie anche al professionale lavoro di Laura Gatta, il giorno 26 Novembre 2014, il nostro progetto è stato visionato, seppur in versione ridotta, durante un festival in zona Lorenteggio. L’evento, dal titolo Il Rovescio della Tavola, è stato progettato da Leone Contini, curato da Isabella Bordoni, prodotto da Dynamoscopio e sviluppato all’interno di Dencity. Durante l’evento, il catering ha fornito grande prova di se stesso, preparando un buffet ricco e carico di sapori esotici e nostrani. Nel corso della serata, è stato anche possibile acquistare un ricettario con la descrizione passo-passo, ingrediente per ingrediente, dei loro piatti, che poi erano rappresentazioni culinarie della loro cultura. La serata prevedeva, tra le altre pietanze, i maccheroni di Asmara, il mandoguito peruviano, l’insalata russo-cubana, il porridge del Costa Rica e ancora i visi, gli sguardi, le mani impegnate di Carin Mc Donald, Emma Alejandrina Flores Luna, Irsa Milagros Vaillant, Yukiko Okabayashi, Raimonda Prendi, Nishty Malese Arku e Marco Vigiani, protagonisti della serata e del nostro documentario Il mondo in tavola. 2.1 I protagonisti visti da vicino I protagonisti conosciuti durante il nostro laboratorio sono sette, provengono da diversi Paesi, parlano diverse lingue, promuovono differenti culture, hanno diversa estrazione sociale, diversi modo di parlare, interagire e svariati livelli di competenza in italiano. Sono venuti nella nostra università, precisamente negli studi del CTU, pronti a raccontare e raccontarsi. Ognuno di loro ha portato un oggetto, come ricordo di un passato che li lega ancora alla loro terra natia e attraverso il quale hanno cercato di parlare di sé davanti alle nostre telecamere. 112 Nel descrivere questo gruppo, così variegato in tutte le sue forme, ho deciso di partire con Marco Vigiani, 31 anni, nato e cresciuto a Milano ma con origini pugliesi per parte di padre. E’ l’unico componente maschile del gruppo, nonché unico italiano. Parlando di sé, dice di non sentirsi né pugliese, né tantomeno milanese, ma piuttosto un cittadino del mondo, riflessione che nasce come conseguenza delle sue esperienze di vita che l’hanno portato a viaggiare e per le amicizie “interculturali” di cui si è circondato. Le sue due più grandi passioni sono la musica e la fotografia, alle quali si unisce ovviamente quella della cucina. I suoi studi alberghieri lo hanno fin da subito portato a lavorare in diversi settori della ristorazione, sia in Italia che a Londra. Il contatto con Dynamoscopio è avvenuto attraverso svariate conoscenze e fin da subito si è interessato al progetto. Le sue aspettative sono alte, in primis quella di creare un team pronto ad inserirsi nel mondo culinario, mantenendo l’idea di interculturalità, che è poi il principio alla base di questo catering. L’elemento del gruppo che più lo entusiasma è proprio il carattere di diversità, un’eterogeneità di persone che nella loro singolarità hanno storie da raccontare e tradizioni di sapori da far conoscere. Tra gli oggetti che ha portato e che lo rappresentano, Marco ci mostra alcuni vecchi vinili di black music e una Nikon FM2, la sua prima macchina a pellicola che definisce come la sua figliola. Marco considera queste sue passioni legate da un unico filo conduttore: cucina mentre ascolta musica e, infine, fotografa i piatti che prepara; così tutto si fonde. Ciò che lo ha spinto a prendere parte al catering è la curiosità, la voglia di scoprire nuove cose, di far conoscere a tutti le proprie origini e farlo attraverso il cibo e la creazione di nuove relazioni personali. Nishty Malese Arku ha 57 anni, è nata ad Asmara, in Eritrea. Indossa un vestito tradizionale che le lascia scoperti solo gli occhi. E’ in Italia da circa trent’anni, un paese che non è stato per lei una vera e propria scelta, ma più una forzatura dettata dalla necessità di dover lasciare il proprio paese dopo lo scoppio dalla guerra e così ha raggiunto qui una sua cugina, unico punto fermo dal quale poter trarre aiuto. Prima di arrivare a Milano, ha vissuto un periodo a Genova, dove racconta di non avere incontrato troppe difficoltà nella ricerca di un lavoro, ma che le vere complicazioni sono sopraggiungente solo dopo, con l’arrivo della crisi. In Eritrea, con il suo diploma, ha 113 dapprima insegnato nelle scuole elementari e poi ha ottenuto un posto come segretaria. Qui in Italia, invece, ha sin da subito iniziato a lavorare come badante presso svariate famiglie. La cucina è sempre stata una sua passione e rappresenta per lei sia un divertimento che un obbligo nei confronti della famiglia, avendo due figli a carico. Il contatto con il progetto è avvenuto tramite Ersilia e trova il rapporto con gli altri cuochi del catering molto positivo: ha conosciuto tante persone, ognuna con le proprie ambizioni e le proprie forze. Porta con sé nove bambole eritree, con indosso nove vestiti, diversi a seconda delle diverse regioni di provenienza. Quando parla del suo paese è visibilmente commossa, ma per il momento ha rinunciato a pensare a un definitivo ritorno per amore dei suoi figli che, nati qui, si sentono italiani e distanti dall’Eritrea, nella quale oggi fa ritorno solo per brevi periodi di vacanza. Raimonda Prendi è una donna albanese, ha 49 anni, è sposata e con due figli. Ha frequentato il liceo classico, per poi conseguire una specializzazione in microbiologia alimentare. Da qui, ha in seguito lavorato come caporeparto in una fabbrica specializzata nella conservazione di alimenti. Dopo la caduta della dittatura albanese, si è