Uploaded by Golo Scholz

RECENSIONE Stirner Giuspositivista. Rileggendo L'Unico e la sua proprietà

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Recensione
Carlo Di Mascio, Stirner giuspositivista.
Rileggendo L’Unico e la sua proprietà
(seconda edizione), Edizioni Del Faro,
Trento, 2015, pp. 253, by Golo Scholz
«Supponiamo[...]che
una persona qualsiasi
(non importa chi) abbia dato esecuzione al suo
giudizio (perché si tratta di un giudizio e del
suo giudizio). Bisognerà dire allora che si è alla
presenza di un autentico fenomeno giuridico.
Bisognerà dire che la sua volontà fa legge, che essa è la sola ed unica
fonte del diritto in questione e che questo diritto è davvero diritto e non
violenza. Si può negare questa affermazione solo contrapponendo[...]un
giudizio fondato sull’idea di una giustizia valida per sempre e
universalmente, fondata cioè sul «diritto naturale». Ma questo «diritto»
ancora non esiste». E’ con questo esergo di Alexandre Kojève in Linee di
una fenomenologia del diritto (ed. Jaca Book, Milano, 1989, p. 93) che
Carlo Di Mascio apre il suo volume dedicato al pensiero estremamente
complesso di Max Stirner. Ed il ricorso alle parole di Kojève, notissimo
studioso conseguente del pensiero di Hegel, non pare casuale, bensì
pressoché propedeutico agli obiettivi che questo problematico studio
intende effettivamente perseguire, vale a dire «stabilire se nel pensiero di
Max Stirner possano rinvenirsi componenti giuspositivistiche» (p. 15).
Tutta l’opera di Stirner, sembra preavvertire l’autore, è totalmente
avviluppata da un linguaggio hegeliano, da concrezioni e orpelli sistematici
profondamente
hegeliani,
per
cui
l’unico
modo
di
far
vivere
autenticamente il pensatore di Bayreuth, variamente compromesso con
interpretazioni più politiche che squisitamente filosofiche, è quello di
ispezionarlo attraverso la lettura certosina de L’Unico e la sua proprietà,
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rompendo con ogni paradigma dialettico. Una rottura che in verità Stirner,
nell’insistente
tentativo
di
divincolarsi
dall’ingombrante
macigno
hegeliano, lentamente delinea mediante una operazione di persistente
demolizione di ogni legame con la metafisica tradizionale, per giungere
alla costruzione di un individuo assolutamente indipendente da ogni
oggetto esterno nel quale la propria libertà può andare smarrita. Sin
dall’introduzione e per tutto il corso del libro, l’autore catapulta in questa
avventura, servendosene asetticamente a piene mani, filosofi poststrutturalisti del calibro di Althusser, Deleuze e Foucault, accanto a filosofi
come Giorgio Penzo, notissimo studioso stirneriano sin dai primi anni
settanta, rinvenendo, senza però dichiararlo apertamente, un tratto
paradossalmente comune, quello vale a dire della «doverosità» di un
approccio strutturalmente antiessenzialistico dell’agire umano sulla
materia, che è poi il fondamento di quella interpretazione volta a
privilegiare l’esistenza all’essenza. Per Stirner l’essere così come lo
concepisce Hegel appare del tutto inadeguato, in quanto non riferito a un
dato empirico, esperienziale, se si vuole di vera concretezza antropologica,
ma a presupposti indimostrati, con la conseguente trasformazione
dell’uomo in carne ed ossa in un semplice fenomeno accessorio. Ne
consegue che per Stirner la liberazione dell’individuo può darsi solo
«affidando la propria esistenza [...] al suo essere concreto, che non segue
leggi razionali, vale a dire quelle che sono state impartite dalla metafisica
classica che ha stabilito cosa è razionale e cosa non lo è» (p. 23); un
essere che «va tuttavia recuperato in quanto completamente smarrito
nelle pastoie della stessa metafisica classica. E questo recupero per
Stirner può aversi solo fondando l’essere su nulla di trascendente, vale a
dire sull’assenza di ogni principio, di ogni centro, che si risolve in una
libertà senza limiti, e in cui l’individuo, come ente irripetibile, Unico,
appunto, dal nulla dal quale è nato determina le sue creazioni senza