buttata nel mondo dell’imprenditoria, aprendo come sua attività un negozio di bevande sul mare. E’ arrivata in Italia nel 2000 per raggiungere il marito che, giunto anni prima, aveva già aperto un’impresa di pulizie. Con il suo arrivo, ha iniziato a lavorare come badante, per poi diventare responsabile della propria impresa di pulizie. Descrive come bello il suo rapporto con la cucina, ma non si definisce di certo una cuoca e non ha mai lavorato nel settore gastronomico; tuttavia, ha sempre cucinato per se stessa e per la propria famiglia. Si è da subito incuriosita al progetto per la voglia di voler presentare a quante più persone possibili il cibo albanese, una cucina che ritiene sconosciuta a causa della dittatura che ha fatto sì che il suo paese chiudesse i rapporti con l’esterno e ora vorrebbe far conoscere la propria lunga tradizione di sapori e aromi. L’idea di un ristorante albanese le era già balenata tempo prima, ma le difficoltà finanziare non le avevano mai permesso di realizzare questo progetto, così vede nel catering una possibilità di rivalsa. E’ un’esperienza che la sta arricchendo molto, a livello culinario e personale. Sta imparando tanto e il gruppo è stato in grado di darle una forza che non pensava di 114 possedere; così come la voglia di creare, cucinare, lavorare insieme. A volte trova difficile riuscire a conciliare tutti i suoi impegni, ma non vuole mollare perché è un progetto al quale tiene molto. I piatti che propone per il catering interculturale sono quelli che prepara da sempre e che le sono stati tramandati dalla madre. Le aspettative legate a questa start-up, per lei, sono tante, ma non è ancora sicura di cosa riusciranno a realizzare. Quando, infine, le viene chiesto quale oggetto avesse portato con sé, tira fuori con orgoglio un vecchio macinino da caffè e, sorridendo, confessa che in quattordici di anni di permanenza nel nostro paese non ha mai provato il caffè italiano, essendo abituata a prendere quello turco. Così, ricorda e ci racconta di come, fin da bambina, usava quell’attrezzo per macinare i chicchi: una tradizione che ha continuato a osservare per far tornare alla mente non solo il sapore del suo caffè, ma soprattutto i ricordi della sua terra lontana. Yukiko Okabayashi è una donna giapponese di 57 anni, trenta dei quali trascorsi qui in Italia. E’ diplomata in musica, diploma che le ha permesso di lavorare come insegnante in alcune scuola medie e licei giapponesi, ma quella società troppo maschilista, che non le permetteva di esprimere le proprie idee nemmeno all’interno dell’ambito accademico, l’ha spinta a decidere di lasciare il proprio lavoro per intraprendere un percorso di perfezionamento nel canto. E così, volata dapprima in Germania e in seguito, sotto consiglio del proprio maestro di musica, in Italia, si è iscritta al conservatorio di Milano. La sua reale intenzione sarebbe stata quella di tornare in Giappone al termine del suo percorso di studi, ma, dopo essersi sposata con un italiano, ha deciso di rimanere qui stabilmente. Il suo rapporto con la cucina è strano ed è una passione che ha sviluppato e approfondito solo in età matura. Ricorda, infatti, che la madre non è mai stata una grande cuoca, né un’amante dei fornelli; in cambio era abilissima nell’ottenere informazioni sulle migliori rosticcerie del quartiere. Quando per studi si è trasferita in Italia, ha finalmente potuto cominciare a cucinare per sé i suoi piatti e da lì è iniziata una passione che si è sviluppata soprattutto da autodidatta attraverso libri di cucina. Ricorda, infatti, che la nostalgia per i sapori del suo paese, insieme alle scarse possibilità finanziare, sono stati il mix perfetto che l’hanno portata a specializzarsi 115 soprattutto nella preparazione dei dolci: ogniqualvolta sentiva il bisogno di riassaporare i gusti giapponesi, non potendo permettersi i ristoranti, si vedeva costretta a prepararseli da sola. Qui in Italia, ha tante passioni e svolge diversi lavori: è un’insegnante di pianoforte, una traduttrice, un’interprete, uno chef a domicilio e una pasticcera. Ha scoperto il corso tramite un gruppo di amici e ricorda, con infinita sorpresa, di essere stata l’unica orientale presente alle selezioni. Ora si trova bene, è la più anziana ma grazie al gruppo, che le dà molta energia, si sente ringiovanita. La ricchezza culturale è quello che più la sta appassionando: nota il calore e il chiasso dei cuochi latini, una cultura così diversa dalla sua. Mentre sono in cucina, accendono la radio e cominciano a ballare e, così, trascinata in quest’atmosfera, si è scoperta anche lei a muovere i piedi a tempo di musica, un qualcosa d’impensabile per la mentalità giapponese e che ricorda di aver visto solo nei film americani. Porta con sé due oggetti. Inizia a tirar fuori dalla borsa due libri di ricette con i quali ha cominciato a imparare a fare il sushi e poi un pupazzo a forma di gorilla che le ricorda tanto il figlio, volato a Londra per lavorare come steward per una compagnia aerea. Emma Alejandrina Flores Luna, dal Perù, ha 55 anni, è divorziata e con due figli ormai grandi che non sono in Italia. Ha fatto la scuola secondaria, poi si è sposata e non ha proseguito gli studi, cominciando a lavorare saltuariamente in diversi settori, reinventandosi ogni volta. E’ in Italia da tre anni e appena arrivata ha cominciato con alcuni lavori di baby sitting e ora come badante, un lavoro che certo non rispecchia le sue aspettative. Ha scoperto il progetto attraverso un’amica che le ha inviato un’e-mail con tutte le informazioni necessarie e, essendo la cucina una sua grande passione, ha deciso di prender parte alle selezioni. Con il gruppo del catering si trova bene, nonostante abbia ancora alcuni problemi legati al suo italiano da perfezionare. Non nasconde, inoltre, la presenza di alcuni piccoli problemi interni al gruppo, dovuti soprattutto alle incomprensioni dettate dall’incontro e dallo scontro di diverse culture. Ciò che vorrebbe riuscire a creare a seguito della start-up è un gruppo solido e attivo di catering, che riesca a fare impresa. Si sente positiva poiché riscontra un grande 116 interesse da parte del pubblico di commensali, che lei stessa ha visto, durante i buffet allestiti fin a quel momento, molto incuriosito dai sapori e i colori dei loro piatti. Irsa Milagros Vaillant viene da Cuba e ha 42 anni. E’ sempre vissuta all’Havana, fino a quando, nel 1996, si è trasferita in Italia per il suo attuale ex-marito. Come tutti i cubani, dice di essere molto legata alla sua terra, ma non ritiene che ora sia il momento giusto per tornare. E’ laureata in scienze dell’educazione e, arrivata nel nostro paese, ha fatto un corso di studi prima di iniziare un’esperienza di imprenditoria femminile. In seguito, ha lavorato per una cooperativa che si occupa di promuovere attività culturali e di animazione nelle scuole, un progetto che l’ha vista impegnata per circa otto anni. Sono state la curiosità e l’esigenza economica che l’hanno spinta a intraprendere altri lavori più stabili e, così, ha iniziato a insegnare spagnolo e a lavorare come traduttrice per un editore di mostre d’arte. E’ entrata in contatto con il progetto quasi per caso, vedendo un volantino in una biblioteca del Giambellino che spesso frequenta. Da bambina, a Cuba, è rimasta sempre distante dalla cucina, poiché dalla madre non le era permesso invadere quello spazio e, così, la decisione di presentarsi alle selezioni è stata dettata più da una voglia di scoprire un mondo a lei lontano, che da quella di seguire una sua grande passione. Ciò che l’ha stimolata fin da subito è l’idea imprenditoriale che sta dietro il progetto, insieme alla voglia di far conoscere agli occhi dei più i piatti cubani, una cucina che per vari motivi politici e sociali, ha subìto grandi restrizioni e soprattutto influenze dallo street food. Per parlare di sé, ha portato una maraca fatta dal legno di palma, una pianta che è un simbolo patrio. La scelta di portare questo strumento musicale è ovviamente legata alla grande importanza che la cultura cubana relega alla musica. Le maracas erano usate già dagli Indios, così diventano strumenti presenti in tutti gli stadi musicali della sua cultura, da quella tradizionale a quella moderna. Racconta, infine, che il suo uso è legato anche alla sfera mistica e spirituale, poiché utilizzata per invocare e parlare con i defunti. Carin Mc Donald è nata in Costa Rica e ha 52 anni. E’ arrivata in Italia trent’anni fa ancora molto giovane, con l’idea di un anno sabatico per girare l’Europa. Infine, il suo tour è terminato in Italia, dove ha trovato l’amore e si è stabilita. Qui ha 117 avuto modo di approfondire i suoi precedenti studi in arte drammatica, che le hanno permesso di lavorare nel mondo del cinema, della televisione e della moda. Ha scoperto il progetto per caso, attraverso un volantino, e ha pensato che potesse essere il percorso giusto da seguire anche a sostegno di un libro che stava scrivendo e che trattava proprio di cucina e di integrazione. Così, più che alle ricette e agli impasti, si è appassionata alle dinamiche che nascevano in cucina e alla grande quantità di culture che si stavano intrecciando tra coltelli e farina. Crede che il catering sia una valida opportunità per far conoscere alla gente aspetti loro ancora ignoti, poiché il cibo può essere visto come un’opportunità di mediazione e di unione che, attraverso il palato, apre le frontiere verso mondi esotici e ancora inesplorati. 2.2 A tu per tu con Ersilia D’Antonio La mia personale esperienza del laboratorio, così come del mio elaborato-tesi, si è conclusa il 20 gennaio 2015, con un incontro con Ersilia D’Antonio, responsabile del progetto catering, grazie alla quale è stato possibile raccogliere ulteriori, ultime ed importanti informazioni sull’iniziativa, ripercorrendone insieme quelle che sono state le tappe di ideazione, formazione e di sviluppo. Il testo integrale dell’intervista è consultabile nell’Appendice a questo elaborato. L’intervista è iniziata con una sua breve postilla autobiografica: laureata in filosofia, ha da subito cominciato a lavorare nel mondo dell’orientamento, quando in questo si presentavano ancora alcune auspicabili possibilità di crescita. Negli anni, ha seguito svariati progetti con contratti a termine, fino a quando, a causa del preoccupante taglio dei fondi pubblici, si è ritrovata a dover combattere contro un settore insalubre, dove le proposte di lavoro si presentavano sempre più scadenti e lontane dal suo modo di pensare e vivere la formazione. La sua idea di orientamento, infatti, di matrice soprattutto francese, è quella, spiega, definita al processo, che non si fonda sul mostrare quale sia la strada più giusta da seguire, ma che si sofferma sui contenuti specifici della persona. E’ un processo di consapevolezza, con una forte valenza educativa, che mira all’individuazione e al 118 potenziamento dei punti di forza di ciascun soggetto, il quale diventa in grado di sviluppare caratteri distinti e personali. Come responsabile per la formazione dei volontari del NAGA156, la