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essere vincolato a norme o valori preesistenti» (p. 23). Riporre dunque la
propria causa «su nulla», come afferma Stirner all’inizio e alla fine del suo
libro, vale a dire «su nulla di trascendente, di superiore, di sacro, di «sopra
di me», su nessun valore già confezionato e offerto in dono, e non «sul
nulla» (pp. 234-235), diventa, nella sua più intima prospettiva, uno
sconvolgimento tutt’altro che delirante: non nell’al di là, cioè su quel nulla
attraverso cui la tradizione platonico-cristiana che culmina con Hegel ha
preteso di «descrivere il mondo imprigionando l’individuo» (p. 80) - ma in
un al di quà che l’individuo preferisce vivere e costruire la propria
esistenza. E’ dunque su questo assunto - preliminarmente focalizzato sulla
messa in crisi di ogni aspetto del razionalismo concettuale, ma ancor più
su una nuova disutopica centralità esistenziale di un individuo che sa di
essere stato gettato all’improvviso nel mondo, ma che finalmente, libero e
liberato da qualsivoglia mediazione dialettica, pretende di creare e ricreare
se stesso e tutto ciò che lo circonda, in conflitto permanente con ogni
preordinata «organizzazione sociale metafisico-teologico-religiosa che ha
stabilito cosa ogni individuo è, deve essere e deve fare, dalla nascita sino
alla sua morte» (p. 16) - che il libro tenta di innestare le proprie tesi circa
l’adozione da parte dell’impalcatura filosofica di Stirner di una dimensione
decisamente non-cognitivistica, in forza della quale i valori e le regole di
vita «non si conoscono aprioristicamente, ma si producono, si creano
autonomamente» (p. 28). Il testo, oltre ad una appendice, si sviluppa in sei
parti, ciascuna delle quali introduce al contenuto della successiva,
all’insegna di una analisi sistematica volta ad escludere l’ammissibilità in
Stirner di qualsivoglia dimensione sovranaturale (o sovraindividuale), laica
o religiosa, che possa guidare gli individui nella scelta ed applicazione di
regole governanti la convivenza sociale, ma anche a scoprire inavvertite
sintonie con il giuspositivismo per il quale il diritto è innanzitutto un atto
umano, ovvero posto dall’uomo, e tutto ciò proprio attraverso quella
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«stirneriana» assenza di fondamenti, di valori, di principi precostituiti,
anticamera necessaria diretta a disintegrare «una volta per tutte la
relazione tra diritto, finalmente liberato da ogni tradizione e ribelle ad ogni
autorità ereditaria, e verità, nel senso che la volontà dell’uomo non
costituisce più l’espressione e lo strumento di una verità superiore o,
comunque, trascendente la dimensione positiva, intesa come prodotta
dall’uomo» (p. 27). Nelle prime due parti (pp. 31-83) viene affrontato
diffusamente il problema dell’ateismo in Stirner, ritenuto saliente circa la
comprensione
della
sua
tematica
giuridica,
pervenendo
a
due
considerazioni di fondo, e cioè da un lato che la contrapposizione
all’ateismo di Feuerbach contenuta ne L’Essenza del cristianesimo, dal
quale peraltro polemicamente l’opera stirneriana prende le mosse, si
giustifica sostanzialmente nel noto rimprovero di Stirner rivolto a
Feuerbach di non aver saputo veramente superare le categorie concettuali
dell’hegelismo e della teologia, ma solo di averle rovesciate, sostituendo
così l’uomo a Dio, oltre ad assegnargli pericolosissimi attributi divini, con
l’effetto che distruggere una particolare teologia per immanentizzarla sotto
mentite spoglie non libera l'uomo, il quale assurdamente continua ancora
a vivere di fede e di dogmi illudendosi di essere libero - dall’altro che «la
morte di dio (o quella dell’uomo che altro non è che quella della metafisica
classica), che Feuerbach aveva tentato di delineare senza costrutto, viene
da Stirner trasformata in una prepotente rivendicazione dell’agire umano,
in una radicale previsione antifinalistica volta ad annullare ogni tentativo
di sovrapporre l’ordine e il comando all’azione dell’individuo» (pp. 81-82).