D’Antonio ha lavorato assiduamente con e a favore delle fasce più deboli, tra cui, ricorda, i detenuti stranieri di San Vittore per i quali ha scritto, con il NAGA, un progetto di bilancio di competenze. Napoletana di origine ma trapiantata in seguito a Milano, vede in questo processo di migrazione il motivo di una sua rinnovata sensibilità e comprensione verso lo stato d’animo di chi, per volontà o necessità, è lontano dal proprio paese. Ci racconta che la sua partecipazione al progetto catering si deve soprattutto alla conoscenza che la lega a Erika Lazzarino, antropologa e ideatrice del progetto di Dynamoscopio, un’associazione culturale che, parlando di sé, si definisce così: siamo un collettivo interdisciplinare. Aggreghiamo storie, esperienze, competenze, visioni, relazioni a partire da antropologia, politiche urbane, arti, audiovideo e multimedia. Contaminando gli approcci, ci interessa congiungere ricerca, progettazione e comunicazione in una sinergia esplorativa, che sia sperimentale, duttile e indipendente. Ideiamo e realizziamo progetti culturali e creativi, capaci di elaborare processi e diffondere idee e pratiche di cambiamento che i territori esprimono.157 All’interno del quadro di Dynamoscopio, si sviluppa Dencity, un progetto finanziato dalla CARIPLO per lo sviluppo e la riqualificazione culturale di alcune zone periferiche di Milano. Le sue aree d’intervento, tutte dirette e coordinate da Jacopo Lareno, sono tre: quella dell’Housing Sociale, nella zona di Barona; della Comunicazione, in quella di Solari e della Coesione Sociale, focalizzata sulla periferia del Giambellino, area che ci interessa da vicino poiché riguarda il settore di sviluppo del progetto catering, un progetto interculturale rivolto sia a italiani sia a stranieri. 156 Il Naga è un'associazione di volontariato laica e apartitica che mira alla promozione e alla tutela dei diritti di tutti i cittadini stranieri, con una particolare attenzione al mondo della sanità, riconoscendo nella salute un diritto inalienabile dell'individuo. 157 http://www.dynamoscopio.it/?page_id=97 (consultato in data 21 gennaio 2015). 119 Ersilia D’Antonio ci spiega che l’idea di un’esperienza culinaria le balenava in testa già da molto prima che il progetto le fosse proposto, questo grazie alla sua formazione basata sul metodo retravailler, un modulo francese rivolto alle donne che, uscite dal mondo del lavoro, hanno bisogno di riscoprire in questo una propria dimensione, spesso ritrovata nelle attività di cura, mansioni che definivano tutto ciò che riguardasse l’interessarsi e l’occuparsi dell’Altro. La cucina, annoverata proprio tra questi lavori, si configurava particolarmente come un settore di coesione sociale e di sviluppo delle competenze personali; settore nel quale, tra l’altro, si presumeva che le donne avessero già conoscenze e abilità acquisite. Quando il progetto le è stato presentato, la sua prima proposta è stata quella di creare un bilancio di competenze, proposta in seguito non realizzata a ragione di mancanza di tempo e di ristrettezze economiche. Il bilancio di competenza è una tecnica sviluppata in Francia, con un forte focus sul tema del lavoro. Si rivolge a persone costrette, per svariati motivi, a dover lasciare l’occupazione per la quale si sono qualificate e che si vedono così obbligate a reinventarsi, cercando di capire quali altre competenze possano offrire al mercato: è, in sostanza, un aiuto per la persona per mettere sul piatto della bilancia tutto ciò che ha. Diversi sono i modi per gestire questi bilanci; quello che la D’Antonio ha sviluppato si basa sull’enpowerment ed è volto a ridare potere e stima alle persone. Attraverso questo modello le persone sono chiamate a individuare i propri punti deboli in maniera da potenziarli e sopperirli. Il bilancio, che avrebbe dovuto essere inserito prima dell’inizio del corso, mirava a far sì che le persone, in un certo senso, si auto selezionassero, ma il budget previsto era molto ridotto rispetto alla spesa complessiva per far sì che il piano si mettesse in atto. Un altro tassello fallito e mancato, spiega, è stato quello di selezione su ricerca territoriale. Come progetto finalizzato a riqualificare una specifica parte della periferia milanese, era auspicabile che i partecipanti provenissero tutti dalla zona del Giambellino, ma i candidati presentatisi arrivavano da tutta Milano, facendo sì che si perdesse il senso di circoscrizione territoriale. Alla presentazione del 15 gennaio, infatti, la moltitudine di candidature ha lasciato tutti gli organizzatori strabiliati. Non potendosi avvalere della possibilità di richiedere prove pratiche, la selezione è stata fatta sulla base dei colloqui, privilegiando alcuni criteri su altri. In 120 primis, è stato importante dover scegliere persone che dessero garanzie di portare a termine il corso di formazione; questo voleva dire prediligere soggetti che avessero possibilità di mantenersi, fosse anche attraverso una rete familiare, poiché non era realistico pensare a un progetto di imprenditoria con persone a cui mancava anche il minimo sostegno economico. In secondo luogo, è stato importante scegliere persone che avessero già avuto esperienze lavorative, sia in cucina che in altri lavori di carattere autonomi. In seguito, la scelta è ricaduta sulla necessità, del tutto discutibile, spiega la D’Antonio, di dover escludere i candidati che, per motivi religiosi o altri, avessero problemi nel toccare o manipolare alcuni tipi di alimenti. Infine, ultimo ma non per questo meno importante, è stato il criterio motivazionale. Dal punto di vista delle capacità culinarie e del saper stare in gruppo non ci sono stati parametri di selezione, molto dipendeva dal grado di autostima delle persone e comunque, anche laddove il livello di preparazione dichiarato fosse stato realistico, questo non era garanzia di curiosità verso il diverso, verso un mondo di sapori e di incroci; così importante per un catering che si autodefinisce internazionale. A causa delle varie difficoltà incontrate nel riuscire a far partire un progetto di così grande portata, il periodo di selezione è stato davvero breve e, a questo, ha subito seguito l’inizio del corso. Così, nella cucina del Centro di Formazione Fleming di Milano, il progetto ha cominciato a prendere forma concreta. Da subito, si è respirata un’aria di interculturalità, si è creato un luogo magico dove costruire relazioni, uno spazio dove condividere sapori passati e scoprirne di nuovi, dove dar libero sfogo alla propria creatività: l’impastare, lo sminuzzare o il cuocere non erano più semplici gesti da cuoco, ma si caricavano di una forte valenza narrativa, diventando ambasciatori di diverse culture, laddove il confrontarsi sul come tritare una cipolla, o su quanto e quale lievito mettere nel pane, piuttosto che su quale procedimento utilizzare per un sugo ben riuscito, diventavano momenti di condivisione, di confronto e di mutua conoscenza. Un lato positivo della cucina, ricorda Ersilia D’Antonio, è che questo fosse un luogo misto, non di persone disagiate. E’ stato uno spazio dove le persone si sono mischiate, permettendo che ognuno potesse avere facoltà di cambiare punto di vista sulle cose e sugli Altri. Se ad alcuni, prima di questa esperienza, avrebbe recato disgusto vedere 121 delle mani nera nella farina, oggi i protagonisti del catering si sono riscoperti a non dar più conto di questi pregiudizi razziali: è stato, così, possibile vedere una donna albanese andare a casa di una signora giapponese ad imparare come fare il sushi e questo è l’aspetto di maggior ricchezza. Ricordando una lezione tipo, la ricostruzione è che generalmente, una volta che i cuochi e il gruppo erano arrivati, si discuteva sul da farsi, poi si cucinava e infine si mangiava. I piatti venivano scelti dai cuochi ma per lo più si lavorava sugli impasti base. Era possibile che a volte durante le lezioni si creassero degli scontri, perché non sempre le tecniche spiegate corrispondevano a quelle cui, individualmente, le donne erano abituate, ma anche quello era ricchezza, anche quello era intercultura, anche quello mediazione. Ersilia D’Antonio, tuttavia, non nasconde alcune delle falle che ci sono state, come, ad esempio, i limiti sui menù sui quali era imposto un budget prefissato e non sempre generoso. I cuochi, inoltre, incaricati di procurare gli ingredienti, erano condizionati dal comune di Milano ad acquistare i prodotti solo in determinati negozi convenzionati. Un’altra problematica si è creata a livello di dinamiche di gruppo, poiché il corso non è stato esente da momenti di forti contrasti e discussioni, nelle quali la cultura di ognuno di loro sembrava accentuarsi: per chi nell’irruenza, per chi in una maggiore compostezza e per chi in un senso di straniamento, tipico di chi, per cultura, non ama mischiarsi nelle dinamiche di gruppo. Infatti, un altro aspetto che ha complicato le cose è stato proprio l’impossibilità di queste persone di potersi scegliere e difficilmente si decide di creare una società con chi non ti piace: ovviamente il conoscersi aiuta a piacersi, ma non sempre accade o comunque non sempre in misura sufficiente. Uno sbaglio evitabile, invece, è stato il far sì che il progetto fin da subito fosse finalizzato a un’attività imprenditoriale: questo ha alzato eccessivamente le aspettative da parte del gruppo e lo ha fatto senza nemmeno dare il tempo di capire se ci fossero realmente le capacità e le risorse per raggiungere un obiettivo così ambizioso. In più, sin dall’inizio del corso, si sono ricevute richieste di catering andate bene, ma erano per lo più piccole situazioni, facili da gestire che, se da un lato hanno fomentato il gruppo e la sua 122 convinzione di potercela fare, dall’altro non hanno dato la giusta visione di cos’è stare sul mercato. A oggi, non tutto il gruppo è rimasto saldo e compatto, laddove la scelta di fare attività imprenditoriale, come già più volte sottolineato, può spesso spaventare. Il progetto Dencity sta continuando a seguire il catering e a supportarlo. L’energia c’è, ma c’è anche molto su cui lavorare: tutto sembra ancora fin troppo legato a un’atmosfera di festa, il che fa venir meno lo spirito auto imprenditoriale. Tuttavia, l’aspetto di maggior rilevanza è stato che, alla fine del corso, l’essere cubano, peruviano, italiano o del Costa Rica non contava più niente. I partecipanti venivano e vengono visti per come hanno agitato nel gruppo e non rispetto a pregiudizi. Di prezioso, infatti, è accaduto che c’è stato uno smantellamento degli stereotipi, avvenuto anche con il semplice confrontarsi su azioni banali, come quello del mettere dell’acqua in pentola. E’ diventata, così, un’esperienza, dove il singolo ha messo in discussione la propria visione delle cose e ha rinegoziato la propria identità; avvenuta, per altro, in uno spazio come quella della cucina che è portatore di senso, poiché ognuno di noi ha con il cibo un rapporto tanto differente quanto profondo, testimone di provenienza, di divario, di ricordi e di cultura. Il catering attuale è composto da Emma