Un ateismo assoluto, dunque, il più estremo e radicale possibile che la
storia del pensiero occidentale ricordi, dal quale però ripartire per
ricostruire una esistenza inquinata ideologicamente, per ricondurre tutto
alla «superficie» di contro alla repressiva «profondità» dei problemi
filosofico-metafisici. Una operazione di lenta e graduale distruzione quella
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elaborata da Stirner, dettata solo dalla volontà di liberare fino in fondo la
vita dell’uomo dal controllo della cultura, sicché – incalza l’autore, invero
alquanto arditamente – «non pare forse azzardato sostenere che il
passaggio
dissolutivo
dell’hegelismo,
tende
a
trasformarsi
in
neogenealogia, vale a dire nella creazione di una nuova etica
dell’esistenza, di una soggettività che si autocostituisce attraverso il
riconoscimento delle differenze e l’annullamento delle identità» (pp. 8283). La terza e la quarta parte (pp. 85-152) si concentrano invece
sull’analisi che Stirner sviluppa del diritto e dello Stato, della società
nonché di quella nuova forma di relazione sociale che egli individua
nell’associazione. Anche qui il comune denominatore che connota l’analisi
stirneriana
della cosiddetta
macchina
giuridico-politica, è sempre
rappresentato dal ripudio di ogni trascendenza, in quanto sia il diritto che
lo Stato così come la società troverebbero sempre la loro ragion d’essere
in una «dimensione ideale che sfugge al soggetto, in quanto posta da altra
entità» (p. 87). In questa precisa ottica, alla luce dell’interpretazione di
Giorgio Penzo pienamente condivisa, quando Stirner emblematicamente
afferma che «Finché questo diritto estraneo non concorderà con il mio,
non troverò mai, in queste corti, il mio diritto» – vuol significare che non
intende affatto «negare il diritto, ma solo la sua dimensione santa,
estranea» (p. 89). Ecco perché il problema dell’ateismo si pone come
assolutamente imprescindibile nella comprensione del complessivo
discorso giuridico di Stirner, in quanto, ritenendo di «scorgere ancora
l’idea di Dio alla base di uno strumento di regolazione» (p. 90), solo
riportando alla superficie la concretezza del suo essere finalmente
riconquistato, e dunque come sua proprietà - il singolo individuo può
immaginare di costruire davvero la propria esistenza, una esistenza che
per il solo fatto di determinare se stessa, regola se stessa determinando il
proprio diritto. E difatti rileva l’autore, tenendo sempre presente la lettura
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del Penzo, «Affermare che il diritto deve diventare «mio» diritto, significa
collocare al posto di una norma divina o umana l'uomo, non come
dimensione universale, ma come dimensione unica: «E solo come l'unico
faccio di ogni cosa mia proprietà, così come agisco e sviluppo il mio
essere me stesso come l'unico (U-p.346). In questo contesto Stirner ha
ancora modo di sottolineare la speciale posizione dell'io, come mio io, che
oppone al diritto il «mio» diritto e che non è un diritto posto da un qualsiasi
«fantasma», ma dalla propria volontà; cioè in altre parole, l'eliminazione di
qualsiasi
dimensione
estranea,
santa,
comporta
l'indispensabile
distruzione della inaccettabile subordinazione del soggetto al suo
predicato. La creatura (diritto) non domina più il suo creatore (singolo),
ma è quest'ultimo a farla propria consapevolmente» (p. 95). Ed è
attraverso questa nuova dimensione che Stirner, dopo aver trasformato
l’uomo da «ente generico», ancora espressione di un nuovo dominio, in
«individuo preciso e padrone del mondo» (p. 134), pone il suo primo atto
creativo: «Sorge così una nuova prospettiva: determinare le condizioni di
una nuova convivenza sociale basata su regole diverse, ovvero la nuova
società che Stirner definisce «Associazione»: «Se lo Stato è il signore del
mio spirito, che mi impone fede e articoli di fede...l'associazione è una mia
propria creazione, il mio creato, non santo, non una potenza spirituale
sopra il mio spirito come non lo è neppure qualsiasi associazione, di
qualunque forma sia (U-p.300)» (p. 134). L’associazione, dunque, come
«superamento di ogni vivere sociale fondato sul principio di autorità» (p.