Alejandrina, Irsa e Raimonda, alle quali si è aggiunta la stessa Ersilia, che ne è diventata parte integrante. Molti, per i motivi più disparati, hanno dovuto o voluto abbandonare il progetto. C’è chi ha trovato lavoro in settori diversi da quello culinario, come Marco e Carin, chi ha deciso di andar via su basi di mera mancanza di mediazione, causate, ad esempio, da diatribe sulla leadership, e chi, come Yukiko, ha fatto tesoro del corso per aprirsi un ristorante tutto suo. 123 3. Ultime considerazioni Il mondo in tavola è un documentario che non parla solo di cucina e cibo, ma che parla soprattutto di persone e attraverso il quale è stato possibile dimostrare la potenza del mezzo audiovisivo quale strumento d’indagine per il racconto di rapporti interculturali e della loro mediazione. La mediazione che si legge nel video avviene a più livelli: c’è quella di base, che nasce dallo scambio di culture e dall’incontro di persone che si ritrovano a dover gestire una situazione lavorativa imprenditoriale; ma c’è anche quella che avviene tra noi reporter, con le nostre macchine da ripresa, e i cuochi, con i loro cibi e le bevande; c’è poi la mediazione tra il nostro mondo accademico e la realtà associativa di Dynamoscopio, promotrice della start-up, avvenuta soprattutto grazie alla presenza di Isabella Bordoni; e ancora quella con il CTU, con la sezione montaggio, con le location utilizzate, con i visi che appaiono e le loro liberatorie da firmare. Il mondo in tavola è un documentario, ma è soprattutto un prodotto della mediazione. Come si evince dalle precedenti sezioni, siamo sopraggiunti nel percorso del catering solo in medias res, raccontando e concentrandoci su uno spaccato di questa loro esperienza di vita e di lavoro e proprio di questo spaccato abbiamo cercato di catturare e filmare il modo in cui un gruppo di sconosciuti può, attraverso la parola e la cucina, entrare in relazione. Infatti, oltre le persone, c’è ovviamente l’altro protagonista, il cibo, che ha svolto un ruolo di coesione sociale; anche lui fautore di una mediazione avvenuta sui piani di lavoro delle cucine, quella in via Fleming, così come in quelle fortuite, ricavate dagli spazi offerti durante gli eventi. Nel nostro documentario, tuttavia, la presenza del cibo non si fa trapelare fin da subito, diventando l’ingrediente segreto svelato solo sul finale. Le prime inquadrature sono volte a dar conto degli spazi che abbiamo visitato e ripreso, dalla palazzina Liberty, dove il nostro viaggio è iniziato, per seguire con il mercato comunale di Lorenteggio, l’ex panetteria in via Solari, il Palazzo Reale, le strade del Giambellino, tutti luoghi che sono diventati per qualche tempo i nostri set di ripresa. 124 Seguono poi le interviste ai nostri cuochi, protagonisti di cui sopra discusso, e nelle quali si parla, tra le altre cose, del loro contatto con la nostra terra e la nostra cultura: sette differenti personalità con le loro storie, le loro passioni, le strade diverse seguite e da seguire, con i loro progetti astratti e i loro oggetti concreti, rappresentanti di un passato a cui ancora oggi sono legati. Intervallate da alcune foto tratte dalle giornate trascorso con loro, seguono poi le immagini dalla nostra Tavola Rotonda, un momento di confronto dove ognuno, a proprio modo e con le proprie parole, ha avuto l’occasione di esprimere idee. La Tavola Rotonda non è stata per loro solo un'opportunità di confronto e di ricapitolazione su quanto fatto fino allora, ma è stato anche un modo per scoprire punti di comunione, congruenze tra culture tanto diverse, ma poi non così distanti; com’è il caso di Raimonda e Irsa, accumunate da loro passato da soldate, rispettivamente nell’esercito albanese e cubano. A seguire, altre immagini e video d’interazione tra i nostri cuochi e i commensali, momenti fatti di ringraziamenti, saluti e scambi di ricette. In chiusura, dopo i titoli di coda, la parola passa a Ersilia D’Antonio, cui è stata affidata la curatèla del progetto. Con un orientamento culturalista, lo spirito del Laboratorio è quello di utilizzare il video e il suono per smantellare il pregiudizio, per evitare l’assimilazione di nozioni date “per buone” e per decostruire il preconcetto, dove “decostruire significa entrare nelle cose non già con una credenza, ma credere in ciò che gli altri credono. Tale prospettiva implica l’immedesimazione in coloro che sono protagonisti del video e la possibilità di far leggere, attraverso le immagini e le parole, quello in cui (queste persone) si riconoscono, quello in cui credono e ciò che rifiutano.”158 Capire l’Altro, raccoglierne i pensieri e le osservazioni, cercare un punto d’incontro tra le proprie idee e quelle degli altri, o in altre parole attivare il processo di mediazione, è lo sforzo che il documentario chiede di fare – a noi che lo abbiamo creato, così come a chi lo guarderà – per andare oltre la consuetudine e provare a vivere 158 Silvia Riva, Seconde generazioni, da metafora a racconto, ….. (come devo riportarlo?) 125 in un mondo dove la diversità esiste, è concreta e vicina: “gli stranieri di ieri, infatti, sono i vicini di casa di oggi in città sempre più grandi.”159 Il concetto di intercultura si colloca, così, al centro del nostro lavoro, un video che si pone da interfaccia tra le persone, che cerca di dar parola (e immagine) alla diversità, un video sulla mediazione che diventa anch’esso mediatore culturale e lo fa attraverso il dialogo, come “forma di negoziazione in cui negoziando con gli altri negoziamo anche con noi stessi. Ecco perché è necessario assumere un approccio interculturale: l’idea di cultura come totalità non ha infatti (più) senso.”160 Silvia Riva, docente di Letteratura francese contemporanea e Culture francofone presso il Dipartimento di Lingue e letterature straniere dell’Università degli Studi di Milano, nonché ideatrice del progetto, nello spiegare l’idea del Laboratorio, quella attuata e quella auspicabile, ricorda proprio la visione che questo ha dell’ intercultura, una visione che spera che “dall’incontro di due sguardi diversi sul mondo nasca l’opportunità di un’inaspettata sintesi di punti di vista non omologhi, che è molto più della risultante della loro somma”161 e “che cambia, a partire proprio dal loro incontro, entrambi; quindi e soprattutto, anche il modo di ciascuno di vedere e raccontare il mondo.”162 D’altronde, questo è quello che hanno cercato di fare anche i cuochi del nostro video, imparando a sconfiggere il pregiudizio, a combattere il razzismo e l’ignoranza e provando a unire la crescita personale a quella professionale, tra gli ingredienti e le storie private, i fornelli e i diversi colori di pelle, le ricette e le diversità culturali; facendo scoprire come il cibo possa aiutare a unire e soprattutto a superare le barriere etniche, mediando e trasformando le menti, perché l’integrazione passa anche per la gola. 159 Ibidem, p. 8. Ivi. 161 Silvia Riva, Il documentario Il Mondo in Tavola, …….., p. 41. 162 Silvia Riva, Seconde generazioni, da metafora a racconto, cit., p. 2. 160 126 CONCLUSIONI Il Mondo in tavola: la cucina come spazio di mediazione interculturale ha voluto principalmente dar conto di un’esperienza che ha visto me e altri studenti di Lingue dell’Università di Milano, supervisionati dalla prof.ssa Silvia Riva e dai suoi collaboratori, entrare in contatto diretto con il mondo della mediazione e delle differenze culturali. Nella prima parte della tesi, studiata per essere uno strumento introduttivo e conoscitivo nei confronti del Laboratorio, si è dimostrato come quella del mediatore sia ancora una professione molto fragile, non essendo tutelata da alcun riconoscimento giuridico e spesso declassata a figura di mero traduttore e interprete. In realtà, si è data visione di come le situazioni prese in carico da un mediatore vadano ben oltre la parte linguistica, arrivando a poterlo considerare un vero e proprio operatore sociale, con la possibilità di promuovere diritti a livello sindacale, politico e legislativo. Infatti, non di rado il ruolo che riveste questa figura si confronta sempre più con la necessità di dover assolvere funzioni di accompagnatore, negoziatore, guida e assistente; considerazioni che possono portare a valutare come legittima la tesi di una mediazione definibile socioculturale, poiché coinvolta nella sfera sia materiale che psicologica e dei valori. Se l’America ha fatto da battistrada con il suo Community Relations Service, in Italia questo tipo di negoziazione extra-giudiziale è arrivata solo negli anni ’90 ed ha subìto un rapido sviluppo, anche grazie alla nascita dei primi corsi di formazione e, in seguito, alla proliferazione di corsi universitari, aventi la mediazione e lo studio di lingue straniere come principali focus nei loro piani di studi. Tuttavia, spesso la realtà non si conforma allo stato ideale delle cose: si è, infatti, descritta una situazione che vede sempre più immigrati di prima o seconda generazione farsi strada in questo settore, surclassando i laureati e mettendo in netto contrasto un mondo di mediatori de iure, con quello di mediatori naturali, o unskilled; non esenti, quest’ultimi, da critiche e problematiche dovute alla loro scarsa, o in molti casi assente, preparazione in termini di negoziazione socioculturale. 127 Si delinea, così, un quadro di precarietà e debolezza di status, che rende la figura del mediatore interculturale ancora offuscata e in cerca di una sua reale e meritata posizione sociale e giuridica. L’esigenza di questa figura nasce senza dubbio come diretta conseguenza delle differenze linguistiche e culturali che compongono le nostre società allo stato attuale delle cose. Da una parte, la lingua non è solo mezzo di comunicazione, ma plasma l’identità, dando evidenza della nostra età, del sesso, provenienza, status sociale e livello d’istruzione; dall’altra, la cultura è stata studiata e considerata soprattutto per il suo carattere di artificialità e per il suo essere stata concepita differentemente nel corso della storia, fino a essere oggi considerata, in senso lato, come arte, conoscenza e capacità. Nella tesi si è dimostrato come questi elementi siano due lenti focali attraverso le quali percepiamo il mondo, di come determinino la nostra appartenenza all’interno di una comunità, del fatto che siano fattori ereditari ma non biologici e che abbiano carattere di dinamicità, poiché si evolvono, incontrano, scontrano e influenzano, dando vita all’interculturalità. L’intercultura ha subìto sicuramente una grande spinta propulsiva dal processo migratorio, un processo che ha messo gli individui davanti la situazione di doversi confrontare con pensieri, tradizioni e modi di fare differenti dai propri, un confrontoscontro che diventa fautore ora di integrazione, ora di discriminazione e marginalità. L’inserimento di un immigrato in un nuovo contesto, infatti, è il risultato di una forza sinergetica che vede, da un lato, la volontà dell’emigrato stesso di volersi includere e, dall’altro, l’impegno da parte delle società ricevente, in termini di politiche e di