137), come strenua difesa da ogni processo di oggettivazione statuale, e
che si differenzia sia dalla società, perché mentre questa «si presenta
sempre come un complesso di leggi e sanzioni ben definite, l’associazione
invece non presenta alcun vincolo sacro» (p. 136), sia dallo Stato, perché
essa non è un suo prodotto spontaneo, «come se l’individuo avesse ancora
la necessità di collegare il proprio potere ad un ideale che lo sovrasta e lo
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annichilisce – è invece qualcosa che il singolo crea, produce, è «una mia
opera, un mio prodotto (U-p. 300)» (p. 141). Ed è proprio il tema della
creazione, della costituzione, della produzione, che può benissimo
sintetizzarsi nell’affermazione stirneriana secondo cui «Io non sono il nulla
nel senso del «vuoto», ma sono il nulla creatore, quel nulla dal quale io
stesso come creatore, creo tutto» - ad ispirare la suggestiva parte quinta
del testo (pp. 153-179), all’insegna di quel «fondare su nulla, che non è un
no alla vita o una vacua nientificazione», e che «appare indispensabile per
consentire il passaggio da un mondo già preconfezionato all’individuo ad
un mondo prodotto dall’individuo» (pp. 160-161). Per l’autore l’immane
operazione di Stirner si inserisce a pieno titolo in quel materialismo della
creazione volto insistentemente a liberare l’essere contro ogni tipo di
ingabbiamento idealistico e trascendentale, al solo fine di ricondurre tutto
alla superficie. E’ questo forse l’aspetto fondamentale del pensiero
stirneriano e che trova il suo momento di apicale chiarezza in una
paradigmatica espressione di Gilles Deleuze, secondo cui «Ciò che si
sottraeva all’idea è risalito alla superficie» (p. 171 in nota). E difatti in
questa precisa ottica, rielaborando tematiche deleuziane, a loro volta
intrise di un rinnovato spinozismo rivisitato da un altro pensatore come
Antonio Negri – Di Mascio, alquanto audacemente ed invero con non
poche forzature al limite del lecito storiografico, ritiene di avvertire in
Stirner «il tentativo di introdurre una dirompente connotazione filosofica
dell’essere in senso ontologicamente costitutivo, si potrebbe quasi dire
«adeguata a quella teoria alternativa del materialismo nella modernità che
è stata, per esempio, tipica dello spinozismo» vale a dire una «ontologia
della superficie», mai sganciata dal piano dell’esperienza materiale, che
respinge ogni tipo di fondamento nascosto e profondo e che non
concepisce (perché non è in grado di concepire) strutture precostituite e
trascendentali» (pp. 170-171). Come osserva Negri nel suo Spinoza
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Sovversivo (in Spinoza, Roma, 1998, p. 373), e che l’autore crede di
utilizzare a sostegno dell’impianto stirneriano, ritenuto non dissimile da
quello spinoziano, l’essere va inteso come fondamento, «e questo
permette l’utilizzo della parola «ontologia» per definire l’appartenenza del
suo pensiero – ma il fondamento è da lui concepito come superficie…si
potrebbe dire che l’ontologia spinoziana è una violazione della tradizione
ontologica» (p. 170 in nota). Ed è in forza di tale substrato teoretico che si
perviene faticosamente a disambiguare taluni ambiti di riflessione del
pensiero stirneriano, in una prospettiva tesa da un lato a ravvisare la
«fuoriuscita del soggetto da ogni logica essenzialistica e dal dominio di
ogni significazione, a favore di una a-logica che non totalizza oggetti e
soggetti, ma che lascia esistere (esprimere, creare, costruire) ciascuno
nella propria singolarità frammentaria» (p. 167), dall’altra - in una
folgorante anticipazione del concetto di rizoma in filosofi come Deleuze e
Guattari, dove non ci sono più punti o posizioni fisse, ma linee di
connessione che fanno saltare ogni struttura - a creare, «ripartendo da
zero, una esistenza che è continua destrutturazione, che cancella ogni tipo
di valore, norma e principio che siano già stati prefigurati da qualsivoglia
autorità ereditaria» (p. 171). Il tortuoso percorso stirneriano che ne
fuoriesce si presenta allora come un itinerario sempre non-dogmatico,
non-ideologico,
non-dialettico,
poiché
«attraverso
un
procedere
discontinuo, per rotture, per salti, che non si lascia catturare né da una
sintesi né da un sistema calato dall’alto» (p. 168), Stirner cerca di portare
alla luce un soggetto da intendere come incessante autocostruzione in
atto, non più come un in-sé da liberare, ma come un plurale frammentato
e impersonale - privo di identità perché niente e nessuno possono formare
un nuovo ordine fisso ed immutabile - che «ignorando ogni universalità,
passato, futuro e tempo preordinati dalla metafisica, costruisce «una vita
singolare immanente a un uomo che non ha più nome». Così Stirner: «Si
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dice di dio: «Non ci sono nomi per definirti». Ciò vale per me stesso:
nessun concetto esprime l’essere me stesso, nessuna cosa che sembra
essere la mia essenza esaurisce l’essere me stesso; sono solo nomi» (U-p.