abbattimento del pregiudizio. Lo studio sul Laboratorio, che prevede l’uso dell’audiovisivo come strumento di ricerca e rappresentazione, mi ha portato ad approfondire anche lo studio di questo mezzo, evidenziandone la potenza e l’efficacia riconosciutagli soprattutto nel campo della comunicazione. Il XX secolo, infatti, è stato terreno fertile per il suo sviluppo, poiché l’audiovisivo è diventato il mezzo ottimale attraverso il quale descrivere e rappresentare 128 la realtà, surclassando l’idea che la parola da sola possa essere in grado di assolvere tale compito. L’audiovisivo si fa, così, espressione di post-modernità, portavoce di un mondo, quelle delle immagini e del suono, che supera per potenza l’uso esclusivo del mezzo verbale. Tuttavia, viene posta in rilevanza l’importanza affidata all’interpretazione, che mette in luce la differenza tra la vision, intesa come tutto ciò che è fisiologicamente visibile, e la visuality, espressione di interpretazione personale: non il cosa vediamo ma il come vediamo un’immagine, elemento culturalmente marcato. Non va, tuttavia, tralasciato l’aspetto tecnologico, poiché, grazie all’uso di questo, è oggi possibile modificare un’immagine e un suono, disegnando una realtà che di fatti non esiste. La contemporaneità si fa, quindi, portavoce di un cambiamento esistenziale, dove non è più possibile affidarsi e fidarsi di ciò che vediamo. Una crisi contemporanea che vede il superamento del vecchio detto “vedere per credere”. Ciononostante, la potenza dell’audiovisivo è avvalorata da tre sue grandi proprietà: il trasmettere non solo il messaggio, ma anche il contesto in cui si realizza; la velocità di trasmissione e la capacità di permettere un più facile assorbimento delle informazioni trasmesse. Queste tre caratteristiche fanno dell’audiovisivo un mezzo ottimale per lo studio delle differenze culturali, sia come oggetto di studio, ad esempio l’analisi di un video, espressione di quella data cultura; sia come frutto dello studio stesso, qual è il caso del nostro Laboratorio: è possibile, di fatti, attraverso l’audiovisivo, cogliere e trasmettere lo sviluppo delle relazioni interculturali, un campo di ricerca valido ma che ancora deve conoscere il suo pieno sviluppo. Chiude la prima sezione analitica della tesi, uno studio sul mondo culinario, altra parte protagonista del documentario Il mondo in tavola. Nell’elaborato si è dimostrato come il cibo, elemento culturalmente connotato, abbia anch’esso carattere di artificialità, essendo una tradizione costruita nel tempo, tramandata nelle generazioni e con la quale vengono imbastiti rapporti nutrizionale-affettivi, laddove il mangiare non è 129 solo sinonimo di bisogno fisiologico, ma si fa metafora di sapori, ricette e tradizioni che sono espressione di riferimenti sociali, culturali, politici ed economici. Questo fa sì che il cibo riesca da solo a rappresentare l’individuo, in una condizione che si è definita identità culinaria, attributo dal quale sono scaturiti nel tempo e nella storia stereotipi gastronomici, che legano cioè un particolare cibo a una particolare nazionalità. La separazione dai propri sapori, infatti, può essere causa di uno shock culturale, non poco frequente nei casi di immigrati, dove questi ultimi tentano di riparare al distacco culinario attraverso il reperimento di ingredienti a loro familiari, così da ritrovare quei sapori “domestici” anche in terre straniere. Questo processo ha portato nel tempo all’incontro e alla fusione di piatti e ricette di diversa origine ed etnia, di cui la cucina fusion si fa massima espressione. Tuttavia, lo studio della tesi ha voluto porre l’accento su come sempre più spesso si faccia un abuso incontrollato di questa mescolanza di sapori, con la conseguenza e il rischio che la fusion diventi una parodia della cucina stessa. La seconda parte della tesi ha, invece, carattere più sperimentale, poiché vuole dar conto di un’esperienza vissuta all’interno e all’esterno delle mura accademiche, diventando testimone, attraverso il mezzo audiovisivo, di un esperimento di mediazione interculturale. L’obiettivo del Laboratorio, infatti, è proprio quello di voler render nota la potenza del mezzo audiovisivo come uno strumento per la ricerca e la rappresentazione del mondo, in contesti che coinvolgano il settore e la pratica della mediazione interculturale. Attraverso questo mezzo è possibile, come dato prova, dar conto visivamente delle interazioni che possono nascere in un gruppo di persone variegato per età, sesso, etnia e background culturale. Per mezzo del racconto, nella tesi ho voluto ricostruire il percorso vissuto in questi mesi di lavoro, mesi che hanno portato alla creazione del nostro documentario, come prodotto dalla e della mediazione. Siamo sopraggiunti nel percorso del catering in medias res e in punta di piedi ne 130 siamo usciti, riuscendo a riportare uno spaccato di questa loro esperienza di vita e di lavoro, catturata attraverso le nostre telecamere e telefonini, per dimostrare come un gruppo di sconosciuti possa entrare in relazione dietro i tavoli di un buffet e all’interno di spazi culinari. Questa sezione finale racchiude in sé e mette in pratica gli elementi che nella prima parte vengono descritti e studiati teoricamente, studi che si ergono, quindi, a strumento d’analisi per la comprensione del nostro lavoro. La mediazione, l’intercultura, il mezzo audiovisivo e il cibo diventano, così, i tasselli di un complesso mosaico, un esperimento di mediazione che prende il nome de Il mondo in tavola. 131