350-351)» (p. 173). Se dunque per Stirner «l’esistenza precede l’essenza
dell’uomo (e) nessuna legge universale può mai sottomettere la sua
concreta singolarità, contrassegnata solo ed esclusivamente dalla nascita
e dalla morte» (p. 185), deve derivarne che i valori e le regole sono
soltanto quelli che l’individuo autonomamente si dà. Attorno a questo
nucleo tematico volto a ravvisare nel pensiero stirneriano una matrice
decisamente non-cognitivistica, si innesta la parte sesta del libro (pp. 181235) che - riprendendo l’analisi di un grande giurista come Guido Fassò,
acutamente rivisitato da un attento studioso come Massimo La Torre, non
tralasciando tutta una tradizione giuspositivistica da Hans Kelsen ad Alf
Ross, da Norberto Bobbio a Uberto Scarpelli a Luigi Ferrajoli sino al
“nichilismo giuridico» di Natalino Irti – mira da un lato ad evidenziare la
insolita sintonia della critica stirneriana con la originaria prospettiva
giuspositivistica, perché come questa volta alla incessante produzione
autonoma dei valori e della regole di vita, la quale, «prima che concepire il
diritto come espressione diretta del potere statuale, concepisce il diritto
come essenzialmente riconducibile all’attività degli uomini» (p. 198), così
esaltando, attraverso la sua componente fortemente relativistica e
soggettivistica, la centralità e la dignità dell’individuo e, dunque, come tale
dotata di una connotazione particolaristica, antidogmatica ed antiideologica; dall’altro in radicale distonia con la dimensione cognitivistica
del giusnaturalismo, il quale - nelle sue variegate sfaccettature, asserendo
che i valori sono tutti da scoprire, perché irrimediabilmente già dati e non
creati, richiamando «l’esistenza di un etica oggettiva, di una idea di verità
eterna, universale, fondativa e, dunque, di norme superiori fisse ed
immutabili» (pp. 220-221) - è sempre volto ad «ingabbiare gli individui
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all’interno di un paradigma precostituito teso a sottrarre alla loro libertà
(alla loro autonomia) un ambito rilevantissimo della loro esperienza
esistenziale» (pp. 219-220), e come tale, intimamente conservatore,
dogmatico, universalistico, e soprattutto ideologico. A ben vedere il
segreto obiettivo che questo libro con paziente gradualità intende far
emergere grazie alla ferocia distruttiva del pensiero di Stirner, è proprio
quello di un attacco frontale a tutta la dottrina giusnaturalistica che
ridefinendo in senso ideologico, e dunque in base alle «più disparate
convenienze» (politiche), il concetto di diritto naturale - diritto naturale
che peraltro si vuole incredibilmente immutabile nonostante una umanità
destinata per definizione sempre a mutare - lo ha posto a fondamento di
ogni costruzione giuridica, e ciò in forza del noto principio che pretende
che vi siano una serie di norme giuste in sé, indipendentemente
dall’essere riconosciute o accettate da parte del singolo individuo. Si può
dire che la questione pregnante che aleggia in ogni pagina del testo è
rappresentata proprio dal tentativo di smascherare attraverso Stirner - da
ritenersi per eccellenza «il distruttore della metodologia dei diritti naturali»
(p. 181) - la dipendenza continua e costante dell’ «individuo» dalla
«natura», una natura però sempre contaminata da istanze valoriali che si
vogliono assolute ma che, proprio perché assolute, non costituiscono mai
il prodotto «della libera, spontanea decisione degli uomini, ma risultato di
forze su cui l’uomo non ha alcun potere» (p. 187). Si pensi solo, osserva
l’autore per inciso, alle distorte applicazioni fondate, non a caso, sul
concetto di natura delle tematiche legate al razzismo, al nazionalismo, alla
bioetica e alla diversità sessuale nella storia più o meno recente, «le quali
presuppongono tutte forme di naturalizzazione dei rapporti e dell’identità,
e laddove vi è naturalizzazione, vale a dire cristallizzazione dentro un
paradigma di assolutezza valoriale, inevitabilmente vi è annullamento di
ogni autonomia decisionale» (p. 211). In altri termini, l’ «abominevole
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scempio» compiuto dal giusnaturalismo in tutte le sue manifestazioni
storiche è quello di aver inammissibilmente gravato la natura di valore
normativo, con l’effetto di controllare, anziché realmente liberare,
l’individuo e le sue sconfinate potenzialità, a tal punto che «per Stirner,
fare riferimento alla natura o argomentare in termini di diritto naturale,
significa sempre richiamare un «ordine naturale» che in quanto
preesistente all’azione, inammissibilmente la guida e la veicola» (p. 219).
Al termine del libro compare anche una breve appendice dal titolo «Per
Stirner, con Stirner, in Stirner» (pp. 237-253) che, come preavverte
l’autore, solo apparentemente pretende di debordare dal suo tema
principale, interessata a stabilire una sorta di relazione tra Stirner e Marx,
«nell’ambito di quel materialismo – viene testualmente osservato in una
nota preliminare - che vede il primo non semplicemente ridurre la realtà a
un nulla, al solo fine di affermare il proprio io creatore, ma, al pari del
secondo, ritenere che ciò che continua a caratterizzare gli individui è la
continua sperimentazione e produzione di se stessi e del mondo,
attraverso una «attività positiva, creativa». Nella comune visione distruttiva
di ogni astrazione concettuale, «la rottura con il sacro o, piuttosto, la
dissoluzione di ciò che è sacro - come dice Stirner - può diventare
generale». E difatti, ciò che pare accomunare Stirner e Marx, al di là di
tutte le note approssimazioni teoriche pur risolutamente sostenute da
quest’ultimo nel San Max, è l’esigenza di svelare e denunciare ciò che
mira a collocare al posto dell’individuo concreto la sua mera essenza
astratta, ma soprattutto che la liberazione dal dominio va ricercata non
sulla base di operazioni ideali che tendono a realizzarsi solo a livello
spirituale e speculativo, bensì sul piano della trasformazione reale, cioè
sulla pratica. In conclusione la valutazione complessiva del volume non
può che essere positiva per l’appassionato quanto rigoroso incalzare
argomentativo, nonché per taluni spunti di riflessione decisamente fertili
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ed originali, dei quali sono stati riportati solo alcuni elementi portanti. Il
testo, rifacendosi, quanto alle citazioni tratte dall’opera stirneriana, alla
traduzione dal tedesco di Claudio Berto, fornisce una bibliografia generosa
nel rappresentare i diversi percorsi di ricerca del pensiero di Stirner, e di
certo può essere agevolmente utilizzato – in particolare grazie ad una
introduzione molto chiara e per certi versi accattivante, che denuncia
l’indiscutibile affetto che l’autore nutre per questo grandissimo filosofo
sempre dimenticato o evocato in poche battute, eppure talmente indicibile
- da chiunque intenda per la prima volta avvicinarsi alla lettura de L’Unico
e la sua proprietà, ma anche dal lettore specialista interessato ai suoi
numerosi quanto incredibili lasciti teorici.
by Golo Scholz
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